Gruppo giovani. Le idee di un laico adulto
1. Genitori e figli - Un
genitore ha un privilegio eccezionale: è un adulto che non è invisibile per un
adolescente. Gli altri adulti invece
in genere lo sono, sono fuori del campo
degli interessi di un ragazzo. Quindi un genitore, se vuole, ha la possibilità
di conoscere veramente i propri figli nel periodo della loro vita in cui si
trasformano profondamente e diventano ciò che poi rimarranno a lungo in
società, vale a dire degli adulti con
una personalità definita e riconoscibile. E’ un’esperienza limitata nel
tempo, ma anche nel suo oggetto. Infatti si conoscono in quel modo molto
approfondito solo i propri figli e non è detto che essi siano realmente
rappresentativi di una generazione né che i ragazzi delle generazioni che
seguiranno siano sempre uguali a loro.
Nel rapporto di un genitore con i figli si impara e si insegna. Si
tramandano una lingua e certi costumi, il modo di mangiare, il modo di
vestirsi, di svagarsi, di fare sport, certe idee sulla società e, in
particolare sull'altro sesso, e molto altro ancora. Si impara ad allevare i
figli da quando sono molto piccoli fino a quando essi finiscono di dipendere
dai genitori. Lo imparano i genitori, ma anche gli stessi figli facendo
esperienza della vita dei fratelli minori. La vita dei figli successivi al
primo di solito è più facile perché i genitori hanno imparato dall’esperienza e
non ripetono certi errori.
Tra le cose che passano di generazione in
generazione c’è la fede. In questo è cruciale il ruolo delle madri, o di chi in
una famiglia in concreto svolge quel ruolo. Sbagliare nell’educazione di una
ragazza ha conseguenze molto più gravi che con un ragazzo. L’errore infatti si
ripercuoterà nei figli e nei nipoti.
Da molto tempo in religione si è presa consapevolezza della funzione di
tramandare la fede che la famiglia svolge. Ci si è anche costruita sopra una
teologia, quella della Chiesa domestica.
Essa è stata accolta dai saggi dell’ultimo Concilio nel documento più
importante proclamato durante quell’assise, la Costituzione dogmatica sulla
Chiesa Luce per le genti:
"E infine i coniugi cristiani, in virtù del sacramento del
matrimonio, col quale significano e partecipano il mistero di unità e di
fecondo amore che intercorre tra Cristo e la Chiesa (cfr. Ef 5,32), si aiutano
a vicenda per raggiungere la santità nella vita coniugale; accettando ed
educando la prole essi hanno così, nel loro stato di vita e nella loro
funzione, il proprio dono in mezzo al popolo di Dio. Da questa missione,
infatti, procede la famiglia, nella quale nascono i nuovi cittadini della
società umana, i quali per la grazia dello Spirito Santo diventano col
battesimo figli di Dio e perpetuano attraverso i secoli il suo popolo. In questa che si potrebbe chiamare Chiesa
domestica, i genitori devono essere per i loro figli i primi maestri della fede
e secondare la vocazione propria di ognuno, quella sacra in modo speciale." (n.11)
E tuttavia rimane in genere una profonda diffidenza verso la
famiglia come forma di generazione alla fede, che rientra nella più vasta
sfiducia del clero e dei religiosi verso tutto ciò che i laici esprimono in
religione, per cui li si pensa sempre sul punto di deragliare dal giusto
cammino e quindi bisognosi di continue tirate d’orecchi. Appena aprono bocca in
pubblico si scopre che ripetono una qualche forma di eresia del passato e si
toglie loro la parola. E se invece si limitano a ripetere a pappagallo quello
che si è loro spiegato, allora ci si
lamenta che sono noiosi e poco creativi.
Fatto sta che in genere ai genitori, anche quando
lo desidererebbero, non è consentito di collaborare all'iniziazione religiosa
dei loro figli che si svolge nelle
parrocchie. Si presume erroneamente che un prete o un catechista possano conoscere un ragazzo
meglio dei propri genitori. In questo modo si fanno e si ripetono errori
fatali, per cui i giovani, appena possono, scappano a gambe levate da noi.
Questo è ciò che, appunto, ho potuto osservare durante l’iniziazione religiosa
delle mie figlie a San Clemente papa.
Che cosa raccontavano alle nostre ragazze a
catechismo? Impossibile saperlo veramente. Si portano i figli a catechismo e li
si va a riprendere, sempre però confinati fuori dalle aule. Come si fa, allora,
a collaborare all’iniziazione religiosa dei propri figli? Tra genitori ci si
parla, talvolta, mentre si aspetta la fine della lezione, e ci si chiede l’un l’altro che cosa
racconteranno mai a catechismo: nessuno lo sa. Se poi una persona ha una
situazione familiare difficile, un matrimonio finito o che sta finendo o ha
generato fuori del matrimonio, o si trova nelle altre situazioni che oggi
possono darsi e che non corrispondono allo stereotipo della famiglia mamma-papà-da
uno a tot figli, va ancora peggio perché ci si sente e si è trattati come
peccatori sociali, gente alla quale in religione la parola è tolta in linea di
principio, per ragioni, per così dire, di igiene e tutela sociale.
Eppure, quando le nostre figlie sono divenute
adolescenti, qualcosa è trapelato dell’iniziazione religiosa di secondo
livello, per la Cresima e il post-Cresima. Io e mia moglie abbiamo subito
capito che si stava mettendo male. Che potesse succedere una cosa simile lo
avevamo temuto fin da quando, in uno dei rari incontri in parrocchia per il
post-Cresima, ci avevano detto che avrebbero mandato i ragazzi in certe
famiglie per raddrizzarli. Oddio!, ci
eravamo detti io e mio moglie. Io in quell'occasione avevo replicato che i nostri ragazzi avevano già una famiglia e che non
riconoscevamo a nessun’altra famiglia il diritto di mettere bocca nel loro
“raddrizzamento”. Le mie parole furono accolte sostanzialmente con
un’alzata di spalle. Gli altri genitori, tutto sommato, mi parvero contenti di
questi propositi di raddrizzamento. Iniziavano
infatti ad avere qualche problema di disciplina con i figli. Quanti di coloro
che hanno ricevuto la Cresima con le mie figlie frequentando poi anche il
post-Cresima, e che non sono cresciuti in famiglie di neocatecumenali, sono
ancora in parrocchia? Io non ne vedo nessuno.
Di fatto le nostre figlie, dopo un po’, ci chiesero di non partecipare più
alle catechesi in quelle famiglie e noi le autorizzammo a farlo, non
insistemmo. La loro iniziazione di secondo livello la facemmo noi genitori,
secondo quella che avevamo ricevuto noi alla loro età, e non mi pare che ci sia
riuscita male. Quando mia figlia piccola
partecipò, alla Cattolica, all’esame di ammissione a Medicina, in cui si
portava anche religione, gli altri si affannavano sul Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica e tutto per loro
era una novità, mentre per lei no. All’esame di teologia fondamentale ha preso
trenta e lode. La ragazza è molto studiosa, certo, ma qualche merito ce lo possiamo riconoscere anche io e mia moglie. Così in famiglia abbiamo
recuperato evidenti errori della catechesi parrocchiale, che potevano rivelarsi
fatali, come mi pare lo siano stati per altri coetanei delle mie figlie.
La fonte principale del disagio delle nostre
figlie, nei gruppi di giovani per l’iniziazione religiosa di secondo livello,
per Cresima e post-Cresima, fu l’impossibilità per loro di essere veramente
apprezzate per ciò che esprimevano. Ad un certo punto veniva chiesto loro di
dire con franchezza, liberamente, ciò che pensavano su qualche cosa. Quando lo
facevano venivano però sempre riprese. Se invece si limitavano a ripetere ciò che
avevano detto gli animatori del gruppo, allora venivano riprese lo stesso,
accusate di conformismo. Che cosa si voleva da loro? Penso che ci aspettasse
che arrivassero al punto a cui, per ciò che ne so e che ho potuto constatare da
esterno, mira la strategia catechetica dei neocatecumenali: a riconoscere che la
loro vita era tutta sbagliata e che non avevano alcuna possibilità di cambiarla
da sole; tuttavia non dovevano avvilirsi, perché potevano riuscirci accettando
di essere guidate per un certo cammino. Fatto atto di
sottomissione, si sarebbe passati sopra a tutto ciò che c’era di sbagliato in
loro, purché rimanessero per quella via. Quindi: dipendenza comunitaria e, in
particolare, da una struttura gerarchica che non poteva essere messa in
discussione dalla base, al modo in cui non può esserlo l’autorità dei
genitori. Quindi si sarebbe trattato di passare dall’autorità dei genitori a
quella di altri genitori, per così dire di
complemento, in un cammino in cui
non ci sarebbe mai stata possibilità di emancipazione. Ma, mentre i genitori un giovane se li trova attribuiti al momento della
nascita, nel bene e nel male, quindi non li sceglie, quegli altri genitori
di complemento bisognava proprio sceglierseli, convincendosi per di più che senza di
loro non si era nulla e che solo rimanendo sotto la loro autorità gerarchica si
poteva essere migliori e, in particolare, vivere una fede genuina. Dal punto di vista di un adolescente, di un giovane che
deve, per diventare adulto,
emanciparsi dai genitori per acquisire autonome responsabilità sociali, non ci
può essere incubo maggiore: quello dell’eterna dipendenza familiare.
L’altro elemento molto problematico era
l’approccio ai problemi sessuali, che è stato percepito dalle nostre figlie
come veramente troppo intrusivo e
fobico. Lo sviluppo sessuale è fondamentale negli adolescenti, ma presenta
delicati profili psicologici che sconsigliano disinvolti interventi di volenterosi
ma impreparati animatori. E’ materia per i sacerdoti, che hanno ricevuto una
formazione appropriata.
Per certi versi l’ideologia
neocatecumenale, a cui mi riferisco
essendo stata dominante in parrocchia negli ultimi trent’anni, porta
all’esasperazione alcune intuizioni dell’ultimo Concilio.
Laddove i saggi di allora individuavano nella
famiglia uno degli ambienti sociali per trasmettere la fede ai figli, i
neocatecumenali ne fanno lo strumento principale per la diffusione della fede
nella società, non solo quindi alla
prole, ma anche nella società nel suo complesso. Quindi cercano di realizzare
un modello di famiglia militante,
spinta addirittura, ad un certo punto, ad andare in giro per il mondo in
missione religiosa. Una famiglia fortemente gerarchizzata sotto l’autorità del padre, visto come capo naturale, inserita e sorretta, anche
economicamente, in una struttura neoparentale di movimento a sua volta
fortemente gerarchizzata intorno a catechisti-direttori spirituali di
complemento. Ciò rende difficile riconoscere e vivere positivamente i molti
altri valori positivi che la realtà della famiglia esprime e può portare a una
sorta di strumentalizzazione della
famiglia a fini di propaganda e formazione religiosa nella società.
Laddove il Concilio degli anni Sessanta
ripristinò il catecumenato battesimale per gli adulti che negli anni ‘70 si
volle prendere come modello di ispirazione per la formazione permanente degli
adulti, i neocatecumenali, sempre per ciò che a me è apparso dall’esterno, pongono tutti coloro che accettano di seguire
il loro cammino in una condizione di permanente precarietà battesimale, appunto di eterno catecumenato in senso proprio, per
cui il seguace può avere l’impressione di essere sempre sulla soglia, mai
stabilmente all’interno, e di poter essere anche, ad un certo punto, escluso,
invitato ad uscire. Ed in effetti l’espressione “Se non vi sta bene, quella è la porta!” mi si dice sia stata utilizzata in quel contesto,
nel gruppo giovani frequentato dalle mie
figlie. Bisogna però tener conto che, nella nostra concezione di fede, nessuno, dico proprio nessuno, può sbattezzare e nemmeno sbattezzarsi.
Chi si sottopone a un’iniziazione religiosa post-battesimale non è mai veramente un catecumeno, il quale è solo colui che viene preparato al
battesimo. Quel tipo di formazione può ispirarsi all’istruzione nel
catecumenato per gli adulti, ma non deve mai
essere considerata la stessa cosa.
Il pericolo di confondere le due attività di formazione fu ben chiaro fin dagli
esordi, come risulta, ad esempio da questo brano del Direttorio catechistico
del ’97:
La catechesi post-battesimale, senza
dover riprodurre mimeticamente la configurazione al Catecumenato battesimale e
riconoscendo ai catechizzandi la loro realtà di battezzati, farà bene a ispirarsi a questa scuola preparatoria
alla vita cristiana, lasciandosi fecondare dai suoi principali elementi
caratterizzanti.
Con il senno del poi,
questa idea che la formazione religiosa permanente degli adulti dovesse
ispirarsi a quella per il catecumenato è stata piuttosto infelice, foriera di sviluppi
molto negativi, frutto sostanzialmente di una generale e profonda sfiducia del
clero per il laicato di fede, visto sostanzialmente come neo-pagano. Essa andrebbe rivista. Ma si può cominciare dalla
pratica.
Nel riprogettare un’attività sociale di
formazione religiosa di secondo livello per i giovani nel nostro quartiere,
consiglio, in base alla mia personale esperienza di antico ragazzo e di genitore,
di seguire i seguenti orientamenti:
- coinvolgere i genitori, che
sono la fonte informativa più affidabile sui loro figli e che, anche
nell’adolescenza, mantengono una certa influenza su di loro;
- cercare di conoscere veramente
i ragazzi, senza pretendere di voler animare
il loro gruppo sulla base di idee
preconcette su di loro;
- riconoscere ai ragazzi la loro realtà
battesimale, dalla quale nessuno deve e può escluderli indicando loro la porta;
- rispettare la personalità
individuale dei giovani del gruppo e, in particolare, la sfera della
riservatezza sessuale, evitando interventi intrusivi in questo campo o frettolose
colpevolizzazioni;
- programmare le attività secondo
le esigenze concrete dei ragazzi, quali emergeranno conoscendoli meglio;
- essere aperti agli apporti che
dagli stessi giovani verranno in tutti i campi di interesse, di modo che
l’attività nel gruppo sia strutturata secondo un dare e un ricevere gratuiti, senza quindi che il dare sia un corrispettivo del ricevere, ma in modo che
entrambi realizzino quella che l’economista Zamagni ha definito giustizia partecipativa, in cui ognuno
sia ammesso a dare un proprio contributo e senta anche il dovere di farlo,
venendo apprezzato per questo;
- indurre precocemente l’emersione di responsabili del gruppo tra gli stessi giovani che lo frequentano,
con adeguata attività di formazione ai processi democratici, in modo che ad un
certo punto i capi del gruppo così come i responsabili delle
diverse funzioni collettive che si individueranno, siano scelti
democraticamente dagli stessi giovani, inaugurando una tradizione democratica;
- non strutturare le attività
sociali del gruppo sul modello catechetico del catecumenato. Da un gruppo
giovani, come di seguito osserverò, deve emergere molto di più;
-non concepire l’attività di un
gruppo giovani come preparazione alla famiglia militante a fini di propaganda
religiosa, ma semmai alla famiglia in tutte i suoi numerosi aspetti e le sue
varie configurazioni sociali attuate ai tempi nostri, evitandone in
particolare la strumentalizzazione a
fine di proselitismo.
2. Finalità di un gruppo giovani - L’esperienza sociale della fede
è necessaria a qualsiasi età, da bimbi, da giovani come da adulti e da anziani.
Non solo, infatti, la fede si apprende in società, ma anche la si esprime in
società, per influire sulla vita in comune. Ad agire in società si impara e
bisogna farne tirocinio. Da giovani c’è anche la necessità di scoprire un
proprio ruolo sociale, di capire, come si dice, che cosa fare da grandi. Tutto questo dovrebbe essere l’obiettivo
di un gruppo giovani. Esso è composto da
laici, in quanto in genere la scelta di un ministero sacerdotale o della vita
religiosa si fa più tardi, ai tempi nostri. Così, un parte importante del
tirocinio da praticare dovrebbe riguardare il lavoro più importante dei laici
di fede in società: “cercare il regno di
Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio” (citazione dalla
Costituzione Luce per le genti, del
Concilio Vaticano 2°, n.31). Questo significa, in un contesto di democrazia
avanzata come quello italiano di oggi, partecipare democraticamente al governo
della nazione per contribuire a migliorare le condizioni di vita della gente.
Riguarda anche la famiglia negli aspetti del rapporto coniugale, con le
questioni connesse dell’equilibrio sessuale, dell’educazione
dei figli e dei rapporti parentali. Tuttavia bisogna tener conto che un gruppo
giovani prefigura, a livello embrionale, una società futura, che comprenderà
anche preti e religiosi, quindi si dovrà
curare di individuare e favorire eventuali vocazioni in quel senso,
consentendone anche un tirocinio.
Il programma del lavoro dei laici di fede in
società è espresso dal loro pensiero sociale, che in parte si
ritrova, sistematizzato, nei documenti della dottrina sociale espressa dai papi e dai vescovi. E’ necessario che
una parte importante del lavoro dei giovani del gruppo sia diretta a
familiarizzarsi con questi temi. Il Compendio della dottrina sociale della Chiesa,
così come i documenti del Concilio
Vaticano 2°, dovrebbe essere tra i libri
di testo del gruppo. La recente
enciclica papale Laudato si’ esprime, infine, una visione innovativa e
molto appassionante in materia di dottrina sociale: andrebbe senz’altro tenuta
presente.
Di solito un gruppo giovani è assistito da un
prete che ne cura la formazione religiosa. Tuttavia quest’ultima non deve avere
esclusivamente né prevalentemente carattere catechetico. Dovrà comprendere, in
particolare, spazi di autoformazione, approfondimenti e tirocini promossi e
realizzati dagli stessi appartenenti al gruppo. Dovrà svolgersi sempre nella
modalità del dare e ricevere
gratuiti, quindi in un contesto di
giustizia partecipativa, a cui prima ho accennato, senza gerarchizzare
insegnamenti e tirocini. Non si dovrà inculcare,
ma indurre, promuovere la scoperta di
certi valori e fondamenti culturali. Il
tutto dovrebbe svolgersi in un contesto di libertà e di partecipazione
democratica, in cui ognuno sia ammesso a fornire un proprio contributo.
E’ necessario che i problemi della società e
del quartiere, così come quelli collettivi tipici della condizione giovanile
contemporanea, che sono diversi da quelli di altre generazioni del passato,
trovino eco nel lavoro del gruppo. Se occorre fare tirocinio per influire la
società, occorre conoscere la realtà su cui si deve influire. Una visione
realistica delle cose porterà senz’altro a individuare i molti elementi
positivi della società di oggi, che, in particolare, è tanto meno violenta di
quelle del passato e pone tanta più attenzione al riconoscimento e allo
sviluppo dei diritti umani, tanto da sentire come una colpa sociale il non
accogliere milioni di migranti che stanno dirigendosi verso la nostra nuova
Europa, per insediarvisi. E’ un grave errore presentare la nostra società come neopagana, sebbene presenti
indubbiamente elementi di irreligiosità. In particolare le costituzioni europee
e quella dell’Unione Europea sono fortemente improntate a valori di origine
religiosa, sebbene di tale origine spesso si sia persa memoria.
I giovani del gruppo dovranno essere invitati a non considerare come
esaustiva della loro esperienza sociale la partecipazione ad una formazione
parrocchiale. Dovranno essere indotti a rimanere attivi nei diversi ambiti
sociali dove, da laici di fede, possono contribuire a un miglioramento delle
cose: nella scuola anzitutto e negli organismi di partecipazione scolastica,
nello sport, nelle formazioni politiche, nelle formazioni amatoriali artistiche
e via dicendo. Un laico di fede è come il lievito in un impasto molto grande
che comprende gente di tutti i tipi e le concezioni: democraticamente si può
arrivare a decisioni collettive, e ai
conseguenti impegni, per il bene comune,
concetto centrale nella dottrina sociale della Chiesa. La parrocchia non è il rifugio degli ultimi buoni rimasti in società, il Fort Alamo della fede, in un
oceano neopagano, ma il luogo in cui si apprende e ci si fortifica nella fede in
vista del lavoro che c’è da fare nella più ampia società in cui la parrocchia è
immersa.
Tra i giovani del gruppo si discuterà anche di famiglia, affettività,
sessualità, ma senza intrusioni indebite nella sfera personale, in particolare
senza demonizzazioni e senza condanne del particolare stile di vita di
ciascuno. Bisogna capire che i giovani del gruppo raggiungeranno l’equilibrio
sessuale molto più avanti, intorno ai venticinque anni. Inutile accentuare la
sessuofobia di stampo religioso e scandalizzarsi per pratiche e approcci
sessuali che nessuno è mai riuscito veramente a impedire nei giovani, neanche
nelle epoche di più stretto rigorismo. Non bisogna fare un dramma di nulla. Non
bisogna costringere i giovani a mettere in piazza, di fronte agli altri, le
proprie esperienze sessuali, né imporre superficiali pentimenti pubblici. Certe
cose vanno lasciate nella sfera della coscienza personale e dei rapporti con il
sacerdote. Bisognerà invece far emergere quanto di bello c’è nell’amicizia tra
coniugi, che è qualcosa di più profondo,
coinvolgente, meno superficiale e più duraturo dell’amore sessuale, che
comunque nel rapporto tra i coniugi c’è e li avvicina e li lega molto. In questo può essere utile coinvolgere i
genitori, che di quell'amicizia hanno personale e viva esperienza.
Nella società stanno emergendo forme di unione
coniugale diverse dal matrimonio strutturato sul modello di quello proposto in
religione. Probabilmente alcuni dei giovani del gruppo vivranno in famiglie
centrate su una di quelle unioni coniugali. Bisogna astenersi da facili
condanne e far emergere l’amore che c’è in esse, ciò che in esse è manifestazione dell’agàpe religiosa.
Nel mondo occidentale è in atto un processo di riconoscimento sociale
delle unioni omosessuali. Una volta escluso che l’omosessualità sia frutto di
malvagità o espressione di perversione o di malattia non vi sono ragioni valide
per non concederlo secondo il diritto civile. E’ un processo che sicuramente verrà portato a termine, e
anche in Italia. I giovani dovranno essere preparati ad affrontarlo. Se non
vogliamo farne degli spostati sociali, dei disadattati, bisognerà indurli a
capire quanto amore vero c’è anche in quel tipo di unioni. Ci sono ancora molti
problemi dal punto di vista teologico, ma la direttiva che ci viene dai vescovi
non è più quella della dannazione, dell’esclusione, ma quella dell’inclusione.
Lasciamo la teologia ai teologi, i quali con il tempo faranno il lavoro che ci
si aspetta da loro, e procediamo con l’inclusione. Questo è molto importante
sia nella formazione del laico che in quella del prete e del religioso.
Viviamo in società che stanno
combattendo attivamente la lunga condizione di discriminazione sociale sofferta dalle
donne, fino a che, nei primi decenni del secolo scorso, è finalmente iniziato il loro riscatto. E’ un processo che si sta conducendo anche in religione. Anche in campo religioso vi è una viva insoddisfazione per il ruolo prevalentemente di
complemento riservato alle donne, anche se sempre più le donne accedono a ruoli
di primo piano anche in questo ambito, in particolare nel settore universitario.
Ma è soprattutto nella condizione in famiglia che dagli scorsi anni settanta in
Italia si è vissuta una vera e propria rivoluzione, che nel 1983 si è
ripercossa anche nella disciplina canonica del matrimonio religioso. L’uguaglianza
in dignità tra l’uomo e la donna è, a tempi nostri, anche legge canonica. Ciò
richiede di vivere diversamente dal passato i rapporti familiari e, in genere, tra i sessi e di questo è
opportuno che si faccia tirocinio fin dalle prime esperienze sociali tra i
giovani. I giovani del gruppo si abituino a realizzare tra loro la pari dignità
tra i sessi e, in particolare, a consentire alle ragazze di dare un proprio
contributo di rilievo all’azione sociale. Esse, oggi, sono spesso più preparate
dei ragazzi, stando ai risultati scolastici. Eppure negli anni scorsi in
parrocchia ho sentito idealizzare ancora la figura del maschio come capo naturale della famiglia. E’ una concezione che va
superata. La troviamo nelle scritture sacre, così come troviamo tante altre
cose superate con il cambiare dei tempi, come ad esempio il dovere religioso di
sterminare gli infedeli o di lapidare le adultere. Bisogna familiarizzarsi con i fondamenti
culturali e religiosi dell’uguaglianza in dignità sociale e religiosa tra uomo e
donna e farne assiduo tirocinio sociale.
A volte i giovani, e in particolare gli adolescenti, assumono
atteggiamenti provocatori. Tutti noi li abbiamo praticati da giovani e subiti
da genitori. E’ necessario indurre nel gruppo giovani il tirocinio democratico per affrontare
pacificamente ogni dissenso, facendo emergere sempre il molto che unisce e che
può tenere insieme nonostante ciò che divide. Mai, dico mai!, l’animatore, il prete e chiunque abbia nel gruppo
responsabilità di qualsiasi genere dovranno uscirsene con un “Se non ti sta bene, quella è la porta!”. Noi dobbiamo proporci di non rinunciare a nessuno, neanche ai
dissenzienti. Questa è la democrazia che è praticata nella società in cui
noi dobbiamo influire, in cui i giovani del gruppo dovranno essere formati ad
influire. Il tirocinio democratico servirà anche come iniziazione nel campo di
attività del Consiglio pastorale, per la scelta dei suoi membri elettivi e per
la formulazione del suo programma. Anche nei consigli pastorali, come in ogni
altro tipo di assemblea che non sia meramente passiva e soggetta a un qualche
gerarca, si sviluppano tensioni che devono essere superate pacificamente nella
dialettica democratica.
Come ho scritto prima, i primi animatori di un gruppo giovani dovranno
indurre l’emergere di capi tra gli
stessi giovani, scelti con procedure democratiche. E’ così che si fa tirocinio
di democrazia, che è la via che la diffusione della fede deve seguire nell’Occidente
contemporaneo. Naturalmente le responsabilità di questi capi-giovani saranno diverse a seconda delle età, ma dovranno
comunque essere significative. Non dobbiamo pensare a un quattordicenne come a un bambino
incapace di responsabilità. Non è questa
la sua condizione in società: egli infatti risponde penalmente. In questo il
metodo scout è molto efficace nel far emergere gerarchie dagli stessi gruppi.
Il metodo democratico è essenziale,
perché comprende una fase di discussione e una di deliberazione collettiva, ma
anche una di periodica verifica. Esso aumenta la partecipazione collettiva.
Appena possibile gli iniziali animatori si devono fare un po’ da parte,
accreditando nuovi responsabili o comunque affiancandoseli. Il gruppo non dovrà
mai essere posto sotto l’autorità cooptata, esclusiva e
indiscutibile di un catechista che pretenda anche di essere una sorta di direttore spirituale di complemento. Se si farà catechesi, essa
sarà solo una delle varie attività nel gruppo, e dovrà essere svolta senza
pretese di direzione spirituale, la quale va riservata esclusivamente al sacerdote,
però solo qualora da un giovane emerga un’esigenza in questo senso.
Noi adulti non dobbiamo presumere di avere la
giusta ricetta di vita per i nostri giovani. Saranno loro stessi ad aprirsi le
loro vie. E’ così anche in un gruppo giovani parrocchiale. Noi adulti lo possiamo progettare in vari modi, ma dobbiamo essere aperti a che diventi poi qualcosa
di diverso, secondo l’esperienza di vita dei nostri giovani.
Ci dovrà, infine, essere una circolarità tra l’esperienza
del gruppo giovani e quella degli altri
gruppi della parrocchia. Insomma, tra gli obiettivi concreti del gruppo giovani
ve ne devono essere alcuni condivisi con gli altri gruppi della parrocchia.
Deve essere possibile uno scambio di esperienze, un reciproco conoscersi, tanto
più che una persona nella sua vita passerà gradualmente dalla catechesi per l’infanzia
a quella per la Cresima e ad un gruppo giovani, poi alla formazione permanente
per gli adulti, alcuni per la formazione sacerdotale e per i religiosi, altri
alla catechesi matrimoniale, poi a quella per i malati e gli anziani, quindi da
un gruppo all’altro: in tutti bisogna che ci sia qualcosa di comune che li
renda subito familiari quando vi si verrà associati. Di questo, in particolare, dovrebbe occuparsi
il Consiglio pastorale, che, per come la vedo io, va interamente rinnovato al
termine di un percorso sinodale che avvicini di nuovo la gente del quartiere
alla parrocchia.
L’attuale Consiglio pastorale , nel quale per ciò che ne so non esiste la
componente elettiva e che è in carica da molto tempo, deve considerarsi nella
sua componente maggioritaria corresponsabile della grave situazione in cui è
venuta a trovarsi la parrocchia (nuovo parroco escluso naturalmente, ma anche escluso il presidente del nostro gruppo di AC, al quale è stato sempre riservato un po' il ruolo di inascoltato grillo parlante). Occorre, in particolare, che gli venga dato un
regolamento che definisca con precisione
chi ne fa parte e la proporzione tra membri elettivi e membri cooptati dal
parroco. Per ciò che mi è stato riferito, l’ultimo Consiglio pastorale si è
svolto in una gran confusione: non si sa veramente chi ne faccia parte e a che
titolo. In una delle ultime riunioni ci è stato raccontato che uno dei presenti
ha preso la parola iniziando con il dire che nemmeno lui sapeva se e a che
titolo facesse parte del consiglio. Certo, il regolamento può prevedere la
partecipazione popolare, ma al momento del voto bisogna che si sappia chi ha
titolo di deliberare.
Mario Ardigò - Azione Cattolica
in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli