La riforma. Il discorso di papa Francesco a Firenze
Ieri a
Firenze il nostro vescovo e padre universale, rivolgendosi ai delegati del 5° Convegno ecclesiale nazionale In Gesù Cristo il nuovo umanesimo. ha parlato esplicitamente di riforma delle nostre collettività
religiose e ha presentato la fede come un’esperienza
rivoluzionaria, esortandoci a cambiare, perché il mondo cambia. E’ necessario lottare perché diventi
migliore, ha detto. Bisogna assumersi le proprie responsabilità di
cittadini per costruire un nazione migliore. Ciò richiede capacità di dialogo,
che significa innanzi tutto volere e sapere partecipare ad un lavoro collettivo,
costruendo insieme, facendo progetti. Pensando sempre anche a chi sta peggio,
ai poveri, cercandone l’inclusione sociale. Questo può voler dire confrontarsi
in realtà conflittuali. Incontrando gli altri può accadere, nello sforzo di
realizzare il bene comune, di essere coinvolti in conflitti. Non si deve temerli né ignorarli ma accettarli e, sopportandoli, risolverli e
trasformarli in anelli di collegamento di un nuovo processo. Tenendo conto
però che “non esiste umanesimo autentico
che non contempli l’amore come vincolo tra gli esseri umani, sia esso di natura
interpersonale, intima, sociale, politica o intellettuale”.
Il dialogo non deve invece risolversi in contrattazione per ottenere benefici materiali e spazi di potere:
"...non dobbiamo essere ossessionati dal 'potere', anche quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine sociale della Chiesa."
Umiltà, disinteresse e beatitudine sono, a suo
avviso, le virtù che ci occorrono in questo momento. Ci consentono di vivere
collettivamente la fede come un’esperienza
gioiosa di popolo.
Bisogna evitare di pensare di poter avere il
controllo di tutto ciò che accade in
religione senza l’aiuto soprannaturale (secondo l’antico pensiero della
corrente culturale pelagiana - ispirata dal monaco Pelagio nel 5° secolo) e
di presentare la fede vissuta dal popolo
come un insieme di ragionamenti rigorosi,
una conoscenza di livello superiore, accessibile solo ad una cerchia di
illuminati (secondo l’antica ideologia della corrente culturale dello
gnosticismo, diffusasi tra il 2° e il 4° secolo).
“Se perdiamo questo contatto con il popolo fedele
di Dio perdiamo in umanità e non andiamo da nessuna parte.”
Che cosa occorre fare?
Spetta a noi deciderlo, popolo e pastori insieme, ha detto.
Ma non bisogna confidare troppo nelle riforme
di struttura, ispirate ad uno stile di
controllo, di durezza, di normatività.
“La Chiesa italiana si lasci
portare dal suo soffio potente e per questo, a volte, inquietante. Assuma
sempre lo spirito dei suoi grandi esploratori, che sulle navi sono stati
appassionati della navigazione in mare aperto e non spaventati dalle frontiere
e delle tempeste. Sia una Chiesa libera e aperta alle sfide del presente, mai
in difensiva per timore di perdere qualcosa.
[…]
Davanti ai
mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi
e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure
culturalmente hanno capacità di essere significative. La dottrina cristiana non
è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi.
[…]
La riforma della Chiesa poi – e la Chiesa è “semper reformanda” [=sempre bisognosa di riforma] […]. Essa non si esaurisce nell’ennesimo piano per cambiare le strutture.
Significa invece innestarsi e radicarsi in Cristo lasciandosi condurre dallo
Spirito. Allora tutto sarà possibile con genio e creatività.
La Chiesa
italiana si lasci portare dal suo soffio potente e per questo, a volte,
inquietante. Assuma sempre lo spirito dei suoi grandi esploratori, che sulle
navi sono stati appassionati della navigazione in mare aperto e non spaventati
dalle frontiere e delle tempeste. Sia una Chiesa libera e aperta alle sfide del
presente, mai in difensiva per timore di perdere qualcosa”.
Ai vescovi ha chiesto di essere
solo pastori, con la gioia di essere sostenuti dal popolo. Non devono predicare
complesse dottrine, ma limitarsi all’essenziale. E l’annuncio della fede deve
coinvolgere tutto il popolo religioso.
Ai parroci ha proposto il modello
del letterario don Camillo dello
scrittore Giovannino Guareschi, in particolare
nella vicinanza alla gente e nella preghiera.
“Vicinanza alla gente e preghiera sono la chiave
per vivere un umanesimo cristiano popolare, umile, generoso, lieto. Se perdiamo
questo contatto con il popolo fedele di Dio perdiamo in umanità e non andiamo
da nessuna parte.”
Ci ha chiesto di saper “anche dare una risposta chiara davanti alle
minacce che emergono all’interno del dibattito pubblico”. “I credenti sono cittadini” ha detto, e “la nazione non è un museo, ma è un’opera
collettiva in permanente costruzione in cui sono da mettere in comune proprio
le cose che differenziano, incluse le appartenenze politiche o religiose”
Ci ha esortati a non disprezzare
i giovani e la loro giovinezza. A loro
ha chiesto di essere “costruttori
dell’Italia”, di non rimanere apatici al
balcone della vita, di mettersi “al
lavoro per una Italia migliore” impegnandosi “nell’ampio dialogo sociale e politico”.
“Le mani della vostra fede - ha detto - si alzino verso il
cielo, ma lo facciano mentre edificano una città costruita su rapporti in cui
l’amore di Dio è il fondamento. E così sarete liberi di accettare le sfide
dell’oggi, di vivere i cambiamenti e le trasformazioni.”
Bisogna convincersi che viviamo
un cambiamento d’epoca. Siamo davanti a sfide nuove che per noi a volte sono
persino difficili da comprendere. Ma “questo
nostro tempo richiede di vivere i problemi come sfide e non come ostacoli”.
“Il
Signore è attivo e all’opera nel mondo”. Dunque, su modello evangelico occorre uscire
per le strade e andare ai crocicchi e
chiamare tutti quelli che troveremo nessuno escluso (cfr Mt 22,9), soprattutto
accompagnando accompagnate chi è rimasto al bordo della strada, «zoppi, storpi,
ciechi, sordi» (Mt 15,30). Non costruendo mai, dovunque si sia, muri né
frontiere, ma piazze e ospedali da campo.
Ha concluso:
“Mi piace
una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai
dimenticati, agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che
comprende, accompagna, accarezza. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in
essa, innovate con libertà. L’umanesimo cristiano che siete chiamati a vivere
afferma radicalmente la dignità di ogni persona come Figlio di Dio, stabilisce
tra ogni essere umano una fondamentale fraternità, insegna a comprendere il
lavoro, ad abitare il creato come casa comune, fornisce ragioni per l’allegria
e l’umorismo, anche nel mezzo di una vita tante volte molto dura. “
proponendoci di avviare, con stile sinodale, un approfondimento dei temi
della sua esortazione apostolica La gioia
del Vangelo.
Una prima
osservazione mi sento di fare, dopo aver letto il discorso di ieri del nostro
vescovo e padre universale: egli sta impersonando la riforma più difficile,
quella che nel Concilio Vaticano 2° è
stata appena abbozzata, quella del papato romano. Ancor prima di definirla in
termini teologici, la sta vivendo, realizzandola nella pratica quotidiana. La
teologia, probabilmente verrà dopo. E’ così, in fondo, per ogni vera riforma.
I gerarchi religiosi pensano di riformare d’autorità, i teologi di scoprire ciò che c’è da
riformare, ma ogni autentica riforma viene innanzi tutto vissuta dal popolo. Però, perché i processi di riforma vadano nel senso di quel nuovo umanesimo indotto
dalla fede di cui si tratta nel convegno fiorentino, è necessario che tutti e
tre gli agenti della riforma procedano uniti, gerarchia,
teologia e tutti gli altri fedeli: tutto il popolo di fede, in un processo
sinodale, ognuno dando un contributo secondo le sue capacità e ruolo, nella
gioia, nella speranza, nel dialogo costruttivo con tutti, lasciandosi
commuovere dalla “tenerezza della carne del fratello”.
Mario Ardigò - Azione Cattolica
in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
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Discorso tenuto il 10-11-15
da Papa Francesco, nella cattedrale di Firenze, ai delegati del 5° Convegno
ecclesiale nazionale In Gesù Cristo il
nuovo umanesimo.
Cari fratelli e sorelle,
nella cupola di questa bellissima Cattedrale è
rappresentato il Giudizio universale. Al centro c’è Gesù, nostra luce.
L’iscrizione che si legge all’apice dell’affresco è “Ecce Homo”. Guardando questa cupola siamo attratti verso
l’alto, mentre contempliamo la trasformazione del Cristo giudicato da Pilato
nel Cristo assiso sul trono del giudice. Un angelo gli porta la spada, ma Gesù
non assume i simboli del giudizio, anzi solleva la mano destra mostrando i
segni della passione, perché Lui «ha dato sé stesso in riscatto per tutti» (1
Tm 2,6). «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma
perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17).
Nella luce di
questo Giudice di misericordia, le nostre ginocchia si piegano in adorazione, e
le nostre mani e i nostri piedi si rinvigoriscono. Possiamo parlare di
umanesimo solamente a partire dalla centralità di Gesù, scoprendo in Lui i
tratti del volto autentico dell’uomo. È la contemplazione del volto di Gesù
morto e risorto che ricompone la nostra umanità, anche di quella frammentata
per le fatiche della vita, o segnata dal peccato. Non dobbiamo addomesticare la
potenza del volto di Cristo. Il volto è l’immagine della sua trascendenza. È il
misericordiae vultus. Lasciamoci guardare da Lui. Gesù è il nostro umanesimo.
Facciamoci inquietare sempre dalla sua domanda: «Voi, chi dite che io sia?» (Mt
16,15).
Guardando il suo
volto che cosa vediamo? Innanzitutto il volto di un Dio «svuotato», di un Dio
che ha assunto la condizione di servo, umiliato e obbediente fino alla morte
(cfr Fil 2,7). Il volto di Gesù è simile a quello di tanti nostri fratelli
umiliati, resi schiavi, svuotati. Dio ha assunto il loro volto. E quel volto ci
guarda. Dio – che è «l’essere di cui non si può pensare il maggiore», come
diceva sant’Anselmo, o il Deus semper maior di sant’Ignazio di Loyola – diventa
sempre più grande di sé stesso abbassandosi. Se non ci abbassiamo non potremo vedere
il suo volto. Non vedremo nulla della sua pienezza se non accettiamo che Dio si
è svuotato. E quindi non capiremo nulla dell’umanesimo cristiano e le nostre
parole saranno belle, colte, raffinate, ma non saranno parole di fede. Saranno
parole che risuonano a vuoto. Non voglio qui disegnare in astratto un «nuovo
umanesimo», una certa idea dell’uomo, ma presentare con semplicità alcuni
tratti dell’umanesimo cristiano che è quello dei «sentimenti di Cristo Gesù»
(Fil 2,5). Essi non sono astratte sensazioni provvisorie dell’animo, ma
rappresentano la calda forza interiore che ci rende capaci di vivere e di
prendere decisioni.
Quali sono
questi sentimenti? Vorrei oggi presentarvene almeno tre.
Il primo
sentimento è l’umiltà. «Ciascuno di voi, con tutta umiltà, consideri gli altri
superiori a sé stesso» (Fil 2,3), dice san Paolo ai Filippesi. Più avanti
l’Apostolo parla del fatto che Gesù non considera un «privilegio» l’essere come
Dio (Fil 2,6). Qui c’è un messaggio preciso. L’ossessione di preservare la
propria gloria, la propria “dignità”, la propria influenza non deve far parte
dei nostri sentimenti. Dobbiamo perseguire la gloria di Dio, e questa non
coincide con la nostra. La gloria di Dio che sfolgora nell’umiltà della grotta
di Betlemme o nel disonore della croce di Cristo ci sorprende sempre.
Un altro
sentimento di Gesù che dà forma all’umanesimo cristiano è il disinteresse. «Ciascuno non cerchi l’interesse proprio, ma
anche quello degli altri» (Fil 2,4), chiede ancora san Paolo. Dunque, più che
il disinteresse, dobbiamo cercare la felicità di chi ci sta accanto. L’umanità
del cristiano è sempre in uscita. Non è narcisistica, autoreferenziale. Quando
il nostro cuore è ricco ed è tanto soddisfatto di sé stesso, allora non ha più
posto per Dio. Evitiamo, per favore, di «rinchiuderci nelle strutture che ci
danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici
implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 49).
Il nostro
dovere è lavorare per rendere questo mondo un posto migliore e lottare.
La nostra fede è
rivoluzionaria per un impulso che viene dallo Spirito Santo. Dobbiamo seguire
questo impulso per uscire da noi stessi, per essere uomini secondo il Vangelo
di Gesù. Qualsiasi vita si decide sulla capacità di donarsi. È lì che trascende
sé stessa, che arriva ad essere feconda.
Un ulteriore
sentimento di Cristo Gesù è quello della beatitudine. Il cristiano è un beato, ha in sé la gioia del
Vangelo. Nelle beatitudini il Signore ci indica il cammino. Percorrendolo noi
esseri umani possiamo arrivare alla felicità più autenticamente umana e divina.
Gesù parla della felicità che sperimentiamo solo quando siamo poveri nello
spirito. Per i grandi santi la beatitudine ha a che fare con umiliazione e povertà.
Ma anche nella parte più umile della nostra gente c’è molto di questa
beatitudine: è quella di chi conosce la ricchezza della solidarietà, del
condividere anche il poco che si possiede; la ricchezza del sacrificio
quotidiano di un lavoro, a volte duro e mal pagato, ma svolto per amore verso
le persone care; e anche quella delle proprie miserie, che tuttavia, vissute
con fiducia nella provvidenza e nella misericordia di Dio Padre, alimentano una
grandezza umile.
Le beatitudini
che leggiamo nel Vangelo iniziano con una benedizione e terminano con una
promessa di consolazione. Ci introducono lungo un sentiero di grandezza
possibile, quello dello spirito, e quando lo spirito è pronto tutto il resto
viene da sé. Certo, se noi non abbiamo il cuore aperto allo Spirito Santo,
sembreranno sciocchezze perché non ci portano al “successo”. Per essere
«beati», per gustare la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, è
necessario avere il cuore aperto. La beatitudine è una scommessa laboriosa,
fatta di rinunce, ascolto e apprendimento, i cui frutti si raccolgono nel
tempo, regalandoci una pace incomparabile: «Gustate e vedete com’è buono il
Signore» (Sal 34,9)!
Umiltà,
disinteresse, beatitudine: questi i tre tratti che voglio oggi presentare
alla vostra meditazione sull’umanesimo cristiano che nasce dall’umanità del
Figlio di Dio. E questi tratti dicono qualcosa anche alla Chiesa italiana che
oggi si riunisce per camminare insieme in un esempio di sinodalità. Questi
tratti ci dicono che non dobbiamo essere ossessionati dal “potere”, anche
quando questo prende il volto di un potere utile e funzionale all’immagine
sociale della Chiesa. Se la Chiesa non assume i sentimenti di Gesù, si
disorienta, perde il senso. Se li assume, invece, sa essere all’altezza della
sua missione. I sentimenti di Gesù ci dicono che una Chiesa che pensa a sé
stessa e ai propri interessi sarebbe triste. Le beatitudini, infine, sono lo
specchio in cui guardarci, quello che ci permette di sapere se stiamo
camminando sul sentiero giusto: è uno specchio che non mente.
Una Chiesa che
presenta questi tre tratti – umiltà, disinteresse, beatitudine – è una Chiesa
che sa riconoscere l’azione del Signore nel mondo, nella cultura, nella vita
quotidiana della gente. L’ho detto più di una volta e lo ripeto ancora oggi a
voi: «preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per
le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di
aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere
il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti»
(Evangelii gaudium, 49).
Però
sappiamo che le tentazioni esistono; le tentazioni da affrontare sono tante.
Ve ne presento
almeno due. Non spaventatevi, questo non sarà un elenco di tentazioni! Come
quelle quindici che ho detto alla Curia!
La prima di esse
è quella pelagiana. Essa spinge la Chiesa a non essere umile,
disinteressata e beata. E lo fa con l’apparenza di un bene. Il pelagianesimo ci
porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle
pianificazioni perfette perché astratte. Spesso ci porta pure ad assumere uno
stile di controllo, di durezza, di normatività. La norma dà al pelagiano la
sicurezza di sentirsi superiore, di avere un orientamento preciso. In questo
trova la sua forza, non nella leggerezza del soffio dello Spirito. Davanti ai
mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi
e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure
culturalmente hanno capacità di essere significative. La dottrina cristiana non
è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è
viva, sa inquietare, sa animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e
si sviluppa, ha carne tenera: la dottrina cristiana si chiama Gesù Cristo.
La riforma
della Chiesa poi – e la Chiesa è semper reformanda – è aliena dal pelagianesimo. Essa non si esaurisce
nell’ennesimo piano per cambiare le strutture. Significa invece innestarsi e
radicarsi in Cristo lasciandosi condurre dallo Spirito. Allora tutto sarà
possibile con genio e creatività.
La Chiesa
italiana si lasci portare dal suo soffio potente e per questo, a volte,
inquietante. Assuma sempre lo spirito dei suoi grandi esploratori, che sulle
navi sono stati appassionati della navigazione in mare aperto e non spaventati
dalle frontiere e delle tempeste. Sia una Chiesa libera e aperta alle sfide del
presente, mai in difensiva per timore di perdere qualcosa. Mai in difensiva per
timore di perdere qualcosa. E, incontrando la gente lungo le sue strade, assuma
il proposito di san Paolo: «Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i
deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (1
Cor 9,22).
Una seconda
tentazione da sconfiggere è quella dello gnosticismo.Essa porta a
confidare nel ragionamento logico e chiaro, il quale però perde la tenerezza
della carne del fratello. Il fascino dello gnosticismo è quello di «una fede
rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata
esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano
confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso
nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti» (Evangelii gaudium, 94).
Lo gnosticismo
non può trascendere. La differenza fra la trascendenza cristiana e qualunque
forma di spiritualismo gnostico sta nel mistero dell’incarnazione. Non mettere
in pratica, non condurre la Parola alla realtà, significa costruire sulla
sabbia, rimanere nella pura idea e degenerare in intimismi che non danno
frutto, che rendono sterile il suo dinamismo.
La Chiesa
italiana ha grandi santi il cui esempio possono aiutarla a vivere la fede con
umiltà, disinteresse e letizia, da Francesco d’Assisi a Filippo Neri. Ma
pensiamo anche alla semplicità di personaggi inventati come don Camillo che fa
coppia con Peppone. Mi colpisce come nelle storie di Guareschi la preghiera di
un buon parroco si unisca alla evidente vicinanza con la gente. Di sé don
Camillo diceva: «Sono un povero prete di campagna che conosce i suoi
parrocchiani uno per uno, li ama, che ne sa i dolori e le gioie, che soffre e
sa ridere con loro». Vicinanza alla gente e preghiera sono la chiave per vivere
un umanesimo cristiano popolare, umile, generoso, lieto. Se perdiamo questo
contatto con il popolo fedele di Dio perdiamo in umanità e non andiamo da
nessuna parte.
Ma allora
che cosa dobbiamo fare, padre? – direte voi. Che cosa ci sta chiedendo il Papa?
Spetta a
voi decidere: popolo e pastori insieme. Io oggi semplicemente vi invito ad
alzare il capo e a contemplare ancora una volta l’Ecce Homo che
abbiamo sulle nostre teste. Fermiamoci a contemplare la scena. Torniamo al Gesù
che qui è rappresentato come Giudice universale. Che cosa accadrà quando «il
Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria e tutti gli angeli con lui, siederà sul
trono della sua gloria» (Mt 25,31)? Che cosa ci dice Gesù?
Possiamo
immaginare questo Gesù che sta sopra le nostre teste dire a ciascuno di noi e
alla Chiesa italiana alcune parole. Potrebbe dire: «Venite, benedetti del Padre
mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del
mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi
avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito,
malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (Mt
25,34-36).
Mi viene
in mente il prete che ha accolto questo giovanissimo prete che ha dato
testimonianza. Ma potrebbe anche dire: «Via, lontano da me, maledetti, nel
fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame
e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero
straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in
carcere e non mi avete visitato» (Mt 25,41-43).
Le beatitudini e
le parole che abbiamo appena lette sul giudizio universale ci aiutano a vivere
la vita cristiana a livello di santità. Sono poche parole, semplici, ma
pratiche. Due pilastri: le beatitudini e le parole del giudizio finale. Che il
Signore ci dia la grazia di capire questo suo messaggio! E guardiamo ancora una
volta ai tratti del volto di Gesù e ai suoi gesti. Vediamo Gesù che mangia e
beve con i peccatori (Mc 2,16; Mt 11,19); contempliamolo mentre conversa con la
samaritana (Gv 4,7-26); spiamolo mentre incontra di notte Nicodemo (Gv 3,1-21);
gustiamo con affetto la scena di Lui che si fa ungere i piedi da una prostituta
(cfr Lc 7,36-50); sentiamo la sua saliva sulla punta della nostra lingua che
così si scioglie (Mc 7,33). Ammiriamo la «simpatia di tutto il popolo» che
circonda i suoi discepoli, cioè noi, e sperimentiamo la loro «letizia e
semplicità di cuore» (At 2,46-47).
Ai
vescovi chiedo di essere pastori. Niente di più: pastori. Sia questa la vostra
gioia: “Sono pastore”. Sarà la gente, il vostro gregge, a sostenervi. Di
recente ho letto di un vescovo che raccontava che era in metrò all’ora di punta
e c’era talmente tanta gente che non sapeva più dove mettere la mano per
reggersi. Spinto a destra e a sinistra, si appoggiava alle persone per non
cadere. E così ha pensato che, oltre la preghiera, quello che fa stare in piedi
un vescovo, è la sua gente.
Che
niente e nessuno vi tolga la gioia di essere sostenuti dal vostro popolo. Come
pastori siate non predicatori di complesse dottrine, ma annunciatori di Cristo,
morto e risorto per noi. Puntate all’essenziale, al kerygma. Non c’è nulla di più solido, profondo e sicuro
di questo annuncio. Ma sia tutto il popolo di Dio ad annunciare il Vangelo,
popolo e pastori, intendo. Ho espresso questa mia preoccupazione pastorale
nella esortazione apostolica Evangelii
gaudium (cfr nn. 111-134).
A tutta
la Chiesa italiana raccomando ciò che ho indicato in quella Esortazione:
l’inclusione sociale dei poveri, che hanno un posto privilegiato nel popolo di
Dio, e la capacità di incontro e di dialogo per favorire l’amicizia sociale nel
vostro Paese, cercando il bene comune.
L’opzione per i
poveri è «forma speciale di primato nell’esercizio della
carità cristiana, testimoniata da tutta la Tradizione della Chiesa» (Giovanni
Paolo II, Enc. Sollicitudo rei socialis, 42). Questa opzione «è implicita nella
fede cristologica in quel Dio che si è fatto povero per noi, per arricchirci
mediante la sua povertà» (Benedetto XVI, Discorso alla Sessione inaugurale
della V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi). I
poveri conoscono bene i sentimenti di Cristo Gesù perché per esperienza
conoscono il Cristo sofferente. «Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a
prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche a essere loro amici,
ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio
vuole comunicarci attraverso di loro» (Evangelii gaudium, 198).
Che Dio protegga
la Chiesa italiana da ogni surrogato di potere, d’immagine, di denaro. La
povertà evangelica è creativa, accoglie, sostiene ed è ricca di speranza.
Siamo qui a
Firenze, città della bellezza. Quanta bellezza in questa città è stata messa a
servizio della carità! Penso allo Spedale degli
Innocenti, ad esempio. Una
delle prime architetture rinascimentali è stata creata per il servizio di
bambini abbandonati e madri disperate. Spesso queste mamme lasciavano, insieme
ai neonati, delle medaglie spezzate a metà, con le quali speravano, presentando
l’altra metà, di poter riconoscere i propri figli in tempi migliori. Ecco,
dobbiamo immaginare che i nostri poveri abbiano una medaglia spezzata. Noi
abbiamo l’altra metà. Perché la Chiesa madre ha in Italia metà della medaglia
di tutti e riconosce tutti i suoi figli abbandonati, oppressi, affaticati. E
questo da sempre è una delle vostre virtù, perché ben sapete che il Signore ha
versato il suo sangue non per alcuni, né per pochi né per molti, ma per tutti.
Vi raccomando
anche, in maniera speciale, la capacità di dialogo e di incontro. Dialogare non è
negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria “fetta” della torta
comune. Non è questo che intendo. Ma è cercare il bene comune per tutti.
Discutere insieme, oserei dire arrabbiarsi insieme, pensare alle soluzioni
migliori per tutti. Molte volte l’incontro si trova coinvolto nel conflitto.
Nel dialogo si dà il conflitto: è logico e prevedibile che sia così. E non
dobbiamo temerlo né ignorarlo ma accettarlo. «Accettare di sopportare il
conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo
processo» (Evangelii gaudium, 227).
Ma dobbiamo
sempre ricordare che non esiste umanesimo autentico che non contempli l’amore
come vincolo tra gli esseri umani, sia esso di natura interpersonale, intima,
sociale, politica o intellettuale. Su questo si fonda la necessità del dialogo
e dell’incontro per costruire insieme con gli altri la società civile. Noi
sappiamo che la migliore risposta alla conflittualità dell’essere umano del
celebre homo homini
lupus di Thomas Hobbes è l’«Ecce homo» di Gesù che non recrimina, ma accoglie e,
pagando di persona, salva.
La società
italiana si costruisce quando le sue diverse ricchezze culturali possono
dialogare in modo costruttivo: quella popolare, quella accademica, quella
giovanile, quella artistica, quella tecnologica, quella economica, quella
politica, quella dei media... La Chiesa sia fermento di dialogo, di incontro,
di unità. Del resto, le nostre stesse formulazioni di fede sono frutto di un
dialogo e di un incontro tra culture, comunità e istanze differenti. Non
dobbiamo aver paura del dialogo: anzi è proprio il confronto e la critica che
ci aiuta a preservare la teologia dal trasformarsi in ideologia.
Ricordatevi
inoltre che il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere,
ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti: non
da soli, tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà.
E senza
paura di compiere l’esodo necessario ad ogni autentico dialogo. Altrimenti non
è possibile comprendere le ragioni dell’altro, né capire fino in fondo che il
fratello conta più delle posizioni che giudichiamo lontane dalle nostre pur
autentiche certezze. È fratello.
Ma la Chiesa
sappia anche dare una risposta chiara davanti alle minacce che emergono
all’interno del dibattito pubblico: è questa una delle forme del contributo
specifico dei credenti alla costruzione della società comune. I credenti sono
cittadini. E lo dico qui a Firenze, dove arte, fede e cittadinanza si sono
sempre composte in un equilibrio dinamico tra denuncia e proposta. La nazione
non è un museo, ma è un’opera collettiva in permanente costruzione in cui sono
da mettere in comune proprio le cose che differenziano, incluse le appartenenze
politiche o religiose.
Faccio
appello soprattutto «a voi, giovani, perché siete forti», diceva l’Apostolo
Giovanni (1 Gv 1,14). Giovani, superate l’apatia. Che nessuno disprezzi la
vostra giovinezza, ma imparate ad essere modelli nel parlare e nell’agire (cfr
1 Tm 4,12). Vi chiedo di essere costruttori dell’Italia, di mettervi al lavoro
per una Italia migliore. Per favore, non guardate dal balcone la vita, ma
impegnatevi, immergetevi nell’ampio dialogo sociale e politico. Le mani della
vostra fede si alzino verso il cielo, ma lo facciano mentre edificano una città
costruita su rapporti in cui l’amore di Dio è il fondamento. E così sarete
liberi di accettare le sfide dell’oggi, di vivere i cambiamenti e le
trasformazioni.
Si può dire che
oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca. Le
situazioni che viviamo oggi pongono dunque sfide nuove che per noi a volte sono
persino difficili da comprendere. Questo nostro tempo richiede di vivere i
problemi come sfide e non come ostacoli: il Signore è attivo e all’opera nel
mondo. Voi, dunque, uscite per le strade e andate ai crocicchi: tutti quelli
che troverete, chiamateli, nessuno escluso (cfr Mt 22,9). Soprattutto
accompagnate chi è rimasto al bordo della strada, «zoppi, storpi, ciechi,
sordi» (Mt 15,30). Dovunque voi siate, non costruite mai muri né frontiere, ma
piazze e ospedali da campo.
Mi piace una
Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati,
agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende,
accompagna, accarezza. Sognate anche voi questa Chiesa, credete in essa,
innovate con libertà. L’umanesimo cristiano che siete chiamati a vivere afferma
radicalmente la dignità di ogni persona come Figlio di Dio, stabilisce tra ogni
essere umano una fondamentale fraternità, insegna a comprendere il lavoro, ad
abitare il creato come casa comune, fornisce ragioni per l’allegria e
l’umorismo, anche nel mezzo di una vita tante volte molto dura.
Sebbene non
tocchi a me dire come realizzare oggi questo sogno, permettetemi solo di
lasciarvi un’indicazione per i prossimi anni: in ogni comunità, in ogni
parrocchia e istituzione, in ogni Diocesi e circoscrizione, in ogni regione,
cercate di avviare, in modo sinodale, un approfondimento della Evangelii gaudium, per trarre da essa criteri pratici e per attuare
le sue disposizioni, specialmente sulle tre o quattro priorità che avrete
individuato in questo convegno. Sono sicuro della vostra capacità di mettervi
in movimento creativo per concretizzare questo studio. Ne sono sicuro perché
siete una Chiesa adulta, antichissima nella fede, solida nelle radici e ampia
nei frutti. Perciò siate creativi nell’esprimere quel genio che i vostri
grandi, da Dante a Michelangelo, hanno espresso in maniera ineguagliabile.
Credete al genio del cristianesimo italiano, che non è patrimonio né di singoli
né di una élite, ma della comunità, del popolo di questo straordinario Paese.
Vi affido a
Maria, che qui a Firenze si venera come “Santissima Annunziata”. Nell’affresco
che si trova nella omonima Basilica – dove mi recherò tra poco –, l’angelo tace
e Maria parla dicendo «Ecce ancilla Domini». In quelle parole ci siamo tutti
noi. Sia tutta la Chiesa italiana a pronunciarle con Maria. Grazie.