Tirocinio di pensiero sociale e sinodalità - 1 -
La religiosità si esprime in modi molto diversi e, purché non faccia soffrire inutilmente e irragionevolmente, non mi sento di criticarne alcuni, anche se mi appaiono stravaganti e molto distanti dal mio.
Questo vale ad esempio per la spiritualità dei gruppi dei carismatici e dei neocatecumenali: per certi versi io e loro seguiamo religioni diverse, pur condividendo un importante patrimonio culturale. Nella misura in cui si è ancora ancorati a un fondamento agàpico, per cui si accetta di frequentarsi sostenendosi gli uni gli altri nello spirito evangelico, in particolare condividendo la Cena del Signore e volendo mettersi alla sua sequela, ci si può però ancora riconoscere vicendevolmente come gruppi cristiani.
Osservo che vi è una espressione della religiosità con la quale tutte le persone coinvolte nei cristianesimi sono chiamate a confrontarsi, qualunque sia il loro ruolo nell’organizzazione ecclesiastica, ed essa è quella del pensiero sociale, che ora riguarda anche la sinodalità ecclesiale, sulla quale ci si sta faticosamente confrontando da tre anni e mezzo nel mondo cattolico.
Il pensiero sociale cristiano è la riflessione su come organizzare la società e le sue istituzioni in modo che, innanzi tutto, non ostacolino il vangelo e, progredendo su quella via, addirittura ne siano ispirate nei metodi e negli obiettivi.
Non si tratta, naturalmente, di proteggere le Chiese cristiane o finanche di garantir loro statuti di privilegio, anche se non di rado la si è pensata così.
La “buona notizia” in cui consiste il vangelo e che gli esseri umani non sono condannati a sottomettersi, nei loro rapporti sociali, alla feroce legge della natura. Per il resto la natura ci domina e ci dominerà, perché ne siamo parte. Siamo organismi viventi e, da quando nasciamo, i nostri giorni sono contati. Ma nella costruzione sociale è diverso. Questo perché è venuta a dipendere sempre più, negli ultimi settantamila anni circa, da elementi culturali. Tanto che, nel Quarto secolo dell’era antica, nella cultura greca si arrivò a fare della costruzione di società evolute una caratteristica specificamente umana, connotante la nostra specie più di ogni altra: “l’essere umano è un vivente che organizza e governa società” [Aristotele, “Politikà” (=le cose politiche=costruzione e governo di una città-stato), libro 1º, capitolo 2º, ànthropos zôon politikón]. La cultura è l’insieme delle concezioni, costumi, norme e riti condiviso in una società e mediato dalle interazioni sociali intelligenti realizzate tramite i linguaggi. Le religioni sono tra i più importanti elementi culturali della costruzione sociale.
Gli organismi viventi cambiano nel tempo: questa è l’evoluzione naturale, che è parte della natura.
Anche le culture cambiano nel tempo: questa è l’evoluzione culturale.
L’evoluzione degli organismi viventi si misura in termini di generazioni, è dunque molto lenta a paragone della durata di una vita umana.
L’evoluzione culturale è invece molto più veloce e dipende dalle interazioni sociali mediate dalle culture. L’evoluzione è tanto più veloce quante più sono le persone che interagiscono in una cultura, quanto più intense e nello stesso tempo paritarie sono le interazioni, e quanto più diversi sono gli elementi culturali coinvolti nelle interazioni.
Nel mondo globalizzato contemporaneo, abitato da oltre otto miliardi di persone, coinvolte nelle più diverse tradizioni culturali e che interagiscono molto intensamente per l’elevata mobilità geografica e per effetto di nuovi mezzi di comunicazione, vi sono le condizioni per una velocissima evoluzione culturale.
Le forme di governo, vale a dire la politica, diventano rapidamente obsolete, perché continuamente se ne manifestano di nuove.
Un processo culturale di questo genere caratterizzò l’affermarsi di cristianesimi nelle culture politiche delle popolazioni europee, a partire da tradizioni organizzate culturalmente nelle comunità del giudaismo ellenizzate stanziate nell’attuale Siria e sulle coste sud-orientali dell’Asia minore o Anatolia (parola del greco antico che significa Oriente], dove ora vi è la Turchia. Queste culture politiche dal Cinquecento furono diffuse dagli europei in tutto il mondo mediante le loro colonizzazioni cruente. Quelle culture politiche cristianizzate, pur nella loro grande diversità, recano ancora le tracce della loro origine comune, come accade, nell’evoluzione naturale, tra Homo sapiens, cetacei e topi, i cui embrioni sono straordinariamente simili.
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[ricerca mediante ChatGPT 9APR25]
Nelle prime fasi dello sviluppo embrionale, esiste una notevole somiglianza tra gli embrioni di Homo sapiens, cetacei, topi (e molti altri vertebrati). Questo fenomeno è ben documentato e ha fondamento nella biologia evolutiva.
Ecco alcuni punti chiave:
1. Origine comune: tutti questi animali sono vertebrati e derivano da un antenato comune. Durante lo sviluppo, l’embrione segue un programma genetico condiviso nelle sue fasi iniziali.
2. Fasi embrionali simili:
o In tutti si formano strutture come:
§ Somiti (segmenti del corpo),
§ Tubo neurale (che darà origine al sistema nervoso),
§ Archi branchiali (che nei pesci diventano branchie, ma nei mammiferi danno origine a strutture del collo e della mandibola),
§ Coda embrionale,
§ Bozze degli arti.
3. Legge di von Baer: secondo questo principio, gli embrioni di specie diverse si assomigliano di più all’inizio dello sviluppo, per poi differenziarsi gradualmente man mano che lo sviluppo procede.
4. Importanza evolutiva: la somiglianza non è perfetta, ma sufficiente da suggerire un’origine evolutiva comune. Inoltre, alcune somiglianze possono essere spiegate dalla conservazione di geni omeotici (che regolano lo sviluppo del corpo).
Un esempio concreto:
L’embrione umano, nelle primissime fasi, presenta una piccola coda e abbozzi di archi branchiali, proprio come i cetacei (che da adulti non hanno più zampe posteriori) e i topi. Poi lo sviluppo prosegue in direzioni diverse a seconda della specie.
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I cristianesimi condivisero con altre culture coeve l’intento di affrancare le società umane dalle leggi di natura. Ciò che li ha sempre caratterizzati è il metodo dell’agàpe che corrisponde al principale comandamento, il comandamento nuovo, attribuito al loro fondatore, Gesù il Nazareno, il Maestro della misericordia agàpica, e, per quella via, il Salvatore ritenuto inviato dall’alto, un nuovo Messia (termine del giudaismo antico) o Cristo (traduzione di Messia nel Greco antico), vale a dire, letteralmente “unto”, cioè inviato dal Cielo con la missione salvifica. Il manifestarsi di quest’ultima è la buona notizia dei cristianesimi, vale a dire il loro vangelo, traslitterazione dal greco antico.
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[ricerca mediante ChatGPT del 9APR25] La parola “Vangelo” deriva dal greco antico εὐαγγέλιον (euangélion), che significa letteralmente “buona notizia” o “lieto annuncio”.
Analisi etimologica:
- εὖ (eu): bene, buono
- ἀγγέλλω (angéllō): annunciare, riferire
→ εὐ-αγγέλιον = “buon annuncio”
Origine e uso:
Nel mondo greco, il termine veniva usato in contesti religiosi o politici per annunciare eventi lieti (come una vittoria militare). Nel Nuovo Testamento, gli autori cristiani hanno adottato il termine per indicare l’annuncio della salvezza portata da Gesù Cristo.
Nel latino ecclesiastico è diventato evangelium, da cui derivano il nostro “vangelo” e il francese évangile, l’inglese gospel (da “god-spell”, buona novella).
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Ciò su cui ora voglio ora richiamare la vostra attenzione, invitandovi a rifletterci sopra approfondendo mediante vostre personali ricerche è un fatto eclatante e paradossale:
Nell’insegnamento del Maestro, nel suo vangelo, la politica non c’è, e questo benché la politica sia stata il principale e più potente strumento di diffusione, ma anche di costruzione e di riforma, dei cristianesimi. Non iniziò una costruzione sociale mediante la politica e, infatti, si è tramandato che abbia detto che il suo regno non era di questo mondo.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro Valli