Sintesi della relazione La fede in Gesù Cristo genera un nuovo umanesimo svolta dal Prof.
Giuseppe Lorizio l’11-11-15 al Convegno
ecclesiale nazionale di Firenze In Gesù
Cristo il nuovo umanesimo
[Sintesi elaborata da
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Montesacro, Valli
- dopo la sintesi segue il testo
integrale della relazione]
0.
Premesse
Il nostro essere qui e ora ci interpella e ci
invita a pensare [sui] frutti dell’umanesimo storico [e per interrogarci] ]sul]le
radici anche di quell’umanesimo, ma soprattutto del “nuovo” umanesimo e
rinvenirle nella fede in Cristo Gesù, che ci unisce senza omologarci e ci
interpella senza opprimerci.
Si
tratta di un “umanesimo” che si nasconde fra i diversi umanesimi che il
villaggio globale ospita. A ciascuno di
noi, ad ogni cellula della chiesa il compito di svelare la novità assoluta
dell’umano, che il Vangelo attesta e Gesù di Nazareth incarna. Ed è la
percezione di questa radicale e perenne novità a impedire una riduzione
meramente umanistica della fede. Se infatti è vero che “più siamo cristiani,
più siamo umani” non è automatico che “più siamo umani, più siamo cristiani”.
Nella persona d[i Gesù,] Verbo incarnato, si
realizza l’alleanza ultima e definitiva
fra Dio e l’uomo, l’Eterno e il tempo, l’Infinito e il finito. E questa
unione colta nella fede genera un umanesimo “concreto” [come lo definì Karl Rahner ,teologo tedesco, 1904-1984] e tanto
nuovo da potersi dire “non umano”, non nel senso di anti-umano, bensì di
oltreumano, ossia “soprannaturale”.
Perché questa alleanza si realizzi, nel
Figlio donato, Dio si fa nomade per porre la sua tenda fra noi, nella forma
ecclesiale di un ospedale da campo, dove sanare le nostre ferite, curare i
nostri mali, incontrare e redimere tutti e ciascuno. E Dio si fa nomade per
incontrare l’uomo nella sua essenziale povertà, privo di maschere e ruoli, di
sovrastrutture ed orpelli che rischiano di oscurarne la profonda identità.
Questa dinamica del nuovo umanesimo che si
genera dalla fede, vissuta e pensata, consente ai credenti in Cristo da un lato
di assumere un atteggiamento profondamente simpatetico nei confronti delle
donne e degli uomini che abitano la stessa terra e la stessa storia e
dall’altro di sviluppare una radicale critica profetica di fronte ai reiterati
tentativi di colonizzare ideologicamente la società e i singoli (discorso di
Papa Francesco all’assemblea dei vescovi italiani, 18 maggio 2015).
Non siamo chiamati alla contrapposizione fra
visioni del mondo e dell’uomo, bensì alla costruzione di una “cultura
dell’incontro”, fatta di gesti e parole interconnessi e dal loro intreccio.
L’alleanza diventa un paradigma [=schema] del
“nuovo umanesimo” e coinvolge i credenti in Cristo.
E poiché la fede e la teologia si pongono in
ascolto della Parola, ogni alleanza da custodire e, se infranta, da
riconciliare, viene letta e interpretata a partire dalle Scritture Sante e
dalla persona di Cristo, paradigma del sempre nuovo umanesimo. E non si tratta
di una superficiale stretta di mano che sancisca accordi di reciproco
interesse, bensì di un vincolo che
include e comporta il “sacrificio”.
1.
L’alleanza uomo/natura
Il vincolo/alleanza fra l’uomo e la natura
risulta profondamente compromesso e violato a causa del peccato e chiede un
profondo cambiamento di mentalità. Non si tratta di assumere una mentalità o
atteggiamenti pre-tecnologici, alimentando un rifiuto radicale del progresso, bensì
di riportare la tecnica e le nuove tecnologie al loro grembo umanistico, perché
l’uomo non rischi di soccombere riducendosi o trasformandosi in macchina.
In questo orizzonte si situa l’enciclica Laudato si’ [del papa Francesco, 2015],
con la sua preoccupazione per la cura della madre terra e al tempo stesso la
necessità di ritrovare le radici umanistiche del progresso tecnico e tecnologico.
Non si tratta solo di attivarci in occasione
di eventi circoscritti, bensì di adottare (ed educare ad) atteggiamenti di
rispetto e attenzione all’ambiente che siamo chiamati ad abitare, denunciando
al tempo stesso con passione profetica le incurie, le prevaricazioni, le
sciatterie, le violenze grandi e piccole che vediamo compiere verso la natura.
Progettare un futuro sostenibile per l'intera famiglia umana e custodire la
terra come casa abitabile, mitigando il mutamento climatico che la minaccia.
Ciò significa valorizzare quanto offrono scienza e tecnica per ridurre
l'impatto ambientale, ma anche modificare il paradigma economico.
2.
L’alleanza uomo/donna
Gesù di Nazareth non guarda alla donna come ad
una “tentatrice”. [L’]attenzione alle donne, che le narrazioni evangeliche
attestano in diverse occasioni, si innesta sulla imprescindibile alleanza
creaturale e storica fra maschile e femminile.
La peculiarità del rapporto che Israele
percepisce col suo Dio si esprime attraverso il richiamo alla metafora
sponsale, elaborata come è noto in maniera tutta particolare nei testi
profetici di Osea. Qui l’amore umano è la modalità con cui, e in cui, si
esprime sia l’amore di Dio per l’uomo che la risposta umana a Dio.
L’esperienza dell’unicità di Dio in questa
prospettiva attiene dunque all’esperienza dell’unicità dell’amore uomo/donna,
per cui come nell’esperienza dell’innamoramento l’amato è un unicum per l’amata
(e naturalmente viceversa), così Dio è unico per il credente. Le tentazioni
dell’idolatria e del politeismo (che il NT [=Nuovo Testamento] richiama per es.
in quel passaggio di At 17,16, dove Paolo freme di sdegno al vedere la città di
Atene piena di idoli) possono dunque essere lette alla luce della metafora
stessa nella linea della prostituzione e dell’adulterio, mentre l’unicità di Dio
(e qui il collegamento del testo profetico con l’alleanza sinaitica è evidente)
si esprime attraverso l’antropomorfismo della gelosia: «[…] io, il Signore,
sono il tuo Dio, un Dio geloso» (Es 20,5).
Tommaso d’Aquino [filosofo e teologo
italiano, domenicano, vissuto nel Duecento], nel descrivere i doni della fede,
richiama in primo luogo appunto la metafora sponsale, per cui «mediante la fede
l’anima si unisce a Dio, per quella sorta di matrimonio spirituale descritto da
Osea: “Ti fidanzerò con me in un patto fedele”» (Os 2,22).
La stessa rivelazione
del Dio unitrino, come descritta nella costituzione conciliare di cui in questi
giorni celebriamo i cinquant’anni dalla promulgazione (18 novembre 1965), ha
come fine la partecipazione dell’uomo alla vita stessa di Dio: «Piacque a Dio
nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona e manifestare il mistero della
sua volontà (cf Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo,
Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura (cf Ef
2,18; 2Pt 1,4)» (DV 2). E il testo latino recita “consortes divinae naturae” [coniugi
nella natura divina].
La rottura dell’alleanza uomo/donna e il
generarsi di conflitti, alimentati da ideologismi maschilisti o femministi, non
è dunque irrilevante per il nuovo umanesimo che si genera dalla fede. Di qui la
necessità, come più volte ha ricordato papa Francesco di custodire e mantenere
tale alleanza costitutiva.
L’impegno che si attua in [tante] iniziative diffuse nel Paese a tutela della
dignità delle donne non può non vederci simpateticamente attenti e partecipi,
mentre non possiamo esimerci dalla denuncia profetica delle violenze, delle
vessazioni, delle disparità che le nostre donne spesso subiscono e che – come
anche papa Francesco ha spesso richiamato – rendono le “pari opportunità”
ancora tanto lontane, da sembrare impossibili.
3.
L’alleanza fra generazioni
Il richiamo [evangelico] di Gesù agli apostoli
all’accoglienza dei piccoli dice l’apertura al futuro, anche se questo risulta
scomodo e impertinente rispetto alla nostra tranquillità e alle nostre
certezze, sicché il bambino diviene il simbolo vivente del “piccolo”, ossia di
colui che spoglio di sovrastrutture si apre al vangelo del Regno.
Non si tratta allora di adottare un’apertura
generica e indifferenziata condiscendente e semplicemente accogliente rispetto
alle giovani generazioni, ma di farci carico, come comunità e come singoli,
anche di proposte di senso, impegnative e coinvolgenti, tali da interpellare la
libertà dei giovani, che attendono di essere posti di fronte a scelte radicali
piuttosto che a scorciatoie di comodo.
Siamo così chiamati ad accompagnare le
esperienze educative in cui tanta generosità viene profusa (pensiamo
all’impegno professionale degli insegnanti e al suo scarso riconoscimento economico
nel nostro Paese e al volontariato dei catechisti nelle nostre comunità). Né
possiamo rimanere indifferenti di fronte alla solidarietà fra generazioni che
vede i nonni particolarmente attivi nel sostegno ai genitori e ai nipoti.
E inoltre, non possiamo non preoccuparci
profeticamente della rottura dell’alleanza generazionale allorché alcuni
vivendo al di là delle proprie possibilità e assicurando a se stessi un futuro
pensionistico remunerativo e precoce, hanno privato di sicurezza e di futuro i
giovani.
In tal senso il farci carico economico delle
giovani generazioni e dei nuclei familiari nascenti assume piuttosto il senso
di restituzione del maltolto in precedenza. Ed infine, non ci possiamo esimere
dal sollecitare politiche adeguate perché le giovani menti restino qui e non
fuggano altrove, al di là di soluzioni approssimative e saltuarie di sostegno alla
ricerca e alla formazione, né possiamo demordere rispetto all’impegno di
costruire per i giovani opportunità di lavoro “libero, creativo, partecipativo
e solidale” (papa Francesco, alle ACLI, 23 maggio 2015).
4.
L’alleanza fra popoli
Il
villaggio globale oggi ci interpella e al tempo stesso ci chiede di abbandonare
una mentalità tribale ed etnica, per aprire le frontiere e costruire ponti
piuttosto che erigere muri. Alcuni anni orsono qualcuno ha sconsolatamente
affermato, che nell’età della globalizzazione «mentre le cose si mondializzano,
le persone si tribalizzano» (R. Debray [Jules Régis Debray, scrittore francese, n.1940]).
Il cristianesimo al contrario, nella sua cattolicità, non si è mai percepito
come una “religione etnica”, bensì universale e aperta a tutti i popoli e a
tutte le culture.
Sarà necessario un ripensamento della
cooperazione internazionale, nei termini di una nuova cultura di solidarietà.
L’Europa, inoltre, deve farsi parte attiva nel
promuovere e realizzare una globalizzazione “nella” solidarietà [che] va accompagnata una sorta di
globalizzazione “della” solidarietà e
dei connessi valori di equità, giustizia e libertà, nella ferma convinzione che
il mercato chiede di essere opportunamente controllato dalle forze sociali e
dallo Stato.
Alla solidarietà delle persone, dei nuclei
familiari, delle comunità soprattutto del sud del Paese verso gli immigrati non
ha fatto riscontro un altrettanto spirito solidale
5.
L’alleanza fra religioni
Siamo
interpellati a leggere i semi del Verbo in tutte le appartenenze autenticamente
religiose, così come ci insegna la dichiarazione conciliare Nostra aetate [=Nel nostro tempo, Dichiarazione
sulle relazioni della Chiesa
con le religioni non cristiane, del Concilio
Vaticano 2°, 1962-1965] e non solo a contrastare con
determinazione ogni conflitto di civiltà, ma anche ad evitare nel linguaggio,
nei gesti e nelle espressioni ogni declinazione in chiave religiosa di tale
conflitto. [Il] nuovo umanesimo non p può esprimersi in forme di
fondamentalismo integralista ed esclusivista. Il dialogo ecumenico ed
interreligioso resta quindi una priorità pastorale.
Solo l’unità dei cristiani e l’alleanza fra le
religioni può costituire una valida testimonianza di fronte alle sfide
dell’incredulità, in quanto può mostrare come le religioni e le fedi
costituiscano una risorsa e non degli ostacoli all’unità del genere umano.
D’altra parte la fede in un unico Dio, che per
noi è il Dio unitrino, lungi dal suscitare atteggiamenti e azioni di violenza,
fonda la possibilità della pace, in quanto tutti figli di un unico Padre che è
nei cieli e che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti e non fa differenza di
persone perché non guarda alle apparenze, ma ai cuori. E il martire-testimone
(primo fra tutti Gesù di Nazareth) non è il kamikaze che semina distruzione e
morte, ma colui che – come tanti nostri fratelli ieri e oggi – subisce la
violenza senza compierla. Va sottolineato, con chiarezza e determinazione, che
punto di partenza per una proficua alleanza fra le appartenenze religiose è e
deve essere il reciproco riconoscimento e il rifiuto di ogni forma di violenza.
6.
L’alleanza cittadino/istituzioni
«Gesù disse loro: “Rendete a Cesare ciò che è
di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”. E rimasero ammirati di lui» (Mc 12,
13-17).
L’attualità del detto evangelico si può cogliere
allorché ci si ponga di fronte alla nascita e allo sviluppo [e alla deriva
totalizzante] dello stato moderno.
Ma, rispetto a questo contesto tipicamente
moderno, si può altresì rilevare l’inattualità dell’identificazione di Cesare
con la figura politica dello stato moderno, nella misura in cui le istituzioni
politiche proprie della modernità, subiscono profonde trasformazioni, fin quasi
a risultare insufficienti a determinare il rapporto del singolo con le
istituzioni più potenti della postmodernità, tra le quali ovviamente spicca il
mercato, con le sue leggi e la sua autorità, di fronte alla quale quella dei
vari poteri pubblici e politici impallidisce e spesso trema.
[E’
chiamata] in causa la laicità delle istituzioni e il corretto rapporto che il
credente è chiamato ad attivare nei loro confronti. Il messaggio che la parola
del Vangelo ci consegna comporta in primo luogo la desacralizzazione delle
istituzioni politiche e civili, ovvero un processo di radicale relativizzazione
delle stesse.
Il riconoscimento
del fondamento nella persona implica il rispetto dell’esercizio dell’autentica
libertà sia dei singoli che delle comunità, il che va molto oltre il minimo
comun denominatore di un atteggiamento di pura e semplice tolleranza.
In questa prospettiva allora mi piace
interpretare il detto di Gesù nel senso di dare (restituire) a Cesare ciò che è
suo, per poter dare (restituire) a Dio ciò che gli appartiene, ovvero tutto.
[Dalla
sfiducia] verso istituzioni che sperperano, risultano corrotte, non servono,
speculano, opprimono, [come può verificarsi] anche nei confronti
dell’istituzione ecclesiastica, [consegue] la necessità per le nostre comunità
di promuovere e suscitare (educando) autentiche vocazioni alla politica come
servizio al bene comune, col riferimento anche a figure significative, che
hanno contribuito a rendere il nostro un Paese civile (e a Firenze non possiamo
dimenticare Giorgio La Pira).
[Occorre
prestare] un’attenzione peculiare alla conversione di quelle “strutture di
peccato”, che impediscono e ostacolano un’autentica riconciliazione, la quale
non riguarda solo l’individuo, ma le stesse realtà istituzionali sia civili che
ecclesiali.
7.
L’alleanza Cristo/Chiesa
Un’alleanza in particolare ci sta a cuore come
credenti nel Vangelo, ed è l’alleanza fra Cristo (sposo) e la Chiesa (sposa).
Quando essa risultasse infranta la comunità cristiana perderebbe il suo senso.
“Sacramento e strumento” dell’unità dell’uomo con Dio e dell’unità dell’intero
genere umano, la Chiesa trova nel suo essere sposa di Cristo e madre dei
credenti la sua identità. Diventa allora oltremodo drammatico il dover
riconoscere le infedeltà dei suoi membri e le controtestimonianze che in essa e
da essa si realizzano.
Un’autentica riforma della Chiesa, dovrà
necessariamente tener conto della vocazione evangelica all’incontro con tutto
l’uomo e tutti gli uomini e non può non ripartire da una “purificazione della memoria”, che non intende sviluppare
atteggiamenti rinunciatari e vittimistici, ma apprendere dalla storia e con
essa confrontarsi per non reiterare peccati ed errori di un passato, del quale
facciamo fatica a liberarci.
Nei momenti delle tenebre più fitte non
dobbiamo né possiamo mai abbandonare il sogno di una Chiesa libera e povera,
che inizia a realizzarsi nella libertà e povertà delle nostre persone e delle
nostre comunità. Già la Gaudium et spes [=La gioia e la speranza, costituzione dogmatica del Concilio Vaticano
2°, 1962-1965], nel momento in cui si interrogava sulle cause dell’ateismo e
dell’incredulità del nostro tempo, non aveva remore nell’indicare fra queste
anche il comportamento di coloro che si professano credenti nel Vangelo: «Per
questo nella genesi dell'ateismo possono contribuire non poco i credenti, nella
misura in cui, per aver trascurato di educare la propria fede, o per una
presentazione ingannevole della dottrina, od anche per i difetti della propria
vita religiosa, morale e sociale, si deve dire piuttosto che nascondono e non
che manifestano il genuino volto di Dio e della religione» (GS 19).
Scandalizzarci di queste affermazioni e di questi comportamenti non ci consente
di celebrare autenticamente il giubileo che ci attende.
La Chiesa non può non avere che un solo amore,
una sola preoccupazione, una sola fedeltà: al suo sposo Cristo Signore.
L'alleanza
tra Cristo (sposo) e Chiesa (sposa) prende corpo nell'assemblea liturgica. La
comunità cristiana non esiste per sostenere delle idee, ma per mostrare delle
vie. Per renderne evidente e credibile una in particolare: l'insieme dei
radunati attorno alla memoria di Gesù, divenuti per questo una chiesa, ha il
compito di rendere visibile e credibile l'esperimento terreno di una umanità
nuova, edificato sulle fondamenta dell'umanità di Gesù, fatta risorgere per
grazia. La natura della fraternità cristiana non può essere intesa secondo le
superficiali chiavi affettive di emotivismo di gruppo. Quando si tratta
semplicemente di questo, nelle nostre comunità si sente molto odore di chiuso.
Oltre le tracce di sicure esclusioni. Si tratta di dare forma alla natura
profetica della fraternità cristiana. I discepoli che radunati attorno alla
memoria della Pasqua (questo è il calice della nuova alleanza), danno alla loro
vita la forma del Vangelo, fanno vedere, annunciano, prefigurano un modo di
essere uomini e donne secondo l'umanità di Gesù.
La
natura profetica della comunità cristiana agisce anche nello sguardo con cui sa
giudicare se stessa e scrutare i segni del Regno che operano silenziosi e
tenaci anche fuori di essa attraverso l'esercizio del “discernimento
comunitario”. Esso è l'esperienza che
accompagna il cammino di una comunità che continuamente si interroga sulla sua
fedeltà all'Alleanza, al suo essere “sposa”. E tutto ciò con stile
autenticamente “sinodale”.
Per
concludere
Una “cultura
dell’incontro” e una teologia che sappia farsi carico dei conflitti ponendosi
alle frontiere (papa Francesco) ha ispirato questa riflessione e la sua
articolazione. Il nuovo umanesimo che si genera dalla fede è l’umanesimo della
nuova alleanza, il cui memoriale si rinnova in ogni celebrazione eucaristica.
Questa nuova alleanza, realizzatasi in Cristo, va vissuta e attualizzata nelle
alleanze, spesso infrante o compromesse, che ciascuno di noi e le nostre
comunità, con sporgenza verso la società civile, è chiamato a porre in atto,
custodendo legami e vincoli autentici e chiedendo e offrendo misericordia,
perché avvenga ai diversi livelli una vera riconciliazione sul piano
individuale e su quello comunitario. L'attualizzazione di questa nuova alleanza
pone l’agire ecclesiale delle nostre comunità in uno stato di conversione,
aiuta a rifuggire la tentazione del "si è fatto sempre così", spinge
a superare una pastorale fondata sulle strutture e facile preda di un
"dispersivo faccendismo pastorale" muovendo verso l’attenzione alle
persone, dove “uscire, abitare, annunciare, educare, trasfigurare” non siano
solo degli slogan o delle formule, bensì costituiscano le motivazioni stesse
del nostro personale impegno quotidiano.
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Testo integrale della relazione
La fede in Gesù Cristo genera un nuovo umanesimo
Prof. Giuseppe Lorizio
Firenze, 11 novembre
2015 Convegno Ecclesiale - In Gesù Cristo il nuovo umanesimo
«Trasumanar significar
per verba non si poria»
(Paradiso I, 70)
0.
Premesse
Il nostro essere qui e ora ci interpella e ci
invita a pensare. Il qui della Firenze che è “come un albero fiorito, che in
piazza de’ Signori ha tronco e fronde, ma le radici forze nuove apportano dalle
convalli limpide e feconde” (aria di Rinuccio in Gianni Schicchi [Gianni Schicchi, opera di Giacomo
Puccini]) ci pone di fronte ai frutti dell’umanesimo storico. Non siamo qui
come turisti, bensì per interrogarci a nome delle nostre comunità ecclesiali
sull’oggi del Vangelo e della storia, per riscoprire le radici anche di
quell’umanesimo, ma soprattutto del “nuovo” umanesimo e rinvenirle nella fede
in Cristo Gesù, che ci unisce senza omologarci e ci interpella senza
opprimerci. Si tratta di un “umanesimo” che si nasconde fra i diversi umanesimi
che il villaggio globale ospita, come la verità rischia di confondersi fra le
opinioni e il pane eucaristico fra il pane comune (cf B. Pascal [Blaise Pascal,
filosofo e teologo francese del
Seicento] citato da Fides et ratio,
13 [Fides et ratio = Fede e ragione, enciclica del papa Giovanni
Paolo 2°, 1998]). A ciascuno di noi, ad ogni cellula della chiesa il compito di
svelare la novità assoluta dell’umano, che il Vangelo attesta e Gesù di
Nazareth incarna. Ed è la percezione di questa radicale e perenne novità a
impedire una riduzione meramente umanistica della fede, chiamata ad abitare le
frontiere e a segnare le distanze nella martyria
(testimonianza) quotidiana, personale e comunitaria. Se infatti è vero che “più
siamo cristiani, più siamo umani” non è automatico che “più siamo umani, più
siamo cristiani”. Il salto della fede e l’azione della grazia ci conducono
oltre in quel dinamismo che il poeta fiorentino denomina “trasumanare” e che
ritiene impossibile catturare ed esprimere in concetti e parole. La fede in
Cristo Gesù non si limita a cogliere, contemplare, magari imitare, l’umano, per
il quale sarebbe sufficiente la conoscenza storica, ma intravede e professa
l’umano e il divino in una profonda unità personale, che interpella e coinvolge
oltre la storia, ma non fuori di essa. Nella persona del Verbo incarnato si
realizza l’alleanza ultima e definitiva fra Dio e l’uomo, l’Eterno e il tempo,
l’Infinito e il finito. E questa unione (ipostatica) colta nella fede genera un
umanesimo, che un famoso teologo del Novecento, Karl Rahner [teologo tedesco,
1904-1984], non ha esitato a definire “concreto” e tanto nuovo da potersi dire
“non umano”, non nel senso di anti-umano, bensì di oltreumano, ossia
“soprannaturale”. Si tratta di contemplare e vivere il paradosso
dell’“universale concreto”, che l’altro grande pensatore del secolo scorso Hans
Urs von Balthasar [teologo tedesco, 1905-1988] ha mirabilmente descritto.
Perché questa alleanza si realizzi, nel
Figlio donato, Dio si fa nomade per venire incontro a un popolo nomade e porre
la sua tenda fra noi, nella forma ecclesiale di un ospedale da campo, dove
sanare le nostre ferite, curare i nostri mali, incontrare e redimere tutti e
ciascuno. L’esperienza della migrazione diventa allora luogo e momento in cui
esperire la presenza di Dio che si fa carne e sangue nella nostra solidarietà.
Ed è il luogo e il momento dell’alleanza, unica e nuova, che supera e compie il
nomadismo dell’arameo errante rendendosi possibile e presente nelle diverse
forme dell’attuale condizione umana. Una condizione plasticamente rappresentata
da Papa Francesco, il quale ha iniziato il suo saluto alla Casa bianca
presentando se stesso come figlio dell’emigrazione (25 sett. 2015). E Dio si fa
nomade per incontrare l’uomo nella sua essenziale povertà, privo di maschere e
ruoli, di sovrastrutture ed orpelli che rischiano di oscurarne la profonda
identità. È la condizione errante della famiglia di Nazareth, costretta a
deporre il neonato in una mangiatoia «perché non c’era posto per loro
nell’albergo»; è il nomadismo del Figlio dell’uomo, che, a differenza delle
volpi e degli uccelli, «non ha dove posare il capo» (Mt 8,20 ║ Lc 9,58). Questa
dinamica del nuovo umanesimo che si genera dalla fede, vissuta e pensata,
consente ai credenti in Cristo da un lato di assumere un atteggiamento
profondamente simpatetico nei confronti delle donne e degli uomini che abitano
la stessa terra e la stessa storia e dall’altro di sviluppare una radicale
critica profetica di fronte ai reiterati tentativi di colonizzare
ideologicamente la società e i singoli (discorso di Papa Francesco
all’assemblea dei vescovi italiani, 18 maggio 2015). E qualora si costruisse e
articolasse in forme meramente concettuali e si esprimesse in termini soltanto
generali, anche il cosiddetto “umanesimo cristiano” si connoterebbe nella forma
dell’ideologia. Non siamo infatti chiamati alla contrapposizione fra visioni
del mondo e dell’uomo, bensì alla costruzione di una “cultura dell’incontro”,
fatta di gesti e parole interconnessi e dal loro intreccio. Dove il gesto della
carità solidale non può che accompagnarsi alla Parola che ne offre il senso e
chiama alla risposta credente e le parole non possono non inverarsi in gesti di
accoglienza e partecipazione. Questa “sacramentalità” del nuovo umanesimo che
si genera dalla fede esprime la realtà di Dio, il quale chiama l’uomo a
partecipare alla sua stessa vita e in Gesù di Nazareth realizza la nuova e
perenne alleanza, la cui clausola unica è l’amore. Qui si compie il passaggio
dal “senso religioso” innestato sull’umanesimo al “senso cristiano”, che invera
e supera la pura e semplice religiosità.
L’alleanza come modalità propria delle tribù
nomadiche di rapportarsi fra loro, che la rivelazione dei due testamenti adotta
ad esprimere il rapporto fra Dio e l’uomo, il cui culmine è la persona stessa
del Cristo, diventa un paradigma del “nuovo umanesimo”, che ha da proporsi come
tale a tutti e che coinvolge i credenti in Cristo nella vigilanza e nella
custodia di fronte ad ogni tentativo di infrangere le alleanze, che possono
assicurare una vita degna di questo nome a chiunque oggi e domani sia chiamato
all’esistenza. Leggere la vicenda e l’insegnamento di Gesù di Nazareth in
questa prospettiva significa cogliere la novità e la vitalità di un umanesimo
che non si riduce al naturalismo ingenuo, né produce azioni più o meno
filantropiche occasionali e non risolutive delle spesso drammatiche
problematiche in cui tutti siamo coinvolti. E poiché la fede e la teologia si
pongono in ascolto della Parola, ogni alleanza da custodire e, se infranta, da
riconciliare, viene letta e interpretata a partire dalle Scritture Sante e
dalla persona di Cristo, paradigma del sempre nuovo umanesimo. E non si tratta
di una superficiale stretta di mano che sancisca accordi di reciproco
interesse, bensì di un vincolo che include e comporta il “sacrificio”.
1.
L’alleanza uomo/natura
«Perciò io vi dico: “non preoccupatevi per la
vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di
quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del
vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano e non mietono, né
raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non valete
forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche
di poco la propria vita? E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate
come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano”. Eppure io vi dico
che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro» (Mt 6,
25-29). Il vincolo/alleanza fra l’uomo e la natura risulta profondamente
compromesso e violato a causa del peccato e chiede un profondo cambiamento di
mentalità, ispirato alla capacità di Gesù di guardare la natura perché l’uomo
la ascolti, la abiti e sappia imparare da essa, piuttosto che prevaricarla e
distruggerla. Non si tratta di assumere una mentalità o atteggiamenti
pre-tecnologici, alimentando un rifiuto radicale del progresso, quale quello
adottato da certe prospettive filosofiche contemporanee e da ideologismi
ecologisti, bensì di riportare la tecnica e le nuove tecnologie al loro grembo
umanistico (si pensi alle macchine di Leonardo), perché l’uomo non rischi di
soccombere riducendosi o trasformandosi in macchina. Già Benedetto XVI nella Spe salvi [=Siamo stati salvati nella speranza, enciclica del papa Benedetto 16°, 2007], sulla
scorta della scuola di Francoforte [scuola filosofica e sociologica originata
nell’ambiente dell’Istituto per la
ricerca sociale dell’Università J.W. Goethe in Francoforte sul Meno -
Germania] aveva messo in guardia
dall’enfasi mitizzante il “progresso”, propria della modernità, indicando la
speranza cristiana come un orizzonte di senso chiamato ad innestarsi sul
cammino dell’uomo, fatto a immagine e somiglianza di Dio anche per la sua
creatività. In questo orizzonte si situa l’enciclica Laudato si’ [di papa Francesco, 2015], con la sua preoccupazione
per la cura della madre terra e al tempo stesso la necessità di ritrovare le
radici umanistiche del progresso tecnico e tecnologico. Ed è con questa
convinzione che attiviamo una simpatetica partecipazione verso quelle
esperienze di generosità e di dedizione che vedono impegnati molti nostri
connazionali nella solidarietà che si esprime in occasioni di disastri
ambientali, non di rado causati dall’incuria e dall’egoismo dell’uomo, che
compromettono la bellezza naturale e artistica del nostro bel Paese. Penso qui
a quanto si è vissuto in occasione dell’alluvione, ma anche a situazioni
analoghe che si sono verificate sul nostro territorio. Questa solidarietà ci
consente di continuare a fruire ed esperire il bello che questa città e
l’Italia offrono ai nostri sguardi. Ma non si tratta solo di attivarci in
occasione di eventi circoscritti, bensì di adottare (ed educare ad)
atteggiamenti di rispetto e attenzione all’ambiente che siamo chiamati ad
abitare, denunciando al tempo stesso con passione profetica le incurie, le
prevaricazioni, le sciatterie, le violenze grandi e piccole che vediamo
compiere verso la natura. Progettare un futuro sostenibile per l'intera
famiglia umana e custodire la terra come casa abitabile, mitigando il mutamento
climatico che la minaccia. Ciò significa valorizzare quanto offrono scienza e
tecnica per ridurre l'impatto ambientale, ma anche modificare il paradigma
economico: passando da una cultura dello scarto ad un'economia solidale e
circolare (cf Laudato si', 22
[enciclica del papa Francesco, 2015]) in cui nulla viene sprecato, ma tutto è
risorsa.
2.
L’alleanza uomo/donna
«In quel momento giunsero i suoi discepoli e
si meravigliavano che parlasse con una donna. Nessuno tuttavia disse: “Che cosa
cerchi?”, o: “Di che cosa parli con lei?”. La donna intanto lasciò la sua
anfora, andò in città e disse alla gente: “Venite a vedere un uomo che mi ha
detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?”. Uscirono dalla città
e andavano da lui» (Gv 4,27-30). Gesù di Nazareth non guarda alla donna, a
questa donna, nonostante il suo passato, come ad una “tentatrice” (papa
Francesco, Udienza Generale del 22 aprile 2015), bensì l’incontro con lui la
porta ad interrogarsi e a diventare evangelizzatrice dei suoi concittadini.
Questa attenzione alle donne, che le narrazioni evangeliche attestano in
diverse occasioni, si innesta sulla imprescindibile alleanza creaturale e
storica fra maschile e femminile. L’attenzione alla natura che è fuori di noi,
che abitiamo e di cui siamo partecipi, non ci può distogliere dalla nostra
stessa natura e dal nostro essere creati a immagine e somiglianza di Dio in
quanto maschio e femmina. Il che chiede la custodia di un’alleanza, anch’essa infranta
a causa del peccato, che, nelle Scritture Sante, è metafora del rapporto di Dio
con l’umanità. Infatti, sia pure in un contesto poligamico, la peculiarità del
rapporto che Israele percepisce col suo Dio si esprime attraverso il richiamo
alla metafora sponsale, elaborata come è noto in maniera tutta particolare nei
testi profetici di Osea. Qui l’amore umano è la modalità con cui, e in cui, si
esprime sia l’amore di Dio per l’uomo che la risposta umana a Dio. Si realizza
cosi un cambio di paradigma che sostituisce alla simbolica di tipo politico,
prevalente nella esposizione classica della categoria sinaitica dell’alleanza,
una metafora antropologica fondamentale.
L’esperienza dell’unicità di Dio in questa
prospettiva attiene dunque all’esperienza dell’unicità dell’amore uomo/donna,
per cui come nell’esperienza dell’innamoramento l’amato è un unicum per l’amata
(e naturalmente viceversa), così Dio è unico per il credente. Le tentazioni
dell’idolatria e del politeismo (che il NT [=Nuovo Testamento] richiama per es.
in quel passaggio di At 17,16, dove Paolo freme di sdegno al vedere la città di
Atene piena di idoli) possono dunque essere lette alla luce della metafora
stessa nella linea della prostituzione e dell’adulterio, mentre l’unicità di
Dio (e qui il collegamento del testo profetico con l’alleanza sinaitica è
evidente) si esprime attraverso l’antropomorfismo della gelosia: «[…] io, il
Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso» (Es 20,5). Se situata e interpretata
in questa prospettiva, la fede veterotestamentaria si carica di un orizzonte
agapico che apre alla novità del Dio di Gesù Cristo. Del resto in quel
magnifico testo che è il suo commento al simbolo apostolico, Tommaso d’Aquino
[filosofo e teologo italiano, domenicano, vissuto nel Duecento], nel descrivere
i doni della fede, richiama in primo luogo appunto la metafora sponsale, per
cui «mediante la fede l’anima si unisce a Dio, per quella sorta di matrimonio
spirituale descritto da Osea: “Ti fidanzerò con me in un patto fedele”» (Os
2,22). La stessa rivelazione del Dio unitrino, come descritta nella
costituzione conciliare di cui in questi giorni celebriamo i cinquant’anni
dalla promulgazione (18 novembre 1965), ha come fine la partecipazione
dell’uomo alla vita stessa di Dio: «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza
rivelarsi in persona e manifestare il mistero della sua volontà (cf Ef 1,9),
mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno
accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura (cf Ef 2,18; 2Pt 1,4)» (DV 2). E il
testo latino recita “consortes divinae
naturae” [coniugi nella natura divina].
E da questa metafora sponsale si genera quello che con audace espressione,
mutuata dallo Pseudo Dionigi [pseudonimo usato da un teologo siro del 6°
secolo], Benedetto XVI ha richiamato “eros di Dio” [eros: termine greco che indica l’amore carnale]: «La potenza divina
che Aristotele, al culmine della filosofia greca, cercò di cogliere mediante la
riflessione, è sì per ogni essere oggetto del desiderio e dell'amore — come
realtà amata questa divinità muove il mondo —, ma essa stessa non ha bisogno di
niente e non ama, soltanto viene amata. L'unico Dio in cui Israele crede,
invece, ama personalmente. Il suo amore, inoltre, è un amore elettivo: tra
tutti i popoli Egli sceglie Israele e lo ama — con lo scopo però di guarire,
proprio in tal modo, l'intera umanità. Egli ama, e questo suo amore può essere
qualificato senz'altro come eros, che
tuttavia è anche e totalmente agape [termine
greco che si traduce amore nel senso
di lieto convito] » (Deus Charitas est, 9 [Dio è amore, enciclica del papa Benedetto 16°, 2005]. La
rottura dell’alleanza uomo/donna e il generarsi di conflitti, alimentati da
ideologismi maschilisti o femministi, non è dunque irrilevante per il nuovo
umanesimo che si genera dalla fede. Di qui la necessità, come più volte ha
ricordato papa Francesco di custodire e mantenere tale alleanza costitutiva.
L’impegno che, al di là di sterili contrapposizioni ideologiche, si attua in
associazioni, gruppi, iniziative diffuse nel Paese a tutela della dignità delle
donne non può non vederci simpateticamente attenti e partecipi, mentre non
possiamo esimerci dalla denuncia profetica delle violenze, delle vessazioni,
delle disparità che le nostre donne spesso subiscono e che – come anche papa
Francesco ha spesso richiamato – rendono le “pari opportunità” ancora tanto
lontane, da sembrare impossibili, come ci sembra distante il riconoscimento di
quel “genio femminile” caro alla Mulieris
dignitatem [=Dignità della donna, lettera
apostolica, 1988] di san Giovanni Paolo II.
3.
L’alleanza fra generazioni
«Allora gli furono portati dei bambini perché
imponesse loro le mani e pregasse; ma i discepoli li sgridavano. Gesù però
disse loro: “Lasciate che i bambini vengano a me, perché di questi è il regno
dei cieli”. E dopo avere imposto loro le mani, se ne partì» (Mt 19,13-15, segue
il brano del giovane ricco). Il richiamo di Gesù agli apostoli all’accoglienza
dei piccoli dice l’apertura al futuro, anche se questo risulta scomodo e
impertinente rispetto alla nostra tranquillità e alle nostre certezze, sicché
il bambino diviene il simbolo vivente del “piccolo”, ossia di colui che spoglio
di sovrastrutture si apre al vangelo del Regno. Immediatamente dopo, la
narrazione evangelica attesta l’incontro di Gesù col giovane ricco, dove
all’accoglienza segue una proposta forte ed interpellante, in cui viene
chiamata in causa la libertà di colui che incontra il maestro. Non si tratta
allora di adottare un’apertura generica e indifferenziata condiscendente e
semplicemente accogliente rispetto alle giovani generazioni, ma di farci
carico, come comunità e come singoli, anche di proposte di senso, impegnative e
coinvolgenti, tali da interpellare la libertà dei giovani, che attendono di
essere posti di fronte a scelte radicali piuttosto che a scorciatoie di comodo.
In diverse occasioni inoltre, rivolgendosi ai giovani i vescovi di Roma hanno
posto l’accento sulla necessità di suscitare in loro comportamenti non
conformistici alle mode imperanti, onde percepire il fascino di scelte scomode
e radicali, ma realmente autentiche in ordine alla realizzazione della persona.
Proprio per questo, l’esperienza delle giornate mondiali della gioventù non va
vissuta e interpretata come sporadica occasione di aggregazione giovanile, ma
come un condividere, con il futuro che emerge, la proposta della fede e
l’umanesimo che da essa si genera. Il cammino della Chiesa italiana ha dedicato
all’educazione gli orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020: si è
scritto un documento importante e significativo, ma c’è da chiederci se lo
abbiamo letto e recepito e a che punto siamo con la sua attuazione, onde
evitare la ricorrente tentazione di pensare che i problemi possano essere
risolti solo perché si è promulgato un testo programmatico, la cui verifica non
viene mai messa in atto nelle comunità cui è indirizzato.
Siamo così chiamati ad accompagnare le
esperienze educative in cui tanta generosità viene profusa (pensiamo
all’impegno professionale degli insegnanti e al suo scarso riconoscimento
economico nel nostro Paese e al volontariato dei catechisti nelle nostre
comunità). Né possiamo rimanere indifferenti di fronte alla solidarietà fra
generazioni che vede i nonni particolarmente attivi nel sostegno ai genitori e
ai nipoti attraverso risorse economiche e soprattutto il dono del proprio
tempo, che spesso consente ai nuclei familiari di andare avanti nonostante la
crisi. E inoltre, non possiamo non preoccuparci profeticamente della rottura
dell’alleanza generazionale allorché alcuni vivendo al di là delle proprie
possibilità e assicurando a se stessi un futuro pensionistico remunerativo e
precoce, hanno privato di sicurezza e di futuro i giovani. In tal senso il
farci carico economico delle giovani generazioni e dei nuclei familiari
nascenti assume piuttosto il senso di restituzione del maltolto in precedenza.
Ed infine, non ci possiamo esimere dal sollecitare politiche adeguate perché le
giovani menti restino qui e non fuggano altrove, al di là di soluzioni
approssimative e saltuarie di sostegno alla ricerca e alla formazione, né
possiamo demordere rispetto all’impegno di costruire per i giovani opportunità
di lavoro “libero, creativo, partecipativo e solidale” (papa Francesco, alle
ACLI, 23 maggio 2015).
4.
L’alleanza fra popoli
«Io, il Signore, ti ho chiamato per la
giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e stabilito come alleanza del
popolo e luce delle nazioni» (Is 42,6). I gesti e le parole di Gesù non si
rivolgono solo a quanti partecipano della sua origine e del suo popolo, ma
attraversano ogni persona che gli viene incontro e a cui va incontro: giudei,
pagani, samaritani… Il villaggio globale oggi ci interpella e al tempo stesso
ci chiede di abbandonare una mentalità tribale ed etnica, per aprire le
frontiere e costruire ponti piuttosto che erigere muri. Alcuni anni orsono
qualcuno ha sconsolatamente affermato, che nell’età della globalizzazione
«mentre le cose si mondializzano, le persone si tribalizzano» (R. Debray [Jules Régis
Debray, scrittore francese, n.1940]). Il cristianesimo al contrario,
nella sua cattolicità, non si è mai percepito come una “religione etnica”,
bensì universale e aperta a tutti i popoli e a tutte le culture. E questo fin
dalla Pentecoste: «Siamo Parti, Medi, Elamìti e abitanti della Mesopotamia,
della Giudea, della Cappadòcia, del Ponto e dell'Asia, della Frigia e della
Panfilia, dell'Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirène, stranieri di
Roma, Ebrei e prosèliti, Cretesi e Arabi e li udiamo annunziare nelle nostre
lingue le grandi opere di Dio» (At 2, 9-11). Il nuovo umanesimo che nasce dalla
fede chiama all’universalità e a un modello di globalizzazione, che,
travalicando la dimensione economica e meramente culturale, possa esprimersi
nei termini della solidarietà, così come ha indicato san Giovanni Paolo II nell’Ecclesia in Europa [La Chiesa in Europa, esortazione apostolica, 2003], in termini
quanto mai attuali e significativi per il nostro oggi, in un testo che richiama
la fine della storia e la prospettiva escatologica propria del pensiero
cristiano, dove la Chiesa non manca di misurarsi col processo della
globalizzazione. È infatti l’icona dell’Apocalisse che domina tutta la
riflessione, che non assume affatto toni apocalittici, ma intende orientare ed
infondere speranza ai cittadini di questo vecchio e insieme nuovo continente.
Per realizzare in modo adeguato tale missione, sarà necessario «“un
ripensamento della cooperazione internazionale, nei termini di una nuova
cultura di solidarietà. Pensata come seme di pace, la cooperazione non si può
ridurre all’aiuto e all’assistenza, addirittura mirando ai vantaggi di ritorno
per le risorse messe a disposizione. Essa deve esprimere, invece, un impegno
concreto e tangibile di solidarietà, tale da rendere i poveri protagonisti del
loro sviluppo e consentire al maggior numero possibile di persone di esplicare,
nelle concrete circostanze economiche e politiche in cui vivono, la creatività
tipica della persona umana, da cui dipende anche la ricchezza delle Nazioni”.
L’Europa, inoltre, deve farsi parte attiva nel promuovere e realizzare una
globalizzazione “nella” solidarietà. A quest’ultima, come sua condizione, va
accompagnata una sorta di globalizzazione “della” solidarietà e dei connessi
valori di equità, giustizia e libertà, nella ferma convinzione che il mercato
chiede di essere “opportunamente controllato dalle forze sociali e dallo Stato,
in modo da garantire la soddisfazione delle esigenze fondamentali di tutta la
società”» (Ecclesia in Europa,111-112).
A parte la necessità di stigmatizzare la
disumanizzazione che accompagna certe espressioni di propaganda come “sciame di
immigrati”, non possiamo tacere il fatto che alla solidarietà delle persone,
dei nuclei familiari, delle comunità soprattutto del sud del Paese verso gli
immigrati non ha fatto riscontro un altrettanto spirito solidale nell’alleanza
fra nazioni e popoli che ancor oggi affrontano divisi il fenomeno, tutto ciò
nonostante i forti e a volte duri richiami dei nostri pastori alla politica
nazionale e alle organizzazioni internazionali perché non veniamo lasciati soli
(in quanto tali saremmo del tutto inadeguati) di fronte a questa epocale sfida
del nostro tempo. L’alleanza fra i popoli, come quella fra le appartenenze
religiose, rimanda all’alleanza noachica, che ha il suo segno-sigillo
nell’arcobaleno, in cui si rappresenta la policromia delle realtà umane
presenti nella storia, che ne costituisce la ricchezza di cui stentiamo a
renderci conto. Ed in tale prospettiva l’altro è una ricchezza e una risorsa e
non un nemico e un ostacolo.
5.
L’alleanza fra religioni
«In quel tempo, partito di là, Gesù si ritirò
verso la zona di Tiro e di Sidòne. Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da
quella regione, si mise a gridare: “Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia
figlia è molto tormentata da un demonio”. Ma egli non le rivolse neppure una
parola. Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono:
“Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!”. Egli rispose: “Non sono stato
mandato se non alle pecore perdute della casa d'Israele”. Ma quella si avvicinò
e si prostrò dinanzi a lui, dicendo: “Signore, aiutami!”. Ed egli rispose: “Non
è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini”. “È vero, Signore –
disse la donna –, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla
tavola dei loro padroni”. Allora Gesù le replicò: “Donna, grande è la tua fede!
Avvenga per te come desideri”. E da quell'istante sua figlia fu guarita» (Mt
15,21-28). Certo le religioni non sono tutte uguali, ovvero tutte egualmente
vere perché tutte egualmente false, come un certo laicismo potrebbe insinuare.
Del resto Gesù stesso, alla domanda della donna samaritana sul luogo autentico
di culto, non offre una risposta generica e indifferenziata, mentre al tempo
stesso la invita a guardare oltre. Siamo quindi interpellati a leggere i semi
del Verbo in tutte le appartenenze autenticamente religiose, così come ci
insegna la dichiarazione conciliare Nostra
aetate [=Nel nostro tempo, Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa
con le religioni non cristiane, del Concilio
Vaticano 2°, 1962-1965] e non solo a contrastare con
determinazione ogni conflitto di civiltà, ma anche ad evitare nel linguaggio,
nei gesti e nelle espressioni ogni declinazione in chiave religiosa di tale
conflitto. E se al nuovo umanesimo che si genera dalla fede non può certo
appartenere un sincretismo religioso, tuttavia neppure esso può esprimersi in
forme di fondamentalismo integralista ed esclusivista. Il dialogo ecumenico ed
interreligioso resta quindi una priorità pastorale, che si nutre di rispetto e
di conoscenza reciproca in un Paese che fino a non molto tempo fa ha conosciuto
sostanzialmente ed esperienzialmente una sola religione ed una sola forma di
cristianesimo e che sembra disorientato di fronte ad appartenenze altre, non
apprese sui libri di scuola, ma nei vissuti concreti delle persone e delle
comunità. Solo l’unità dei cristiani e l’alleanza fra le religioni può
costituire una valida testimonianza di fronte alle sfide dell’incredulità, in
quanto può mostrare come le religioni e le fedi costituiscano una risorsa e non
degli ostacoli all’unità del genere umano. D’altra parte la fede in un unico
Dio, che per noi è il Dio unitrino, lungi dal suscitare atteggiamenti e azioni
di violenza, fonda la possibilità della pace, in quanto tutti figli di un unico
Padre che è nei cieli e che fa piovere sui giusti e sugli ingiusti e non fa
differenza di persone perché non guarda alle apparenze, ma ai cuori. E il
martire-testimone (primo fra tutti Gesù di Nazareth) non è il kamikaze che
semina distruzione e morte, ma colui che – come tanti nostri fratelli ieri e
oggi – subisce la violenza senza compierla. Va sottolineato, con chiarezza e
determinazione, che punto di partenza per una proficua alleanza fra le
appartenenze religiose è e deve essere il reciproco riconoscimento e il rifiuto
di ogni forma di violenza.
6.
L’alleanza cittadino/istituzioni
«Gli mandarono alcuni farisei ed erodiani per
coglierlo in fallo nel discorso. E venuti, quelli gli dissero: “Maestro,
sappiamo che sei veritiero e non ti curi di nessuno; infatti non guardi in
faccia agli uomini, ma secondo verità insegni la via di Dio. È lecito o no dare
il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare o no?”. Ma egli, conoscendo la loro
ipocrisia, disse: “Perché mi tentate? Portatemi un denaro perché io lo veda”.
Ed essi glielo portarono. Allora disse loro: “Di chi è questa immagine e
l'iscrizione?”. Gli risposero: “Di Cesare”. Gesù disse loro: “Rendete a Cesare
ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”. E rimasero ammirati di lui» (Mc
12, 13-17). Il fatto che Cesare non è Dio non è certo la buona notizia, ma
possiamo certamente considerarla una buona notizia, soprattutto se riflettiamo
intorno alla sua dirompenza nel contesto del paganesimo imperiale. Una buona
notizia che tuttavia ha il suo risvolto negativo, quando si misura con la martyria, cui è sottoposto il cristiano
che nega l’equazione, ponendosi in opposizione con quanti, ebrei o pagani,
sostengono di non avere altro re che Cesare, dimenticando che egli, come
Pilato, non avrebbe alcun potere se Dio non glielo concedesse. L’attualità del
detto evangelico si può ulteriormente cogliere allorché ci si ponga di fronte
alla nascita e allo sviluppo dello stato moderno, secondo l’hobbesiana figura
del Leviatano, preludio di quella, più ideologica e filosoficamente pregnante
dello “stato etico” di matrice hegeliana, la cui deriva totalizzante è stata
profeticamente messa in luce da F. Rosenzweig [Franz Rosenweig, filosofo
tedesco ed esponente dell’ebraismo, 1886-1929] nella sua tesi su Hegel e lo stato. Ma,
rispetto a questo contesto tipicamente moderno, si può altresì rilevare
l’inattualità dell’identificazione di Cesare con la figura politica dello stato
moderno, nella misura in cui le istituzioni politiche proprie della modernità,
subiscono profonde trasformazioni, fin quasi a risultare insufficienti a
determinare il rapporto del singolo con le istituzioni più potenti della
postmodernità, tra le quali ovviamente spicca il mercato, con le sue leggi e la
sua autorità, di fronte alla quale quella dei vari poteri pubblici e politici
impallidisce e spesso trema.
A tal proposito mettendo in gioco il rapporto
tolleranza / libertà si chiama in causa la laicità delle istituzioni e il
corretto rapporto che il credente è chiamato ad attivare nei loro confronti. Il
messaggio che la parola del Vangelo ci consegna comporta in primo luogo la
desacralizzazione delle istituzioni politiche e civili, ovvero un processo di
radicale relativizzazione delle stesse. E ciò non solo nei confronti di una
qualsiasi divinità religiosa, bensì anche – e direi soprattutto se non
rischiassi di essere frainteso – nei confronti della persona umana e dei suoi
radicali diritti: alla vita, alla giustizia, alla verità ecc. L’espressione
rosminiana secondo cui la persona umana è il diritto sussistente credo abbia
ancora una sua forte carica profetica e possa valere ad esprimere in forma non
banale tale relativizzazione. Siamo di fronte al canone-criterio fondamentale
sul quale misurare l’autenticità e l’adeguatezza delle istituzioni civili e
politiche. Tutto ciò che è o è persona o va finalizzato alla persona. Dove
ovviamente la nozione di persona non equivale semplicemente a quella di
individuo, ma contempla la dimensione sociale e comunitaria a partire da
un’identità irriducibile in ogni caso alla serie delle relazioni che si è in
grado di porre in essere. È qui che si radica e si situa la riflessione intorno
al rapporto fra istituzione e libertà, istituzione e tolleranza, laddove
appunto il riconoscimento del fondamento nella persona implica il rispetto
dell’esercizio dell’autentica libertà sia dei singoli che delle comunità, il
che va molto oltre il minimo comun denominatore di un atteggiamento di pura e
semplice tolleranza.
In questa prospettiva allora mi piace interpretare
il detto di Gesù nel senso di dare (restituire) a Cesare ciò che è suo, per
poter dare (restituire) a Dio ciò che gli appartiene, ovvero tutto. Il passo
del “restituire a Cesare”, che suppone una sorta di debito del cittadino nei
confronti delle istituzioni, risulta molto difficile oggi proprio nel nostro
Paese, dove non di rado sembra verificarsi la situazione opposta, ossia quella
di un cittadino in credito verso istituzioni che sperperano, risultano
corrotte, non servono, speculano, opprimono … E questa sfiducia o alleanza
infranta può verificarsi anche nei confronti dell’istituzione ecclesiastica. Se
questa diffusa sfiducia ci trova come credenti spesso coinvolti, tuttavia la
nostra vigilanza profetica non può non denunciare il fatto che molti di noi
assumono atteggiamenti di non partecipazione alla vita pubblica, o addirittura
di evasione, come alibi per il proprio tornaconto. Di qui la necessità per le
nostre comunità di promuovere e suscitare (educando) autentiche vocazioni alla
politica come servizio al bene comune, col riferimento anche a figure
significative, che hanno contribuito a rendere il nostro un Paese civile (e a
Firenze non possiamo dimenticare Giorgio La Pira).
La necessità di custodire e ricostruire
l’alleanza fra il singolo e le istituzioni, che a volte si infrange allorché si
insinuano sospetti e diffidenze, anche verso l’istituzione ecclesiale, impone
un’attenzione peculiare alla conversione di quelle “strutture di peccato”, che
impediscono e ostacolano un’autentica riconciliazione, la quale non riguarda
solo l’individuo, ma le stesse realtà istituzionali sia civili che ecclesiali.
7.
L’alleanza Cristo/Chiesa
«Nessuno mai infatti ha preso in odio la
propria carne; al contrario la nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa,
poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua
madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola. Questo
mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!» (Ef 5,
29-32). Un’alleanza in particolare ci sta a cuore come credenti nel Vangelo, ed
è l’alleanza fra Cristo (sposo) e la Chiesa (sposa). Quando essa risultasse
infranta la comunità cristiana perderebbe il suo senso e, come ci ricorda
spesso il vescovo di Roma, si ridurrebbe ad una ong [Ong= organizzazione non
governativa, ente privato dedito ad opera caritative e all’assistenza sociale
nelle nazioni sottosviluppate]. “Sacramento e strumento” dell’unità dell’uomo
con Dio e dell’unità dell’intero genere umano, la Chiesa trova nel suo essere
sposa di Cristo e madre dei credenti la sua identità. Diventa allora oltremodo
drammatico il dover riconoscere le infedeltà dei suoi membri e le
controtestimonianze che in essa e da essa si realizzano. Così l’alleanza con
Cristo della sua sposa risulta compromessa e spesso infranta a causa del
peccato compiuto dai suoi figli. Come ha profeticamente mostrato il beato
Antonio Rosmini [filosofo italiano e prete, 1797-1855] , si tratta delle piaghe
della santa Chiesa, al cui risanamento siamo tutti chiamati, non solo coloro
che svolgono il servizio dell’autorità, le cui responsabilità sono
evidentemente di gran lunga più gravi di quelle del semplice fedele.
Un’autentica riforma della Chiesa, dovrà necessariamente tener conto della
vocazione evangelica all’incontro con tutto l’uomo e tutti gli uomini e non può
non ripartire da una “purificazione della memoria”, che non intende sviluppare
atteggiamenti rinunciatari e vittimistici, ma apprendere dalla storia e con
essa confrontarsi per non reiterare peccati ed errori di un passato, del quale
facciamo fatica a liberarci. L’attualità delle piaghe è sempre viva ed in
particolare l’oggi mette il dito in quella quinta piaga che riguarda la servitù
dei beni ecclesiastici e che richiede attenzione e cura, perché la credibilità
della rivelazione passa anche attraverso la trasparenza dei bilanci delle
nostre comunità, ai diversi livelli.
Nei momenti delle tenebre più fitte non
dobbiamo né possiamo mai abbandonare il sogno di una Chiesa libera e povera,
che inizia a realizzarsi nella libertà e povertà delle nostre persone e delle
nostre comunità. Già la Gaudium et spes [=La gioia e la speranza, costituzione dogmatica del Concilio Vaticano
2°, 1962-1965], nel momento in cui si interrogava sulle cause dell’ateismo e
dell’incredulità del nostro tempo, non aveva remore nell’indicare fra queste
anche il comportamento di coloro che si professano credenti nel Vangelo: «Per
questo nella genesi dell'ateismo possono contribuire non poco i credenti, nella
misura in cui, per aver trascurato di educare la propria fede, o per una
presentazione ingannevole della dottrina, od anche per i difetti della propria
vita religiosa, morale e sociale, si deve dire piuttosto che nascondono e non
che manifestano il genuino volto di Dio e della religione» (GS 19).
Scandalizzarci di queste affermazioni e di questi comportamenti non ci consente
di celebrare autenticamente il giubileo che ci attende. La Chiesa non può non
avere che un solo amore, una sola preoccupazione, una sola fedeltà: al suo
sposo Cristo Signore, in modo da far propria la risposta che, in un testo
alquanto apocalittico, evocante l’Anticristo (che recentemente è ritornato
nelle riflessioni di alcuni dei nostri filosofi), risulta efficacemente
espressa. Si tratta di un passaggio suggestivo e insieme profondo, del famoso
Racconto dell’Anticristo di Vladimir Solov’ëv [filosofo e teologo russo,
1853-1900, su posizioni politiche reazionarie, assai critiche della modernità]
dove all’imperatore universale, che domanda ai cristiani: «Cosa posso fare
ancora per voi? Strani uomini! Che volete da me? Io non lo so. Ditemelo dunque
voi stessi, o cristiani abbandonati dalla maggioranza dei vostri fratelli e
capi, condannati dal sentimento popolare; che cosa avete di più caro nel
cristianesimo? », lo starec Giovanni, “simile a un cero candido”, rispose:
«Grande sovrano! Quello che noi abbiamo di più caro nel Cristianesimo è Cristo
stesso. Lui stesso e tutto ciò che viene da Lui, giacché noi sappiamo che in
Lui dimora corporalmente tutta la pienezza della Divinità. Da te, o sovrano,
noi siamo pronti a ricevere ogni bene, ma soltanto se nella tua mano generosa
possiamo riconoscere la santa mano di Cristo. E alla tua domanda che puoi fare
tu per noi, eccoti la nostra precisa risposta: confessa, qui ora davanti a noi,
Gesù Cristo Figlio di Dio che si è incarnato, che è risuscitato e che verrà di
nuovo; confessalo e noi ti accoglieremo con amore».
L'alleanza tra Cristo (sposo) e Chiesa
(sposa) prende corpo nell'assemblea liturgica. Qui la Chiesa, nella forma della
comunità convocata dalla Parola, agisce come sacramento, diventa cioè capace di
generare quel legame che tiene uniti gli umani alla vita di Dio attraverso il
Signore Gesù. La comunità cristiana non esiste per sostenere delle idee, ma per
mostrare delle vie. Per renderne evidente e credibile una in particolare:
l'insieme dei radunati attorno alla memoria di Gesù, divenuti per questo una
chiesa, ha il compito di rendere visibile e credibile l'esperimento terreno di
una umanità nuova, edificato sulle fondamenta dell'umanità di Gesù, fatta
risorgere per grazia. La natura della fraternità cristiana non può essere
intesa secondo le superficiali chiavi affettive di emotivismo di gruppo. Quando
si tratta semplicemente di questo, nelle nostre comunità si sente molto odore
di chiuso. Oltre le tracce di sicure esclusioni. Si tratta di dare forma alla
natura profetica della fraternità cristiana. I discepoli che radunati attorno
alla memoria della Pasqua (questo è il calice della nuova alleanza), danno alla
loro vita la forma del Vangelo, fanno vedere, annunciano, prefigurano un modo
di essere uomini e donne secondo l'umanità di Gesù.
La natura profetica della comunità cristiana
agisce anche nello sguardo con cui sa giudicare se stessa e scrutare i segni
del Regno che operano silenziosi e tenaci anche fuori di essa attraverso
l'esercizio del “discernimento comunitario”. Esso più che essere opera di umana
prudenza o di comune buon senso è una lettura cristologica della realtà, sotto
l'influsso dello Spirito. È l'esperienza che accompagna il cammino di una
comunità che continuamente si interroga sulla sua fedeltà all'Alleanza, al suo
essere “sposa”. La sua pregnanza cristologica evita che si scada nella figura
inadeguata del giudizio pregiudiziale umano sempre esposto al pericolo di
rifugiarsi negli equilibrismi del compromesso e dell’artificio diplomatico.
Alla luce dello Spirito è possibile riconoscere senza paura i tradimenti
all'Alleanza e i tanti “vitelli d'oro” che abbiamo adorato e di cui chiedere
perdono; ma anche le ricorrenti tentazioni richiamate dal papa nella Evangelii gaudium (71-109) [La gioia del Vangelo, esortazione
apostolica di papa Francesco, 2013]. E tutto ciò con stile autenticamente
“sinodale”.
Per
concludere
Una “cultura
dell’incontro” e una teologia che sappia farsi carico dei conflitti ponendosi
alle frontiere (papa Francesco) ha ispirato questa riflessione e la sua
articolazione. Il nuovo umanesimo che si genera dalla fede è l’umanesimo della
nuova alleanza, il cui memoriale si rinnova in ogni celebrazione eucaristica.
Questa nuova alleanza, realizzatasi in Cristo, va vissuta e attualizzata nelle
alleanze, spesso infrante o compromesse, che ciascuno di noi e le nostre
comunità, con sporgenza verso la società civile, è chiamato a porre in atto,
custodendo legami e vincoli autentici e chiedendo e offrendo misericordia,
perché avvenga ai diversi livelli una vera riconciliazione sul piano
individuale e su quello comunitario. L'attualizzazione di questa nuova alleanza
pone l’agire ecclesiale delle nostre comunità in uno stato di conversione,
aiuta a rifuggire la tentazione del "si è fatto sempre così", spinge
a superare una pastorale fondata sulle strutture e facile preda di un
"dispersivo faccendismo pastorale" muovendo verso l’attenzione alle
persone, dove “uscire, abitare, annunciare, educare, trasfigurare” non siano
solo degli slogan o delle formule, bensì costituiscano le motivazioni stesse
del nostro personale impegno quotidiano.