Sinodalità, un lavoro difficile
Nell’ultima riunione del Meic Lazio sui temi sinodali il relatore ci ha consigliato di José Comblin, Il popolo di Dio, pubblicato in Brasile nel 2002 e in Italia da Servitium-Città aperta nel 2007. È ancora reperibile in commercio. Io l’ho acquistato dopo quell’incontro. Nei primi due capitoli si spiega con molta efficacia e sintesi come e perché il governo della nostra Chiesa si è trasformato in un lungo processo iniziato verso la fine dell’Impero Carolingio, nel Nono secolo, in un’autocrazia assolutistica organizzata intorno al Papato di Roma, e anche perché il Concilio Vaticano 2º, pur proponendosi la maggioranza dei gerarchi ecclesiastici che lo animarono di uscirne, non ce la fece a produrre questo risultato.
La fine del potere temporale dei Papi paradossalmente intensificò l’accentramento assolutistico, che ebbe una forte ripresa durante il lungo regno del papa Giovanni Paolo 2º. Ne scaturì il Codice di diritto canonico vigente che costituisce un enorme macigno di traverso ai cammini sinodali che papa Francesco ha comandato di iniziare nel 2021 e che in Italia vengono inscenati con scarsissima convinzione, in particolare da parte del clero. Nella nostra parrocchia solo il nostro gruppo di Ac mi sembra che vi stia dedicando attenzione e uno sforzo di riflessione e proposta.
Così la nostra Chiesa è diventata cosa per i più vecchi.
Già uno come me, che da giovane visse il clima di rinnovamento ecclesiale degli scorsi anni Settanta, vi si sente a disagio.
Scrive Comblin [pag.48]:
«Le riforme liturgiche hanno risposto più alla preoccupazioni dei monaci e dei chierici che alle preoccupazioni dei laici. Per questo la liturgia non attrae. I movimenti carismatici attirano migliaia di partecipanti alle loro preghiere di lode. Ma la liturgia ufficiale rimane fredda, formale, riservata ai più vecchi, a quelli che vi prendono parte per tradizione e che sono contenti di dipendere dal sacerdote. Nei testi conciliari c’è uno stimolo alla partecipazione, ma questa poi non si realizza per la mancanza di incentivi alla spontaneità. Le riforme sono rimaste a metà strada».
E ancora (pag.59):
«Dal secolo 17º, e soprattutto dal secolo 18º, la coscienza di popolo si distaccò dalla coscienza di Chiesa e nacque il concetto di popolo senza riferimento a una religione, nonostante che, in pratica, i movimenti di emancipazione dei popoli ancora avessero in sé molti elementi cristiani a livello inconscio.
Niente prova che questo allontanamento sia dovuto al cristianesimo in sé: tutt’altro. I popoli nascenti volevano essere cristiani e volevano essere popolo con motivazioni cristiane. La ragione dell’allontanamento deve trovarsi nel sistema verticistico, autoritario, convenzionale che le masse ignoranti accettano perché costituisce per loro un rifugio e un appoggio, ma che le persone in cerca di libertà rifiutano.
Anche oggi questo fenomeno sussiste. Alfabetizzare è preparare l’uscita dalla chiesa e l’ingresso nelle chiese pentecostali o nei movimenti sociali indipendenti dalla chiesa. Quando i giovani entrano nelle scuole secondarie, perdono la fiducia nella chiesa cattolica.»
Osservo che l’analisi di Comblin si attaglia meglio, credo, alla situazione dell’America Latina. In Europa occidentale, il distacco dal cristianesimo ha motivazioni più profonde che il semplice dissenso dall’autocrazia ecclesiastica e riguarda, in genere inconsapevolmente, gli stessi fondamenti teologici.
Con questa precisazione, il discorso di Comblin è valido: nulla di nuovo naturalmente, ma sintetizzato con molta efficacia.
Le persone non partecipano anche lì dove potrebbero, ad esempio nelle attività sul sinodo organizzate nel nostro gruppo di Ac. Certo, non sono abituate a farlo, ma penso che ci sia dell’altro. È che la situazione attuale consente un impegno più superficiale: la religione, per chi ci crede ancora, rimane uno sfondo cerimoniale che serve in certi momenti della vita ma che lascia le mani libere in altri. In Italia a mantenere i preti pensa lo stato, finanziando la Chiesa con i proventi dell’otto per mille, che vengono gestiti dai vescovi senza sentire il bisogno di rendere conto a nessuno, ma anche senza pretendere nulla di più dai fedeli. Questo sistema è alla base della libertà della gerarchia ecclesiastica dal resto del popolo di fede, il quale, dal canto suo, trova comodo infischiarsene. Ma lo è anche per la libertà del popolo dalla gerarchia, che ha perso presa sulla gente, comanda ma obbedisce chi vuole, la gerarchia se ne lamenta ma non ne fa veramente un dramma, perché ha di che mantenersi. Non dipende in questo dalla gente.
Nei processi sinodali si vorrebbe ripristinare un senso di reciproca responsabilità tra la gerarchia e la base, per questo sono avversati e, se va bene, ignorati, come accade nella nostra parrocchia.
Chi si è provato a produrre cambiamenti sa quanto sia difficile ottenere risultati. Come sostiene il Papa, bisogna cominciare dal basso, ma lui per primo ha derogato a questo principio comandandodal vertice massimo la sinodalità. Può un’efferata autocrazia essere riformata dal suo autocrate? Un bel paradosso.
Come in tutte le cose difficili, è meglio procedere per piccole tappe. Ad esempio, iniziare a essere sinodali in un piccolo gruppo per poi cercare di estendere l’esperienza ad altri ambienti.
L’importante è riuscire realmente a procedere, ad esempio imparando ogni volta qualcosa che non si sapeva o cercando di decidere senza lasciarsi trascinare ma dicendo la propria argomentando e votando.
Allora, facendone tirocinio, certe cose che all’inizio costavano molta fatica pian piano possono andare più lisce.
L’importante è proporsi di non rimanere solo spettatori inerti, come di solito si è ridotti nelle liturgie.
Perché, allora, tu che ci leggi da tempo con assiduità non ti colleghi in Meet la prossima volta che faremo una riunione sinodale aperta a tutti e non dai un tuo contributo alla discussione?
Mario Ardigó – Azione cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte, Sacro Valli