Credere
Nei cristianesimi che si praticano negli ambienti comunitari cattolici si dà
molta importanza al "credere" e questo sulla base di antiche
tradizioni. Viene considerato "Simbolo della fede", vale a dire
espressione dell'adesione alla nostra fede, il testo del "Credo",
frutto di Concili dell'antichità, che recitiamo liturgicamente nella Messa
domenicale.
Ci sono molti significati nei quali si intende questo credere. Uno è quello che
riguarda il proprio personale legame alla Chiesa, con certe caratteristiche
soprannaturali. Un altro è quello che riguarda i miti sulla vita
eterna. Poi ci sono altri enunciati storici e mitologici fondativi.
Le recenti indagini sociologiche, ad esempio quella quali-quantitativa diretta
dal sociologo Roberto Cipriani [Roberto Cipriani, L’incerta fede. Un’indagine
quanti-qualitativa in Italia, Franco Angeli 2021], ritenuta particolarmente
affidabile, ci rimandano
l’immagine di popolazioni cattoliche italiane dalla fede incerta, vale a
dire non veramente convinta di tutti quegli enunciati che in teologi si
ritengono fondamentali per stabilire se una persona crede o non e, soprattutto, non persuasa che tutta
l’etica ritenuta inderogabile dalla teologia e dal magistero per poter essere consideratə nella Chiesa
lo sia veramente.
Si pensa che quest’atteggiamento sociale nei
fatti religiosi sia molto recente e che, in particolare, dipenda dallo
scetticismo sul soprannaturale che prese piede in Europa, e poi nel mondo per
la via delle colonizzazioni europee, dal Settecento, a partire dal movimento
culturale e politico dell’Illuminismo, ma, se si cerca di avere una
considerazione realistica della storia dei cristianesimi, fin dalle origini, si
capisce presto che non è così: è andata sempre come ora. Dietro il modo in cui
si crede vi sono sempre stati fatti politici, prima relativi alle
organizzazioni ecclesiastiche e poi alle istituzioni civili, quando le prime
furono integrate in queste ultime, a partire dal Quarto secolo della nostra
era.
Ora vi voglio prospettare come problema, senza
proporre una soluzione, un apparente paradosso: la politica è stata così
importante nell’evoluzione storica dei cristianesimi, ma non c’è negli
insegnamenti del Maestro, vale a dire nel suo vangelo, in particolare per
come ci è stato tramandato nei quattro Vangeli che sono stati inseriti come
normativi nella Bibbia dei cristiani, in quello che definirono Nuovo Testamento
per distinguerlo dagli scritti ricevuti dall’antica tradizione giudaica.
Al centro del vangelo vi è la conversione
personale.
Anche
il famoso episodio del “date a Cesare quel che è di Cesare”, dal quale,
soprattutto dal Secondo millennio si è voluto trarre un principio di divisione
dei poteri tra autorità civili ed ecclesiastiche, non ebbe, all’origine valenza
politica, in quanto quel detto non venne originato dalla richiesta di fornire
criteri per l’organizzazione istituzionale della società ma da quella di
chiarire come si dovesse comportare verso gli occupanti romani chi volesse essere
giusto davanti al Cielo, secondo
la Legge che da lassù era stata data agli israeliti.
Gli chiesero: «Maestro, sappiamo che tu
sei sempre sincero, insegni veramente la volontà di Dio e non ti preoccupi di
quello che pensa la gente perché non guardi in faccia a nessuno. Perciò
veniamo a chiedere il tuo parere: la nostra Legge permette o non
permette di pagare le tasse all’imperatore romano?» [dal Vangelo secondo Matteo,
capitolo 21, versetti 16 e 17 – Mt 21, 16-17 – versione in italiano TILC - Traduzione interconfessionale in lingua
corrente]
I modi in cui si è creduto sono cambiati moltissimo nei due millenni
della storia dei cristianesimi e le teologie hanno sempre seguito quelle evoluzioni culturali, cercando
tuttavia di argomentare una certa continuità dalle origini e, soprattutto, di
legare la loro visione delle cose agli insegnamenti del Maestro, vale a dire di
spiegare una tradizione a lui
risalente, compito assai arduo per quanto riguarda i temi politici, compresi
quelli di politica ecclesiastica.
La politica che non c’era negli insegnamenti
del Maestro è stata costruita dopo, per rispondere alle esigenze di
organizzazione e di interrelazione delle comunità cristiane e, in particolare,
per legittimare, sacralizzandoli e così rafforzandoli vietandone la
messa in questione sotto pena di interdetto religioso, i poteri ecclesiastici,
in un primo momento, e poi anche quelli civili, insieme ai primi. Da qui, poi,
l’idea del monarca cristiano che entrò in crisi dal Settecento, con l’innalzamento
sempre più generalizzato delle popolazioni ad un ruolo più attivo in politica,
in particolare con i processi democratici contemporanei. Un’evoluzione che, dagli
scorsi anni Trenta, ha iniziato a coinvolgere anche l’organizzazione della nostra
Chiesa, pervicacemente antidemocratica. E’ questo anche il senso del recente
tentativo di riforma in senso sinodale.
Se ne sottovaluterebbe la portata ritenendo
che non abbia relazioni con il modo in cui si crede. Del resto quel processo
iniziò proprio con una serie di quesiti ai quali rispose la Commissione teologica
internazionale con il documento La
sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa del 2018
La relazione c’è e da essa discende un importante
corollario: sebbene nelle cose della nostra Chiesa si cerchi di far discendere
ogni decisione dalla teologia, in realtà
nei fatti organizzativi anche vi si risale, nel senso che ideando e
soprattutto sperimentando nuove forme organizzative si fa già teologia, nel
senso che si esprime, impersonandola, una evoluzione culturale strutturata
socialmente, anche se la razionalizzazione formale seguirà solo più avanti,
quando la cosa passerà nelle mani delle persone che fanno teologia a livello universitario
e ci ragioneranno meglio sopra secondo l’arte loro.
Mario
Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli