INFORMAZIONI UTILI SU QUESTO BLOG

  Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

  This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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  Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

  Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

  Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

  Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente due martedì e due sabati al mese, alle 17, e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

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Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

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sabato 18 marzo 2023

Coscienza

 

Coscienza


 

La statua di Giordano Bruno a Roma, piazza Campo de' Fiori



 Ieri sera, all’incontro in Zoom  del MEIC Lazio, il prof. Cataldo Zuccaro, docente di teologia morale fondamentale, ci ha parlato sul “Primato della Coscienza”. Di seguito, nell’allegato A), trascrivo i miei appunti.

 In un precedente incontro il professore ci aveva parlato dell’ultimo libro da lui pubblicato: Le dinamiche del discernimento. Verso la soluzione dei conflitti morali” di Cataldo Zuccaro – Queriniana 2022, pagine 208, € 20,00 (disponibile su Amazon  e IBS – Feltrinelli ad €19,00), pubblicato solo in edizione cartacea. Di seguito, nell’allegato B, trascrivo i miei appunti di lettura.

  Che cosa è la coscienza? Non è facile rispondere.

  E’, ad esempio, un postulato della teologia morale: è l’interiorità della persona che decide.

  Per altre scienze è la risultante di processi naturali fisiologici, quelli che producono le dinamiche della nostra mente, influenzata dall’ambiente e dalla nostra fisiologia. Sotto questo profilo, la coscienza non è sempre la stessa, presenta diversi stati e varia nel tempo, anche piuttosto velocemente, ma  ad esempio con lo stesso avanzare dell’età dell’organismo che la esprime.  E’ fortemente influenzata dalla cultura sociale in cui si è immersi. Di questo ha consapevolezza anche la teologia morale, che la vorrebbe correttamente formata.

  Nel sonno abbiamo un tipo di coscienza, quando ci risvegliamo è come con il bootstrap all’avvio di un computer: si caricano  tutti i connotati sociali che ci caratterizzano nelle relazioni con le altre persone. Per chi ci guarda da fuori noi siamo questo. Quando il processo non riesce, ad esempio per una degenerazione dell’encefalo o per un’intossicazione da sostanze psicotrope, appariamo strani.

  Uno degli obiettivi principali della formazione di bambini e dei ragazzi è imparare a decidere secondo le esigenze sociali. In particolare apprendiamo l’arte della mentalizzazione, vale a dire a intuire come pensano le altre persone, a prescindere da quello che ci raccontano, e anche se non ci dicono nulla. Un’abilità che ci torna molto utile, ad esempio, nella guida di veicoli nelle strade pubbliche.

  Le decisioni sociali più importanti sono prese da altri, ma anche molte altre. Il nostro spazio decisionale in genere è limitato all’ambiente di prossimità, salvo che non si conquistino posizioni di direzione sociale. Decidendo, come ci ha detto il prof. Zuccaro, influiamo sull’ambiente in cui siamo immersi. Ne sentiamo la responsabilità morale? Spesso il nostro esame di coscienza, condotto ad esempio sul Decalogo, non ci aiuta. Lo predicava sempre il parroco di prima, don Carlo: «vengono a confessarsi e mi dicono “Che avrò fatto mai? Non ho rubato, non ho ucciso…” e al più mi raccontano le solite cose, ma non è lì il male che fanno».

  La nostra Chiesa mette in campo, in molte nostre decisioni, ciò che pensa sia la verità, vale a dire una via voluta dal Cielo, il bene. Bisogna scegliere quel bene. Questa è la decisione morale. Ma che fare se non si può ottenere quel bene senza accettare un qualche male? Questi sono i dilemmi morali  di cui si tratta nel  libro del prof. Zuccaro.

  La Chiesa, intesa come la gerarchia, la struttura fatta solo dal clero che pretende di darci ordini in materia morale, quindi nel decidere tra bene e male, formula delle vere e proprie leggi. Non tutte con la stessa forza. Alcune si ritiene che siano volute direttamente  dal Cielo, altre sono presentate come atti di governo necessari per dare ordine alla nostra socialità in base ad un’autorità che corrisponde a un mandato conferito dal Cielo, possono cambiare a seconda dei tempi e di altre circostanze. La legge sul celibato dei preti è una di queste. La coscienza personale dovrebbe sapersi muovere all’interno  degli spazi di libertà che ne residuano. Uno, ad esempio, può farsi prete, ma poi per fare il prete deve attenersi alle leggi ecclesiastiche in materia.

  Il diritto, nonostante i fondamenti mitici che se ne vogliono dare, scaturisce da una società e quindi cambia con essa. Le leggi ecclesiastiche non fanno eccezione e difatti sono molto cambiate nei tempi. Ma questo è vissuto male dalla gerarchia, che ne è insofferente. Fatto sta che le nostre leggi ecclesiastiche sono rimaste piuttosto indietro rispetto a quelle correnti nella società intorno, di almeno tre secoli sosteneva Carlo Maria Martini. Alcuni se ne fanno vanto, non la vivono come un’inadeguatezza, anzi. La missione della gerarchia, per questi qua, sarebbe proprio quella di contrastare i cambiamenti. Ci sono persone che vorrebbero vivere la religione come nel Cinquecento. Io non sono tra quelle. Ogni tanto mi capita di passeggiare per piazza Campo di Fiori, qui a Roma, e faccio caso alla grande statua a Giordano Bruno, monaco e filosofo assassinato orribilmente sul rogo nel 1600. Eccolo lì il secolo che quelli rimpiangono!

  I teologi morali progressisti  cercano una via per aprire più spazi alla responsabilità della coscienza,  facendosi largo in una legislazione ecclesiastica inadeguata in molti campi, e per questo poco osservata. Questo è un fenomeno universale nel campo del diritto: leggi sentite come inique tendono a  non essere obbedite. Ad esempio quelle che vorrebbero impedire la migrazione dei disperati verso il mondo ricco. Un’efferata struttura di polizia politica, incredibilmente sopravvissuta ai secoli bui della nostra storia, vorrebbe sbarrar  la strada nella teologia. Di fatto ci riesce solo non chi è prete, monaco, frate, monaca o suora. Le altre persone tendono a infischiarsene. Ma così non va bene. Perché in quelle leggi, in mezzo a tante cianfrusaglie stantie rifiuto della nostra orrenda storia, c’è anche la perla preziosa, quella che ancora serve per dare senso alla vita.

  Facendo appello alla coscienza, i teologi morali ci mettono in questione e ci chiedono anche aiuto. Da soli fanno quello che possono, ma insomma, anche loro si muovono all’interno di regole che non li aiutano di certo. Non possiamo continuare a infischiarcene, ma nemmeno, in coscienza, siamo tenuti, credo, ad obbedire ad ogni assurdità che ci viene proposta.

  Io consiglio, tuttavia, di lasciar perdere tutte le questioni attinenti alla riproduzione, che per la teologia morale e i nostri gerarchi sono diventate una vera fissazione, fin dal Medioevo. Che ne parlino tra loro, abituiamoli a capire che non sono la nostra fissazione, che però sono responsabilità principalmente nostra, non loro che certe cose se le vietano pur pretendendo di dettarvi legge, non capendone in genere nulla di nulla e producendo quindi disastri e sofferenza.

  Ragioniamo invece dell’organizzazione sociale, ad esempio dell’economia, che dovrebbe dare a tutti da vivere, e ora invece ci sono molti che sopravvivono male, e della guerra, in cui si stanno sprecando immani risorse, sulla quale la posizione della gerarchia è, come si dice, diplomatica, cioè poco efficace. La sede opportuna è il processo sinodale che il Papa ha voluto avviare un anno e mezzo fa e che procede piuttosto stancamente e più che altro tra gli addetti ai lavori, nonostante i toni trionfalistici con cui si è presentato il lavoro svolto nel primo anno.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

 

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A

Sintesi di Mario Ardigò – testo non rivisto dal relatore

 

1.  Medio evo

2.  Vaticano 2°

3.  Sintesi

 

1.  Nel Medio evo vi furono  due protagonisti.

San Bernardo [1090-1153, monaco benedettino cistercense, fondatore dell’abazia di Clairvaux – Chiaravalle, nel Nord Est della Francia], un monaco. Per lui la coscienza è come uno specchio. Se la coscienza si sbaglia lo specchio non riflette la vera immagine della persona. La coscienza è come un talamo nuziale dove Dio giace con l’anima. Per Bernardo il peccato è errore. Ogni tipo di errore è peccato. L’errore oscura la coscienza e la rende incapace di riflettere l’immagine.

 L’altro è Abelardo (1079-1142), teologo e filosofo laico. Ha un atteggiamento più laico. E’ abituato alle diatribe pubbliche. Pone la coscienza morale in relazione con il peccato. Quando non c’è la consapevolezza dell’errore per lui non c’è peccato: la coscienza morale deve dichiarare alla persona che è in errore e la persona lo deve consapevolmente scegliere, perché ci sia peccato.

  Quelli che hanno crocifisso Gesù hanno peccato? No, rispose Abelardo, perché Gesù disse che non sapevano quello che facevano. Analogamente per il martirio di Stefano: il martire chiede a Dio di perdonare i suoi assassini perché non sapevano quello che facevano martirizzandolo.

  Se si è convinti di andare secondo coscienza non si è giudicati colpevoli da Dio.

  Per Bernardo il peccato è la disobbedienza alla legge oggettiva. Per Abelardo il peccato è determinato dalla cattiva fede.

  Da una parte la coscienza come obbedienza alla legge e  dall’altro la coscienza che deriva dalla sincerità della persona.

  Poi ci sono san Bonaventura e san Tommaso d’Aquino.

  Per san Bonaventura c’è la nozione di affectus. La coscienza morale è visto come lo slancio affettivo, passionale del fedele. La coscienza morale in questa concezione ha una dimensione fortemente religiosa. La coscienza è l’araldo che annuncia i decreti del re.

  La coscienza non è il punto di vista soggettivo. Riprende un detto del Decretum di Graziano (monaco camaldolese) [raccolta delle decisioni dei concili ecumenici compilata tra il 1140 e il 1142]: chi va contro la propria coscienza e come se costruisse la sua casa nella Geenna.

 Pone l’accento sulle motivazioni interiori. A Dio non interessa il risultato oggettivo dell’azione, ma il motivo, l’intenzione con la quale la persona agisce.

   San Tommaso insiste sulla ratio: la coscienza  funziona come una specie di sillogismo. La premessa maggiore sono i principi generalissimi, che per San Tommaso sono connaturati all’essere umano. Con lo studio, l’istruzione, il diritto, l’essere umano si procura della conoscenze in base all’esperienza, per cui riesce a capire il senso delle azioni. La coscienza espone l’atto particolare da compiere alla luce del principio generale e conclude con il giudizio perentorio sulla bontà o la cattiveria dell’azione. Es. il male deve essere evitato – l’adulterio è male – l’adulterio deve essere evitato.

   A volte dissentì dal suo maestro Pietro Lombardo sulla questione della coscienza: meglio comunque non dare scandalo, sosteneva.

2.  Precursore delle idee sulla coscienza del Concilio Vaticano 2° è importante il pensiero di John Henry Newman [passato dall’anglicanesimo al cattolicesimo e creato cardinale- 1801-1890]. Per lui la coscienza è come uno dei nostri driver [programmi che fanno funzionare i dispositivi collegati a un computer]  che ci guida nella relazione con Dio.

Pio 9° con la Costituzione Pastor Aeternus aveva definito l’infallibilità del Papa (1870): il primato del Papa. Suscitò l’ironia del primo ministro inglese Gladstone (il cattolico ha una coscienza schiava, non leale alla Corona, sosteneva. Non era possibile essere cattolici e buoni cittadini inglesi). Newman, già convertito al cattolicesimo, fu richiesto di un parere. Newman scrisse una famosa lettera, definendo il primato della coscienza morale. La coscienza non è solo una coerenza con sé stessi, ma è un messaggero di Dio, che però ci parla attraverso un velo (è sempre una mediazione, non è la diretta voce di Dio). La coscienza è il primo vicario di Cristo (non il Papa). Newman dimostra che l’obbedienza al Papa e alla coscienza non sono in contraddizione: qualora il Papa parlasse contro la coscienza è  come se si scavasse la terra sotto i piedi. Il Papa deve proteggere la coscienza.

   C’è una priorità della coscienza a cui bisogna obbedire: ciò confluisce nel n.16 della Gaudium et spes (*).

  C’era un’anima progressista e un’anima conservatrice nel Concilio: in questo caso la controversia fu lunga. Ci furono  quattro redazioni del testo poi approvato, con emendamenti, prima della redazione finale. I conservatori dicevano che la coscienza serve ad applicare la legge oggettiva (Bernardo); gli altri che si dovesse tener conto dell’intenzione (Abelardo). Nel testo finale le due prospettive si notano entrambe, sono confluite.

  La coscienza viene definita come sacrario dell’uomo, nell’intimità. Poi si parla però della legge che si riflette nella coscienza. Nelle prime stesure si parlava della legge naturale e invece nel testo finale della legge dell’amore. E così in altre parti del testo.

  Si parla anche di coscienza invincibilmente erronea: quando nonostante gli sforzi la persona può ingannarsi, ma la coscienza rimane degna di onore. L’errore della coscienza è frutto di Dio o dell’uomo? Dio non può volere l’errore; l’essere umano però non si rende conto dell’errore.

   Ragionando secondo san Tommaso: Dio è sempre contento quando l’essere umano è teso verso il bene (l’affezione)- Dio vuole la tensione verso il bene, la realizzazione pratica di questa tensione, però, non sempre è volontà di Dio (l’operatum).

3. Sintesi

  Decidere è sempre recidere. Ogni decisione di coscienza funziona come il taglio dei tralci della vite per i contadini perché la vite dia frutto. Le decisioni di coscienza comportano sempre una sofferenza: si rinunzia, per il bene, a qualcosa di piacevole.

  Decidere è decidersi. La persona è ciò che sceglie. L’oggetto non è solo ciò che decidiamo, noi stessi, come persone, siamo trascinati dentro l’azione. Soggetto e oggetto coincidono: siamo ciò che decidiamo. La fisionomia morale della nostra coscienza è determinata non solo da ciò che scegliamo ma anche da ciò che togliamo via.  I sacrifici servono per plasmare la nostra fisionomia morale.

  Decidere è far decidere. La decisione non riguarda solo noi stessi. Siamo in una rete di relazioni. Ogni filo che si muove coinvolge anche l’intera rete. Le nostre azioni coinvolgono anche le persone con cui entriamo in relazione.

  In ciò che facciamo c’è anche ciò che facciamo fare.

  Da ogni decisione scaturisce una sequenza di effetti, come nel Domino.

  Decidere non può essere la trasparenza dei propri desideri (immagine del gattino che si specchia e si vede come un leone).

  La coscienza non può essere autistica. Non possiamo bastare  a noi stessi nelle decisioni di coscienza. E’ il fenomeno dell’individualismo, al relativismo morale.

  Curiamo poco il pericolo di una coscienza delegante: quando la persona si affida, delega, ad un’altra persona, che le dà sicurezza, che la toglie dall’imbarazzo. Si affida la propria coscienza ad un’altra persona. Se però si incontra qualcuno che voglia manipolare gli altri si crea la situazione di Pinocchio con il Gatto e la Volpe.

  La coscienza è personale, non è delegabile. La sua immagine è quella del direttore d’orchestra: la musica, ciò che viene percepito nell’esecuzione effettivamente cambia secondo chi la dirige, però la musica, come spartito, non cambia. Cambia nelle sfumature.
  La coscienza non cambia la verità. Ma la coscienza è del tutto personale, è un’artigiana. Non va contro la legge. Abilita la persona a vivere la legge nel modo più giusto.

  Le azioni più significative ci rendono insostituibili. Come l’amore e la morte. Possiamo dare la vita per gli altri, ma non possiamo vivere la morte degli altri. La coscienza ci rende insostituibili: è solitudine, ma non isolamento.

  La centralità della coscienza ci comporta dei sacrifici.

 

(*) Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo La gioia e la speranza – Gaudium et spes – n.16

 

16. Dignità della coscienza morale.

Nell'intimo della coscienza l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell'intimità del cuore: fa questo, evita quest'altro.

L'uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell'uomo, e secondo questa egli sarà giudicato (17). La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità (18).

Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge che trova il suo compimento nell'amore di Dio e del prossimo (19). Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale. Quanto più, dunque, prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità. Tuttavia succede non di rado che la coscienza sia erronea per ignoranza invincibile, senza che per questo essa perda la sua dignità.

Ma ciò non si può dire quando l'uomo poco si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all'abitudine del peccato.

 

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B

 

Scheda di lettura  su “Le dinamiche del discernimento. Verso la soluzione dei conflitti morali” di Cataldo Zuccaro – Queriniana 2022, pagine 208, € 20,00 (disponibile su Amazon  e IBS – Feltrinelli ad €19,00), pubblicato solo in edizione cartacea

 

 

1. Dopo aver conosciuto del libro nell’incontro del MEIC Lazio  su “Magistero e fedeli in reciproco ascolto”, ho provato a leggerlo.

  L’ultimo libro di teologia morale che avevo letto l’avevo trovato tra i testi di studio di mia madre, risalenti al corso di studio in catechetica frequentato negli anni ’70 nell’Università salesiana vicino a casa mia. Era di Enrico Chiavacci, Teologia morale. 1 Morale generale, Cittadella editrice, 1976. Lo trovai di faticosa lettura perché c’era poca Bibbia dentro e molta filosofia. E non ero molto ben disposto verso la disciplina per la crudeltà, e insieme invasività, del magistero morale in mezzo al quale mi ero formato. In particolare, quando i vescovi fanno politica dichiarano di esercitarlo. Nel libro di Chiavacci mi piacque il capitolo quarto sul discernimento e la coscienza: capii che l’autore si sforzava di proporre un discorso nuovo.

  Mi pareva però che i discorsi in materia di teologia morale volessero in primo luogo servire ai confessori, nella veste di giudici. Devo dire che negli anni ’70 già incominciavano ad abbandonare quella veste. Si era al tempo del rinnovamento della catechesi.

  Il libro di don Cataldo, da ciò che ho incominciato a leggerne, mi sembra che voglia essere un aiuto per tutti i cristiani, nel difficile lavoro di far vivere i valoro di fede in un mondo complesso. Il lessico gergale specialistico è ridotto: le difficoltà possono essere superate  con Treccani on line  e Wikipedia. Non mi è riuscito di decrittare solo questa frase: «Tommaso, infatti, non sviluppa il tema dell’amore, come essenza della legge naturale, ma alla luce del prologo della I-II e del concetto di provvidenza e responsabilità possiamo dire che tale tema è presente come sfondo della legge naturale.»

  Ho grande soggezione verso Tommaso d’Aquino. Mio padre era amico di padre D’Amore, che all’Angelicum, qui a Roma, stava portando avanti non ricordo più quale grande lavoro sulla Summa. Mi portò a visitarne lo studio che era zeppo di libri.

  Il discernimento, scrive don Cataldo,  ha natura precaria, perché ha a che fare con la storia, per cui non mai un prodotto finito, valido per sempre. Il discernere, infatti, è rivolto al futuro: non si tratta di mettere in ordine il confuso magazzino della storia. Si agisce anche su ciò  che deve essere ancora dato.

 Spesso si parla di discernimento riferendosi all’opera di Ignazio di Lojola. Ma lì si aveva di mira soprattutto le scelte di vita, ad esempio farsi frate. Ora viene inteso soprattutto come farsi strada tra i tanti valori umani, che spesso sono in conflitto, in un mondo così complesso come il nostro. Il discernimento  riguarda gli atti  che la persona pone nel contesto delle sue relazioni, in modo tale che essi siano corretti, vale a dire quanto più possibile  coerenti con ciò che la situazione richiede.  Si tratta di capire quale sia il maggior bene possibile.

  Ci sono scelte individuali e scelte collettive. La grande tradizione del diritto canonico cercò a lungo l’equità in quelle collettive, sulla scorta del diritto comune medievale, che era quello che ricavava la regola come emergeva dalla società. Solo nel 1917 la nostra Chiesa si decise per la codificazione, che gli Stati europei avevano avviato da più di un secolo, per mettere ordine. In realtà ne conseguì un impoverimento di quella tradizione. Ora che sembra si voglia riconoscere al popolo di Dio  voce nelle questioni di fede potrebbe essere il momento di recuperarla.

  Come c’entra la coscienza con il discernimento? Secondo don Cataldo è come un regista, che però non si riduce ad un semplice atto esecutivo di un obbligo stabilito in qualche legge preesistente, ma orienta la persona per esprimere la sua bontà.

  La coscienza è oggi nozione piuttosto problematica nella psicologia della decisione. Eppure è un presupposto indispensabile per una teologia morale, come lo è per il diritto. Si suppone che le persone possano in qualche modo decidere della loro vita e delle loro azioni, anche se capiamo bene che sono trascinate dalle società in cui sono immerse. Il rinnovamento della catechesi degli anni ’70 partì dal presupposto che non bisognava insegnare la religione come a scuola, impartendo dei precetti, ma costruendo intorno alla persona una comunità orientante. Purtroppo penso che si confidasse troppo in questa via, percorrendo la quale si finiva per sostituire la pressione dell’autorità con quella della comunità educante, suscitando una reazione negativa.  In definitiva, lo osserva don Cataldo, siamo esseri limitati, e se non lo fossimo non saremmo più umani, ma dei. Mediante il discernimento si vorrebbe trovare le strade possibili di risposta a Dio e di crescita attraverso quei limiti.

2. Il libro di don Cataldo è un testo scientifico, non letteratura edificante. Per un profano come me ciò rende difficile, se non impossibile, darne un giudizio compiuto. Ne posso dare però una valutazione sulla base della mia personale esperienza in materia di dilemmi morali. Ogni persona li vive.

  Corrisponde alla mia esperienza di vita la considerazione della finitezza, del limite, delle persone, descritta nel libro. E che, nonostante questo, per una persona può essere importante voler esprimere la sua bontà morale.

  La teologia morale storicamente andò organizzandosi come una scienza e dal Cinquecento andò praticando il metodo casistico utilizzato anche nella pratica e teoria del diritto, lavorando su schemi di situazioni e dilemmi tratti dalla vita reale ma privati di riferimenti precisi, cercando una soluzione ai problemi etici determinati da conflitti di valori per via di logica. Questo essenzialmente per orientare il lavoro dei confessori nella celebrazione del sacramento della Penitenza, che dal Concilio di Trento (1545-1563), nel quadro di importanti novità riguardanti la pastorale, venne configurato come uno strumento di penetrante indagine sulle coscienze accentuando l’elemento della confessione  dei peccati, a integrare gli altri strumenti di repressione delle deviazioni ideologiche. Attraverso i confessori la Chiesa si faceva   giudice, medico, guida delle anime, restauratrice dell’ordine della creazione compromesso dal peccato, dove la prima e l’ultima funzione erano strettamente connesse [cfr https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/cti_documents/rc_cti_1982_riconciliazione-penitenza_it.html#_ednref25 ].

  Nel libro si passano in rassegna, sintetizzandoli, vari trattati che tradizionalmente rientrano nella teologia morale, ad esempio quello sulla legge naturale e sulla distinzione tra moralmente corretto e moralmente buono e tra norma morale assoluta e quella che va applicata anche sulla base dell’esperienza del mondo che si fa.

  Non tutto dipende dalla singola persona. Le relazioni sociali contano molto. Ci si trova fin dall’inizio immersi in un’etica sociale che induce al conformismo e che può essere una via per orientarsi rapidamente nell’ordinario. Essa varia con le società di riferimento e non elimina la responsabilità personale. In passato si faceva molto conto sull’idea di una legge naturale per prevenire il relativismo, quella scritta dentro ciascuna persona. Si sviluppò anche un biologismo esasperato che venne corretto durante il Concilio Vaticano 2°: nel libro si cita il cap. 16 della Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gioia e speranza, dove si legge che la piattaforma dell’incontro  dei cristiani con le altre persone umane non è la legge naturale ma la carità, un elemento relazionale quindi.

 

 Nell'intimo della coscienza l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell'intimità del cuore: fa questo, evita quest'altro.

  L'uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell'uomo, e secondo questa egli sarà giudicato . La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità.

  Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge che trova il suo compimento nell'amore di Dio e del prossimo. Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale. Quanto più, dunque, prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità. Tuttavia succede non di rado che la coscienza sia erronea per ignoranza invincibile, senza che per questo essa perda la sua dignità.

  Ma ciò non si può dire quando l'uomo poco si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all'abitudine del peccato.

 

  La realtà sociale è diventata molto complessa. Averne una chiara visione non è possibile, altrimenti saremmo dei.  Ci muoviamo in una rete di relazioni che è costituiva della nostra personalità. In tutto ciò che decidiamo e facciamo abbiamo necessità della collaborazione delle altre persone, anche se, nel singolo atto, il nostro ruolo è primario, di agente principale.

  Nel libro si affronta il tema della cooperazione al male che, in quella rete di relazioni da cui non possiamo prescindere, può accaderci di realizzare. Si fanno vari esempi tratti da quello che sembra tra le principali ossessioni del magistero: i problemi legati alla riproduzione, che mi sembrano irresolubili. Le vie proposte in questo campo mi appaiono spesso disumane e crudeli, ed anche irrealistiche. Sarebbe più semplice utilizzare come modello di studio quello della guerra, che  è la tipica situazione  in cui può accadere di dover  collaborare con il male, pur senza volerlo, tanto che la teologia morale in questo campo non fa una colpa a chi è chiamato a militare per obbedienza al suo stato.

 Don Cataldo passa in rassegna varie situazioni tipo che possono presentarsi e che lasciano il tempo che trovano finché non si chiarisce che cosa si intende per buono  o cattivo, il che non è semplice  da stabilire al di fuori delle situazioni sociali concrete. Vivere in un mondo senza male è impossibile ed è ingenuo pensare di potersi isolare in una dimensione parallela. Un paradigma morale consigliabile è quello del puntare a realizzare il bene concretamente possibile. Questo può porre concretamente la persona cristiana in una posizione difficile nelle relazioni politiche, per una certa sua  inaffidabilità. Ci si rassegna ad una certa soluzione, nell’attesa, se possibile, di ribaltare tutto. Questo rende fragili le alleanze. La via della rottura è indicata nel libro come resistenza profetica, espressa ad esempio nell’obiezione di coscienza. Va detto che, almeno fino agli anni ’60, la Chiesa cattolica italiana fu in genere schierata contro quell’obiezione di coscienza, veramente profetica, manifestata nel rifiuto del  servizio militare, diffamata come vigliaccheria. Il popolo di fede italiano era stato  chiamato alla resistenza contro il regime democratico del Regno d’Italia dal 1864 al 1912, vietando come peccato grave la partecipazione al voto nelle elezioni nazionali e  tal modo  condizionando molto negativamente l’evoluzione storica nazionale. Questo dimostra che non di rado le questioni etiche si intrecciano con quelle politiche e sono da esse indistricabili. E, in genere, le politiche della gerarchia italiana sono state poco illuminate, eufemisticamente parlando.

  Don Cataldo sottolinea l’importanza della coscienza. La novità portata dal Concilio Vaticano 2° fu quella di libertà di coscienza, condannata sotto il regno del papa Pio 9°, in particolare nell’elenco (Sillabo) delle definizioni erronee allegata nel 1864 all’enciclica Con quanta cura. La coscienza siamo noi nel mentre decidiamo consapevolmente la moralità di un atto, vale a dire se esso sia buono o non. In teologia morale l’esistenza della coscienza in senso morale è un assioma irrinunciabile, ma nella psicologia essa è stata sottoposta a una critica serrata. Nei processi decisionali la consapevolezza e la libertà sono solo apparenti.  Presupporre una coscienza è comunque irrinunciabile anche nel governo politico delle società. Tuttavia nel libro si avverte che la società intorno a noi ci condiziona certamente e che, dal punto di vista del confessore, di questo si deve tener conto. Nessun essere umano è un’isola, si ricorda la celebre frase di John Donne in uno scritto del 1624. E c’è un peccato-del-mondo, espresso anche in strutture sociali di peccato, che al tempo stesso è condizionato al male realizzato dalle singole persone e però condizione anche la loro libertà. E’ una realtà in cui già ci troviamo e che ci accompagna sempre, una condizione  avvolgente che riduce lo spazio della libertà personale. E la sessa Chiesa, come realtà sociale, non ne è stata esente, come quando ha espresso storicamente istituzioni ingiuste e peccaminose. Queste strutture di peccato, scrive don Cataldo, non si lasciano spiegare senza i peccati personali, ma non si lasciano ridurre alla loro somma.

  In che misura è ammissibile il compromesso, per non collassare e soccombere al male del peccato-del-mondo e per allargare spazi di bene? Non compromesso come patteggiamento con la coscienza e tradimento della verità morale, quindi peccato, ma come quel discernimento della coscienza che, di fronte a situazioni di alta complessità, non può rimandare la decisione, né realisticamente pensare ad una situazione diversa dall’attuale, per cui non c’è scampo, per non collassare e realizzare il maggior bene morale concretamente possibile, si è costretti a compromettere alcuni valori umani, accettando così il male che ne deriva. Non un compromesso di doveri, ma di valori umani, che la moralità rende lecito e talvolta necessario. E tuttavia un compromesso provvisorio, che contiene in sé la legge del suo autosuperamento.

  La moralità, scrive don Cataldo, non è un software che opera sempre nello stesso modo: è un realtà viva che si modifica e plasma attraverso le scelte che la persona fa: l’azione moralmente buona la rafforza, quella cattiva la indebolisce.  E non esiste una decisione solitaria, presa al di fuori di un contesto di relazioni, perché il  soggetto morale non esiste se non in relazione.  Lo sforzo della coscienza morale nel cercare di realizzare atti buoni è una manifestazione della sequela di Cristo.

 Nella mia esperienza personale, il bene non preesiste, ma la sua definizione è costruita nella storia. La stessa legge morale è integralmente una costruzione sociale. Proverò a interrogare il testo del libro, nel prosieguo, per vedere che ne dice don Cataldo.

3.Lavoro nella giurisdizione, il campo di avvocati e magistrati, che può considerarsi affine a quella praticata in ambito ecclesiastico. Alcuni dei problemi etici sui quali ha scritto Zuccaro sono implicati anche nel ramo penale, in particolare nella valutazione della cause di giustificazione, o scriminanti, per cui un fatto al quale in genere deve conseguire una sanzione può non essere punibile, ad esempio perché si è agito in stato di necessità o per legittima difesa o in esecuzione di un dovere  o perché si aveva il diritto o il potere di farlo. Come nella teologia morale contemporanea, nell’infliggere sanzioni si tiene più conto di un tempo delle condizioni in cui chi è giudicato ha operato e dei suoi atteggiamenti psicologici.

  Ai tempi nostri, per il principio democratico della laicità delle istituzioni pubbliche, sono in parte diversi, tra giurisdizione civile ed ecclesiastica, i  parametri normativi: nell’etica cristiana si tiene conto anche della legge divina. Quest’ultima la si ricava dalla Bibbia, dalla tradizione teologica e dalle pronunce del Magistero. Dal Cinquecento la volontà legislativa del Papato è stata però l’elemento determinante, in particolare poi dopo il Concilio Vaticano 1° (1870).

  Il discernimento  è un tema della teologia morale, che è diventata una disciplina scientifica, nel senso che argomenta secondo certi metodi riconosciuti come validi nella comunità degli specialisti di riferimento.  In questo ha imparato molto dalla giurisprudenza sviluppata in altri settori del diritto. E’ teologia perché non ha di mira solo la risoluzione dei casi della vita secondo le norme della collettività pubblica, equità e   ragionevolezza, ma principalmente l’interpretazione e applicazione della legge divina accettata nella fede e praticata come condizione dell’appartenenza comunitaria. Semplificando molto, il suo problema principale è stabilire chi è dentro  e chi è fuori  e come fare per ritornare dentro quando ci si è messi o si è stati buttati fuori.

 Discernimento è decidere in coscienza e in modo corretto come mettersi con coerenza alla sequela di Cristo sul piano dell’agire, vale a dire come rispondere alla chiamata di Dio che emerge dagli eventi più significativi della storia, personale e sociale, in modo da individuare il comportamento più giusto nelle diverse situazioni e circostanze. La Bibbia è considerata la bussola del discernimento cristiano,  tuttavia, per non cadere nella trappola del fondamentalismo, l’interpretazione delle Scritture non può prescindere dalla consapevolezza del contesto entro le quali vennero elaborate e da un lavoro di attualizzazione svolto  nelle comunità cristiane.

  Per questo, scrive l’Autore (pag.19):

 

« [… ] ciò che rimane costante  e attraversa il tempo e lo spazio è questa necessità  di una dimensione sociale comunitaria del discernimento, anche quando il risultato  non è unanimemente condiviso.

  La dimensione evolutiva del discernimento è segnata anche da un’altra caratteristica che le appartiene come propria, quasi per definizione: la provvisorietà e la precarietà. Lungi dal relativizzare e assottigliare l’importanza del discernimento, tale caratteristica va intesa all’interno di un divenire storico che è in perenne evoluzione, sebbene i tempi di tale evoluzione possano essere più o meno lunghi. La capacità o anche la necessità di trovare il senso dei fatti sono un esercizio  che accompagnerà  sempre la vita dell0uomo, ma il risultato di un tale discernimento porta scritto dentro di sé un autosuperamento

 

   Per chi lavora la teologia morale?

   Certamente per i legislatori ecclesiastici e la giurisdizione ecclesiastica, compresa quella che si fa (sempre meno per la verità) nel sacramento della Penitenza.

  Serve anche al fedele?

   Direi non direttamente: si presenta infatti come troppo complessa. Indirettamente, però,  sì, attraverso la giurisdizione ecclesiastica e soprattutto la predicazione.

   Tuttavia il discernimento religioso è lavoro di ogni persona cristiana. Nelle scelte più importanti della vita tutti facciamo riferimento ai risultati della teologia morale avvalendoci di mediatori, preti o religiosi, o di testi divulgativi, come i libri di catechismo. Il principale strumento di mediazione tra la vita delle persone comuni e la teologia morale è la Bibbia.  E anche il nostro Autore sottolinea l’importanza della sacra Scrittura per il discernimento, «soprattutto quando essa è proclamata all’interno dell’azione liturgica, dove lo Spirito Santo la fa percepire non  come un materiale archeologico archiviato o inerte, ma nella sua forza trasformatrice della persona e della storia» (pag.29). Tuttavia, negli scritti dei teologi morali che mi è capitato di accostare, in genere ho trovato pochi riferimenti biblici, e comunque meno che in testi di altri   rami della teologia. Nel Le dinamiche del discernimento non c’è n’è nessuno, se non me n’è sfuggito qualcuno.

  Viviamo in società complesse, in cui si generano situazioni molto intricate. Come orientarsi? Nessuna persona può pretendere di fare tutto da sé. Come può essere sicura di non sbagliarsi? Il discernimento va attuato nella storia, in una trama di relazioni comunitarie e tende anche a cambiarle, come anche a cambiare esso stesso nell’evoluzione storica, da qui la sua precarietà.  Non si tratta di essere solo semplici interpreti o esecutori esterni, un  po’ come dei magazzinieri. La persona cristiana «è piuttosto un costruttore che opera all’interno di un piano generale che è già dato, ma che rimane ancora da eseguire […]” (pag.33).

   Ho trovato molto interessanti i riferimenti storici del libro di Zuccaro, che danno il senso dello sviluppo storico delle pratiche di discernimento, ma anche dei principi che lo orientarono fino ad oggi, e quindi anche dell’intera teologia morale.

4. Certe volte ho come l’impressione che la teologia morale si concentri su assassinio, furto, usura, fornicazione, contraccezione e aborto, ma principalmente su questi ultimi tre temi, nonostante la scarsissima attenzione che mi sembra sia ad essi riservata nei detti del Maestro. La predicazione in materia travaglia la vita delle persone cristiane fin da piccole, anche da sposate, ed è accaduto fino ad oggi.  E’ svolta in certi casi  con toni di incredibile durezza (verbale), fino a dare ancora delle criminali finanche alle donne che decidono di interrompere la gravidanza secondo le procedure e per le ragioni stabilite dalle leggi italiane vigenti. Si è raggiunto però tra chierici e persone di fede un certo equilibrio in base a questo accomodamento: si predica, ma non si osserva quanto ordinato nella predicazione, però si fa finta che invece questo avvenga.  Sarà mai possibile uscire da questa ipocrisia? C’è un macigno su questa via ed è la legge ecclesiastica , in particolare interpretata secondo i principi esposti nell’enciclica del 1993  Lo splendore della verità – Veritatis splendor , del papa Giovanni Paolo 2°. Fornicazione, comprensiva di ogni relazione sessuale al di fuori del matrimonio tra uomo e donna, contraccezione e aborto sono atti intrisecamente malvagi e non possono mai trovare alcuna giustificazione morale, in particolare in base alla concreta situazione in cui vengono compiuti da una persona. Ad essi più recentemente si è aggiunta l’eutanasia. Paradossalmente, l’assassinio mi pare sia trattato meno severamente. Non parliamo poi della corruzione politica.

  La  via proposta dal nostro Autore non è quella di abbandonare la categoria dell’intrisecamente malvagio, dell’atto intrinsecamente cattivo, in base alla quale si vuole che il discernimento ne sia come coartato,  ma di ritenere che

«[…] è il discernimento morale che conduce alla delimitazione di azioni che, a conti fatti e tutto sommato, non si possono mai fare: più che di un aprioristico e formale intrisecamente malvagio  - intrinsece malum, occorre parlare di azioni che sulla base di un previo discernimento morale non è mai lecito compiere.

  A questo punto ci si potrebbe chiedere  se, ferma la necessità di superare ogni forma di relativismo e cosificazione morale, non sia il caso di ridimensionare  o addirittura lasciar cadere il lemma dell’intrinsece malum, troppo spesso equivocato e assnto come strumento che fornisce un set  di azioni moralmente inaccettabili. L’intrinsece malum, più che come uno strumento a servizio della scoperta della verità morale, dovrebbe comprendersi, se proprio lo si vuole mantenerer, come il risultato del discernimento, che, invece, rimane la strada privilegiata per accedere alla verità morale. E’ in discernimento che fa emergere l’intrinsece malum e non il contrario.» [pag.201].

  L’Autore, nell’Invito alla lettura che precede la trattazione, avvisa che non ha inteso risolvere casi morali particolarmente problematici, sia facendo applicazione dei principi pratici tradizionali per risolvere dilemmi morali, in cui il discernimento appare più complicato, né tanto meno secondo quella sua nuova via che propone, ma «[…] suggerire al lettore, attraverso l’insieme della trama, l’esigenza di pensare sempre più la teologia morale come risposta alle persone che vivono relazioni spesso difficili, piuttosto che come riproposizione di un ordine morale prescritto in modo astratto» in modo da «[…] far prevalere il comportamento autenticamente umano, superando una morale intesa come un letto di Procuste, o troppo rigida o oppure lassista».

  Questo significa superare una concezione astratta dell’intrisecamente malvagio, in particolare non riducendo il ruolo della coscienza morale alla semplice applicazione della legge morale universale, a favore di un ruolo creativo della coscienza, da non confondersi con l’arbitrio capriccioso [pagg.201-202], in modo a renderla come la regista dell’intero processo di discernimento, dalla sua genesi alla sua conclusione.

  L’Autore si dice consapevole di una certa fragilità e vulnerabilità costitutiva della teologia morale, perché deve sperimentare «una sorta di precarietà consapevole a causa delle risposte necessariamente parziali, perché soggette al chiaroscuro della storia, ma senza paura a causa della fiducia che le proviene dal Vangelo» [205-206], riferimento assoluto del credente, ma la cui attuazione pratica, nella complessità oggettiva e soggettiva, esige un discernimento  capace di incarnare l’esigenza evangelica nella misura umana del concretamente possibile [207].

5. La prima parte del libro è dedicata a presentare il tema del discernimento come struttura generale della vita morale di ogni uomo, e quindi anche del fedele cristiano, ma anche della peculiarità che esso ha per la persona di fede, quindi del discernimento morale alla luce della fede.

  La seconda parte è dedicata alla presentazione di alcune strategie pratiche che sono state utilizzate per operare il discernimento morale in situazioni particolarmente dedicate, i  conflitti morali”  del titolo del libro,  chiamate comunemente principi pratici: la a volte  inevitabile cooperazione al male, la scelta del  male minore, il duplice effetto (tollerare un effetto cattivo quando non possa essere disgiunto da uno buono), il proporzionalismo (è moralmente lecito realizzare il bene, accettando una parte di male inevitabile, quando esista una ragione proporzionata per farlo. Principio espressamente respinto nell’enciclica Veritatis splendor al  n.76, in quanto giudicato non fedele alla dottrina della Chiesa), il metodo casistico, molto antico, già applicato nella redazione del Pentateuco – con la definizione dei 613 doveri a cui i giudei dovevano attenersi e molto sviluppato dopo il Concilio di Trento (1545) e favorito dall’azione nel nuovo ordine dei Gesuiti, nel 1534, nel Secolo d’oro  della teologia morale dal Cinquecento al Seicento. Il metodo casistico consiste nel valutare la correttezza delle azioni contestualizzandole  e tenendo conto anche di casi analoghi.

   Gli ampi riferimenti storici su questi principi pratici  per il discernimento morale dimostrano che la teologia morale non si è mai rassegnata al semplice sillogismo applicativo, per cui, data una legge universale ne dovrebbe conseguire una valutazione meccanica, computazionale,  del male e del bene, della correttezza o meno, di un’azione.

  Dai principi pratici  emerge l’esigenza di cercare una via per assicurare la tenuta normativa della morale in modo che, al tempo stesso, sia coerente con le esigenze evangeliche  e risponda alle domande reali delle persone, immerse nell’esperienza che sfugge ad ogni tentativo di strutturazione permanente.

«E’ dal confronto tra esperienza e norma che emerge la dimensione autenticamente umana di ambedue, evitando una visione astratta della teologia morale e una pretesa normativa dell’esperienza come tale.» [pag.205]

  Il libro offre una panoramica dello sviluppo della disciplina della teologia morale dall’età antica al Medioevo, passando per la teologia di Tommaso D’Aquino, e poi al periodo successivo al Concilio di Trento, con riferimenti al metodo degli Esercizi spirituali  di Ignazio di Loyola per arrivare al Concilio Vaticano 2° e ai documenti successivi, come l’enciclica Della vita umana – Humanae vitae del 1968, del papa Paolo 6°, e la Splendore della Verità, del 1993, del papa Giovanni Paolo 2°.

  Non si sfugge all’impressione, in particolare dai riferimenti nelle note,  di una vera  e propria fissazione del Magistero e quindi della teologia morale per i temi della sessualità umana, a scapito, mi sembra, di molti altri campi in cui si fa il male, nei quali appare che il male inevitabile in concreto sembra più tollerato in vista di un bene in concreto ottenibile (ad esempio il silenzio pubblico del papa Pio 12° sulla Shoà, della quale era stato dettagliatamente informato, per evitare una persecuzione della Chiesa da parte dei fascismi europei, in particolare del nazismo hitleriano). Da ciò, è la mia opinione, ne è conseguito un gran male anche, ad esempio, per i coniugi cristiani, ai quali viene proposta una via morale insostenibile. Nella nota 8 a pag. 173, vi è una curiosa citazione testuale dal Libro per la determinazione delle penitenze -  De poenitenziarum mensura taxanda liber di San Colombano (monaco irlandese vissuto tra il Sesto e il Settimo secolo) da cui emerge la presenza di casi (da ritenersi non sporadici visto che confluirono in quella  tassazione penitenziale), di chierici fornicatori (nei modi più vari), monaci, diaconi, preti e vescovi, proprio come ai tempi nostri.