Coscienza
La statua di Giordano Bruno a Roma, piazza Campo de' Fiori |
Ieri sera, all’incontro in Zoom del MEIC Lazio, il prof. Cataldo Zuccaro,
docente di teologia morale fondamentale, ci ha parlato sul “Primato della Coscienza”.
Di seguito, nell’allegato A), trascrivo i miei appunti.
In un precedente incontro il professore ci aveva
parlato dell’ultimo libro da lui pubblicato: Le dinamiche del discernimento.
Verso la soluzione dei conflitti morali” di Cataldo Zuccaro – Queriniana
2022, pagine 208, € 20,00 (disponibile su Amazon e IBS – Feltrinelli ad €19,00),
pubblicato solo in edizione cartacea. Di seguito, nell’allegato B, trascrivo i
miei appunti di lettura.
Che cosa è la coscienza? Non è facile
rispondere.
E’, ad esempio, un postulato della teologia
morale: è l’interiorità della persona che decide.
Per altre scienze è la risultante di processi
naturali fisiologici, quelli che producono le dinamiche della nostra mente, influenzata
dall’ambiente e dalla nostra fisiologia. Sotto questo profilo, la coscienza non
è sempre la stessa, presenta diversi stati e varia nel tempo, anche
piuttosto velocemente, ma ad esempio con
lo stesso avanzare dell’età dell’organismo che la esprime. E’ fortemente influenzata dalla cultura
sociale in cui si è immersi. Di questo ha consapevolezza anche la teologia morale,
che la vorrebbe correttamente formata.
Nel sonno abbiamo un tipo di coscienza, quando
ci risvegliamo è come con il bootstrap all’avvio di un computer: si caricano
tutti i connotati sociali che ci
caratterizzano nelle relazioni con le altre persone. Per chi ci guarda da fuori
noi siamo questo. Quando il processo non riesce, ad esempio per una
degenerazione dell’encefalo o per un’intossicazione da sostanze psicotrope, appariamo
strani.
Uno degli obiettivi principali della
formazione di bambini e dei ragazzi è imparare a decidere secondo le esigenze
sociali. In particolare apprendiamo l’arte della mentalizzazione, vale a
dire a intuire come pensano le altre persone, a prescindere da quello
che ci raccontano, e anche se non ci dicono nulla. Un’abilità che ci torna molto
utile, ad esempio, nella guida di veicoli nelle strade pubbliche.
Le
decisioni sociali più importanti sono prese da altri, ma anche molte altre. Il nostro
spazio decisionale in genere è limitato all’ambiente di prossimità, salvo che
non si conquistino posizioni di direzione sociale. Decidendo, come ci ha detto
il prof. Zuccaro, influiamo sull’ambiente in cui siamo immersi. Ne sentiamo la
responsabilità morale? Spesso il nostro esame di coscienza, condotto ad
esempio sul Decalogo, non ci aiuta. Lo predicava sempre il parroco di
prima, don Carlo: «vengono a confessarsi e mi dicono “Che avrò fatto mai? Non
ho rubato, non ho ucciso…” e al più mi raccontano le solite cose, ma non è lì il
male che fanno».
La nostra Chiesa mette in campo, in molte nostre
decisioni, ciò che pensa sia la verità, vale a dire una via voluta dal
Cielo, il bene. Bisogna scegliere quel bene. Questa è la decisione morale.
Ma che fare se non si può ottenere quel bene senza accettare un qualche male? Questi
sono i dilemmi morali di cui si
tratta nel libro del prof. Zuccaro.
La Chiesa, intesa come la gerarchia, la struttura
fatta solo dal clero che pretende di darci ordini in materia morale, quindi nel
decidere tra bene e male, formula delle vere e proprie leggi. Non tutte con
la stessa forza. Alcune si ritiene che siano volute direttamente dal Cielo, altre sono presentate come atti di
governo necessari per dare ordine alla nostra socialità in base ad un’autorità
che corrisponde a un mandato conferito dal Cielo, possono cambiare a seconda
dei tempi e di altre circostanze. La legge sul celibato dei preti è una di queste.
La coscienza personale dovrebbe sapersi muovere all’interno degli spazi di libertà che ne residuano. Uno,
ad esempio, può farsi prete, ma poi per fare il prete deve attenersi alle leggi
ecclesiastiche in materia.
Il diritto, nonostante i fondamenti mitici
che se ne vogliono dare, scaturisce da una società e quindi cambia con essa. Le
leggi ecclesiastiche non fanno eccezione e difatti sono molto cambiate nei
tempi. Ma questo è vissuto male dalla gerarchia, che ne è insofferente. Fatto
sta che le nostre leggi ecclesiastiche sono rimaste piuttosto indietro rispetto
a quelle correnti nella società intorno, di almeno tre secoli sosteneva Carlo
Maria Martini. Alcuni se ne fanno vanto, non la vivono come un’inadeguatezza,
anzi. La missione della gerarchia, per questi qua, sarebbe proprio quella di contrastare
i cambiamenti. Ci sono persone che vorrebbero vivere la religione come nel
Cinquecento. Io non sono tra quelle. Ogni tanto mi capita di passeggiare per
piazza Campo di Fiori, qui a Roma, e faccio caso alla grande statua a Giordano
Bruno, monaco e filosofo assassinato orribilmente sul rogo nel 1600. Eccolo lì
il secolo che quelli rimpiangono!
I teologi morali progressisti cercano una via per aprire più spazi alla
responsabilità della coscienza, facendosi
largo in una legislazione ecclesiastica inadeguata in molti campi, e per questo poco osservata. Questo è un fenomeno universale nel campo del diritto: leggi sentite
come inique tendono a non essere
obbedite. Ad esempio quelle che vorrebbero impedire la migrazione dei disperati
verso il mondo ricco. Un’efferata struttura di polizia politica, incredibilmente
sopravvissuta ai secoli bui della nostra storia, vorrebbe sbarrar la strada nella teologia. Di fatto ci riesce
solo non chi è prete, monaco, frate, monaca o suora. Le altre persone tendono a
infischiarsene. Ma così non va bene. Perché in quelle leggi, in mezzo a tante
cianfrusaglie stantie rifiuto della nostra orrenda storia, c’è anche la perla
preziosa, quella che ancora serve per dare senso alla vita.
Facendo appello alla coscienza, i teologi
morali ci mettono in questione e ci chiedono anche aiuto. Da soli fanno quello
che possono, ma insomma, anche loro si muovono all’interno di regole che non li
aiutano di certo. Non possiamo continuare a infischiarcene, ma nemmeno, in
coscienza, siamo tenuti, credo, ad obbedire ad ogni assurdità che ci viene
proposta.
Io consiglio, tuttavia, di lasciar perdere tutte
le questioni attinenti alla riproduzione, che per la teologia morale e i nostri
gerarchi sono diventate una vera fissazione, fin dal Medioevo. Che ne parlino
tra loro, abituiamoli a capire che non sono la nostra fissazione, che però sono
responsabilità principalmente nostra, non loro che certe cose se le
vietano pur pretendendo di dettarvi legge, non capendone in genere nulla di nulla
e producendo quindi disastri e sofferenza.
Ragioniamo invece dell’organizzazione
sociale, ad esempio dell’economia, che dovrebbe dare a tutti da vivere, e ora
invece ci sono molti che sopravvivono male, e della guerra, in cui si stanno
sprecando immani risorse, sulla quale la posizione della gerarchia è, come si
dice, diplomatica, cioè poco efficace. La sede opportuna è il processo
sinodale che il Papa ha voluto avviare un anno e mezzo fa e che procede
piuttosto stancamente e più che altro tra gli addetti ai lavori, nonostante i toni
trionfalistici con cui si è presentato il lavoro svolto nel primo anno.
Mario
Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli
************************************************
A
Sintesi di Mario Ardigò – testo non rivisto
dal relatore
1.
Medio evo
2.
Vaticano 2°
3.
Sintesi
1. Nel Medio evo vi
furono due protagonisti.
San Bernardo [1090-1153,
monaco benedettino cistercense, fondatore dell’abazia di Clairvaux – Chiaravalle, nel
Nord Est della Francia], un monaco. Per lui la coscienza è come uno specchio.
Se la coscienza si sbaglia lo specchio non riflette la vera immagine della
persona. La coscienza è come un talamo nuziale dove Dio giace con l’anima. Per
Bernardo il peccato è errore. Ogni tipo di errore è peccato. L’errore oscura la
coscienza e la rende incapace di riflettere l’immagine.
L’altro è Abelardo (1079-1142), teologo e
filosofo laico. Ha un atteggiamento più laico. E’ abituato alle diatribe pubbliche.
Pone la coscienza morale in relazione con il peccato. Quando non c’è la
consapevolezza dell’errore per lui non c’è peccato: la coscienza morale deve
dichiarare alla persona che è in errore e la persona lo deve consapevolmente
scegliere, perché ci sia peccato.
Quelli che hanno crocifisso Gesù hanno
peccato? No, rispose Abelardo, perché Gesù disse che non sapevano quello che
facevano. Analogamente per il martirio di Stefano: il martire chiede a Dio di
perdonare i suoi assassini perché non sapevano quello che facevano
martirizzandolo.
Se si è convinti di andare secondo coscienza
non si è giudicati colpevoli da Dio.
Per Bernardo il peccato è la disobbedienza
alla legge oggettiva. Per Abelardo il peccato è determinato dalla cattiva fede.
Da una parte la coscienza come obbedienza
alla legge e dall’altro la coscienza che
deriva dalla sincerità della persona.
Poi ci sono san Bonaventura e san Tommaso
d’Aquino.
Per san Bonaventura c’è la nozione di affectus.
La coscienza morale è visto come lo slancio affettivo, passionale del fedele.
La coscienza morale in questa concezione ha una dimensione fortemente
religiosa. La coscienza è l’araldo che annuncia i decreti del re.
La coscienza non è il punto di vista
soggettivo. Riprende un detto del Decretum di Graziano (monaco camaldolese)
[raccolta delle decisioni dei concili ecumenici compilata tra il 1140 e il 1142]:
chi va contro la propria coscienza e come se costruisse la sua casa nella
Geenna.
Pone l’accento sulle motivazioni interiori. A
Dio non interessa il risultato oggettivo dell’azione, ma il motivo,
l’intenzione con la quale la persona agisce.
San Tommaso insiste sulla ratio: la
coscienza funziona come una specie di
sillogismo. La premessa maggiore sono i principi generalissimi, che per San
Tommaso sono connaturati all’essere umano. Con lo studio, l’istruzione, il
diritto, l’essere umano si procura della conoscenze in base all’esperienza, per
cui riesce a capire il senso delle azioni. La coscienza espone l’atto
particolare da compiere alla luce del principio generale e conclude con il
giudizio perentorio sulla bontà o la cattiveria dell’azione. Es. il male deve
essere evitato – l’adulterio è male – l’adulterio deve essere evitato.
A volte dissentì dal suo maestro Pietro
Lombardo sulla questione della coscienza: meglio comunque non dare scandalo,
sosteneva.
2. Precursore delle idee
sulla coscienza del Concilio Vaticano 2° è importante il pensiero di John Henry
Newman [passato dall’anglicanesimo al cattolicesimo e creato cardinale- 1801-1890].
Per lui la coscienza è come uno dei nostri driver [programmi che fanno
funzionare i dispositivi collegati a un computer] che ci guida nella relazione con Dio.
Pio 9° con la
Costituzione Pastor Aeternus aveva definito l’infallibilità del Papa (1870): il
primato del Papa. Suscitò l’ironia del primo ministro inglese Gladstone (il
cattolico ha una coscienza schiava, non leale alla Corona, sosteneva. Non era
possibile essere cattolici e buoni cittadini inglesi). Newman, già convertito
al cattolicesimo, fu richiesto di un parere. Newman scrisse una famosa lettera,
definendo il primato della coscienza morale. La coscienza non è solo una
coerenza con sé stessi, ma è un messaggero di Dio, che però ci parla attraverso
un velo (è sempre una mediazione, non è la diretta voce di Dio). La coscienza è
il primo vicario di Cristo (non il Papa). Newman dimostra che l’obbedienza al
Papa e alla coscienza non sono in contraddizione: qualora il Papa parlasse
contro la coscienza è come se si
scavasse la terra sotto i piedi. Il Papa deve proteggere la coscienza.
C’è una priorità della coscienza a cui bisogna
obbedire: ciò confluisce nel n.16 della Gaudium et spes (*).
C’era un’anima progressista e un’anima
conservatrice nel Concilio: in questo caso la controversia fu lunga. Ci furono quattro redazioni del testo poi approvato, con
emendamenti, prima della redazione finale. I conservatori dicevano che la coscienza
serve ad applicare la legge oggettiva (Bernardo); gli altri che si dovesse
tener conto dell’intenzione (Abelardo). Nel testo finale le due prospettive si
notano entrambe, sono confluite.
La coscienza viene definita come sacrario
dell’uomo, nell’intimità. Poi si parla però della legge che si riflette nella
coscienza. Nelle prime stesure si parlava della legge naturale e invece nel
testo finale della legge dell’amore. E così in altre parti del testo.
Si parla anche di coscienza invincibilmente
erronea: quando nonostante gli sforzi la persona può ingannarsi, ma la
coscienza rimane degna di onore. L’errore della coscienza è frutto di Dio o
dell’uomo? Dio non può volere l’errore; l’essere umano però non si rende conto
dell’errore.
Ragionando secondo san Tommaso: Dio è sempre
contento quando l’essere umano è teso verso il bene (l’affezione)- Dio vuole la
tensione verso il bene, la realizzazione pratica di questa tensione, però, non
sempre è volontà di Dio (l’operatum).
3. Sintesi
Decidere
è sempre recidere. Ogni decisione di coscienza funziona come il taglio dei
tralci della vite per i contadini perché la vite dia frutto. Le decisioni di
coscienza comportano sempre una sofferenza: si rinunzia, per il bene, a
qualcosa di piacevole.
Decidere
è decidersi. La persona è ciò che sceglie. L’oggetto non è solo ciò che
decidiamo, noi stessi, come persone, siamo trascinati dentro l’azione. Soggetto
e oggetto coincidono: siamo ciò che
decidiamo. La fisionomia morale della nostra coscienza è determinata non
solo da ciò che scegliamo ma anche da ciò che togliamo via. I sacrifici servono per plasmare la nostra
fisionomia morale.
Decidere
è far decidere. La decisione non riguarda solo noi stessi. Siamo in
una rete di relazioni. Ogni filo che si muove coinvolge anche l’intera rete. Le
nostre azioni coinvolgono anche le persone con cui entriamo in relazione.
In ciò che facciamo c’è anche ciò che
facciamo fare.
Da ogni decisione scaturisce una sequenza di
effetti, come nel Domino.
Decidere non può essere la trasparenza dei
propri desideri (immagine del gattino che si specchia e si vede come un leone).
La coscienza non può essere autistica. Non
possiamo bastare a noi stessi nelle
decisioni di coscienza. E’ il fenomeno dell’individualismo, al relativismo
morale.
Curiamo poco il pericolo di una coscienza
delegante: quando la persona si affida, delega, ad un’altra persona, che le dà
sicurezza, che la toglie dall’imbarazzo. Si affida la propria coscienza ad
un’altra persona. Se però si incontra qualcuno che voglia manipolare gli altri
si crea la situazione di Pinocchio con il Gatto e la Volpe.
La coscienza è personale, non è delegabile.
La sua immagine è quella del direttore d’orchestra: la musica, ciò che viene
percepito nell’esecuzione effettivamente cambia secondo chi la dirige, però la
musica, come spartito, non cambia. Cambia nelle sfumature.
La coscienza non cambia la verità. Ma
la coscienza è del tutto personale, è un’artigiana. Non va contro la legge.
Abilita la persona a vivere la legge nel modo più giusto.
Le azioni più significative ci rendono
insostituibili. Come l’amore e la morte. Possiamo dare la vita per gli altri,
ma non possiamo vivere la morte degli altri. La coscienza ci rende
insostituibili: è solitudine, ma non isolamento.
La centralità della coscienza ci comporta dei
sacrifici.
(*)
Costituzione sulla Chiesa nel mondo contemporaneo La gioia e la speranza –
Gaudium et spes – n.16
16. Dignità della coscienza morale.
Nell'intimo della
coscienza l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece
deve obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a
fuggire il male, al momento opportuno risuona nell'intimità del cuore: fa
questo, evita quest'altro.
L'uomo ha in
realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa
dell'uomo, e secondo questa egli sarà giudicato (17). La coscienza è il nucleo
più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce
risuona nell'intimità (18).
Tramite la
coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge che trova il suo
compimento nell'amore di Dio e del prossimo (19). Nella fedeltà alla coscienza
i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere
secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata
quanto in quella sociale. Quanto più, dunque, prevale la coscienza retta, tanto
più le persone e i gruppi si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di
conformarsi alle norme oggettive della moralità. Tuttavia succede non di rado
che la coscienza sia erronea per ignoranza invincibile, senza che per questo
essa perda la sua dignità.
Ma ciò non si può
dire quando l'uomo poco si cura di cercare la verità e il bene, e quando la
coscienza diventa quasi cieca in seguito all'abitudine del peccato.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°
B
Scheda di lettura su “Le dinamiche del discernimento. Verso
la soluzione dei conflitti morali” di Cataldo Zuccaro – Queriniana 2022,
pagine 208, € 20,00 (disponibile su Amazon e IBS – Feltrinelli ad €19,00),
pubblicato solo in edizione cartacea
1. Dopo aver conosciuto del libro nell’incontro del MEIC
Lazio su “Magistero e fedeli in
reciproco ascolto”, ho provato a leggerlo.
L’ultimo libro di teologia
morale che avevo letto l’avevo trovato tra i testi di studio di mia madre,
risalenti al corso di studio in catechetica frequentato negli anni ’70
nell’Università salesiana vicino a casa mia. Era di Enrico Chiavacci, Teologia
morale. 1 Morale generale, Cittadella editrice, 1976. Lo trovai di faticosa
lettura perché c’era poca Bibbia dentro e molta filosofia. E non ero molto ben
disposto verso la disciplina per la crudeltà, e insieme invasività, del
magistero morale in mezzo al quale mi ero formato. In particolare, quando i
vescovi fanno politica dichiarano di esercitarlo. Nel libro di Chiavacci mi
piacque il capitolo quarto sul discernimento e la coscienza: capii che l’autore
si sforzava di proporre un discorso nuovo.
Mi pareva però che i discorsi
in materia di teologia morale volessero in primo luogo servire ai confessori,
nella veste di giudici. Devo dire che negli anni ’70 già incominciavano ad
abbandonare quella veste. Si era al tempo del rinnovamento della catechesi.
Il libro di don Cataldo, da ciò
che ho incominciato a leggerne, mi sembra che voglia essere un aiuto per tutti
i cristiani, nel difficile lavoro di far vivere i valoro di fede in un mondo
complesso. Il lessico gergale specialistico è ridotto: le difficoltà possono
essere superate con Treccani on line e Wikipedia. Non mi è riuscito di
decrittare solo questa frase: «Tommaso, infatti, non sviluppa
il tema dell’amore, come essenza della legge naturale, ma alla luce del prologo
della I-II e del concetto di provvidenza e responsabilità possiamo dire che
tale tema è presente come sfondo della legge naturale.»
Ho grande soggezione verso
Tommaso d’Aquino. Mio padre era amico di padre D’Amore, che all’Angelicum, qui
a Roma, stava portando avanti non ricordo più quale grande lavoro sulla Summa.
Mi portò a visitarne lo studio che era zeppo di libri.
Il discernimento, scrive don
Cataldo, ha natura precaria, perché ha a
che fare con la storia, per cui non mai un prodotto finito, valido per sempre.
Il discernere, infatti, è rivolto al futuro: non si tratta di mettere in ordine
il confuso magazzino della storia. Si agisce anche su ciò che deve essere ancora dato.
Spesso si parla di discernimento
riferendosi all’opera di Ignazio di Lojola. Ma lì si aveva di mira soprattutto
le scelte di vita, ad esempio farsi frate. Ora viene inteso soprattutto come
farsi strada tra i tanti valori umani, che spesso sono in conflitto, in un
mondo così complesso come il nostro. Il discernimento riguarda gli atti che la persona pone nel contesto delle sue
relazioni, in modo tale che essi siano corretti, vale a dire quanto più
possibile coerenti con ciò che la
situazione richiede. Si tratta di capire
quale sia il maggior bene possibile.
Ci sono scelte individuali e
scelte collettive. La grande tradizione del diritto canonico cercò a lungo
l’equità in quelle collettive, sulla scorta del diritto comune medievale, che
era quello che ricavava la regola come emergeva dalla società. Solo nel 1917 la
nostra Chiesa si decise per la codificazione, che gli Stati europei avevano
avviato da più di un secolo, per mettere ordine. In realtà ne conseguì un
impoverimento di quella tradizione. Ora che sembra si voglia riconoscere al popolo
di Dio voce nelle questioni di fede
potrebbe essere il momento di recuperarla.
Come c’entra la coscienza con
il discernimento? Secondo don Cataldo è come un regista, che però non si riduce
ad un semplice atto esecutivo di un obbligo stabilito in qualche legge
preesistente, ma orienta la persona per esprimere la sua bontà.
La coscienza è oggi nozione
piuttosto problematica nella psicologia della decisione. Eppure è un
presupposto indispensabile per una teologia morale, come lo è per il diritto. Si
suppone che le persone possano in qualche modo decidere della loro vita e delle
loro azioni, anche se capiamo bene che sono trascinate dalle società in cui
sono immerse. Il rinnovamento della catechesi degli anni ’70 partì dal
presupposto che non bisognava insegnare la religione come a scuola, impartendo
dei precetti, ma costruendo intorno alla persona una comunità orientante.
Purtroppo penso che si confidasse troppo in questa via, percorrendo la quale si
finiva per sostituire la pressione dell’autorità con quella della comunità
educante, suscitando una reazione negativa. In definitiva, lo osserva don Cataldo, siamo
esseri limitati, e se non lo fossimo non saremmo più umani, ma dei. Mediante il
discernimento si vorrebbe trovare le strade possibili di risposta a Dio e di
crescita attraverso quei limiti.
2. Il libro di don Cataldo è
un testo scientifico, non letteratura edificante. Per un profano come me ciò
rende difficile, se non impossibile, darne un giudizio compiuto. Ne posso dare
però una valutazione sulla base della mia personale esperienza in materia di
dilemmi morali. Ogni persona li vive.
Corrisponde alla mia esperienza
di vita la considerazione della finitezza, del limite, delle persone, descritta
nel libro. E che, nonostante questo, per una persona può essere importante
voler esprimere la sua bontà morale.
La teologia morale storicamente
andò organizzandosi come una scienza e dal Cinquecento andò praticando il
metodo casistico utilizzato anche nella pratica e teoria del diritto, lavorando
su schemi di situazioni e dilemmi tratti dalla vita reale ma privati di
riferimenti precisi, cercando una soluzione ai problemi etici determinati da
conflitti di valori per via di logica. Questo essenzialmente per orientare il
lavoro dei confessori nella celebrazione del sacramento della Penitenza, che
dal Concilio di Trento (1545-1563), nel quadro di importanti novità riguardanti
la pastorale, venne configurato come uno strumento di penetrante indagine sulle
coscienze accentuando l’elemento della confessione dei peccati, a integrare gli altri strumenti
di repressione delle deviazioni ideologiche. Attraverso i confessori la Chiesa
si faceva
giudice, medico, guida delle anime, restauratrice dell’ordine della creazione
compromesso dal peccato, dove la prima e l’ultima funzione erano strettamente
connesse [cfr
https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/cti_documents/rc_cti_1982_riconciliazione-penitenza_it.html#_ednref25
].
Nel
libro si passano in rassegna, sintetizzandoli, vari trattati che
tradizionalmente rientrano nella teologia morale, ad esempio quello sulla legge
naturale e sulla distinzione tra moralmente corretto e moralmente buono e tra
norma morale assoluta e quella che va applicata anche sulla base
dell’esperienza del mondo che si fa.
Non
tutto dipende dalla singola persona. Le relazioni sociali contano molto. Ci si
trova fin dall’inizio immersi in un’etica sociale che induce al conformismo e
che può essere una via per orientarsi rapidamente nell’ordinario. Essa varia
con le società di riferimento e non elimina la responsabilità personale. In
passato si faceva molto conto sull’idea di una legge naturale per prevenire il
relativismo, quella scritta dentro ciascuna persona. Si sviluppò anche
un biologismo esasperato che venne corretto durante il Concilio Vaticano 2°:
nel libro si cita il cap. 16 della Costituzione pastorale sulla Chiesa nel
mondo contemporaneo Gioia e speranza, dove si legge che la piattaforma
dell’incontro dei cristiani con le altre
persone umane non è la legge naturale ma la carità, un elemento relazionale
quindi.
Nell'intimo della coscienza
l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve
obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a
fuggire il male, al momento opportuno risuona nell'intimità del cuore: fa
questo, evita quest'altro.
L'uomo ha in realtà una legge
scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell'uomo, e
secondo questa egli sarà giudicato . La coscienza è il nucleo più segreto e il
sacrario dell'uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona
nell'intimità.
Tramite la coscienza si fa
conoscere in modo mirabile quella legge che trova il suo compimento nell'amore
di Dio e del prossimo. Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono
agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi
problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale.
Quanto più, dunque, prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi
si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme
oggettive della moralità. Tuttavia succede non di rado che la coscienza sia
erronea per ignoranza invincibile, senza che per questo essa perda la sua
dignità.
Ma ciò non si può dire quando
l'uomo poco si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza
diventa quasi cieca in seguito all'abitudine del peccato.
La realtà sociale è diventata molto complessa. Averne una chiara
visione non è possibile, altrimenti saremmo dei. Ci muoviamo in una rete di relazioni che è
costituiva della nostra personalità. In tutto ciò che decidiamo e facciamo
abbiamo necessità della collaborazione delle altre persone, anche se, nel
singolo atto, il nostro ruolo è primario, di agente principale.
Nel libro si affronta il tema
della cooperazione al male che, in quella rete di relazioni da cui non possiamo
prescindere, può accaderci di realizzare. Si fanno vari esempi tratti da quello
che sembra tra le principali ossessioni del magistero: i problemi legati alla
riproduzione, che mi sembrano irresolubili. Le vie proposte in questo campo mi
appaiono spesso disumane e crudeli, ed anche irrealistiche. Sarebbe più
semplice utilizzare come modello di studio quello della guerra, che è la tipica situazione in cui può accadere di dover collaborare con il male, pur senza volerlo,
tanto che la teologia morale in questo campo non fa una colpa a chi è chiamato
a militare per obbedienza al suo stato.
Don Cataldo passa in rassegna
varie situazioni tipo che possono presentarsi e che lasciano il tempo che
trovano finché non si chiarisce che cosa si intende per buono o cattivo, il che non è semplice da stabilire al di fuori delle situazioni
sociali concrete. Vivere in un mondo senza male è impossibile ed è ingenuo
pensare di potersi isolare in una dimensione parallela. Un paradigma morale
consigliabile è quello del puntare a realizzare il bene concretamente
possibile. Questo può porre concretamente la persona cristiana in una posizione
difficile nelle relazioni politiche, per una certa sua inaffidabilità. Ci si rassegna ad una certa
soluzione, nell’attesa, se possibile, di ribaltare tutto. Questo rende fragili
le alleanze. La via della rottura è indicata nel libro come resistenza
profetica, espressa ad esempio nell’obiezione di coscienza. Va detto che,
almeno fino agli anni ’60, la Chiesa cattolica italiana fu in genere schierata
contro quell’obiezione di coscienza, veramente profetica, manifestata nel
rifiuto del servizio militare, diffamata
come vigliaccheria. Il popolo di fede italiano era stato chiamato alla resistenza contro il regime
democratico del Regno d’Italia dal 1864 al 1912, vietando come peccato grave la
partecipazione al voto nelle elezioni nazionali e tal modo
condizionando molto negativamente l’evoluzione storica nazionale. Questo
dimostra che non di rado le questioni etiche si intrecciano con quelle
politiche e sono da esse indistricabili. E, in genere, le politiche della
gerarchia italiana sono state poco illuminate, eufemisticamente parlando.
Don Cataldo sottolinea
l’importanza della coscienza. La novità portata dal Concilio Vaticano 2° fu
quella di libertà di coscienza, condannata sotto il regno del papa Pio 9°, in
particolare nell’elenco (Sillabo) delle definizioni erronee allegata nel 1864
all’enciclica Con quanta cura. La coscienza siamo noi nel mentre
decidiamo consapevolmente la moralità di un atto, vale a dire se esso sia buono
o non. In teologia morale l’esistenza della coscienza in senso morale è un
assioma irrinunciabile, ma nella psicologia essa è stata sottoposta a una
critica serrata. Nei processi decisionali la consapevolezza e la libertà sono
solo apparenti. Presupporre una
coscienza è comunque irrinunciabile anche nel governo politico delle società.
Tuttavia nel libro si avverte che la società intorno a noi ci condiziona
certamente e che, dal punto di vista del confessore, di questo si deve tener
conto. Nessun essere umano è un’isola, si ricorda la celebre frase di
John Donne in uno scritto del 1624. E c’è un peccato-del-mondo, espresso
anche in strutture sociali di peccato, che al tempo stesso è
condizionato al male realizzato dalle singole persone e però condizione anche
la loro libertà. E’ una realtà in cui già ci troviamo e che ci accompagna
sempre, una condizione avvolgente che riduce
lo spazio della libertà personale. E la sessa Chiesa, come realtà sociale, non
ne è stata esente, come quando ha espresso storicamente istituzioni ingiuste e
peccaminose. Queste strutture di peccato, scrive don Cataldo, non si lasciano
spiegare senza i peccati personali, ma non si lasciano ridurre alla loro somma.
In che misura è ammissibile il compromesso,
per non collassare e soccombere al male del peccato-del-mondo e per allargare
spazi di bene? Non compromesso come patteggiamento con la coscienza e
tradimento della verità morale, quindi peccato, ma come quel discernimento
della coscienza che, di fronte a situazioni di alta complessità, non può
rimandare la decisione, né realisticamente pensare ad una situazione diversa
dall’attuale, per cui non c’è scampo, per non collassare e realizzare il
maggior bene morale concretamente possibile, si è costretti a compromettere
alcuni valori umani, accettando così il male che ne deriva. Non un compromesso
di doveri, ma di valori umani, che la moralità rende lecito e
talvolta necessario. E tuttavia un compromesso provvisorio, che contiene
in sé la legge del suo autosuperamento.
La moralità, scrive don
Cataldo, non è un software che opera sempre nello stesso modo: è un
realtà viva che si modifica e plasma attraverso le scelte che la persona fa:
l’azione moralmente buona la rafforza, quella cattiva la indebolisce. E non esiste una decisione solitaria, presa al
di fuori di un contesto di relazioni, perché il
soggetto morale non esiste se non in relazione. Lo sforzo della coscienza morale nel cercare
di realizzare atti buoni è una manifestazione della sequela di Cristo.
Nella mia esperienza personale,
il bene non preesiste, ma la sua definizione è costruita nella storia. La
stessa legge morale è integralmente una costruzione sociale. Proverò a
interrogare il testo del libro, nel prosieguo, per vedere che ne dice don
Cataldo.
3.Lavoro nella giurisdizione, il campo di avvocati e magistrati, che può
considerarsi affine a quella praticata in ambito ecclesiastico. Alcuni dei
problemi etici sui quali ha scritto Zuccaro sono implicati anche nel ramo
penale, in particolare nella valutazione della cause di giustificazione, o
scriminanti, per cui un fatto al quale in genere deve conseguire una sanzione
può non essere punibile, ad esempio perché si è agito in stato di necessità o
per legittima difesa o in esecuzione di un dovere o perché si aveva il diritto o il potere di
farlo. Come nella teologia morale contemporanea, nell’infliggere sanzioni si
tiene più conto di un tempo delle condizioni in cui chi è giudicato ha operato
e dei suoi atteggiamenti psicologici.
Ai tempi nostri, per il principio democratico
della laicità delle istituzioni pubbliche, sono in parte diversi, tra
giurisdizione civile ed ecclesiastica, i
parametri normativi: nell’etica cristiana si tiene conto anche della
legge divina. Quest’ultima la si ricava dalla Bibbia, dalla tradizione
teologica e dalle pronunce del Magistero. Dal Cinquecento la volontà legislativa
del Papato è stata però l’elemento determinante, in particolare poi dopo il
Concilio Vaticano 1° (1870).
Il discernimento è un tema della teologia morale, che è
diventata una disciplina scientifica, nel senso che argomenta secondo certi
metodi riconosciuti come validi nella comunità degli specialisti di
riferimento. In questo ha imparato molto
dalla giurisprudenza sviluppata in altri settori del diritto. E’ teologia
perché non ha di mira solo la risoluzione dei casi della vita secondo le norme
della collettività pubblica, equità e ragionevolezza, ma principalmente l’interpretazione
e applicazione della legge divina accettata nella fede e praticata come
condizione dell’appartenenza comunitaria. Semplificando molto, il suo problema
principale è stabilire chi è dentro e
chi è fuori e come fare per
ritornare dentro quando ci si è messi o si è stati buttati fuori.
Discernimento è decidere in coscienza e in modo corretto come
mettersi con coerenza alla sequela di Cristo sul piano dell’agire, vale a dire
come rispondere alla chiamata di Dio che emerge dagli eventi più significativi
della storia, personale e sociale, in modo da individuare il comportamento più
giusto nelle diverse situazioni e circostanze. La Bibbia è considerata la
bussola del discernimento cristiano,
tuttavia, per non cadere nella trappola del fondamentalismo,
l’interpretazione delle Scritture non può prescindere dalla consapevolezza del
contesto entro le quali vennero elaborate e da un lavoro di attualizzazione
svolto nelle comunità cristiane.
Per questo, scrive l’Autore (pag.19):
« [… ] ciò che rimane costante e attraversa il tempo e lo spazio è questa
necessità di una dimensione sociale
comunitaria del discernimento, anche quando il risultato non è unanimemente condiviso.
La
dimensione evolutiva del discernimento è segnata anche da un’altra
caratteristica che le appartiene come propria, quasi per definizione: la
provvisorietà e la precarietà. Lungi dal relativizzare e assottigliare l’importanza
del discernimento, tale caratteristica va intesa all’interno di un divenire
storico che è in perenne evoluzione, sebbene i tempi di tale evoluzione possano
essere più o meno lunghi. La capacità o anche la necessità di trovare il senso
dei fatti sono un esercizio che
accompagnerà sempre la vita dell0uomo,
ma il risultato di un tale discernimento porta scritto dentro di sé un
autosuperamento.»
Per chi lavora la teologia morale?
Certamente per i legislatori ecclesiastici e
la giurisdizione ecclesiastica, compresa quella che si fa (sempre meno per la
verità) nel sacramento della Penitenza.
Serve anche al fedele?
Direi non direttamente: si presenta infatti come
troppo complessa. Indirettamente, però, sì, attraverso la giurisdizione ecclesiastica e
soprattutto la predicazione.
Tuttavia il discernimento religioso è lavoro
di ogni persona cristiana. Nelle scelte più importanti della vita tutti
facciamo riferimento ai risultati della teologia morale avvalendoci di
mediatori, preti o religiosi, o di testi divulgativi, come i libri di
catechismo. Il principale strumento di mediazione tra la vita delle persone
comuni e la teologia morale è la Bibbia.
E anche il nostro Autore sottolinea l’importanza della sacra Scrittura
per il discernimento, «soprattutto quando essa è proclamata all’interno
dell’azione liturgica, dove lo Spirito Santo la fa percepire non come un materiale archeologico archiviato o
inerte, ma nella sua forza trasformatrice della persona e della storia»
(pag.29). Tuttavia, negli scritti dei teologi morali che mi è capitato di
accostare, in genere ho trovato pochi riferimenti biblici, e comunque meno che
in testi di altri rami della teologia.
Nel Le dinamiche del discernimento non c’è n’è nessuno, se non me n’è
sfuggito qualcuno.
Viviamo in società complesse, in cui si
generano situazioni molto intricate. Come orientarsi? Nessuna persona può
pretendere di fare tutto da sé. Come può essere sicura di non sbagliarsi? Il
discernimento va attuato nella storia, in una trama di relazioni comunitarie e
tende anche a cambiarle, come anche a cambiare esso stesso nell’evoluzione
storica, da qui la sua precarietà. Non
si tratta di essere solo semplici interpreti o esecutori esterni, un po’ come dei magazzinieri. La persona
cristiana «è piuttosto un costruttore che opera all’interno di un piano
generale che è già dato, ma che rimane ancora da eseguire […]” (pag.33).
Ho trovato molto interessanti i riferimenti
storici del libro di Zuccaro, che danno il senso dello sviluppo storico delle
pratiche di discernimento, ma anche dei principi che lo orientarono fino ad
oggi, e quindi anche dell’intera teologia morale.
4. Certe volte ho come l’impressione che la teologia morale si concentri
su assassinio, furto, usura, fornicazione, contraccezione e aborto, ma
principalmente su questi ultimi tre temi, nonostante la scarsissima attenzione
che mi sembra sia ad essi riservata nei detti del Maestro. La predicazione in
materia travaglia la vita delle persone cristiane fin da piccole, anche da
sposate, ed è accaduto fino ad oggi. E’
svolta in certi casi con toni di
incredibile durezza (verbale), fino a dare ancora delle criminali finanche alle
donne che decidono di interrompere la gravidanza secondo le procedure e per le
ragioni stabilite dalle leggi italiane vigenti. Si è raggiunto però tra
chierici e persone di fede un certo equilibrio in base a questo accomodamento:
si predica, ma non si osserva quanto ordinato nella predicazione, però si fa
finta che invece questo avvenga. Sarà
mai possibile uscire da questa ipocrisia? C’è un macigno su questa via ed è la
legge ecclesiastica , in particolare interpretata secondo i principi esposti
nell’enciclica del 1993 Lo splendore
della verità – Veritatis splendor , del papa Giovanni Paolo 2°.
Fornicazione, comprensiva di ogni relazione sessuale al di fuori del matrimonio
tra uomo e donna, contraccezione e aborto sono atti intrisecamente malvagi e
non possono mai trovare alcuna giustificazione morale, in particolare in base
alla concreta situazione in cui vengono compiuti da una persona. Ad essi più
recentemente si è aggiunta l’eutanasia. Paradossalmente, l’assassinio mi pare
sia trattato meno severamente. Non parliamo poi della corruzione politica.
La via
proposta dal nostro Autore non è quella di abbandonare la categoria dell’intrisecamente
malvagio, dell’atto intrinsecamente cattivo, in base alla quale si vuole
che il discernimento ne sia come coartato, ma di ritenere che
«[…] è il discernimento morale che conduce
alla delimitazione di azioni che, a conti fatti e tutto sommato, non si possono
mai fare: più che di un aprioristico e formale intrisecamente malvagio - intrinsece malum, occorre parlare di
azioni che sulla base di un previo discernimento morale non è mai lecito
compiere.
A
questo punto ci si potrebbe chiedere se,
ferma la necessità di superare ogni forma di relativismo e cosificazione
morale, non sia il caso di ridimensionare
o addirittura lasciar cadere il lemma dell’intrinsece malum, troppo
spesso equivocato e assnto come strumento che fornisce un set di azioni moralmente inaccettabili. L’intrinsece
malum, più che come uno strumento a servizio della scoperta della verità
morale, dovrebbe comprendersi, se proprio lo si vuole mantenerer, come il
risultato del discernimento, che, invece, rimane la strada privilegiata per
accedere alla verità morale. E’ in discernimento che fa emergere l’intrinsece
malum e non il contrario.» [pag.201].
L’Autore, nell’Invito alla lettura che
precede la trattazione, avvisa che non ha inteso risolvere casi morali
particolarmente problematici, sia facendo applicazione dei principi pratici
tradizionali per risolvere dilemmi morali, in cui il discernimento appare più
complicato, né tanto meno secondo quella sua nuova via che propone, ma «[…] suggerire
al lettore, attraverso l’insieme della trama, l’esigenza di pensare sempre più
la teologia morale come risposta alle persone che vivono relazioni spesso
difficili, piuttosto che come riproposizione di un ordine morale prescritto in
modo astratto» in modo da «[…] far prevalere il comportamento
autenticamente umano, superando una morale intesa come un letto di Procuste, o
troppo rigida o oppure lassista».
Questo significa superare una concezione astratta
dell’intrisecamente malvagio, in particolare non riducendo il ruolo
della coscienza morale alla semplice applicazione della legge morale
universale, a favore di un ruolo creativo della coscienza, da non confondersi
con l’arbitrio capriccioso [pagg.201-202], in modo a renderla come la regista
dell’intero processo di discernimento, dalla sua genesi alla sua conclusione.
L’Autore si dice consapevole di una certa
fragilità e vulnerabilità costitutiva della teologia morale, perché deve
sperimentare «una sorta di precarietà consapevole a causa delle risposte
necessariamente parziali, perché soggette al chiaroscuro della storia, ma senza
paura a causa della fiducia che le proviene dal Vangelo» [205-206],
riferimento assoluto del credente, ma la cui attuazione pratica, nella
complessità oggettiva e soggettiva, esige un discernimento capace di incarnare l’esigenza evangelica
nella misura umana del concretamente possibile [207].
5. La prima parte del libro è dedicata a presentare il tema del
discernimento come struttura generale della vita morale di ogni uomo, e quindi
anche del fedele cristiano, ma anche della peculiarità che esso ha per la
persona di fede, quindi del discernimento morale alla luce della fede.
La seconda parte è dedicata alla
presentazione di alcune strategie pratiche che sono state utilizzate per
operare il discernimento morale in situazioni particolarmente dedicate, i “conflitti morali” del titolo del libro, chiamate comunemente principi pratici:
la a volte inevitabile cooperazione
al male, la scelta del male
minore, il duplice effetto (tollerare un effetto cattivo quando non
possa essere disgiunto da uno buono), il proporzionalismo (è moralmente
lecito realizzare il bene, accettando una parte di male inevitabile, quando
esista una ragione proporzionata per farlo. Principio espressamente
respinto nell’enciclica Veritatis splendor al n.76, in quanto giudicato non fedele alla
dottrina della Chiesa), il metodo casistico, molto antico, già applicato
nella redazione del Pentateuco – con la definizione dei 613 doveri a cui i
giudei dovevano attenersi e molto sviluppato dopo il Concilio di Trento (1545)
e favorito dall’azione nel nuovo ordine dei Gesuiti, nel 1534, nel Secolo
d’oro della teologia morale dal
Cinquecento al Seicento. Il metodo casistico consiste nel valutare la
correttezza delle azioni contestualizzandole
e tenendo conto anche di casi analoghi.
Gli
ampi riferimenti storici su questi principi pratici per il discernimento morale dimostrano che la
teologia morale non si è mai rassegnata al semplice sillogismo applicativo, per
cui, data una legge universale ne dovrebbe conseguire una valutazione
meccanica, computazionale, del
male e del bene, della correttezza o meno, di un’azione.
Dai principi pratici emerge l’esigenza di cercare una via per
assicurare la tenuta normativa della morale in modo che, al tempo stesso, sia
coerente con le esigenze evangeliche e
risponda alle domande reali delle persone, immerse nell’esperienza che sfugge
ad ogni tentativo di strutturazione permanente.
«E’ dal confronto tra esperienza e norma che
emerge la dimensione autenticamente umana di ambedue, evitando una visione
astratta della teologia morale e una pretesa normativa dell’esperienza come
tale.» [pag.205]
Il libro offre una panoramica dello sviluppo della disciplina della
teologia morale dall’età antica al Medioevo, passando per la teologia di
Tommaso D’Aquino, e poi al periodo successivo al Concilio di Trento, con
riferimenti al metodo degli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola per arrivare al Concilio
Vaticano 2° e ai documenti successivi, come l’enciclica Della vita umana –
Humanae vitae del 1968, del papa Paolo 6°, e la Splendore della Verità, del
1993, del papa Giovanni Paolo 2°.
Non si sfugge all’impressione, in particolare
dai riferimenti nelle note, di una vera e propria fissazione del Magistero e quindi
della teologia morale per i temi della sessualità umana, a scapito, mi sembra,
di molti altri campi in cui si fa il male, nei quali appare che il male
inevitabile in concreto sembra più tollerato in vista di un bene in concreto
ottenibile (ad esempio il silenzio pubblico del papa Pio 12° sulla Shoà, della
quale era stato dettagliatamente informato, per evitare una persecuzione della
Chiesa da parte dei fascismi europei, in particolare del nazismo hitleriano).
Da ciò, è la mia opinione, ne è conseguito un gran male anche, ad esempio, per
i coniugi cristiani, ai quali viene proposta una via morale insostenibile.
Nella nota 8 a pag. 173, vi è una curiosa citazione testuale dal Libro per
la determinazione delle penitenze - De
poenitenziarum mensura taxanda liber di San Colombano (monaco irlandese
vissuto tra il Sesto e il Settimo secolo) da cui emerge la presenza di casi (da
ritenersi non sporadici visto che confluirono in quella tassazione penitenziale), di chierici
fornicatori (nei modi più vari), monaci, diaconi, preti e vescovi, proprio come
ai tempi nostri.