La
Chiesa delle stanzette
Sento acutissima la responsabilità di come è
diventata la nostra parrocchia.
Dove ero mentre tutto questo accadeva?
Che cosa è valso alla Chiesa di aver curato
la mia formazione per tanto tempo e con persone di grande valore, se poi al
dunque, lì dove era necessario che manifestassi tra gli altri ciò che mi era
stato insegnato, io ho taciuto e sono rimasto inerte, con la scusa che tanto non
c’era nulla da fare e che agendo avrei fatto solo peggio?
E tanto più sono addolorato, in quanto vedo
le difficoltà che sta incontrando il nostro nuovo parroco, don Remo, che so
essere uomo di grandi risorse, uno di quelli che vengono mandati in ambienti
difficili e li risanano, un sacerdote che so aver molto meritato nei suoi
precedenti ministeri e che, come ho potuto leggere, è stato anche molto amato
dalle collettività tra le quali è stato mandato ad esercitare la sua opera
religiosa.
L’ho scritto diverse volte su questo blog: il
passato non può essere cambiato, se ne può solo falsificare la memoria. E’ solo
nel presente e nel futuro che si può essere diversi.
E il nostro passato come parrocchia è stato quello del
progressivo prevalere di un modello di Chiesa profondamente divergente da
quello indotto dal Concilio Vaticano 2°, alla cui realizzazione si è votata l’Azione
Cattolica.
Ora scriverò cose che un sacerdote conosce
bene, ma che non sempre rientrano nel patrimonio culturale dei fedeli laici.
Sono cose dure. Cercherò di dirle senza recare scandalo. Non perché, come si dice, io voglia bene alla Chiesa. Non riesco a voler bene alla Chiesa,
intendo come istituzione e come realtà collettiva di massa. E non ci riesco
perché, vista così, non ha volto. Ma mi intenerisco di fronte a ciascun essere
umano che l’abita e la vive. E’ quella compassione umana che costituisce, a ben
vedere, il fondamento dell’esperienza religiosa e che si fa anche rientrare nell’idea di misericordia, anche se è un sentimento per così dire più precoce,
direi primordiale, perché in fondo la misericordia presuppone già l’istituzione,
delle regole e qualcuno che, per
compassione, accetta di rimettere delle colpe, dei debiti.
Spiegando
i documenti dell’ultimo Concilio avverto sempre che, leggendoli, non si capisce
perché è stato proprio necessario celebrare quella grande assise
di capi religiosi, e non lo si capisce perché in essi non è scritto. E non lo
si trova veramente chiarito nemmeno nelle dichiarazioni pubbliche, solenni, dei capi religiosi che
vi presero parte, in particolare in quelle dei papi del Concilio, che furono
Angelo Roncalli, Giovanni Battista Montini e Karol Wojtyla. Il primo lo indisse e ne guidò la
preparazione e la prima fase; il secondo ne guidò la fase conclusiva, quella in
cui la stesura definitiva di quei documenti fu redatta ed essi vennero approvati, e la prima, fondamentale, attuazione;
il terzo, nel suo lungo ministero, ne diede una sorta di interpretazione
autentica inserendone i principi nella dottrina sociale, promuovendo un lungo
lavoro di sistemazione culturale, e, infine, guidò la Chiesa nel compito più
difficile, quello di fare memoria veritiera del suo passato, quel lavoro che
chiamò di purificazione della memoria.
Perché,
cari amici che mi leggete, io ho capito presto una cosa, approfondendo da laico
certe questioni che riguardano la nostra bimillenaria vita collettiva di fede:
tutte le accuse che i nemici della nostra Chiesa le hanno mosso sono vere, ma
non sono tutta la verità. E’ per questo che è stato celebrato
il Concilio Vaticano 2°, che ha trasformato profondamente la nostra Chiesa,
riformulandone anche le fondamenta ideologiche, dogmatiche. Ciò che ne è uscito
viene definito emotivamente la Chiesa
bella del Concilio, un’immagine
ideale che si è cercato di realizzare in mezzo a molte difficoltà.
Può sembrare strano che sia così difficile
staccarsi da certe tragedie del passato. Lo è perché, in fondo, non abbiamo
sufficiente fede nell'insegnamento del mite nostro Primo Maestro di Galilea. Perché
non abbiamo la pazienza di seminare, perché altri raccolgano, alla fine dei
tempi, gli angeli come è scritto, quando verrà il momento di separare il buon
raccolto dal resto. No, noi vogliamo anche cominciare questo lavoro da subito,
per estirpare tutta l’erbaccia che ci sembra di scorgere nel buon frumento.
Come finiremo - pensiamo - se non lo facessimo? Tutto il molto male che c’è stato
storicamente nella nostra Chiesa, fin dalle origini, è dipeso da questo modo di
pensare.
Il tremendo passato della nostra Chiesa ci ha
tramandato la fede fino ad oggi: talvolta pensiamo così. Staccandocene, con le migliori intenzioni, potremo fare altrettanto
con i nostri posteri? O crollerà tutto e il gregge si disperderà? E non capiamo che, invece, il deposito di fede ci è
giunto, direi proprio per virtù
soprannaturale, per quella forza invincibile di bene che riteniamo governi
la storia umana, nonostante quel passato; è nonostante le malvagità del
passato che ci è stato trasmesso l’imperativo
di vita, di bene, di misericordia, l’idea che si possa essere diversi dalle
belve dalle quali siamo emersi, e ciò pur essendo stato trasportato
attraverso i secoli da istituzioni religiose che furono anche omicide, orrendamente stragiste e al cui vertice vi furono anche persone che, secondo i criteri contemporanei,
sarebbero considerate delle criminali, colpevoli di crimini contro l'umanità.
Non dovrebbe essere evidente che una
religione in cui si ritiene che il fondamento beato di tutto sia infinita benevolenza e misericordia non può esigere
di bruciare sui roghi i dissenzienti? Eppure proprio questo storicamente si è
fatto, tantissime volte.
Non dovrebbe essere evidente anche che, se si
proclama l’amore per i nemici, è un
controsenso promuoverne lo sterminio? Eppure anche questo storicamente si è
fatto su vasta scala.
E, infine, non dovrebbe essere evidente che,
se pensiamo di poter seguire con spirito
filiale la via indicata dal nostro Primo Maestro, con la libertà dei figli, noi non possiamo imporre agli altri metodi, cammini, discipline, regole, fardelli che presuppongano di rinunciare a quella libertà? Ecco che
invece è accaduto, e ancora accade, che noi di quella libertà diffidiamo e
pretendiamo che chi si pone alla nostra scuola vi rinunci.
Storicamente la Chiesa era divenuta una vivente smentita delle idealità
di fede proclamate: per questo è stato necessario,
anzi indispensabile, celebrare il ventunesimo Concilio. Era divenuto intollerabile a molti,
non a tutti per la verità, vivere in una Chiesa così. E lo era diventato perché
ci si rendeva conto di essere infedeli alla missione religiosa che era stata
affidata alla Chiesa. Costruita ideologicamente e giuridicamente dal secondo
millennio come una società perfetta,
nel senso di modellata come uno stato, e in particolare come un impero
religioso, essa aveva realizzato molte frontiere e intrapreso molte guerre di
conquista, al modo degli stati, perdendo il senso della realtà soprannaturale
che la spingeva amorevolmente verso
tutti i popoli del globo e che fu posta al centro della riflessione dei saggi del
Concilio Vaticano 2°:
[dalla Costituzione Luce per le genti, n.9] Questo
popolo messianico [=istituito e radunato da Cristo] ha per capo Cristo “dato a morte per i nostri peccati e risuscitato per
la nostra giustificazione” (Rm 4,25), e che ora, dopo essersi acquistato un
nome che è al di sopra di ogni altro nome, regna glorioso in cielo. Ha per condizione la dignità e la libertà
dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come in un
tempio. Ha per legge il nuovo precetto
di amare come lo stesso Cristo ci ha amati (cfr Gv 13,34). E finalmente, ha per fine il regno di Dio, incominciato
in terra dallo stesso Dio, e che deve
essere ulteriormente dilatato, finché alla fine dei secoli sia da lui
portato a compimento, quando comparirà Cristo, vita nostra (cfr Col. 3,4) e “anche
le stesse creature saranno liberate dalla schiavitù della corruzione per partecipare alla gloriosa libertà dei figli
di Dio” (Rm 8,21). Perciò i popolo messianico, pur non comprendendo l’universalità
degli uomini e apparendo talora come un piccolo gregge, costituisce tuttavia per tutta l’umanità il germe più forte di unità,
di speranza e di salvezza. Costituito da Cristo per una comunione di vita, di
carità e di verità, è pure da lui assunto ad essere strumento della redenzione
di tutti e, quale luce del mondo e sale della terra (cfr Mt 5, 13-16), è
inviato a tutto il mondo.
Quindi la Chiesa del Concilio vive in
una dimensione di benevolente apertura universale, da esprimere e realizzare in
libertà e in spirito di comunione di
vita, carità e verità, per l’unità, la speranza e la salvezza di tutti gli esseri umani. In particolare non
siamo mandati in mezzo agli altri per selezionarli,
inquadrando quelli che accettano di cambiare secondo il nostro volere ed
escludendo tutti gli altri. La regola da seguire è invece quella della
condivisione e della misericordia, come ci ricorda ogni giorno il nostro nuovo
vescovo e padre universale. E’ così che agì il nostro Primo Maestro accostando
le masse. Ed egli è il nostro fondamentale esempio di vita religiosa.
Questa dimensione di apertura universale della
Chiesa del Concilio manca attualmente in parrocchia. La nostra è
divenuta progressivamente la Chiesa delle
stanzette. Che significa? Significa
che, per come ho potuto constatare, l’iniziazione religiosa è concepita per
portare un nucleo selezionato di persone,
quelle che accettano un certo metodo, un certo cammino di spiritualità, a
radunarsi in una delle tante stanzette del
nostro complesso parrocchiale, per proseguire quella certa via insieme con una ventina
di altre persone le quali, da quel momento in poi, saranno tutto il loro mondo religioso. Lì, in quel microcosmo sociale,
saranno progressivamente iniziate a un particolare gergo religioso, a una
particolare liturgia, a particolari consuetudini di vita spirituale,
comprendenti anche un certo modo molto particolare di cantare, che li separeranno sempre più dal
resto del popolo, con il quale avranno sempre meno dimestichezza,
distanziandosene sempre più man mano che avranno la sensazione di raggiungere
certi traguardi, di avanzare su quel
cammino, finendo infine anche per diffidarne, come tendenzialmente infedele e
imperfetto, e, diffidandone, forse anche con il disprezzarlo. E quando si
diffida e si disprezza si diviene estranei
gli uni agli altri.
Quella estraneità che in famiglia abbiamo vissuto in maniera francamente umiliante quella volta che abbiamo chiesto ad uno dei cantori del gruppo delle stanzette, a Messa, nella Messa di tutti, non in una di quelle delle stanzette, di accompagnare con la chitarra uno dei canti del libretto dei canti della parrocchia e ci è stato risposto che loro quei canti non li conoscono. Perché non li conoscono? Non sono i canti della parrocchia? Perché devono cantare, come è accaduto durante la Messa di insediamento del nuovo parroco, canti che non ci sono nel canzoniere della parrocchia (io non sono riuscito a trovarli)? "Come potevamo noi cantare...", all'epoca ci sono frullate in testa le parole del salmo degli esuli in terra straniera, perché così ci siamo sentiti. Può sembrare una sciocchezza. Ma chi ama canta, è stato scritto, e se tu non vuoi cantare con me significa che non mi vuoi bene. Se però sono i canti del canzoniere della parrocchia che rifiuti, allora è un po' come se tu rifiutassi la parrocchia. Ecco che così si diventa estranei. Non riusciamo più a cantare insieme perché non riusciamo più a stimarci e quindi a volerci bene. Chi ha cominciato? Non importa stabilirlo. Seguiamo la lezione del Wojtyla: perdoniamoci gli uni gli altri e chiediamo perdono. E cambiamo. Impariamo a stimarci e a volerci bene, nuovamente amici, da estranei che ci siamo voluti fare e in effetti siamo diventati.
L’estraneità alla gente del quartiere è
appunto il principale dei problemi della parrocchia. Questo metodo delle stanzette non va bene per la parrocchia e va subito cambiato come strategia generale. Infatti questa
impostazione ha contribuito sicuramente a condurci nella grave situazione di
estraneità al quartiere che stiamo vivendo. Potrà rimanere come una via particolare, di un gruppo, di un
settore, sempre però che consenta di mantenere un collegamento vivo con le
altre realtà sociali della parrocchia e non ostacoli l’apertura al quartiere.
Altrimenti darebbe scandalo, sarebbe
un ostacolo su quella via, ed è meglio
tagliare risolutamente ciò che dà scandalo, è scritto.
In altre parole e detto più esplicitamente:
noi non potremo ripartire per realizzare la Chiesa
bella del Concilio, quella dell’apertura universale, se non separando chirurgicamente la struttura
neocatecumenale, i suoi dirigenti, i suoi catechisti, da quella parrocchiale, in
particolare nella catechesi, nella quale, iniziando la gente alla fede, si costituisce, si struttura, la collettività. Non c’è altra via, ed essa
deve essere percorsa con molta decisione, e subito, se del caso richiedendo un
esplicito intervento d’autorità del vescovo (del resto quello è proprio il suo
lavoro). E’ necessario poi che la diocesi ci invii degli aiuti al nuovo parroco,
per indurre comunità impostate diversamente nei vari ambienti e settori di impegno della parrocchia, innanzi tutto formando gente nuova che le possa animare. Noi oggi non abbiamo
risorse umane sufficienti.
Non conosco abbastanza bene i fedeli
neocatecumenali della nostra parrocchia e la loro ideologia per dire se e fino
a che punto essi possano essere inseriti nel nuovo corso. Certamente so che tra
loro ci sono persone buone e di valore. Bisogna però vedere in che misura essi siano realmente disposti ad affrancarsi,
nel lavoro svolto propriamente per la
parrocchia, dall’ideologia e dai costumi particolari del loro movimento, in
particolare dalla dottrina catechetica che, naturalmente per come mi è apparso
guardando la cosa dall’esterno, ha promosso la Chiesa delle stanzette. Fino a che punto dipendano, per la loro vita
religiosa, da quelle stanzette. Credo
che, invece, sia meglio che i loro catechisti
si dedichino solo alle comunità neocatecumenali, le quali, per ciò che mi
appare, richiedono un intensissimo lavoro di animazione, del quale in quest’epoca
di cose nuove i sacerdoti della parrocchia devono essere assolutamente
sgravati. I nostri preti, ora, devono dedicarsi, ed è un lavoro molto oneroso,
a raccogliere il numeroso gregge che è disperso per il quartiere. Essi, secondo
la metafora del nostro nuovo vescovo e padre universale, devono riprendere a impregnarsi del suo odore.
In che cosa possiamo essere utili per
aiutarli? Questo noi fedeli laici dobbiamo chiederci e questo anch’io, oggi, mi chiedo.
Mario
Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli