ELEZIONI POLITICHE 2022
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Appunti per una scelta consapevole
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Due anni fa ho pubblicato, per il mio gruppo
di Azione Cattolica, alcune note sulla democrazia, che ora possono risultare
utili per un rapido ripasso.
La democrazia è una forma di convivenza benevola:
ha dentro di sé l’amicizia sociale. La più recente dottrina sociale lo
mette bene in evidenza.
Che significa?
Mentre, ad esempio, in un condominio gli
altri sono spesso un ostacolo alla piena realizzazione del proprio diritto di
proprietario, la democrazia di base sulla constatazione, per così dire sperimentale,
che le altre persone sono necessarie alla nostra felicità, e non solo le circa
centocinquanta con cui abbiamo qualche relazione abituale, ma anche quello che
non conosciamo e che non arriveremo mai a conoscere, e che tuttavia ci sono.
La felicità è qualcosa di diverso dal semplice interesse
economico, secondo il quale si cerca di avere sempre di più. In economia in
genere si è soddisfatti quando in un scambio riceviamo l’equivalente. Ma ci
sono relazioni, addirittura quelle più importanti in fondo, che non consistono
in questo, per cui si può essere soddisfatti dal solo pensare che altre persone
vivono, e allora si cerca di lavorare insieme perché continuino a vivere,
a prescindere da quanto in un certo momento ne ricaviamo.
Ecco perché il politico virtuoso è chi tesse
relazioni che rendono felici più gente possibile. Un altro modello è quello
del pastore, che alle persone di fede richiama l’esempio del Maestro,
che guida verso posti sicuri dove avere ciò che si necessita. Naturalmente il
modello evangelico diverge da quello per così dire imprenditoriale, secondo il
quale nella pastorizia, alla fine, parte del gregge viene tosato e parte
macellato. Il Buon Pastore è felice di vedere il gregge al sicuro, dove può alimentarsi,
i verdi pascoli dove riposare, come canta il salmo.
Ma chi deve fare il tessitore il pastore?
Solo la persona alla quale viene riconosciuto un potere sugli altri? No. In
democrazia tutti si è tessitori e pastori.
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Capire la democrazia
1. La democrazia: non
solo regole, ma una forma di convivenza sociale per risoluzione pacifica dei
conflitti.
La democrazia
è un sistema di convivenza che consente di superare i conflitti senza che
l’impiego della forza distrugga la società o generi infelicità. Serve a
regolare l’esercizio di poteri in conflitto limitandoli nel tempo e nella loro
estensione. Una volta che si è radicata in un corpo sociale, ne consente anche
l’evoluzione senza che esso venga disperso nel corso di conflitti violenti. Per
questo la democrazia viene mantenuta sempre in una fisiologica instabilità, in
modo da consentire le dinamiche sociali di potere, ma in una instabilità
controllata, come accade nei reattori nucleari per la produzione di energia
elettrica, nei quali le reazioni di fissione nucleare, capaci di produrre
potenze distruttive, vengono moderate e contenute, ma comunque attivate.
Gli esseri umani, in
particolare nelle società contemporanee estremamente complesse in particolare
per essere composte da vastissime moltitudini di individui, dipendono dalle
loro società per la sopravvivenza. Un gruppo di esseri umani diventa società
quando manifesta la capacità di azione collettiva. Le azioni individuali devono
quindi essere coordinate, per produrre un’azione collettiva. Questo
coordinamento è dato da dinamiche di potere che coinvolgono individui e gruppi
di individui. Ad un certo punto un individuo o, più spesso, un gruppo di
individui riesce ad imporsi e a dettare le linea collettiva: questa è una
situazione di potere. Essa tende sempre a prolungarsi nel tempo e ad
estendersi, finché non incontra una resistenza. In questo momento si produce
una situazione di conflitto sociale che arcaicamente veniva risolta
prevalentemente mediante la violenza collettiva e, progressivamente,
producendosi delle culture dalle società umane, quindi evolvendo le società
umane, anche con altre modalità che preservassero la società dall’essere
sfasciata nel conflitto. In particolare questo avvenne, e ancora avviene,
mediante la produzione del diritto. Il diritto è uno dei modi in cui si
possono limitare i poteri collettivi e privati in modo che non giungano a
confitti distruttivi. E’ integralmente una produzione sociale, che si basa
essenzialmente sull’esperienza storica e sociale delle conflittualità sociali.
Oggi siamo abituati a pensare il diritto come un sistema di ordini di autorità
pubbliche, quindi di leggi, ma esso non si genera solo in quel modo,
anzi, per millenni, la legge non ne fu la fonte prevalente. Una volta accettata
l’idea che alla società convenga limitare i conflitti sociali per preservare la
sua integrità e quindi la sua efficacia per la sopravvivenza collettiva, essa
costituisce un valore, e un valore molto importante, che è anche tra
quelli fondamentali nelle concezioni democratiche. Come risolvere senza
violenza i conflitti sociali? Mediante la pratica dell’equità, che implica
una certa proporzionalità negli scambi e una certa ragionevolezza nella pretesa
dell’esercizio di poteri pubblici, sugli altri. L’equità e la ragionevolezza sono
altri valori tipici del diritto, ma anche molto rilevanti nelle concezioni
democratiche. Sono espressione dell’idea di dignità della persona che
si trova inserita in una società, persona della quale i poteri sociali, privati
o collettivi, non possono, appunto per ragione di equità, fare ciò che
vogliono, a loro arbitrio. Le democrazie contemporanee si distinguono da quelle
antiche, medievali e moderne (che si sono sviluppate dalla fine del Settecento
alla metà del Novecento) per aver molto sviluppato l’idea di dignità della
persona umana, fino a fare un valore fondamentale, attorno al quale ruotano
tutti gli altri. Precisamente le concezioni contemporanee della democrazia riconoscono ad ogni
persona umana una dignità che non può essere lesa da alcun potere
pubblico o privato, che quindi viene limitato. Questa concezione di dignità è
uno sviluppo del pensiero sociale cristiano, dall’epoca in cui le masse europee
iniziarono ad affermarsi politicamente. Essa è anche insegnata dalla dottrina
sociale cattolica, sebbene la Chiesa cattolica sia stata storicamente uno dei
più accaniti avversari della democrazia contemporanea, fino addirittura a
scomunicarla nel 1901, con l’enciclica Le gravi controversie sulle relazioni
economiche del papa Vincenzo Gioacchino Pecci, regnante come Leone 13°.
Solo a partire dal 1939, dopo aver preso consapevolezza dei disastri che la
compromissione con i fascismi mondiali aveva provocato, la posizione iniziò a
cambiare, fino a giungere nel 1991, con l’enciclica Il Centenario del
papa Karol Wojtyla, ad un riconoscimento dell’utilità dei processi democratici
nel governo delle società civili, per indurne la pacifica evoluzione nel senso
di sviluppare la dignità delle persone. La democrazia è in genere ancora negata
nell’organizzazione ecclesiastica, da cui lo sciocco e superficiale detto “La
Chiesa non è una democrazia”: chi ne fa uso mostra di non avere
consapevolezza della realtà sociale della Chiesa e delle sue dinamiche di
potere, a cui certamente converrebbero processi democratici. Può accadere che
ne abbia consapevolezza, ma tema che con la democrazia venga mutato un sistema
di potere che lo avvantaggia o, molto spesso, teme, una volta scelta la strada
della democrazia, si perda il controllo del corpo sociale dei fedeli. In
effetti la democrazia consente l’evoluzione delle società. Del resto solo una
concezione mitica della nostra Chiesa, e in particolare della sua gerarchia,
può condurre a negare che essa sia mutata anche su aspetti essenziali. Ma
l’evoluzione è stata storicamente molto travagliata e a prodotto atroci
sofferenze e violenze. Le guerre di religione sono cessate, nelle loro
manifestazioni più eclatanti, con l’affermarsi dei processi democratici. Essi
hanno portato a riconoscere la dignità delle persone anche nei confronti delle
autorità religiose e, in particolare, a negare validità pubblica alla loro pretesa
di incondizionata sottomissione. Questa pretesa non è però ancora sopita
ed è legata al valore dell’obbedienza incondizionata all’autorità
religiosa, che senz’altro non è evangelico e umilia la dignità delle persone.
In quest’ottica, la vera libertà starebbe nella rinuncia alla propria libertà,
quindi alla propria dignità. Si crede, in questo modo, di prevenire i conflitti
sociali e di preservare l’unità del gregge, risolvendo i confitti
sociali mediante la pretesa, appunto, di sottomissione. La
sottomissione non è certamente un valore democratico. La democrazia conosce,
nelle dinamiche di potere, il valore dell’adesione, a seguito di
dibattito pubblico secondo procedure democratiche, e quello della resistenza,
quando pace, equità, ragionevolezza e dignità sono minacciate da poteri che si
manifestano dispotici, in quanto pretendano sottomissione arbitraria, e ciò
anche se si tratti di poteri maggioritari. La resistenza è un dovere
democratico anche contro la tirannia della maggioranza, come venne
definita dai primi teorici dei processi democratici. La democrazia non tollera
alcun potere arbitrario, che si pretenda illimitato e voglia sottomissione,
perché contrario alla dignità delle persone. Non tutto in democrazia è
nell’arbitrio delle maggioranze: non lo sono la pace, l’equità, la
ragionevolezza, la dignità delle persone.
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2. Cambiare
democraticamente la società.
La dottrina sociale
indica ai laici l’obiettivo di cambiare la società in modo da consentirvi
l’attecchimento della buona novella cristiana. Non si tratta di cristianizzare la
società: questo è un fine molto diverso. Le persone possono divenire persuase
della buona novella cristiana e allora vengono accolte tra i cristiani, nella
Chiesa. Se consideriamo invece le società cristiane, esse non hanno mai
funzionato tanto bene. La cristianizzazione delle persone può presentare grandi
vantaggi per le società, la cristianizzazione della società, vale a dire
costruire l’organizzazione politica intorno a una qualche ideologia cristiana,
porta ad escludere molti, e non solo i non cristiani, ma anche coloro che
vogliono essere cristiani in modo diverso dal modello proposto dalla politica cristiana.
La democrazia come ai tempi nostri la si intende è incompatibile con la cristianizzazione politica della
società, non può darsi questo scopo se vuole mantenersi democrazia. Questo
perché deve rispettare la dignità della persona, vale a dire il complesso dei
diritti fondamentali che le sono connaturati e non dipendono da un
riconoscimento politico. Tra essi, anche quello di professare una fede
religiosa nel modo in cui se ne è persuasi. Questo diritto fondamentale è una
delle condizioni per l’attecchimento della buona novella cristiana. E’ il
diritto alla libertà religiosa. La fede non può essere imposta. Avverto che
questa convinzione è molto recente tra i cattolici e non condivisa in altre
confessioni religiose. Uno dei principali e più fruttuosi metodi di
evangelizzazione cristiana dal Quarto secolo fino al Ventesimo è stata la
violenza politica, che storicamente raggiunse punte di spietata efferatezza ed
ebbe anche connotati stragisti. E’ a questo che, ad esempio, si deve
l’evangelizzazione dell’America Latina. Non ci si deve però scoraggiare: quella
della pace sociale è un ideale molto recente, e non universale, acquisizione in
nelle culture del mondo e, in passato, ognuno si è condotto secondo la cultura
di riferimento. Così fanno gli umani e non possono fare diversamente, appunto
perché sono umani, esseri limitati che dipendono dalle società che
costruiscono.
Cambiare la società
significa influire sul suo governo, e quindi sulla sua politica. Significa
anche misurarsi con le situazioni di conflitto che sempre travagliano le
dinamiche sociali, in particolare quelle tra i gruppi che dominano e quelli che
sono dominati, tra chi è ricco è chi non lo è (posizioni dipendenti da
situazioni di dominio sociale), ma anche, ad esempio, tra chi parla una lingua
maggioritaria e chi ne parla un’altra, da anziani e giovani, tra uomini e donne
anche nella sottospecie delle relazioni coniugali (che esprimono posizioni
sociali di dominio), tra chi vive in certi quartieri ben tenuti e chi in altri
dove vivere è più penoso e via dicendo. Le situazioni di conflitto sociale
dividono la società per strati, ceti, classi. L’apparenza di stabilità è
ingannevole, come quella del suolo: al di sotto sono in azione forze potenti
che ciclicamente si squilibrano con conseguenti sommovimenti. Questa
situazione può osservarsi in tutti i gruppi sociali, fin dai più piccoli, e
anche nelle società dei bambini. Quando l’individuo inizia a interagire in
società, fatalmente emergono situazioni di conflitto. Ma l’essere umano non può
liberarsi a lungo dalla società perché ne dipende per la sopravvivenza. Solo
nella collaborazione sociale è possibile procurarsi beni indispensabili. L’essere
umano è un vivente che crea e governa società, è stato scritto
nell’antichità: è un’affermazione che tutt’ora è valida. Ma come superare i
conflitti? Questo il principale problema della politica. Ciò che ho scritto
della società in generale, vale anche per la nostra Chiesa, nel suo aspetto di
società umana. Dal punto di vista teologico vi è anche altro di molto
importante, ma considerandola come società umana vi si notano tutte le
dinamiche che si osservano più in generale nelle società intorno.
La nostra Chiesa è anche una
società umana. Questo significa che anche in essa è possibile agire
politicamente, perché è una società che, come tutte le altre, deve essere
governata, e lo si deve fare in particolare per creare le condizioni per
l’attecchimento della buona novella cristiana. Si potrebbe però osservare che,
per definizione, la Chiesa dovrebbe essere la migliore delle società sotto
questo profilo, ma nell'esperienza pratica non è così. Una volta dirlo sarebbe
costato caro, molto caro. Ora che però lo hanno insegnato anche i Papi è diverso.
Un grande maestro in questo fu il papa Karol Wojtyla, che regnò dal 1978 al
2005 con il nome di Giovanni Paolo 2°, proclamato santo nel 2014, il Papa della
mia giovinezza, al quale sono spiritualmente e affettivamente molto legato pur
avendone chiari i limiti politici. Ci guidò, nel percorso di preparazione al
Grande Giubileo dell’Anno 2000, nel lavoro che definì di purificazione della
memoria, che consiste nel considerare realisticamente ciò che i cristiani
hanno fatto in passato per trarre esempio solo da ciò che, con il criterio del
Vangelo, possiamo riconoscere come ben fatto. Non si tratta di
condannare i morti. Ma di capire i limiti di come intesero essere cristiani e
di cercare se sia possibile affrancarci, oggi, da quei limiti, per non ripetere
un passato che non proprio non va. Si tratta, quindi, di un giudizio su di noi,
innanzi tutto. Noi che, come sempre si è fatto fin dalla storia più antica,
facciamo memoria degli avi per trarne orientamento.
All’inizio del suo
regno, nel 2013, l’attuale Papa, regnante con il nome di Francesco, ed era (ed
è per certi versi) Jorge Mario Bergoglio, argentino, ci ha esortato ad essere Chiesa
in uscita, avendola trovata come barricata nei propri spazi liturgici con
figure di doganieri ai varchi per selezionare chi poteva entrare o non.
E’ stata una dura critica a come si era stati Chiesa, in Italia, e in
particolare a Roma. La leggiamo nell’esortazione La Gioia del Vangelo, del
2013, il suo primo messaggio a noi tutti. I Papi scrivono molto, anzi
l’attuale Papa meno di altri, ma spesso le loro parole non ci raggiungono. Ci
sono stati momenti nei quali l’imponente letteratura pontificia superava le
nostre capacità di assimilazione, in un’Italia dove, stando alle statistiche,
la maggior parte delle persone non legge nemmeno un libro all’anno. Bisogna
dire però che papa Francesco ha integrato gli scritti con una catechesi
verbale, e per gesti simbolici, molto efficace, per cui l’essenziale ci è
divenuto sicuramente accessibile. Egli però viene, in tutti i sensi, da un
altro mondo, lontano non solo in senso spaziale, ma anche culturale. Più
lontano, in tutti i sensi, da quello da cui veniva san Wojtyla, tutto sommato
vicino in senso geografico ma diviso da noi dalla barriera che fino agli anni
’90 divideva l’Europa tra sistemi politici di democrazia liberale e capitalista
e sistemi politici ideologicamente di democrazia ed economia comunista ma
degradatisi in autocrazie oligarchiche dispotiche, secondo la scuola sovietica
ai tempi di Stalin. Il principale problema che riscontriamo con papa Francesco,
come già con san Wojtyla, riguarda la concezione della democrazia, sulla quale
i cattolici italiani progredirono molto, tanto che l’attuale Repubblica
democratica è in gran parte opera loro. I due Papi, in particolare, appaiono
disallineati con l’evoluzione ideologica che ha caratterizzato il processo di
costruzione dell’Unione Europea. Ho spesso osservato che, del resto, per ciò
che ne so (e mi ritengo solo una persona colta, ma non uno specialista delle
scienze implicate in questa valutazione), non è stata ancora elaborata in
ambito cattolico una teologia della democrazia. Il nostro potere
ecclesiastico parla e intende secondo la teologia e quindi non
appare avere ancora gli strumenti sufficienti per intenderla bene.
Per la gran parte dei
cattolici italiani (ma residuano correnti clerico-fasciste di varia natura)
quella della democrazia è stata, più o meno dal ’39 e su esortazione
pontificia del Papa Eugenio Pacelli – Pio 12° (1939-1958), la via privilegiata
per incidere sui fatti sociali in modo da cambiare la società per favorire
l’attecchimento della buona novella cristiana. Parlo naturalmente di un lavoro
in società che è diverso da quello sulle persone, sulla loro formazione, sulla
loro spiritualità. In particolare gran parte dei cattolici italiani ripudiarono
il disegno perseguito sotto il fascismo storico, quello mussoliniano
(1922-1945), di cristianizzare forzatamente la società. E, con metodo
democratico, riuscirono ad inserire nella Costituzione repubblicana i principi
fondamentali della dottrina sociale cattolica. E procedettero nello stesso modo
nel costruire l’Unione Europea, la cui bandiera è palesemente un simbolo
mariano, con la corona di dodici stelle in campo azzurro. Va detto che
a quella diffusa dai papi Leone 13° (enciclica Le novità, del 1891) e
Pio 11° (enciclica Il quarantennale, 1931), profondamente rielaborata
dai loro successori, storicamente si ispirarono anche despoti che si proposero
di cristianizzare coercitivamente la società, del resto forti di
apprezzamenti positivi del corporativismo mussoliniano contenuto nella seconda.
Bisogna prendere atto
che nell’Italia di oggi l’azione sociale per cambiare la società secondo le
esortazioni della dottrina sociale può e deve farsi solo con metodo
democratico. Ogni altro metodo contrasta con l’affermazione di dignità
inviolabile delle persone che, a ben vedere, è di diretta discendenza dal
pensiero sociale cristiano.
Tuttavia la democrazia
si pratica poco nelle istituzioni ecclesiastiche, salvo che in alcuni limitati
ambiti associativi o di vita religiosa. Ad esempio n on si insegna e non si
pratica, in genere, nelle parrocchie. La prima formazione religiosa, che per la
maggior parte dei laici rimarrà l’unica per tutta la vita, è fatta di solito
di alcuni rudimenti di storia sacra, di alcune istruzioni etiche basate sui
Comandamenti, e di un addestramento minimo su come partecipare alla Messa (in
piedi, seduti, in ginocchio, come recitare le invocazioni e risposte che
competono al popolo, come ricevere la Comunione). Non c’è da stupirsi che poi i
ragazzi non manifestino interesse ad approfondire, visto che, crescendo, hanno
bisogno di dritte per inserirsi in società e quello che hanno imparato
da piccoli al catechismo non serve. Servirebbe, invece, integrare fede e democrazia,
perché nell’Italia democratica di oggi, il saper agire in un contesto
democratico fa una grande differenza. La formazione che si cerca di dare, anche
raggiungendola mediante auto-formazione tra adulti, in Azione Cattolica mira
principalmente a dare quel tipo preparazione. E’ per questo che l’Azione
Cattolica definisce se stessa come palestra di democrazia (nell’atto
normativo diocesano per l’AC nella Diocesi di Roma).
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3. Democrazia e
istituzioni.
Spesso
ho sentito presentare la democrazia come un insieme di regole di buona creanza
civile imposte dall’alto. Lo stesso per la religione. Entrambe sono molto di
più, ma anche di diverso.
Viviamo in società che
sono altamente istituzionalizzate. Questo significa che ci si muove, nelle
relazioni sociali quotidiane, secondo rigide regole formali che, se violate,
comportano vari tipi di sanzioni. Ci si trova inseriti in organizzazioni
disegnate da quelle regole. Accade sul lavoro, nell’utilizzare servizi pubblici,
ma anche, ad esempio, nella pratica della nostra religione.
La parrocchia, ad
esempio, è stata istituita anche come un ufficio burocratico dipendente
gerarchicamente dal vescovo. E’ retta da un funzionario ecclesiastico che è il
parroco, che la rappresenta giuridicamente e accentra ogni potere. In questo
contesto, i fedeli sono utenti di un servizio ecclesiastico, gli altri preti e
i diaconi, come anche i catechisti e chiunque altro abbia affidate mansioni
ecclesiastiche anche a titolo di volontari, sono sostanzialmente
degli impiegati. In parrocchia i fedeli ricevono un’istruzione religiosa e
vari servizi liturgici. Sono anche organizzati spazi conviviali, specialmente
per i più anziani, che si ritengono ormai usciti dal sistema della formazione.
Non vi è possibilità di esercizio di una certa autonomia da parte dei fedeli,
che, al più, sono chiamati a collaborare come impiegati o consulenti. Questa la
realtà istituzionale della parrocchia. Se però ne vogliamo parlare con
i concetti della teologia, allora essa ci viene presentata come comunità,
nella quale ognuno ha pari dignità e vi partecipa come in una famiglia
allargata. Il parroco e i preti e diaconi che con lui collaborano sono pastori che
conducono il gregge per il giusto cammino, in un contesto di relazioni
di benevolenza e rispetto. Il gregge ama il buon pastore ed è
da lui riamato. Questa realtà, di carattere spirituale, non corrisponde però a
quella istituzionale, formale, giuridica. Entrambe non sono democratiche. La
parrocchia, in entrambi quegli aspetti, non è un ambiente democratico, la
democrazia non vi viene praticata, non vi viene insegnata, la si riserva per i
rapporti civili, dove però dovrebbe essere lo strumento con il quale i laici
di fede dovrebbero influire sulla società per renderla aperta a ricevere la
buona novella della fede. Dove si impara la democrazia? A scuola, viene da
rispondere. In realtà, però, a scuola la si insegna sommariamente, come dicevo
prima, come un sistema di regole di buona creanza imposte dall’alto. Ma ben
presto si fa esperienza di una cosa fondamentale: in società le regole vivono
diversamente da come sono scritte o anche solo tramandate per consuetudine.
Questo perché le società, come gli esseri viventi cambiano. Quindi ognuno, nel
concreto delle relazioni sociali quotidiane, è costantemente impegnato ad impersonare quelle
regole che trova in società e, innanzi tutto, a decidere se, e in che misura,
valgono per lui e nei rapporti sociali in cui è coinvolto. In questo, ciascuno
di noi esercita un potere sociale, anche se spesso non ne ha
consapevolezza o ne sottovaluta l’importanza.
Questo che ho osservato
serve a rendere l’idea che ogni fatto sociale, come lo sono la democrazia e la
religione, come anche qualsiasi altra forma di potere sociale, ad esempio
quello in cui si dovrebbe essere solo sudditi di un’autocrazia, un potere che
non vuole rendere conto che a se stesso, o quello rigidamente diviso per caste o ceti
corporativi, nel quale le regole cambiano a seconda del gruppo sociale in
cui ci si trova inseriti o si è ammessi, vive e quindi viene impersonato, e,
in questo, viene anche cambiato, perché, per quanto ci si sforzi di ottenere
uniformità, rimane il fatto che gli esseri umani sono viventi l’uno diverso
dall’altro, è ciò anche nella coscienza e nella volontà.
Il sistema politico e
la religione non sono solo un sistema di regole, ma innanzi tutto
sistemi di convivenza sociale sempre soggetti a mutamenti più o meno rapidi
secondo le dinamiche sociali, quindi alle relazioni di potere in cui ciascuno,
solo che viva in società, è coinvolto come attore e, insieme, oggetto.
La Chiesa assume
teologicamente di essere sempre la stessa dalle origini, e questo, secondo una
concezione mitologica che non significa erronea ma non necessariamente
corrispondente alle dinamiche sociali, perché comprende anche aspetti emotivi
che sono connaturati negli umani, può anche essere accettato, tenendo conto
degli elementi di continuità che indubbiamente emergono nella sua storia
bimillenaria, innanzi tutto la riflessione sulle Scritture. Ma, da un punto di
vista sociale, e anche giuridico, la nostra Chiesa è molto diversa da quella
delle origini, perché è espressa da una società molto diversa, anzi, studiando
la sua storia, ci si può convincere che nel tempo, sotto l'aspetto sociale, ci
sono state molte Chiese, quindi molti modi in cui si è vissuta e
impersonata la Chiesa, e certamente quelli dei bellicosi e irruenti vescovi dei
primi secoli della storia della nostra fede, che avevano l’anatema (oggi
diremmo scomunica) facile, non corrispondono al nostro attuale
modo di essere Chiesa. E, tuttavia, noi cattolici veneriamo i nostri santi,
ma anche nella tradizione delle altre confessioni religiose c’è una analoga
alta considerazione per certi personaggi del passato molto significativi nelle
questioni di fede, perché vorremmo stabilire una continuità ideale con
le vite di chi ci ha preceduto e ci ha trasmesso quello che definiamo deposito
di fede, che non è fatto solo di scritti, concetti, pensieri, regole, ma
soprattutto di modi di vivere la fede. E’ per questo che troviamo
annoverati tra i nostri santi anche persone di fede del passato piuttosto
criticabili sotto vari aspetti, ma delle quali apprezziamo ancora l’impegno
fortissimo a vivere la propria fede come il valore fondamentale
della loro vita. Quindi non le lasciamo seppellire dal passato, ma recuperiamo
il loro messaggio di vita per trarne ispirazione oggi. Ed è anche per questo
che ciclicamente rivediamo il catalogo dei santi, che una volta
proclamati tali sicuramente non possono essere come dire declassificati dal
punto di vista delle procedure istituite nella nostra Chiesa, nel senso che di
epoca in epoca ne risaltano di più alcuni e meno altri. Ad esempio, dell’elenco
dei papi “Pii” dall’Ottocento al Novecento, le scelte politiche
antirisorgimentali di un papa Pio 9°, il Papa del Sillabo (1964;
l’elenco di proposizioni erronee contro il liberalismo che contribuì a rendere
difficilissima l’assimilazione della democrazia tra i cattolici), o quelle
religiose di un papa Pio 10°, che ordinò una durissima e spietata persecuzione
antimodernista causando gravissime sofferenze e lacerazioni nella Chiesa e la
perdita di grandi anime (lo stesso don Romolo Murri, che aveva teorizzato tra i
primi l’ida di una democrazia cristiana ne cadde vittima), che, con il
senno del poi si sono rivelate del tutto inutili, o l’apprezzamento positivo
verso il corporativismo del fascismo mussoliniano e l’elogio della repressione
antisocialista di un papa Pio 11°, ci creano ora qualche difficoltà e, di
fatto, non seguiamo quei loro insegnamenti. Noi, oggi, non impersoneremmo più
la fede in quel modo. La nostra religione, intensa nel suo aspetto di
convivenza sociale, è molto diversa.
E, tuttavia, parlando
di democrazia, che è il sistema politico in cui i più sono nati e che solo i
più anziani hanno contribuito a costruire con il loro voto per l’Assemblea
Costituente nel 1946, e di religione, e uno della mia età ne ha vissuto ormai
almeno cinque versioni, a partire da quella degli anni Sessanta del secolo
scorso, nel trapasso dalla rigidità gerarchica della Chiesa del papa Pio 12°
alla Chiesa del Concilio, a che punto siamo in termini di convivenza sociale?
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4. Democrazia,
desacralizzazione e secolarizzazione. Le società creano
istituzioni allo scopo di durare. Così, nella vita quotidiana, ciascuno sa qual
è il suo posto, chi comanda, che si deve fare in ogni occasione, come può
relazionarsi con gli altri per avere ciò che gli necessità, quando rischia una
sanzione. Una istituzione è un sistema di regole formali che riguarda
l’esercizio del potere pubblico. Ingloba, quindi, un sistema di potere. Per
alcune istituzioni sono previste regole per modificarle, altre, quasi nessuna
in democrazia, vengono presentate come non modificabili e quindi sono sacralizzate.
Il sacro è appunto ciò che in nessun caso può essere cambiato. Ogni
potere storicamente ambì la sacralizzazione. Le religioni, anche la nostra,
vennero strumentalizzate per produrla. Di fatto le società cambiano e con esse
le loro istituzioni, vale a dire i loro sistemi di potere. Se questi ultimi
mantengono la loro pretesa di sacralizzazione, ad un certo punto vengono
rovesciati, se non riescono a reprimere i movimenti rivoluzionari. Nella
preghiera del Magnifica (Vangelo di Luca,
capitolo 1, versetti 49-53), che si recita ogni sera nei Vespri, c’è un
versetto che accenna a questo:
Grandi cose ha fatto per me l'Onnipotente
e Santo è il suo nome;
50 di
generazione in generazione la sua misericordia
per quelli che lo temono.
51 Ha
spiegato la potenza del suo braccio,
ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;
52 ha
rovesciato i potenti dai troni,
ha innalzato gli umili;
53 ha
ricolmato di beni gli affamati,
ha rimandato i ricchi a mani vuote.
In
quelle parole vi è la descrizione di un processo propriamente rivoluzionario.
Un monito severo verso ogni potere che pretenda di sacralizzarsi. Per quanto si
finisca umiliati da un potere dispotico, si confida che esso abbia fine e in
un diverso modo di convivenza. La nostra Chiesa ha prodotto una forte
sacralizzazione del proprio potere pubblico, ma, fin dall’antichità, i biblisti
hanno concluso che quel “Ha rovesciato i potenti dai troni”, non le si
applica. Tuttavia, nonostante la sacralizzazione delle sue istituzioni,
elaborata in particolare all’inizio del Secondo Millennio, quando il Papato
romano si costituì in una sorta di impero religioso, affrancandosi dal
precedente vassallaggio politico agli imperatori civili, esse sono storicamente
molto cambiate. In particolare vanno ricordate tre grandi stagioni di riforma,
nell’11°, nel 16° e nel 20° secolo, quest’ultima con il Concilio Vaticano 2°,
celebrato a Roma, in Vaticano, dal 1962 al 1965. La seconda fu catalizzata
dalla Riforma protestante, che, in religione, costituì un moto propriamente
rivoluzionario, quindi un rovesciamento.
La
democrazia è un tipo di convivenza sociale che non utilizza la sacralizzazione
per avere continuità. Quando se ne cominciò a parlare, nel Settecento se ne
temette l’instabilità. Nell’Ottocento la parola democrazia venne anche
utilizzato per intendere confusione sociale. Questo perché si voleva
praticarla con un’estensione che non aveva mai avuto nel passato, in
particolare nell’antichità greca, da cui ricevemmo le prime teorizzazioni e il
termine stesso democrazia (che in italiano e nel greco antico e contemporaneo
suona uguale), nell’esperienza repubblicana di Roma antica, dove si contava in
base al censo, e in quella del Medioevo europeo, in cui era dominata dalle
corporazioni dei mestieri. Nell’era contemporanea se ne predica l’universalità senza
distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche,
condizioni personali e sociali. E’ chiaro, da ciò, il motivo per cui
l’affermarsi dei processi democratici, in particolare in Europa, comportò il
ripudio del propositi di cristianizzare, con le buone (la persuasione) o
con le cattive (la coercizione mediante le istituzioni), la società. Quando si
parla di secolarizzazione delle nostre società contemporanee, si vuole
appunto intendere questo, non certo che la gente non creda più
all’azione di agenti soprannaturali. Quindi certamente la secolarizzazione della
società, nel senso di desacralizzazione dei suoi poteri pubblici, è elemento
costitutivo della democrazia: non può esservi democrazia in un ambiente di
istituzioni sacralizzate. Questo spiega i problemi che i democratici, anche i cristiano
democratici, hanno sempre incontrato, e per certi versi ancora incontrano,
nelle loro Chiese, ma in particolare nella Chiesa cattolica, data l’elevata
sacralizzazione delle sue istituzioni e addirittura delle persone stesse che
dirigono ai vertici quelle istituzioni. Nella Chiesa cattolica ancora si teme
la dissoluzione procedendo nella desacralizzazione dei propri poteri pubblici,
e questo anche se l’esperienza delle democrazie Occidentali contemporanee
dovrebbe convincere del contrario. Quindi nella dottrina sociale, il pensiero
sociale diffuso dal Papato e dagli altri vescovi, non troviamo una teologia della
democrazia, ma solo una cauta ammissione dei processi democratici nel governo
delle istituzioni civili in quanto più confacenti alla dignità delle persone
umane, come oggi anche nella Chiesa la si intende. Di conseguenza, la
formazione alla democrazia non viene ritenuta compresa nei programmi per
l’istruzione religiosa di base, e nemmeno per quella di secondo livello,
venendo certamente fatta, e questo è un bel passo in avanti, prevalentemente
per i fedeli che hanno un’istruzione superiore, quindi agli universitari e
post- universitari. L’Azione Cattolica fa certamente eccezione perché la pratica
fin dai più piccoli: anche per loro vuole essere quindi palestra di
democrazia.
Poi,
naturalmente, i nostri vescovi si lamentano che i laici di fede non contano più
molto nella società civile, in particolare nei processi politici. Certo, ancora
dalla scuola della dottrina sociale escono ancora grandi ingegni, persone alle
quali tutti si rivolgono nei tempi di crisi come riserve della Repubblica,
ed esse si riconoscono per avere nelle loro biografie periodi più o meno
lunghi, più o meno intensi, di formazione alla democrazia nelle istituzioni
culturali religiose (molte università religiose hanno corsi specifici), ma i
più hanno avuto solo la formazione alla democrazia che è comune a tutti, vale a
dire i pochi cenni alla democrazia come buona creanza civile che si
fanno nella scuola e poi nulla di nulla, anzi l’anti-formazione che si riceve
nel marketing politico, quel modo di accattivarsi la simpatia
dell’elettore che è pubblicità commerciale e che si base essenzialmente nello
sfruttare le possibilità di inganno cognitivo su base emotiva che la nostra
mente offre, un’anti-formazione che umilia dove invece la democrazia si
propone di elevare.
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5. Democrazia: una forma
di convivenza che consente il cambiamento sociale.
Richiamo la definizione di democrazia che ho proposto
all’inizio:
«La democrazia è un
sistema di convivenza che consente di superare i conflitti senza che l’impiego
della forza distrugga la società o generi infelicità. Serve a regolare
l’esercizio di poteri in conflitto limitandoli nel tempo e nella loro
estensione».
Se la democrazia,
prima che un sistema di regole formali, è una forma di convivenza, c’è
molto spazio per l’ingegno e la creatività personali. Essa è stata anche
interpretata in istituzioni, in organismi sociali costruiti per durare e quindi
più rigidi, ma le istituzioni democratiche non coprono l’intero campo della
democrazia come convivenza. E, per quanto molto dettagliate, le regole delle
istituzioni democratiche non riescono mai a disciplinare ogni aspetta della
convivenza democratica nelle istituzioni. Infine c’è la grande area sociale non
ancora democratizzata o non completamente democratizzata. Come si disse per
la nonviolenza, anche per la democrazia ogni giorno può portare
progressi per l’azione dei democratici, per cui si può concludere che «ieri
eravamo meno democratici». Se scopo della democrazia come oggi la si
intende è anche quella di aumentare la felicità e il benessere sociali, questo
significa che la democrazia è una forza sociale di progresso. La
mentalità democratica, come anche la nostra mentalità religiosa, comporta un
certo grado di insoddisfazione nei confronti di ciò che è stato
realizzato: una società democratica è necessariamente dinamica.
L’anno scorso ho
scritto:
«"Chi
è il più grande tra voi diventi come il più giovane e chi governa come colui
che serve. Infatti chi è il più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è
forse colui che sta a tavola? Eppure io sto tra voi come colui che serve" (dal
Vangelo secondo Luca, capitolo,22, versetti 26 e 27 - traduzione in italiano
CEI 2008. CEI 1974, dove CEI 2008 ha "il più giovane" traduce
con "il più piccolo" - il testo in greco antico ha "neòteros":
letteralmente "il più nuovo").
Credo che storicamente
nessuna autorità, civile o religiosa, anche se ispirata ai principi di fede,
sia mai riuscita a mettere pienamente in pratica il comando evangelico che ho
sopra citato. E questo anche nel caso di vere rivoluzioni, vale a dire di un
completo rovesciamento di un ordinamento politico, con instaurazione di un
nuovo ordine politico retto da regole opposte rispetto alle precedenti.
Rivoluzione è un
termine che il pensiero politico ha tratto dall'astronomia, dove significa il
moto di un corpo intorno ad un altro corpo, che si considera come centro. Una
rivoluzione è compiuta, dal punto di vista politico, quando viene istituito un
nuovo ordinamento, e quindi un nuovo potere. Richiedere ai potenti di stare come
colui che serve, vale a dire di agire di conseguenza, significa
introdurre un principio di insoddisfazione permanente davanti a qualsiasi
potere, quindi anche a quello che si presenti come rivoluzionario. Questa
appunto l'origine dei gravi problemi politici che le nostre prime comunità di
fede ebbero nei primi quattro secoli dell'era corrente e, in seguito, degli
analoghi problemi che travagliarono i nostri riformatori che intesero
promuovere un ritorno alla fedeltà a quel comando evangelico.»
Il sistema democratico
è anche, quindi, una convivenza sociale in cui è ammessa la libera critica di
ogni potere, pubblico o privato, rispetto al quale si conviene che ciascuno
abbia libertà di coscienza, e dunque di pensiero, e di manifestazione
del pensiero, nella parola, negli scritti, nelle arti e in ogni altro modo
in cui questa libertà possa essere esercitata. Questo significa che è aliena
alla convivenza democratica la pretesa e la pratica della sottomissione. Una
persone che vive democraticamente non si sottomette mai. La sua osservanza alle
regole stabilite democraticamente, all’esito di una procedura regolare che
abbia consentito anche la presa di coscienza e il dialogo su di esse, non è
sottomissione, ma adesione ad un metodo e accettazione delle decisioni
pubbliche che produce. Rimane però sempre spazio per la resistenza, che
in democrazia è un diritto e un dovere, quando un potere collettivo, anche con
metodi corretti dal punto di vista delle procedure, leda una posizione umana
che si ritenga incoercibile e non vulnerabile, un diritto umano inviolabile in
quanto connesso con la dignità della persona umana. Certamente questo pone
sempre la convivenza sociale democratica in una situazione di fisiologica
instabilità, nella quale ogni potere deve sapersi conquistare e saper mantenere
innanzi tutto con la persuasione la propria legittimazione sociale e politica,
a prescindere da quella giuridica, e in cui il corpo sociale organizzato per
convivere democraticamente mantiene un permanente stato di tensione dialettica
verso qualsiasi potere. In particolare la delega per la rappresentanza politica
non consiste, in democrazia, in una investitura, come le incoronazioni dei
monarchi, data la quale quel potere non potrebbe più essere messo in questione
per tutta la sua durata istituzionale. E’ proprio quella fisiologica
instabilità che consenta al sistema di convivenza democratica di adattarsi ai
mutamenti sociali e di resistere ad ogni potere che tenda ad espandersi
arbitrariamente. E, va detto, la legge sociale del potere pubblico è che esso
tende ad espandersi fino a che incontri una resistenza valida.
La gran parte delle
relazioni sociali più significative della nostra vita si svolgono in spazi non
o poco istituzionalizzati. La famiglia, un’associazione ricreativa o sportiva,
hanno quel carattere. Vi sono però spazi sociali quotidiani piuttosto
istituzionalizzati nei quali tuttavia vi è molto spazio per configurare
liberamente una convivenza sociale, ad esempio nella scuola e nella parrocchia.
Gli ambienti di lavoro sono spesso poco o per nulla democratizzati,
specialmente quando l’organizzazione del lavoro è fatta da un datore di lavoro
proprietario. Sui luoghi di lavoro la democratizzazione è rappresentata
dall’azione sindacale che è in tensione dialettica con i potere del soggetto
proprietario dell’impresa. La democratizzazione delle organizzazioni del
lavoro è una grande sfida e ha un significato altamente politico dove mette in
questione la concezione della proprietà. I processi politici di
democratizzazione delle società europee, dal Settecento, ebbero nella proprietà quale frutto
del lavoro e quindi espressione della dignità sociale personali un
punto di forza, e questo in particolare verso quei poteri politici connessi
alla proprietà terriera tramandata di generazione in generazione in dinastie di
nobili, accreditate da un potere supremo anch’esso dinastico e sacralizzato. Ma
nel progresso delle concezioni democratiche sta venendo meno l’assolutizzazione
della proprietà, espressione, proprio in quell’assolutizzazione, di un potere
con caratteri di arbitrarietà sociale, a favore di una diversa concezione, che
troviamo scritta nella nostra Costituzione repubblicana, che ne richiede una funzione
sociale, vale a dire una finalizzazione anche al benessere e alla felicità
collettivi.
Ciò detto, il primo
passo per un tirocinio democratico non è studiare un complesso di regole,
come viene in genere proposto agli studenti nell’insegnamento di educazione
civica e allora si prende in mano la Costituzione, di creare forme di
convivenza democratica nella propria quotidianità o di modificare in
senso democratico quelle alle quali si partecipa nella propria quotidianità. Il
primo campo di applicazione è il piccolo gruppo di prossimità, ad
esempio la classe scolastica, o un gruppo parrocchiale, come è il nostro
dell’AC parrocchiale.
Si riscontrerà che elevare un
gruppo alla democrazia richiede uno sforzo, una fatica, per la necessità di
vincere resistenze determinate da abitudini consolidate, in particolare da
stati di sottomissione nei quali alcuni si trovano rispetto ad altri. Ho
notato che non di rado nei gruppi religiosi i capi tendono a debordare nel loro
potere, che assume carattere autocratico e addirittura sacralizzato. Data
questa condizione, i capi così impostisi hanno poi in genere la scomunica
facile, come i bellicosi primi vescovi delle nostre comunità religiose, anche
se si tratta di un potere arbitrario, perché nella nostra Chiesa
l’allontanamento del fedele è disciplinato rigidamente da una normativa penale,
analoga a quella degli stati, è riservato a casi gravissimi, e nessuno può
arrogarselo. Una delle prime manifestazione democratiche è dunque quella chi
resiste a quella pretesa di allontanamento arbitrario, ad opera di colui che,
avendo conseguito una qualche posizione di potere ed avendola estesa di fatto a
danno altrui, indica sbrigativamente la porta al dissenziente. Se in passato si
avesse avuto più coraggio in questa azione di resistenza attiva, ci saremmo
potuti risparmiare molti problemi e, innanzi tutto, una certa disaffezione da
parte delle persone più giovani alla vita religiosa. La democrazia non è fatta
certamente per persone remissive verso le posizioni di potere, per persone con
la tendenza ad essere docili, richiede coraggio, e innanzi tutto quello
di rimanere ad occupare gli spazi sociali contro ogni potere pubblico o privato
che pretenda di escludere e, lì, di prendere la parola.
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6. Democrazia come convivenza
che libera da sottomissioni umilianti. Il conflitto è
una dinamica costitutiva delle società umane ed è pertanto ineliminabile. E’
legato alla nostra struttura biologica e, in particolare, al funzionamento
della nostra mente. Gli psicologi cognitivi osservano che la nostra mente
risale a duecentomila anni fa e ancora possiamo influirvi in maniera molto
limitata. Produce, in particolare, le emozioni, oltre al pensiero riflesso,
quello che consideriamo razionale.
Le
situazioni di conflitto consentono il cambiamento delle società e quindi
possono essere anche un fattore di progresso. Ma possono
semplicemente distruggerle se divengono troppo intense e, soprattutto, se
coinvolgono non solo limitati gruppi sociali, ma la società intera o
addirittura varie società. La democrazia è una forma di convivenza che si
propone di risolvere in progresso le situazione di conflitto sociale. A
lungo è stato un lusso per ceti privilegiati, ad esempio, nell’antica Grecia,
per gli uomini che non avevano necessità di lavorare per vivere. Allora, le
altre persone, le donne, le persone troppo giovani, i lavoratori, e
nell’antichità si faceva ampio ricorso al lavoro schiavo, insomma tutte le
persone escluse dai processi democratici, erano ridotte ad una posizione di pura
e semplice sottomissione ai poteri sociali costituiti. Dall’inizio
dei processi democratici contemporanei, dalla fine del Settecento, essi si
fecero sempre più inclusivi, fino a comprendere ora tutte le
persone umane, anche a prescindere dalla loro cittadinanza o maggiore età. Ciò
per l’affermarsi della cultura dei diritti umani fondamentali, che ancora è
visto con sospetto dalla dottrina sociale, espressione del Magistero dei
vescovi cattolici. Questo, appunto, per il potenziale di liberazione
da poteri dispotici e arbitrari che comporta. Da essa si teme l’inasprirsi del
conflitto sociale e la dissoluzione della società, in particolare della nostra
Chiesa, e questo con una considerazione realistica basata sull’esperienza,
senza far tanto conto sui miti religiosi che ne predicano un fondamento
soprannaturale e che dovrebbero porla al riparo secondo la profezia del “non
prevarranno”.
«[…] io
a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le
potenze degli inferi non prevarranno su di essa.» [dal Vangelo secondo
Matteo, capitolo 16, versetto 18]
Da 2013 in Italia
stiamo vivendo un’esperienza propriamente rivoluzionaria: è stata quasi
totalmente rinnovato il ceto politico nazionale e locale e i partiti politici
che conobbi fino agli anni ’80 non ci sono più. L’ultimo a rigenerarsi, era
rimasto l’ultimo dei partiti politici che c’erano già negli anni ’80, è stata
la Lega Nord, che ha completamente rivisto la propria ideologia,
diventando un partito nazionalista, da anti-nazionalista che era alle origini e
fino al 2013. Nella politica nazionale si sta passando da un’ideologia
neo-liberista in economia ad una neo-statalista, mentre si danno battaglia
neo-nazionalismo identitario ed europeismo. Nel giro di due anni si è
passati da un governo che era il più a destra di sempre ad uno che da molti
viene considerato come tra quelli più a sinistra. Questi processi sono stati
aggravati dalla crisi istituzionale provocata dall’emergenza sanitaria
nazionale determinata dalla pandemia della malattia Covid 19, che ancora si
manifesta estremamente attiva e che ha prodotto forti mutamenti nei metodi di
governo e la necessità di aspri confronti internazionali. A tutto ciò si
aggiungono le crisi internazionali riguardanti il conflitto libico, in cui
l’Italia è coinvolta, e quella prodotta dal recente espansionismo militare
turco, che minaccia importanti interessi economici italiani nel Mediterraneo,
generando da ultimo potenziali situazioni di guerra. E tuttavia, nonostante
questi profondi scossoni politici e una situazione sociale ed economica in
veloce cambiamento, la società continua a funzionare e una persona distratta
potrebbe addirittura non rendersi conto di ciò che sta accadendo. Questo perché
in Italia si è radicata, in particolare nei primi quarant’anni di esperienza
nella Repubblica fondata dal ’46, una convivenza democratica. Questo appunto è
il miracolo delle concezioni evolute della democrazia che si sono sviluppate in
Italia, in Europa e altrove nel mondo, dal secondo dopoguerra, vale a dire
dalla fine della Seconda Guerra Mondiale (1939-1945).
Ogni situazione
di conflitto che non sia risolta democraticamente genera o la sottomissione
dei ceti subalterni, che quelli dominanti riescono controllare e finché ci
riescono, o processi rivoluzionari violenti. Nel primo caso si ha
l’infelicità dei sottomessi, nell’altro l’infelicità sociale diffuso, perché la
violenza genera sempre infelicità. Inoltre l’esplosione della violenza sociale
di massa è una catastrofe che, come i terremoti naturali, non si sa che cosa
porterà e come potrà essere risolta, iniziando una nuova ricostruzione sociale.
Nella Somalia contemporanea abbiamo l’esempio di una situazione rivoluzionaria
catastrofica che, iniziata all’inizio nel corso degli anni ’80, non si è ancora
conclusa e ha portato alla dissoluzione dello stato, che era stato costituito
nel 1960, alla fine della dominazione coloniale italiana e inglese, sul modello
europeo, ma presto caduto preda di un dispotismo militare, che solo formalmente
manteneva alcune procedure democratiche. La rivoluzione democratica italiana,
tra il ’43 e il ’45, ebbe caratteristiche diverse per merito di un ceto politico
democratico, che nella guerra di Resistenza fronteggiò quello fascista, del
quale i cattolici democratici ispirati alla dottrina sociale ebbero un ruolo
determinante. Ma il lavoro di formazione democratica del popolo, svolto in
particolare in Azione Cattolica e nei partiti politici, per creare cittadini
democratici dopo la lunghissima sottomissione al fascismo, così come
l’adeguamento delle strutture dello stato alle regole e principi della nuova
democrazia, poterono dirsi conclusi solo all’inizio degli anni ’90 del secolo
scorso, quando, per effetto della globalizzazione dell’economia e
della dissoluzione della frattura con le economie comuniste, il mondo, e in
esso l’Italia, prese nuovamente a cambiare.
Proprio
all’inizio degli anni ’90 quel lavoro di formazione popolare alla democrazia
venne interrotto, in particolare per la rapida dissoluzione dei partiti
italiani storici. Continuò e continua ad essere svolto in Azione Cattolica.
Tuttavia in questo ambiti ci si scontra con il fatto che la Chiesa, pur
investita da processi democratici dagli anni ’70, con il rinnovamento della
catechesi, non è strutturata come una democrazia, ma come una autocrazia
oligarchica, e ciò anche riguardo l’inquadramento del laicato. In essa i
conflitti vi sono, ma vengono negati e si cerca di mantenerli, come dire, sotto
traccia. La modalità con cui in genere i laici si rapportano con le
varie gerarchie che pretendono di dettare la linea è quella della sottomissione.
Però la stessa gerarchia li vorrebbe anche capaci di influire nella società
democratica intorno con gli strumenti e secondo i principi della democrazia.
Questo è il nostro, di noi laici di fede, problema dei problemi nella Chiesa in
cui siamo immersi. La conquista di una cittadinanza ecclesiale
democratica è ancora da costruire e in genere si è nella condizione di sudditi,
quindi di sottomissione, della quale viene bene resa l’idea con
l’immagine del gregge, che saremmo noi verso i nostri pastori terreni.
Quella del gregge è indubbiamente una figura evangelica,
ma riferita al Buon Pastore soprannaturale: è solo
lui che ci proponiamo di seguire e amare incondizionatamente. Ogni altra
autorità, salvo per certe questioni e solo nella teologia e nel diritto
canonico cattolici quella del Papa, non ha veramente titolo e legittimazione
per sacralizzarsi, rifiutando di essere messa in questione,
costituendosi in autocrazia, sottraendosi a processi democratici.
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7.
Democrazia: cominciare dal piccolo e dal basso
Di solito a scuola si studiano le istituzioni
democratiche e le regole democratiche. Si accenna alla storia della
nostra Repubblica democratica per dire che nacque da una resistenza
politica popolare, vale a dire di massa, a un potere autocratico,
quello del fascismo mussoliniano, che aveva sottomesso le
genti d’Italia. Si aggiunge che il risultato fu quello di una Liberazione politica
e morale da quell’autocrazia. Questo risultato fu rivoluzionario e, in realtà,
dovrebbe scindersi in due fasi. Perché nella prima si prevalse sulle
istituzioni del fascismo mussoliniano, che ne uscì disperso, mediante una guerra,
che per gli italiani, a differenza degli stati che la combattevano contro gli
stati del fascismo europeo, fu anche propriamente di Liberazione politica.
Nella seconda si decise democraticamente per la Repubblica, da Regno che si
era: anche questo cambiamento fu rivoluzionario, ma pacifico, in quanto
condotto secondo procedure e principi democratici, in particolare con un voto
popolare ad un referendum a cui parteciparono per la prima volta
nella storia istituzionale italiana anche le donne. Ma quella rivoluzione non
fu solo di istituzioni e di regole, ma innanzi tutto e prima di tutto, di mentalità.
Dalla fiducia nelle virtù della guerra, propagandata dal fascismo
mussoliniano, all’anelito verso la pace determinato dalle gravi sofferenze
belliche che avevano riguardato anche la popolazione civile, finita sottomessa
al nazismo hitleriano, quindi ad un dispotismo straniero. Questa formazione
alla pace, profondamente contrastante con quella, opposta, insegnata
dall’ideologia fascista, si fece in particolare sull’esortazione del Papato,
era regnante il papa Eugenio Pacelli - Pio 12°, contenuta in una serie di
radiomessaggi dal 1940, che ebbero di fatto il valore di encicliche, e che
furono poi alla base di un vasto lavoro di istruzione popolare condotto dal
clero e dai religiosi e di corrispondenti azioni sociali che coinvolsero in
vario modo la gente di fede.
E’ alla formazione di questa mentalità
che dovrebbe essere finalizzato il tirocinio democratico che dovrebbe farsi ad
ogni livello tra i laici, per renderli capaci di operare in una società
democratica per indurvi cambiamenti per favorire la ricezione della buona
novella cristiana. Dove oggi prevale una certa clericalizzazione dei laici che
collaborano negli ambienti religiosi, dovrebbe invece provarsi, dove possibile,
e vi sono larghi spazi in cui ciò è possibile, la pratica della convivenza democratica,
quindi la ristrutturazione di poteri che si presentino con caratteri
autocratici, autoritari, fondati su discriminazione in dignità personale. Ciò è
largamente praticabile, ad esempio, in ambito parrocchiale e, in particolare,
nei piccoli gruppi in cui le attività parrocchiali si articolano.
Spesso l’affanno per i servizi che la parrocchia deve rendere alla
comunità, in particolare quelli liturgici per gli eventi della vita e per il
ciclo liturgico delle messe, come anche le attività di formazione di base e per
il matrimonio, che finiscono per assorbire quasi interamente le energie del
clero parrocchiale, ed anche le esigenze pratiche di gestione del patrimonio
parrocchiale, in particolare di quello immobiliare, porta una certa
burocratizzazione della struttura parrocchiale, che si atteggia un po’ al modo
di qualcosa tra la ASL spirituale e l’istituto scolastico. Il parroco decide
tutto, del resto è lui che giuridicamente rappresenta la parrocchia come
ente ecclesiastico con rilevanza anche civile, e tutti gli altri al più
rimangono consulenti. E le istituzioni minime di democrazia previste per
questa attività di consulenza, l’Assemblea dei fedeli, il Consiglio
pastorale, il Consiglio per gli affari economici
rimangono talvolta sulla carta, ma comunque contano poco. Non si sente, ad
esempio, l’esigenza di esporre un bilancio patrimoniale ed
economico della gestione parrocchiale, per capire di quali risorse si dispone,
il suo indebitamento, e quali siano le sue esigenze.
Nell’ultima grande riforma della Chiesa Cattolica, quella attuata con il
Concilio Vaticano 2° (1962/1965), si tratteggiò una diversa immagine di una Chiesa
- comunità, ma di fatto direi che siamo appena agli inizi degli sviluppi
conciliari per quanto riguarda questo aspetto. Non c’è da aspettarsi molto
dalla gerarchia, perché la legge del potere sociale è che chi ce l’ha non
lo lascia fino a quando non è costretto a farlo per l’emergere di poteri
resistenti che pretendano condivisione. La riforma in senso democratico,
dunque, può anche essere pensata dall’alto, ma, se non si fa
dal basso, non si fa. E, comunque, ogni ristrutturazione o trapasso nei
sistemi sociali di potere presenta qualche rischio, perché si va dal noto
all’ignoto, dallo sperimentato a ciò che non lo è. E su questo fanno forza i
poteri che si vorrebbe ristrutturare.
Non basta quindi riconoscere, come ormai generalmente si riconosce, che il
sistema di potere ecclesiastico cattolico è obsoleto, e oltretutto inefficiente
e poco o per nulla trasparente: la critica deve essere accompagnata alla
dimostrazione pratica che forme più democratiche di conduzione funzionano,
e non disperdono il gregge, innanzi tutto perché c’è una mentalità
che, a prescindere dall’intervento di poteri autocratici, porta a
considerare fondamentale il valore dell’unità. Ma c’è tra noi laici?
Possiamo dire che, le rare volte che abbiamo voce in qualche cosa, fosse anche
solo l’organizzazione delle iniziative per la festa del santo patrono della
parrocchia, mostriamo una mentalità cosiddetta sinodale, che appunto
vuol dire avere particolarmente a cuore l’unità? La mia esperienza con
il laicato non è questa: in realtà spesso le discussioni generano contrasti che
rapidamente degenerano e, alla fine, non si trova di meglio che cercare di
prevalere accattivandosi l’autorità autocratica del parroco o addirittura di
chi sta più in alto di lui e/o invitare i dissenzienti ad andarsene. Qualche
anno fa il parroco, in Quaresima e in preparazione alla Pasqua, che nella
nostra parrocchia di San Clemente Papa in genere rinfocola accesi dissidi sul
modo di svolgere le liturgie nella Settimana Santa, organizzò una serie di
incontri, a cui parteciparono persone delle comunità in frizione. Ciascuno
disse la propria, ma ciascuno sostenne che non sentiva bisogno di unità, che la
via che aveva scelto era la migliore e che quella della separazione
era la sola soluzione che consentisse una convivenza pacifica. Notai in ogni
gruppo di lavoro in cui eravamo stati divisi la presenza di capi delle
comunità: questo evidentemente impediva di andare avanti nel processo di
assimilazione reciproca. In genere i capi di comunità assumono le consuetudini
del clero, si clericalizzano, e quindi tengono molto a marcare le differenze e
consolidare la sottomissione degli altri al proprio potere. La via giusta credo
sia, sulla base di quell’esperienza, non quella di riunirsi per discutere,
ma per fare qualcosa insieme, nel contempo convenendo che, in quel fare,
per la durata di quel fare, limitatamente a quel fare, si è sciolti da altri
poteri che non sia quello collettivo dell’assemblea di coloro che si
sono riuniti per quello specifico fare e quelli eventualmente da essa
costituiti per specifici incarichi, con precisi limiti di tempo e di
estensione. Questo che ho descritto è uno spazio democratico di base. Il
fare dovrebbe consentire un’assidua frequentazione, e quindi conoscenza. Si
diffida di chi non si conosce. E la convivenza democratica si basa
essenzialmente sulla fiducia reciproca, mentre quella basata sulla comune sottomissione
sulla presenza di un’autorità autocratica comune alla quale tutti si sottomettono.
Ogni
piccolo gruppo parrocchiale, e più in generale ogni piccolo gruppo sociale,
dovrebbe essere trasformato in uno spazio democratico di base per fare
tirocinio di convivenza democratica e per convincersi che la democrazia funziona.
Ho letto che questa esperienza è molto diffusa in una delle culle della
democrazia, in Gran Bretagna, dove ogni esigenza collettiva genera un comitato.
Abbiamo ricevuto la parola comitato dal latino, lingua in cui si
componeva della parole che significavano andare con, espressione
corrispondente a quella sinodo, che ci viene dal
greco antico. L’accento è posto, non tanto nel pensare tutti in
uno stesso modo (ordine di idee in cui si dà dell’eretico chi non la
pensa in quel modo e lo si esclude), ma nell’andare insieme, nel
rimanere insieme sulla via nonostante non la si pensi nello stesso
modo. Questo è al centro della convivenza democratica.
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8. Democrazia: una questione di dignità.
«L’uomo è un vivente che costruisce e governa società»:
questo è uno degli insegnamenti più noti del filosofo greco Aristotele,
vissuto nel Quarto secolo dell’era antica, quella che contiamo a ritroso
partendo dall’anno in cui convenzionalmente poniamo la nascita di Gesù il
Cristo. Una filosofa vissuta nel secolo scorso, Anna Arendt, osservò che esso
non dice tutto delle persone umane nelle loro società. Questo perché la
società è un modo di vivere in relazione e, dunque, è propria degli
umani nelle loro relazioni, non dell’uomo in sé. E costruire e
governare società è appunto un modo degli umani di vivere in
relazione tra loro, un modo di convivere. E’ ciò che
definiamo politica.
Eppure è anche vero che la società dice molto di noi, ci determina.
Siamo ciò che la società riconosce che siamo. In società riceviamo un
nome, ci vengono riconosciuti dei parenti, quindi linee di discendenza
biologica che si ramificano e creano legami molto forti, ci viene data una
lingua, quella che chiamiamo madre perché non la impariamo a
scuola ma da una delle relazioni umane più forti della nostra vita, ma
anche molto altro, ad esempio i ritmi della vita, il modo di vestire, il modo
di atteggiarci quando siamo con gli altri, crescendo anche un ruolo sociale,
che comprende l’esercizio di poteri e la soggezione a poteri altrui, la nostra
posizione nelle dinamiche sociali di potere. Tanto che ci riesce difficile
isolare una persona umana dalla sua società e che, quando muovendoci passiamo
da una società ad un’altra, anche noi cambiamo: questa è una delle esperienze
fondamentali del viaggio. Il monaco eremita si isola dalla sua società appunto
per cambiare, lì dove cerca una relazione privilegiata con Colui che
incessantemente cerca e che nessuno ha mai visto, è scritto, ma
comunque gli è stato rivelato, e dunque attende di essere cambiato in e da
quella relazione.
Nel romanzo Robinson Crusoe, scritto dall’inglese Daniel
Defoe all’inizio del Settecento, ci viene presentata l’esperienza di un
naufrago su un’isola disabitata. Egli, raccogliendo cose scampate dal naufragio
e costruendosi abitudini quotidiane di vita cerca di mantenersi nella civiltà
di origine, ma recupera veramente la sua umanità solo quando gli giunge un
indigeno, che libera da chi lo aveva fatto prigioniero per ucciderlo e
mangiarlo (nella sua società di origine si praticava il cannibalismo), ed entra
in relazione con lui assegnandogli anche un nuovo nome, Venerdì. Ecco il
nucleo fondamentale dalla società, che manifesta immediatamente la politica perché
richiede di essere governata. La governa Robinson, l’Europeo. Il contatto con
il diverso ha stabilito delle relazioni di potere. Uscendo dalla società
dei nativi e stabilendo una nuova relazione sociale con l’Europeo, e attraverso
di lui con la società degli Europei che Robinson sta cercando di mantenere
sull’isola, Venerdì ne ricava un nuovo nome, ma anche una
nuova identità sociale. Ma anche Robinson, in fondo, ne esce cambiato. E’
un’esperienza comune nei grandi racconti di viaggio, reali o immaginari: la
ritroviamo, ad esempio, nel racconto di Marco Polo, il veneziano che nel
Duecento raggiunse la Cina e vi visse a lungo, divenendo anche un dignitario
della corte dell’imperatore che all’epoca dominava quella società.
In sostanza: dalla società in cui viviamo immersi e dalla sua
politica, vale a dire da com’è costruita e governata, ci viene
riconosciuta la nostra dignità sociale, che quindi ne dipende. Ecco
perché non è la stessa cosa esservi solo sottomessi ad una politica, ma
anche parteciparvi.
Ma, mi si può obiettare, dal punto di vista religioso
riteniamo che la nostra dignità di esseri umani preesista alla
società e non dipenda veramente da essa, secondo quanto fu scritto a fine
Settecento dai rivoluzionari nordamericani che proclamarono la loro Dichiarazione
di indipendenza dalla monarchia inglese:
«Noi teniamo per certo che queste verità siano di per se stesse
evidenti, che tutti gli uomini sono creati eguali, che essi sono dotati dal
loro Creatore di certi Diritti inalienabili, che tra questi vi siano la Vita,
la Libertà e il perseguimento della Felicità. Che per assicurare questi diritti
sono istituiti tra gli uomini i Governi, che derivano i loro giusti poteri dal
consenso dei governati. Che quando una qualsiasi Forma di Governo diventa
distruttiva di questi fini, è Diritto del popolo di alterarla o di abolirla, e
di istituire un nuovo Governo, ponendo il suo fondamento su questi principi e
organizzando i suoi poteri in una forma tale che sembri ad esso la più adeguata
per garantire la sua sicurezza e la sua felicità.»
Eppure, se quella nostra dignità non ci viene riconosciuta
socialmente ci sentiamo infelici. Per questo fu fatta quella
rivoluzione: « è Diritto del popolo di alterarla o di abolirla, e di istituire un nuovo
Governo» Ecco perché nella nostra Costituzione repubblicana, all’art.2, si
fa obbligo a tutti, questa è legge fondamentale della nostra società
politica, appunto, di riconoscere quella dignità.
Art. 2 della
Costituzione.
La Repubblica riconosce
e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle
formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento
dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.
Di solito questa norma viene
presentata come diretta ai pubblici poteri, in primo luogo allo Stato, ma, in
realtà, è diretta a tutti coloro che esercitano una forma di
potere, pubblico o privato, e anche religioso. Perché è in questione la
Repubblica, quindi la convivenza sociale e politica di tutti noi,
che si vuole anche democratica, è
scritto nell’art.1 della Costituzione.
Dall’art.1 della
Costituzione.
L'Italia è una
Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
Nessun potere, nemmeno quello
che esercitiamo in famiglia e nelle altre realtà sociali di prossimità, e
neanche quello di una Chiesa, neppure quello di una Chiesa come la nostra che
abbia avuta riconosciuta una sovranità nelle cose sue, può ledere la dignità
della persona umana, che è caratterizzata da quel complesso di diritti
fondamentali che nella nostra Costituzione vengono definiti inviolabili. Questa
dignità è colpita tutte le volte che in società una persona viene costretta
solo a subire il potere altrui, senza poter in alcun modo
interagire, quindi quando si è totalmente in mani altrui.
Quest’idea, alla quale spesso
non prestiamo abbastanza attenzione, è piuttosto ostica nei nostri ambienti
religiosi, e in particolare nella nostra teologia e nella nostra pratica
religiosa. Abbiamo, in particolare, diverse preghiere usate nelle pratiche di
pietà dei laici che evocano una totale sottomissione non solo al
Creatore, ma anche alla Chiesa intesa come realtà sociale, e quindi anche come
sistema di potere costituito nella società religiosa in cui siamo stati
accettati. Sono specchio di una condizione laicale che, con i principi che
iniziarono ad essere accettati nelle leggi ecclesiastiche al tempo del Concilio
Vaticano 2°, ormai oltre cinquant’anni fa, si voleva cambiare, perché non solo
umiliante, ma anche controproducente per ciò che dal laico si pretende in
religione quanto ad azione sociale in un contesto democratico.
Di fatto, ad esempio, vediamo,
che nella vita parrocchiale i laici contano ancora poco. Sono apprezzati se
fanno quello che gli si dice, ma non li si ritiene, in genere, capaci di
collaborare anche con la propria volontà, in processi democratici
in cui possano realmente influire sulle decisioni collettive. Ecco perché, in
fondo, si ritiene inutile insegnare la democrazia negli ambienti
religiosi, come una volta si riteneva inutile istruire le donne.
Questa mancanza di istruzione
democratica, fa sì che poi la convivenza sociale ne risenta, nelle relazioni
interpersonali, nelle quali non ci si manifesta capaci di risolvere i
contrasti, venendo subito alle mani, metaforicamente e non, ma
anche in altri aspetti della vita religiosa, nella quale ci si sente poco
considerati, posti nella condizione, diciamo, di gregge, e alla quale quindi
ci si disaffeziona, non solo perché umiliante, ma anche perché inutile per
interagire collettivamente in società. Se possibile, infatti, si cerca di
evitare le situazioni umilianti, e una di quelle più umilianti è l’essere
costretti a fare cose inutili. In religione, invece, spesso l’umiliarsi è
presentato come una virtù, ma una cosa è farlo verso il Creatore, altra è farla
verso qualsiasi autorità umana, anche sacralizzata.
Da dove cominciare a provare se
ci si può organizzare in modo diverso? Direi di farlo passo dopo passo,
senza fretta od ambizioni eccessive, a cominciare dai piccoli gruppi e dalle
piccole cose, per prendere confidenza con un metodo, quello democratico, con
questa forma di convivenza sociale, verso le quali ancora il clero, e il
potere religioso è formalmente quasi tutto nelle sue mani, è piuttosto
diffidente. Poi si può provare ad estendere questa esperienza fin dove
possibile, fin dove si arriva allo scheletro autocratico del diritto canonico,
e lì il processo sarà molto più lungo e complicato ma in definitiva riguarda
meno la nostra vita quotidiana, fino ad esempio a tentare ciò che si è fatto
altrove, vale a dire un Sinodo parrocchiale nel quale non ci si
limiti a stare a rimorchio del clero, ma si sia creativi.
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9. Istituzioni e
comunità
9.1. Un’istituzione
sociale è un’organizzazione che si vuole rendere stabile dandole regole che
possano essere cambiate solo con precise procedure e ottenendole il
riconoscimento da parte delle altre istituzioni, in un sistema di relazioni
ordinato secondo altre regole, per il quale alcune istituzioni sono tra loro
pari ordinate, alcune subordinate ed altre sovraordinate ad altre.
L’istituzione è stata
una conquista culturale molto antica dell’umanità: essa, ci dicono gli
antropologi, risale addirittura a tempi preistorici, quindi a quando ancora non
ci si tramandava il ricordo del succedersi degli eventi sociali. Essa è
strettamente collegata all’esercizio di poteri sociali, dalle cui relazioni
emergono le regole di convivenza pubblica, che è quella non limitata agli
ambienti familiari e amicali.
Attraverso le
istituzioni i poteri sociali diventano stabili e si perpetuano, addirittura di
generazione in generazione.
Il potere politico,
vale a dire quello che riguarda il governo delle società, e la proprietà, quel
complesso di poteri che le persone esercitano sulle cose, ma che storicamente è
stato imposto anche sugli esseri umani, sono i principali moventi per la
creazione di istituzioni sociali.
Nelle narrazioni
evangeliche ci si accorge presto che, nella vita delle prime comunità di
seguaci del Maestro, l’istituzione non è presente, e questo anche se, per
ragioni essenzialmente ideologiche, di legittimazione dell’esercizio di poteri
religiosi si cerca in quella prima esperienza di vita di fede un accredito per
istituzioni che furono di molto successive.
Una delle ragioni
della mancata istituzionalizzazione religiosa nei primi tempi può essere vista
nella mancanza di esigenze propriamente politiche e di problemi relativi alla
proprietà. Verso la politica dell’epoca, si praticava un blando anarchismo e si
cercava più che altro di marcare i confini tra la sfera pubblica, che è il
campo della politica, e quello interpersonale, che fu lo spazio privilegiato
per la prima diffusione della buona novella.
Hannah Arendt, in uno
dei saggi raccolti nel libro Che cosa è la politica, pubblicato postumo
nel 1993 e attualmente disponibile in commercio (anche in e-book) edito da
Einaudi [si tratta di un testo di difficile lettura che richiede come minimo il
livello di conoscenze che si raggiunge nell’ultimo anno delle scuole
superiori], cita una frase dello scrittore cristiano Tertulliano, vissuto nel
2° secolo, il quale esercitò una grande influenza nella formazione della prima
teologia cristiana: «Niente è più estraneo a noi cristiani della cosa
pubblica» [dal trattato Apologetium, 38]. Arendt sostiene che le
prime tendenze antipolitiche del cristianesimo si devono al fatto che
all’origine fu centrato su ciò che è essenziale per la convivenza umana nelle
relazioni interpersonali.
9.2. Sappiamo
però che, già alla fine del 1° secolo della nostra era, le nostre comunità di
fede presero a istituzionalizzarsi, a organizzarsi in istituzioni sociali, come
emerge ad esempio nel pensiero di Clemente Roma, al quale è intitolata la
nostra parrocchia, vescovo di Roma vissuto nel 1° secolo, da quello di Eusebio
di Cesarea, vescovo di Cesarea in Palestina vissuto nel Quarto secolo, molto
ascoltato dall’imperatore Costantino, e da quello di Gelasio, vescovo di Roma
vissuto nel Quinto secolo, e, soprattutto, da Agostino vescovo di Ippona,
nell’attuale Algeria, uno dei maggiori teologi della cristianità di tutti i
tempi, vissuto tra il Quarto e il Quinto secolo.
Quella
istituzionalizzazione delle Chiese cristiane fu una delle più importanti delle
loro molte metamorfosi rispetto alle comunità delle origini. Una volta
istituzionalizzate, in particolare intorno ad episcopati monarchici, esse
presso ad entrate in relazione con le istituzioni politiche del loro tempo,
divenendo anch’esse tali.
L’istituzionalizzazione
specificamente politica delle nostre Chiese fu un fatto decisivo nella
conquista dei popoli al cristianesimo, nella sua nuova versione
istituzionalizzata, quando la pressione per la conversione venne sorretta anche
dalla coercizione politica, e quindi anche dalla violenza politica. In questo
contesto di istituzionalizzazione della religione, acquistò sempre più
rilevanza il clero, costruito come classe sacerdotale, secondo una teologia che
prendeva liberamente spunto dai modelli sacerdotali israelitici presenti nelle
Scritture. Ma la acquistarono anche gli ordini religiosi monastici, e
successivamente altri tipi di ordini religiosi, nei cui ambiti si rivivevano,
ma in spazi ben delimitati dalle loro istituzioni, interni ad esse, le
esperienze di libertà evangelica delle origini, quindi anche di separazione
dalla politica. Clero e religiosi, istituzionalizzandosi, presero ad
esercitare poteri propriamente politici sul resto della società, ma anche ad
accumulare proprietà. La Chiesa cattolica è accreditata oggi per essere uno dei
maggiori proprietari di immobili in Italia e vi possiede, addirittura, una
istituzione organizzata come uno stato, la Città del Vaticano a Roma.
Sia la politica che le
proprietà vennero considerate strumenti essenziali per sostenere
l’evangelizzazione dei popoli. Questa è la situazione nella quale ai tempi
nostri ancora ci troviamo, anche se, negli anni ’60 del Novecento, prese corpo
quel movimento di riforma religiosa volto a recuperare l’esperienza di comunità
amicale delle origine, secondo una nuova teologia del “Popolo di Dio”,
che assimila anche elementi dei principi democratici contemporanei. La riforma
venne deliberata, infine, durante il Concilio Vaticano 2°, svoltosi a Roma tra
il 1962 e il 1965, ma in gran parte attende ancora di essere attuata, in
particolare per quanto la posizione dei laici cattolici, tuttora piuttosto
marginale e umiliante.
Tra quella teologia
comunitaria e la teologia e la dottrina delle istituzioni religiose si è
conseguentemente creata una certa tensione, che si manifesta anche in una
realtà sociale di base come la parrocchia. Infatti, una volta che si riusciti
a radunare una comunità viva, le regole delle istituzioni, tramandate
addirittura da secoli, sono sentite come troppo coercitive e, soprattutto, poco
rispettose della dignità delle persone che si sono incontrate comunitariamente,
in quanto pretendono sottomissione a poteri autocratici e fondamentalmente
insindacabili. D’altra parte, istituzioni religiose che tengano conto solo
delle loro regole di organizzazione, con il principale obiettivo di perpetuarsi
mantenendo certi poteri politici e sociale e la disponibilità delle loro
proprietà, senza avere in sé comunità vive, e cioè attive e creative, perdono
rapidamente attrattiva sociale, e, dove non possano più valersi della
coercizione politica e della pressione ambientale al conformismo perbenistico
per mantenere la loro presa sociale, perdono senso, rimanendo solo vuote
burocrazie.
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9.3. Radicare la democrazia nelle istituzioni a partire da
tirocini democratici nelle realtà di base.
Quando si cerca di spiegare di democrazia si parte in genere dalle
regole, perché la si vede essenzialmente come uno dei metodi per fare
ordine nella società e, per questo, come molto legata alle sue istituzioni.
La democrazia, quindi, come adesione ad un sistema di regole vissute come
norme di buona creanza sociale, ma alla cui creazione non
si è collaborato. Un po’ come le convenzioni della lingua parlata e
scritta e quelle sul modo di vestire. E le istituzioni come presidio di quelle
regole, in una sorta di polizia sociale.
Certo, anche la democrazia esprime istituzioni e quindi ha le sue regole,
ma esse non ne sono la caratteristica principale e la sua ragion d’essere.
Anche altri regimi politici non democratici hanno istituzioni e regole e, con
esse, si propongono di mantenere un ordine sociale, quindi,
fondamentalmente, di stabilizzare un ceto assetto di potere
sociale, secondo il quale c’è chi domina e chi è dominato e chi domina vive
meglio. In democrazia, invece, ci si propone di assecondare i moti sociali che
pongono in conflitto i gruppi che compongono le società, consentendo il cambiamento
sociale, e quindi anche di regole e istituzioni, senza che le dinamiche di
conflitto distruggano le società o generino infelicità sociale nei processi di
dissoluzione o di repressione. Il suo metodo politico è quello della
limitazione di ogni potere mediante la pressione della partecipazione popolare
attiva mediante dialogo sociale e persuasione personale. Il principio fondante
della democrazia è che nessuno potere sociale sia illimitato: questo fa spazio
per la partecipazione. Proprio perché ci si propone di assecondare il movimento
sociale che deriva dal mutare fisiologico delle società, la democrazia è tenuta
programmaticamente in una condizione di instabilità controllata. Proprio quella
che i regimi non democratici temono.
La nostra dottrina sociale è ancora piuttosto affascinata
dall’idea che, a livello mondiale, ci debba essere, e vada quindi istituita,
un’autorità superiore che metta ordine nel mondo e lo mantenga,
mettendo in tal modo fine ai confitti sociali. E’ il modo in cui si ripropone
il modello medievale dell’impero religioso. In questa concezione il
governo della società è essenzialmente affare di istituzioni, che
si vorrebbero coordinate tra loro in modo che ce ne sia una
al vertice alla quale sia riconosciuto il massimo potere e che quindi spenga i
conflitti. Fino al magistero di papa Francesco, i Papi nella loro dottrina
sociale in genere si rivolsero, infatti, ai governanti, vale a
dire alle persone che esercitavano autorità politica nelle istituzioni di
governo, dando loro dei precetti d’azione, che, al di là della
loro formulazione come regole solamente morali, avevano la natura di
direttive politiche, come quella, che ricorre spesso dagli anni ’40 del secolo
scorso, di porre fine alle guerre. Questo accade perché la teologia della
dottrina sociale in materia di democrazia è veramente poco sviluppata, anche
nel magistero di papa Francesco, e questo sebbene, in esso, abbia un posto
molto rilevante l’idea di popolo. In realtà la democrazia è
essenzialmente cosa che riguarda coloro che, nella concezione politica che
distingue governanti e governati, sono indicati come
i governati. È infatti un metodo che li vuole elevare alla partecipazione
al governo della società senza mai farne dei governanti, vale a dire dei
monopolisti del potere politico mediante il controllo delle istituzioni. Quindi
vuole abolire la distinzione tra governanti e governati.
La partecipazione democratica al governo, in quanto pluralistica e
programmaticamente nonviolenta, può avvenire solo nel dialogo,
nel quale ai partecipanti sia riconosciuta la medesimo dignità
politica e sociale: questa è la politica secondo la
concezione democratica. E’ molto chiaro che la nostra Chiesa è ancora
strutturata, invece, secondo il modello governanti / governati e quindi
quando superficialmente, alle proposte dei cristiani persuasi della democrazia,
si sbotta “Ma la Chiesa non è una democrazia”, si dice una cosa vera. Ma
se poi si vuole anche intendere che la Chiesa non potrà essere mai una
democrazia, perché le è connaturata l’autocrazia secondo la quale è
stata organizzata fin dall’alto Medioevo, e la religione svanirebbe con una
diversa organizzazione, si dice una cosa senza fondamento, perché, non solo,
dal punto di vista concettuale, la Chiesa potrebbe senz’altro assimilare
i processi democratici senza alcun danno per l’essenziale della fede, anzi con
molti vantaggi per essa, ma dall’esperienza storica di altre Chiese cristiane
emerge che la democrazia può effettivamente essere realizzata anche in
religione. La profonda diffidenza delle istituzioni religiose cattoliche,
quindi dei nostri governanti religiosi, vale a dire della gerarchia
religiosa cattolica, verso i processi democratici, comporta che la formazione
religiosa non comprende ancora, se non per il ceto intellettuale, una
formazione ai processi democratici e, anche dove si fa, con la prescrizione di
agire democraticamente solo fuori della Chiesa, pena il
disconoscimento e l’emarginazione. Questo è stato finora il destino di chi ha
cercato di agire e pensare diversamente. La nostra Chiesa è
fondamentalmente ancora organizzata come un’autocrazia sacrale che
umilia i governati. E questa umiliazione, vista come manifestazione di obbedienza
filiale, di docilità, viene addirittura presentata come una virtù.
Questo effettivamente ostacola i processi democratici che richiedono,
invece, una elevazione in dignità e la consapevolezza
della propria dignità sociale.
Ecco che cosa la filosofa Hanna Arendt scrisse su questi temi [da
uno dei saggi raccolti nel libro Che cosa è la politica, edito da
Einaudi anche in e-book]:
«[…] Dietro i pregiudizi nei confronti della politica si celano la
paura che l’umanità possa autoeliminarsi mediante la politica e gli
strumenti di violenza di cui dispone , e, in stretta connessione con tale
paura, la speranza che l’umanità si ravveda e, anziché se stessa, tolga di
mezzo la politica, ricorrendo a un governo universale che dissolva lo
stato in una macchina amministrativa, risolva i conflitti politici per via
burocratica e sostituisca gli eserciti con schiere di poliziotti. Certo tale
speranza è del tutto utopica se per politica si intende, come normalmente avviene
una relazione tra governanti e governati. In questa ottica, invece di una
abolizione del politico otterremmo una forma dispotica di governo di dimensioni
mostruose, in cui lo iato tra governanti e governati assumerebbe proporzioni
così gigantesche da impedire qualunque ribellione, e tanto più
qualunque forma di controllo dei governanti da parte dei governati. Tale
carattere dispotico non cambierebbe neppure qualora in quel regime mondiale non
si potesse più individuare una persona, un despota; infatti il dominio
burocratico, il dominio mediante l’anonimità degli uffici, non è meno dispotico
perché “nessuno” lo esercita; al contrario: è ancora più terribile, perché
nessuno può parare o presentare reclamo a quel Nessuno. Se però per politico si
intende una sfera del mondo dove gli uomini si presentano primariamente
come soggetti attivi, e dove conferiscono alle umane faccende una stabilità che
altrimenti non le riguarderebbe, la speranza appare tutt’altro che utopica. L’eliminazione
degil uomini in quanto soggetti attivi è riuscita spesso nella storia, sebbene
non a livello mondiale: sia sotto forma di quella tirannide che oggi ci
sembra antiquata, dove la volontà di un uomo pretendeva totale libertà di
azione, sia sotto forma del moderno totalitarismo, dove si vorrebbe liberare la
presunta superiorità dei processi e delle “energie storiche” impersonali
e sottomettervi gli uomini.»
Data l’importanza politica che la nostra Chiesa ha sempre avuto
nelle questioni italiane, tutto ciò ha inciso molto negativamente
nell’acculturazione democratica della nostra gente, in particolare a partire
dal durissimo contrasto del Papato, nell’Ottocento, contro l’irredentismo
italiano durante il nostro Risorgimento. Tra pochi giorni ricorre il
centocinquantesimo anniversario della soppressione, mediante conquista militare
cruenta, con decine di morti da ambo le parti, dello Stato Pontificio da
parte del Regno d’Italia, il 20 Settembre 1870. Una istituzione ormai
obsoleta, quel regno del Papato nel Centro Italia, rifiutava ostinatamente di
evolvere, e, anche in quel caso, come sempre quando si affrontano temi simili,
fu questione di potere politico e di proprietà, non di religione (tra i
precetti evangelici, quello di costituire un regno territoriale
religioso in Italia - o altrove - non c’è). Ma la tragedia più
grande non fu quella, quanto invece la susseguente decisione del Papa all’epoca
regnante, Giovanni Battista Mastai Ferretti - Pio 9°, nel 2000 proclamato beato,
di ordinare ai cattolici, sotto pena di scomunica, di non partecipare alla
democrazia nazionale nel Regno d’Italia, e questo per sostenere le
rivendicazioni territoriali del Papato su Roma. E, in effetti, il governo
nazionale del Regno d’Italia, quello che aveva deciso la conquista del regno
pontificio, era espresso da una democrazia liberale, anche se escludeva ancora
le donne, gli incolti, i meno abbienti. La democrazia e il liberalismo,
che della democrazia aveva posto i fondamenti culturali, erano temuti dal
Papato come fonte di insubordinazione, di usurpazione di poteri
sacralizzati e di predazione dei patrimoni delle istituzioni religiose.
Contro di essi si cercò di far insorgere il popolo italiano nel
presupposto che fosse rimasto nonostante tutto nella condizione di gregge
sottomesso all’autocrazia sacrale del Papato. Questo sostanzialmente l’ordine
di idee sotteso anche alla prima dottrina sociale, in dura polemica
politica con il liberalismo e il socialismo (il movimento che intendeva
promuovere l’elevazione sociale del proletariato - proprio così definito
nell’enciclica Le novità, del 1891, del papa Leone 13°- Vincenzo
Gioacchino Pecci). In realtà i processi democratici che da fine
Ottocento coinvolsero anche il laicato cattolico portarono poi, in un lungo e
travagliato processo nel quale l’Azione Cattolica fu protagonista, a
ridefinirne il senso, appunto in direzione dei principi democratici. Questo
consentì poi ai cattolici democratici italiani di avere un ruolo assolutamente
di primo piano nella costruzione della nuova Repubblica democratica, dopo la
vittoria sul fascismo mussoliniano, e poi nel governo nazionale fino al
1994. Ciò però fu possibile solo quando, dal 1939, il Papato richiese
il superamento del fascismo mediante processi democratici, con una serie di
radiomessaggi che costituirono la nuova base ideologica in particolare per i
gruppi intellettuali in Azione Cattolica. Quindi, in fondo,
l’emancipazione politica dall’autocrazia religiosa è ancora da
conquistare. Finché non ci sarà dal Papato un via libera per costruire,
all’interno del pensiero sociale cattolica, una sezione sulla democrazia che
trovi base anche in una teologia sulla democrazia (la dottrina sociale è
considerata una branca della teologia), è poco probabile che accada qualcosa di
nuovo e che quindi si inneschino processi di reale riforma.
Questo non toglie che si possa cominciare dalla base, nelle realtà
di prossimità come le parrocchie, da un tirocinio pratico di
democrazia, negli spazi (pochi), lasciati liberi, per acquisirne dimestichezza
e imparare come fare, e anche per convincersi che funziona. Questo
tirocinio potrebbe poi essere progressivamente esteso, tenendo conto che, come
in genere si scrive, la democrazia è in crisi un po’ in tutti i settori della
società, anche in quelli che la praticavano, e, in questa condizione, assumono
un rilievo preponderante le istituzioni, però sempre meno collegate a
una vita democratica diffusa e quindi sentite sempre più distanti e
indifferenti, e quindi avviate verso una sorta di tirannia
istituzionale, in quella che recentemente si è denominata, con una
certa ironia, democratura, vale a dire un sistema sostanzialmente di dittatura
ma formalmente ancora democratico.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro -
Valli