Sviluppare la sinodalità
Nella scorsa primavera ci siamo riuniti, in
parrocchia, nel quadro della fase di ascolto avviata nel precedente
autunno nel processo di riforma sinodale delle nostra Chiese, ma di sinodalità
ecclesiale non abbiamo parlato, né ci è stato parlato.
La sinodalità si impara, non viene naturale,
perché, come è stata proposta ai nostri tempi, non è mai stata vissuta prima.
E, bisogna aggiungere, la si impara sperimentandola, proprio perché è qualcosa di
veramente nuovo.
Ma che cos’è la sinodalità?
Lasciamo da parte la teologia, in particolare
quella più efferata e ostile alla sinodalità, vale a dire quella dogmatica. Lo
è perché storicamente è stata costruita come strumento del potere ecclesiastico
e tra i cattolici quest’ultimo è, oggi, ancora, un’autocrazia autoritaria, che
naturalmente resiste al cambiamento che ne mette in questione quella struttura.
La sinodalità, come oggi papa Francesco la
vorrebbe, è uno stile di relazioni ecclesiali per cui tutte le persone di fede
siano più coinvolte in ciò che si decide e si fa, secondo il principio “Non
senza di me, non solo da me”. Alla base vi è il riconoscimento dell’importanza
di come la fede è vissuta dalla gente, la quale ora non conta nulla e sembra che
non sia neanche essenziale per manifestare una Chiesa. Secondo questa idea,
dove c’è un prete c’è una Chiesa, ma ci possono essere un milione di persone di
fede senza un prete e allora la Chiesa non c’è ancora. Questa, che appare una
vera sciocchezza, ma anche una presuntuosa cattiveria antipopolare, è stata
argomentata teologicamente ed è stata, in parte, superata solo con la riforma attuata
nel Concilio Vaticano 2° (1962-1965). Che sia una sciocchezza è evidente, lo
può capire chiunque, solo riflettendo sul fatto che il Maestro, morendo, non ci
ha lasciato preti, un clero. Quest’ultimo ha cominciato a manifestarsi solo diversi
decenni dopo e, ad esempio, è testimoniato nella Lettera ai Corinzi del nostro Clemente romano, vescovo di Roma alla
fine del Primo secolo.
Il problema principale della sinodalità non è
stabilire chi comanda, ma come si sta insieme nella fede. La partecipazione
più ampia alla fase decisionale deriva da come si sta insieme.
Bisogna quindi capire se c’è ancora necessità
di stare insieme per questione di fede. Altrimenti la fede, e la religione che è
il modo in cui è vissuta collettivamente, diventa inutile e prima o poi
svanisce.
In genere non mi pare più tanto chiaro di quanto
sia importante vivere la fede insieme ad altri. Molti praticano la religione
come tecnica di tranquillizzazione dell’animo e di rilassamento. Ma, per la
verità, esistono in questo campo altre tecniche altrettanto efficaci e meno
impegnative sul piano dell’etica. E quella pace dello spirito che si prova dopo certe pratiche religiose è più
che altro un effetto neurologico prodotto dalla biochimica che sorregge la
nostra mente. Se tutto si fosse ridotto a questo, i cristianesimi non avrebbero
potuto svolgere quell’importantissimo ruolo di artefici di civiltà, nel bene e
nel male, che sappiamo.
Frequentiamo la parrocchia, ma non stiamo
veramente insieme. Non ci conosciamo, e questo non deve meravigliare perché,
come scrivo spesso, per nostri limiti biologici di specie, non siamo in grado
di avere relazioni profonde con più di
una trentina di persone. Ma le società umane sono molto più vaste ed è
proprio per tenerle insieme che è servita, e ancora serve, la religione. Negli
ultimi decenni il declino della vita religiosa collettiva è infatti coinciso
con uno sfaldamento del tessuto sociale nazionale. In Italia ciò si è avvertito
più che altrove perché l’architettura della nuova Repubblica istituita nel 1946
ha visto la partecipazione fondamentale delle persone di fede cattoliche, che
hanno trasfuso nei suoi principi fondamentali costituzionali alcune idee chiavi
del loro pensiero sociale.
Il popolo si è allontanato e, per un po’, la
gerarchia, il clero e i religiosi, vale a dire ciò che per antonomasia si intende
per Chiesa, quando si dice e si scrive “La Chiesa ha detto; la Chiesa
insegna; la Chiesa ha deciso”, hanno pensato di poter fare da sé. Ma naturalmente
non ha funzionato. Però insistono per quella via, confortati dalla teologia da
loro stessi indotta, che vuole convincerli che possono fare da sé. Poi è venuto
papa Francesco e ha cercato di cambiare questa situazione cominciando dalla
gente. Si è fatto fare un dotto parere dalla Commissione Teologica Internazionale
e poi ha cercato di sollecitare l’episcopato a sviluppare la sinodalità. Constatato
che le sue parole cadevano nel vuoto ha deciso di avviarla d’imperio. Cosa che
è avvenuta lo stesso autunno. Tuttavia nulla è ancora cambiato. Si è inscenata
una fase di ascolto del Popolo di Dio che è stata solo una finzione,
tutto è rimasto nelle mani di vescovi, clero e religiosi, non è cambiato nulla,
e procedendo così non cambierà nulla. Il Papa, nel frattempo, si è fatto ancora
più anziano e ha fatto capire di essere verso la fine del suo ministero. Ad un
certo punto lascerà, come il suo predecessore. Questo, appunto, attendono
quelli che non hanno nessuna voglia di proseguire sulla via dello sviluppo
della sinodalità.
Qual è, in questa situazione, la missione
dell’Azione Cattolica, che ha al centro del suo impegno lo sviluppo della
riforma deliberata dal Concilio Vaticano 2°? Credo che sia quello di cominciare
a ragionare, praticare, sperimentare la sinodalità e premere perché si cominci
ad attuarla da subito in realtà di base come le parrocchie. Un lavoro che abbiamo iniziato prima dell’estate
e che, credo, dovremmo proseguire anche nel prossimo anno liturgico. Cercando
di coinvolgere con continuità più persone possibile, in modo da innescare quel vivere
insieme la fede che produce
sinodalità, e quindi poi, esigenza di partecipazione anche alle decisioni.
Mario
Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli.