Discorso di papa
Francesco del 6-5-16, in occasione del ritiro del premio Carlo Magno - Cronache e commenti
Di solito mi propongo di essere parco nel
pubblicare/commentare la strabordante letteratura pontificia, ma qualche volta
devo fare delle eccezioni: ad esempio per il discorso tenuto il 6-5-16 da papa
Francesco in occasione del ritiro, a Roma, del premio Carlo Magno. Esso ha
segnato un decisivo cambio di rotta politico rispetto alle posizioni dei papi
Wojtyla e Ratzinger, soprattutto dal primo, come rilevato dall’articolo di
Alberto Melloni dal titolo La differenza
delle ricchezze, pubblicato su La
Repubblica del 7-5-16. Naturalmente
il Papa non lo ha esplicitato: i nostri capi religiosi mancano quasi totalmente
di capacità autocritica e questo è un grande problema.
La lunga pace vissuta dall’Europa dal secondo
dopoguerra è stata prodotta anche da una riflessione autocritica sulla propria
storia religiosa, ma si ragionava ancora in una prospettiva continentale.
Quello che si è prodotto dagli anni ’90 è la manifestazione di un problema
completamente diverso, che possiamo considerare l’onda lunga degli effetti del
colonialismo europeo, per cui i discendenti dei popoli colonizzati vedono nell’Europa
il continente-madre, del quale talvolta hanno anche adottato le lingue
nazionali e comunque quasi sempre gran parte della cultura, mentre gli europei
di oggi rifiutano questo ruolo, avendo pensato di aver chiuso con il
colonialismo cessando di amministrare le parti dell’Africa e dell’Asia cadute
nel loro dominio.
Di seguito pubblico il discorso del Papa,
trovato suo WEB su <vatican.va> e
cronache e commenti ad esso relativi pubblicati su La Stampa e La Repubblica del 7-5-16.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in san Clemente
papa - Roma, Monte Sacro - Valli
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CONFERIMENTO DEL PREMIO CARLO MAGNO
DISCORSO
DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Sala Regia
Venerdì, 6 maggio 2016
Illustri Ospiti,
vi porgo il mio cordiale benvenuto e vi
ringrazio per la vostra presenza. Sono grato in particolare ai Signori Marcel
Philipp, Jürgen Linden, Martin Schulz, Jean-Claude Juncker e Donald Tusk per le
loro cortesi parole. Desidero ribadire la mia intenzione di offrire il
prestigioso Premio, di cui vengo onorato, per l’Europa: non compiamo infatti un
gesto celebrativo; cogliamo piuttosto l’occasione per auspicare insieme uno
slancio nuovo e coraggioso per questo amato Continente.
La creatività, l’ingegno, la capacità di
rialzarsi e di uscire dai propri limiti appartengono all’anima dell’Europa. Nel
secolo scorso, essa ha testimoniato all’umanità che un nuovo inizio era
possibile: dopo anni di tragici scontri, culminati nella guerra più terribile
che si ricordi, è sorta, con la grazia di Dio, una novità senza precedenti
nella storia. Le ceneri delle macerie non poterono estinguere la speranza e la
ricerca dell’altro, che arsero nel cuore dei Padri fondatori del progetto
europeo. Essi gettarono le fondamenta di un baluardo di pace, di un edificio
costruito da Stati che non si sono uniti per imposizione, ma per la libera
scelta del bene comune, rinunciando per sempre a fronteggiarsi. L’Europa, dopo
tante divisioni, ritrovò finalmente sé stessa e iniziò a edificare la sua casa.
Questa «famiglia di popoli»[1], lodevolmente diventata nel frattempo più
ampia, in tempi recenti sembra sentire meno proprie le mura della casa comune,
talvolta innalzate scostandosi dall’illuminato progetto architettato dai Padri.
Quell’atmosfera di novità, quell’ardente desiderio di costruire l’unità paiono
sempre più spenti; noi figli di quel sogno siamo tentati di cedere ai nostri
egoismi, guardando al proprio utile e pensando di costruire recinti
particolari. Tuttavia, sono convinto che la rassegnazione e la stanchezza non
appartengono all’anima dell’Europa e che anche «le difficoltà possono diventare
promotrici potenti di unità»[2].
Nel Parlamento europeo mi
sono permesso di parlare di Europa nonna. Dicevo agli Eurodeputati che da
diverse parti cresceva l’impressione generale di un’Europa stanca e invecchiata,
non fertile e vitale, dove i grandi ideali che hanno ispirato l’Europa sembrano
aver perso forza attrattiva; un’Europa decaduta che sembra abbia perso la sua
capacità generatrice e creatrice. Un’Europa tentata di voler assicurare e
dominare spazi più che generare processi di inclusione e trasformazione;
un’Europa che si va “trincerando” invece di privilegiare azioni che promuovano
nuovi dinamismi nella società; dinamismi capaci di coinvolgere e mettere in
movimento tutti gli attori sociali (gruppi e persone) nella ricerca di nuove
soluzioni ai problemi attuali, che portino frutto in importanti avvenimenti
storici; un’Europa che lungi dal proteggere spazi si renda madre generatrice di
processi (cfr Esort. ap.Evangelii gaudium, 223).
Che cosa ti è successo, Europa umanistica,
paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà? Che cosa ti è
successo, Europa terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti, letterati? Che
cosa ti è successo, Europa madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini e
donne che hanno saputo difendere e dare la vita per la dignità dei loro
fratelli?
Lo scrittore Elie Wiesel, sopravvissuto ai
campi di sterminio nazisti, diceva che oggi è capitale realizzare una
“trasfusione di memoria”. E’ necessario “fare memoria”, prendere un po’ di
distanza dal presente per ascoltare la voce dei nostri antenati. La memoria non
solo ci permetterà di non commettere gli stessi errori del passato (cfr Esort.
ap. Evangelii gaudium, 108), ma ci darà accesso
a quelle acquisizioni che hanno aiutato i nostri popoli ad attraversare
positivamente gli incroci storici che andavano incontrando. La trasfusione
della memoria ci libera da quella tendenza attuale spesso più attraente di
fabbricare in fretta sulle sabbie mobili dei risultati immediati che potrebbero
produrre «una rendita politica facile, rapida ed effimera, ma che non
costruiscono la pienezza umana» (ibid., 224).
A tal fine ci farà bene evocare i Padri
fondatori dell’Europa. Essi seppero cercare strade alternative, innovative in
un contesto segnato dalle ferite della guerra. Essi ebbero l’audacia non solo
di sognare l’idea di Europa, ma osarono trasformare radicalmente i modelli che
provocavano soltanto violenza e distruzione. Osarono cercare soluzioni
multilaterali ai problemi che poco a poco diventavano comuni.
Robert Schuman, in quello che molti
riconoscono come l’atto di nascita della prima comunità europea, disse:
«L’Europa non si farà in un colpo solo, né attraverso una costruzione d’insieme;
essa si farà attraverso realizzazioni concrete, creanti anzitutto una
solidarietà di fatto»[3]. Proprio ora, in questo nostro mondo
dilaniato e ferito, occorre ritornare a quella solidarietà di fatto,
alla stessa generosità concreta che seguì il secondo conflitto
mondiale, perché – proseguiva Schuman – «la pace mondiale non potrà essere
salvaguardata senza sforzi creatori che siano all’altezza dei pericoli che la
minacciano»[4]. I progetti dei Padri fondatori, araldi
della pace e profeti dell’avvenire, non sono superati: ispirano, oggi più che
mai, a costruire ponti e abbattere muri. Sembrano esprimere un accorato invito
a non accontentarsi di ritocchi cosmetici o di compromessi tortuosi per
correggere qualche trattato, ma a porre coraggiosamente basi nuove, fortemente
radicate; come affermava Alcide De Gasperi, «tutti egualmente animati
dalla preoccupazione del bene comune delle nostre patrie europee, della nostra
Patria Europa», ricominciare, senza paura un «lavoro costruttivo che esige
tutti i nostri sforzi di paziente e lunga cooperazione»[5].
Questa trasfusione della memoria ci permette
di ispirarci al passato per affrontare con coraggio il complesso quadro
multipolare dei nostri giorni, accettando con determinazione la sfida di
“aggiornare” l’idea di Europa. Un’Europa capace di dare alla luce un nuovo
umanesimo basato su tre capacità: la capacità di integrare, la capacità di
dialogare e la capacità di generare.
Capacità di integrare
Erich Przywara, nella sua magnifica opera L’idea
di Europa, ci sfida a pensare la città come un luogo di convivenza tra
varie istanze e livelli. Egli conosceva quella tendenza riduzionistica che
abita in ogni tentativo di pensare e sognare il tessuto sociale. La bellezza
radicata in molte delle nostre città si deve al fatto che sono riuscite a conservare
nel tempo le differenze di epoche, di nazioni, di stili, di visioni. Basta
guardare l’inestimabile patrimonio culturale di Roma per confermare ancora una
volta che la ricchezza e il valore di un popolo si radica proprio nel saper
articolare tutti questi livelli in una sana convivenza. I riduzionismi e tutti
gli intenti uniformanti, lungi dal generare valore, condannano i nostri popoli
a una crudele povertà: quella dell’esclusione. E lungi dall’apportare
grandezza, ricchezza e bellezza, l’esclusione provoca viltà, ristrettezza e
brutalità. Lungi dal dare nobiltà allo spirito, gli apporta meschinità.
Le radici dei nostri popoli, le radici
dell’Europa si andarono consolidando nel corso della sua storia imparando a
integrare in sintesi sempre nuove le culture più diverse e senza apparente
legame tra loro. L’identità europea è, ed è sempre stata, un’identità dinamica
e multiculturale.
L’attività politica sa di avere tra le mani
questo lavoro fondamentale e non rinviabile. Sappiamo che «il tutto è più delle
parti, e anche della loro semplice somma», per cui si dovrà sempre lavorare per
«allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a
tutti noi» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 235). Siamo invitati a
promuovere un’integrazione che trova nella solidarietà il modo in cui fare le
cose, il modo in cui costruire la storia. Una solidarietà che non può mai
essere confusa con l’elemosina, ma come generazione di opportunità perché tutti
gli abitanti delle nostre città – e di tante altre città – possano sviluppare
la loro vita con dignità. Il tempo ci sta insegnando che non basta il solo
inserimento geografico delle persone, ma la sfida è una forte integrazione
culturale.
In questo modo la comunità dei popoli europei
potrà vincere la tentazione di ripiegarsi su paradigmi unilaterali e di
avventurarsi in “colonizzazioni ideologiche”; riscoprirà piuttosto l’ampiezza
dell’anima europea, nata dall’incontro di civiltà e popoli, più vasta degli
attuali confini dell’Unione e chiamata a diventare modello di nuove sintesi e
di dialogo. Il volto dell’Europa non si distingue infatti nel contrapporsi ad
altri, ma nel portare impressi i tratti di varie culture e la bellezza di
vincere le chiusure. Senza questa capacità di integrazione le parole
pronunciate da Konrad Adenauer nel passato risuoneranno oggi come profezia di
futuro: «Il futuro dell’Occidente non è tanto minacciato dalla tensione
politica, quanto dal pericolo della massificazione, della uniformità del
pensiero e del sentimento; in breve, da tutto il sistema di vita, dalla fuga
dalla responsabilità, con l’unica preoccupazione per il proprio io»[6].
Capacità di dialogo
Se c’è una parola che dobbiamo ripetere fino
a stancarci è questa: dialogo. Siamo invitati a promuovere una cultura del
dialogo cercando con ogni mezzo di aprire istanze affinché questo sia possibile
e ci permetta di ricostruire il tessuto sociale. La cultura del dialogo implica
un autentico apprendistato, un’ascesi che ci aiuti a riconoscere l’altro come
un interlocutore valido; che ci permetta di guardare lo straniero, il migrante,
l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerato e
apprezzato. E’ urgente per noi oggi coinvolgere tutti gli attori sociali nel
promuovere «una cultura che privilegi il dialogo come forma di incontro»,
portando avanti «la ricerca di consenso e di accordi, senza però separarla
dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni»
(Esort. ap. Evangelii gaudium, 239). La pace sarà
duratura nella misura in cui armiamo i nostri figli con le armi del dialogo,
insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione. In tal
modo potremo lasciare loro in eredità una cultura che sappia delineare
strategie non di morte ma di vita, non di esclusione ma di integrazione.
Questa cultura del dialogo, che dovrebbe
essere inserita in tutti i curriculi scolastici come asse trasversale delle
discipline, aiuterà ad inculcare nelle giovani generazioni un modo di risolvere
i conflitti diverso da quello a cui li stiamo abituando. Oggi ci urge poter
realizzare “coalizioni” non più solamente militari o economiche ma culturali,
educative, filosofiche, religiose. Coalizioni che mettano in evidenza che,
dietro molti conflitti, è spesso in gioco il potere di gruppi economici.
Coalizioni capaci di difendere il popolo dall’essere utilizzato per fini
impropri. Armiamo la nostra gente con la cultura del dialogo e dell’incontro.
Capacità di generare
Il dialogo e tutto ciò che esso comporta ci
ricorda che nessuno può limitarsi ad essere spettatore né mero osservatore.
Tutti, dal più piccolo al più grande, sono parte attiva nella costruzione di
una società integrata e riconciliata. Questa cultura è possibile se tutti
partecipiamo alla sua elaborazione e costruzione. La situazione attuale non
ammette meri osservatori di lotte altrui. Al contrario, è un forte appello alla
responsabilità personale e sociale.
In questo senso i nostri giovani hanno un
ruolo preponderante. Essi non sono il futuro dei nostri popoli, sono il
presente; sono quelli che già oggi con i loro sogni, con la loro vita stanno
forgiando lo spirito europeo. Non possiamo pensare il domani senza offrire loro
una reale partecipazione come agenti di cambiamento e di trasformazione. Non
possiamo immaginare l’Europa senza renderli partecipi e protagonisti di questo
sogno.
Ultimamente ho riflettuto su questo aspetto e
mi sono chiesto: come possiamo fare partecipi i nostri giovani di questa
costruzione quando li priviamo di lavoro; di lavori degni che permettano loro
di svilupparsi per mezzo delle loro mani, della loro intelligenza e delle loro
energie? Come pretendiamo di riconoscere ad essi il valore di protagonisti,
quando gli indici di disoccupazione e sottoccupazione di milioni di giovani
europei sono in aumento? Come evitare di perdere i nostri giovani, che
finiscono per andarsene altrove in cerca di ideali e senso di appartenenza
perché qui, nella loro terra, non sappiamo offrire loro opportunità e valori?
«La giusta distribuzione dei frutti della
terra e del lavoro umano non è mera filantropia. E’ un dovere morale».[7] Se vogliamo pensare le nostre
società in un modo diverso, abbiamo bisogno di creare posti di lavoro dignitoso
e ben remunerato, specialmente per i nostri giovani.
Ciò richiede la ricerca di nuovi modelli
economici più inclusivi ed equi, non orientati al servizio di pochi, ma al
beneficio della gente e della società. E questo ci chiede il passaggio da
un’economia liquida a un’economia sociale. Penso ad esempio all’economia
sociale di mercato, incoraggiata anche dai miei Predecessori (cfr Giovanni
Paolo II, Discorso all’Ambasciatore della R.F. di Germania, 8
novembre 1990). Passare da un’economia che punta al reddito e al profitto in
base alla speculazione e al prestito a interesse ad un’economia sociale che
investa sulle persone creando posti di lavoro e qualificazione.
Dobbiamo passare da un’economia liquida, che
tende a favorire la corruzione come mezzo per ottenere profitti, a un’economia
sociale che garantisce l’accesso alla terra, al tetto per mezzo del lavoro come
ambito in cui le persone e le comunità possano mettere in gioco «molte
dimensioni della vita: la creatività, la proiezione nel futuro, lo sviluppo
delle capacità, l’esercizio dei valori, la comunicazione con gli altri, un
atteggiamento di adorazione. Perciò la realtà sociale del mondo di oggi, al di
là degli interessi limitati delle imprese e di una discutibile razionalità
economica, esige che “si continui a perseguire quale priorità
l’obiettivo dell’accesso al lavoro […] per tutti”[8]» (Enc. Laudato si’, 127).
Se vogliamo mirare a un futuro che sia
dignitoso, se vogliamo un futuro di pace per le nostre società, potremo
raggiungerlo solamente puntando sulla vera inclusione: «quella che dà il lavoro
dignitoso, libero, creativo, partecipativo e solidale».[9]Questo passaggio (da un’economia liquida a
un’economia sociale) non solo darà nuove prospettive e opportunità concrete di
integrazione e inclusione, ma ci aprirà nuovamente la capacità di sognare
quell’umanesimo, di cui l’Europa è stata culla e sorgente.
Alla rinascita di un’Europa affaticata, ma
ancora ricca di energie e di potenzialità, può e deve contribuire la Chiesa. Il
suo compito coincide con la sua missione: l’annuncio del Vangelo, che oggi più
che mai si traduce soprattutto nell’andare incontro alle ferite dell’uomo,
portando la presenza forte e semplice di Gesù, la sua misericordia consolante e
incoraggiante. Dio desidera abitare tra gli uomini, ma può farlo solo
attraverso uomini e donne che, come i grandi evangelizzatori del continente,
siano toccati da Lui e vivano il Vangelo, senza cercare altro. Solo una Chiesa
ricca di testimoni potrà ridare l’acqua pura del Vangelo alle radici
dell’Europa. In questo, il cammino dei cristiani verso la piena unità è un
grande segno dei tempi, ma anche l’esigenza urgente di rispondere all’appello
del Signore «perché tutti siano una sola cosa» (Gv 17,21).
Con la mente e con il cuore, con speranza e
senza vane nostalgie, come un figlio che ritrova nella madre Europa le sue
radici di vita e di fede, sogno un nuovo umanesimo europeo, «un
costante cammino di umanizzazione», cui servono «memoria, coraggio, sana e
umana utopia»[10]. Sogno un’Europa giovane, capace di
essere ancora madre: una madre che abbia vita, perché rispetta la vita e offre
speranze di vita. Sogno un’Europa che si prende cura del bambino, che soccorre
come un fratello il povero e chi arriva in cerca di accoglienza perché non ha
più nulla e chiede riparo. Sogno un’Europa che ascolta e valorizza le persone
malate e anziane, perché non siano ridotte a improduttivi oggetti di scarto.
Sogno un’Europa, in cui essere migrante non è delitto, bensì un invito ad un
maggior impegno con la dignità di tutto l’essere umano. Sogno un’Europa dove i
giovani respirano l’aria pulita dell’onestà, amano la bellezza della cultura e
di una vita semplice, non inquinata dagli infiniti bisogni del consumismo; dove
sposarsi e avere figli sono una responsabilità e una gioia grande, non un
problema dato dalla mancanza di un lavoro sufficientemente stabile. Sogno
un’Europa delle famiglie, con politiche veramente effettive, incentrate sui
volti più che sui numeri, sulle nascite dei figli più che sull’aumento dei
beni. Sogno un’Europa che promuove e tutela i diritti di ciascuno, senza
dimenticare i doveri verso tutti. Sogno un’Europa di cui non si possa dire che
il suo impegno per i diritti umani è stato la sua ultima utopia. Grazie.
[3] Dichiarazione del 9 Maggio 1950, Salon
de l’Horloge, Quai d’Orsay, Parigi.
[5] Discorso alla Conferenza Parlamentare
Europea, Parigi, 21 aprile
1954.
[6] Discorso all'Assemblea degli artigiani
tedeschi, Düsseldorf, 27
aprile 1952.
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CRONACHE E COMMENTI