Riflessioni di un genitore sull’organizzazione
parrocchiale del catechismo
Sul sito dell’Ufficio catechistico diocesano:
http://www.ucroma.it/approfondimenti/quali-orientamenti-per-il-rinnovamento-dell%E2%80%99iniziazione-cristiana-un-primo-tentativo-di-sintesi-per-la-discussione-di-andrea-lonardo
ho letto la relazione di Andrea Lonardo del febbraio 2010 sul tema
del rinnovamento dell’iniziazione cristiana.
Prendendo spunto da quel documento faccio di
seguito alcune osservazioni, sulla base della mia esperienza di antico catechizzato
e di quella un po’ più recente di genitore di catechizzate.
Si è
presa coscienza che la catechesi è un lavoro collettivo, scrive Lonardo. Questo
è senz’altro molto importante. Che significa?
Come le nostre consuetudini e opportunità di
vita sono modellate dall’ambiente sociale, così è anche per la fede. Una
collettività parrocchiale tende a volersi riprodurre nei propri giovani, ma non
sempre ci riesce, da noi a San Clemente
sempre meno. Se ne dà la colpa
alla società intorno, che sarebbe diventata irreligiosa. In realtà le indagini
demoscopiche e le cronache ci dicono che non è proprio così. I valori di fondo
della società in cui viviamo rimangono ancora fortemente improntati alla nostra
fede, anche se talvolta sotto aspetti meno espliciti, per cui si richiede più
attenzione per individuarli.
E’ venuto
a mancare piuttosto un elemento di raccordo tra il mondo religioso e quello
civile, appunto ciò che i saggi del Concilio intesero ripristinare promuovendo
l’azione del laicato di fede. Un ambiente sociale in cui l’azione dai laici di
fede, operando armonicamente dall’interno
come sua parte viva insieme a componenti di diversa estrazione, prepari un terreno
fertile per l’evangelizzazione delle masse, rendendo visibili i fondamenti
religiosi di quei valori sociali.
E poi
manca un’alfabetizzazione liturgica, ciò che tende a limitare l’effettiva
partecipazione del popolo, il quale allora è spinto a vivere le liturgie solo
come spettacoli, e a quel punto alla messa domenicale preferisce i grandi
raduni di massa organizzati dalla nostra gerarchia o intorno ai santuari, in
cui la folla è al più ridotta al ruolo di figurante ma prevalentemente rimane
passiva spettatrice, e richiede un apparato spettacolare, ad esempio con molta
gente in costume e una bella colonna sonora.
Quello
che a Roma invece non manca è una certa familiarità con la nostra, onnipresente
nella città, gerarchia del clero. Questo però ostacola ancora di più
l’individuazione dei fondamenti religiosi dei valori proclamati in democrazia,
e dunque l’integrazione civile della nostra esperienza di fede, perché la nostra
gerarchia religiosa si proclama estranea alla democrazia, contribuendo a
mantenere la separazione dei due ambiti, quello religioso e quello civile, la
conciliazione dei quali dovrebbe essere il compito proprio dei laici.
C’è un
altro aspetto da tener presente: il risultato dell’iniziazione religiosa è
influenzato da come è diventata e si presenta all’esterno la collettività nel
quale quel lavoro è svolto. A volte le
collettività religiose lo favoriscono, altre volte lo ostacolano, sono
controproducenti. Migliorare l’iniziazione religiosa può richiedere anche un
cambiamento collettivo di come si vive insieme la fede. E’ questo il caso di
San Clemente papa, per come la vedo io.
Ma in un
altro senso la catechesi è un lavoro
collettivo: in quanto richiede una effettiva collaborazione tra tutti coloro che vi sono impegnati, non potendosi
più pensare che sia valido il modello della scuola elementare di una volta,
tuttora ampiamente praticato nella catechesi, di un maestro per classe. E’ necessario quello che in religione viene
definito spirito sinodale. E questo
perché ogni gruppo che ci viene portato per l’iniziazione religiosa richiede un
impegno molto più ampio del lavoro sui singoli individui che lo compongono, ma
comprende anche il cercare di comunicare con l’ambiente familiare, e in genere
sociale, a cui i catechizzandi appartengono, e innanzi tutto di conoscerlo e di
capirlo veramente, provandosi ad interagire con esso. Perché, appunto,
all’inizio si viene portati a catechismo. E se si è portati significa che
non si parte da zero. Ci saranno degli adulti coinvolti in questo portare. Ci si confronta sempre con un
ambiente sociale, con il gruppo di provenienza, e questo anche se quest’ultimo
si palesa meno, o mostra addirittura di volersene restare in disparte, o comunque
rimane di difficile accesso per le difficili condizioni di vita dei suoi membri
o per problemi di integrazione culturale. Questo richiede un’azione di squadra,
una equipe, per mettere insieme le varie competenze che servono, per costituire
una continuità del servizio, per verificare e mettere a punto ciò che si sta
facendo, imparando dall'esperienza, e comunque per unire le forze nel
confrontarsi con realtà collettive che richiedono di essere studiate da diversi
punti di vista. Lonardo lo descrive come
«un
vero “laboratorio” esperienziale della
fede, dove non vengono artificialmente create delle specifiche dinamiche di
gruppo» ma in cui cerca di
instaurare relazioni fraterne con la gente che ci si avvicina a partire dalla
realtà di provenienza, lì dove effettivamente vive, da dove parte per venire
tra noi, perché la vita di fede insieme non diventi un parco a tema, o una specie di serra
per il miglioramento delle specie, ma incida sulla vita vera delle persone,
innanzi tutto attraverso loro stesse, facendole uscire dalla rassegnazione per
cui si vive male, ma si dispera di cambiare e allora ci si prende di quando in
quando delle libertà nel sogno, anche religioso. Questo è quel lavoro di promozione umana che i saggi
dell’ultimo Concilio fecero rientrare
nel campo proprio dell’azione laicale. Nel ’76, quando ancora la spinta dell’aggiornamento conciliare non era contrastata, in un tempo
molto difficile per la nazione, molto più difficile di quello che oggi stiamo
vivendo, ci si fece sopra un grande convegno ecclesiale, appunto intitolato Evangelizzazione e promozione umana.
Scrive
Lonardo, nel 2010, che bisogna far scoprire alle persone «di essere pienamente inseriti nell’unico popolo di Dio, composto da
tutti i battezzati, anche quelli più restii a coinvolgersi. Recentemente è
stato il Convegno di Verona, su questa linea, ad insistere sull’importanza per
la chiesa italiana di continuare ad essere “chiesa di popolo”, rifuggendo dal
rischio di identificarsi con alcune élites di persone più mature e convinte.»
Questo di
scoprire di essere l’unico popolo di Dio è un bel problema. E’ un tema che è stato centrale in uno dei
maggiori documenti del Concilio Vaticano 2°, la Costituzione Luce per le genti, sulla Chiesa. Di fatto questo scoperta che la Chiesa è popolo è stata guastata piuttosto precocemente, nella fase
attuativa dell’ultimo Concilio, dalla
profonda e millenaria diffidenza del nostro clero per il laicato di fede, la
parte largamente maggioritaria di quel popolo. Tanto che, all’inizio degli anni
’70, volendo progettare i modi per riorganizzare la formazione culturale e religiosa della
gente di fede si volle prendere a modello il catecumenato per gli adulti,
ripristinato dall’ultimo Concilio. Il catecumeno
in senso proprio è uno che della
Chiesa deve ancora entrare a far parte, mediante il battesimo. Adattare la strategia per
l’iniziazione religiosa dei già battezzati a quella per i catecumeni ha portato,
a volte inconsapevolmente a volte invece consapevolmente, ad accompagnare indietro il
battezzato sulla soglia degli spazi religiosi, sostanzialmente a respingerlo, come se fosse effettivamente
possibile ad un certo punto anche spingerlo fuori, perché non è come dovrebbe
essere e non si lascia plasmare. Questa
scelta, come ho scritto in un precedente post,
si è rivelata particolarmente infelice, anche se continua ad essere riproposta.
Se significa continuare a tenere viva nei fedeli la memoria dei fondamenti della
fede, può essere ancora utile l’ispirazione al catecumenato battesimale. Ma
poiché poi, in particolare nella formazione del laicato, bisogna andare molto
oltre, in particolare suscitare delle persone che sappiano operare in società
per trasformarla in una certa direzione, secondo le idealità religiose, ma
lavorando armonicamente con le altre
componenti di una nazione, ciò che richiede di avere ben chiaro il senso della
propria dignità civile e religiosa, sarebbe meglio chiamare questo processo di
formazione in un altro modo, in particolare per non correre il rischio di privare in qualche modo i battezzati della
dignità che viene loro dal battesimo. Senza quella dignità non si hanno poi i
laici che servono, capaci di un’ampia autonomia nel lavoro che è loro proprio
in società, non semplici esecutori dei voleri della gerarchia del clero. E
questo tenendo anche conto che viviamo,
come scrivono Marzano e Urbinati nel libro che ho citato qualche giorno fa, nella nazione del papa e dei campanili,
ma non solo, in un contesto sociale
ancora fortemente segnato dalla nostra religione. Una nazione in cui
perfino i rituali mafiosi e camorristici sono improntati alla nostra liturgia e
i boss di paese si impuntano a farsi omaggiare
dalle statue religiose nelle feste locali. A volte abbiamo sognato di lavorare,
nella nostra Italia super clericale anche in fondo nelle sue maggiori
componenti criminali e dove anche gli
atei talvolta si mostrano devoti!, in mezzo a un popolo mai toccato
dall’evangelizzazione, e allora ci siamo raffigurati un po’ come i missionari che giungevano tra genti di
altre tradizioni religiose, in Africa e in Asia, e, in realtà, il nostro era un
rifiuto della gente di fede che c’era qui da noi, fatta di battezzati ai quali
non riconoscevamo più la dignità battesimale perché vivevano male. E allora li sbattezzavamo. Salvo poi negare
ostinatamente il diritto allo sbattezzo a
coloro che chiedevano consapevolmente di
esercitarlo, proponendo loro argomenti che poi nella pratica tralasciavamo di
osservare. Infatti sbattezzare non è possibile, non è lecito. Dunque non è lecito trasformare un battezzato in un
catecumeno in senso proprio, o comunque trattarlo come tale. E’ come se
avessimo ritirato la cittadinanza a larghe fette del popolo universale di fede,
secondo quello che, ad un certo punto, fu il costume dell’Unione Sovietica
verso i dissidenti, quando si finì di toglierli di mezzo facendoli fuori puramente e
semplicemente, via questa a lungo praticata anche in religione.
Insomma il battezzato ha una sua dignità che
gli deve comunque, sempre, essere riconosciuta, come è stato scritto molto
bene nel Direttorio Catechistico del ’97 che ho ricordato in un precedente post.
A volte invece
i gruppi dei più assidui intorno ai preti tendono localmente ad assumere
una configurazione levitica, organizzandosi a
difesa degli spazi liturgici e realizzando agli accessi quelle dogane che piacciono poco al nostro nuovo vescovo. Di
modo che ad uno non basta il battesimo per essere riconosciuto come persona di
fede, ma deve subire esami su esami e la sua posizione rimane sempre un po’
precaria, a seconda delle commissioni di esame. Oggi entri, domani chissà. E
ciò che apparve evidente ai rivoluzionari nordamericani a fine Settecento,
nella loro Dichiarazione di Indipendenza da un gerarca europeo zeppa di riferimenti
religiosi, vale a dire che le persone hanno diritti inalienabili perché sono state create
uguali,
non lo è più tanto tra noi, talvolta. Nessuno, dico proprio nessuno, deve osare di contestare la
dignità battesimale a un battezzato, il suo diritto
di cittadinanza tra noi. Giustamente
il Ratzinger, fine teologo ma anche straordinario divulgatore, capace di
rendere certi difficili concetti accessibili alla gente comune, insistette
molto su questo quando si trattò di esaminare certe prassi. Questo comporta poi
porre dei limiti insuperabili ad ogni attività di manipolazione personale e
sociale, ad ogni ingegneria culturale, sociale, psicologica. E’ appunto ciò che
è stabilito nelle democrazie di popolo contemporanee sulla base di una
chiarissima ispirazione religiosa.
Il
popolo di fede che c’è è anche quello che si è prodotto a causa di quella
profonda diffidenza dei nostri capi religiosi a cui ho accennato, per cui, ad
esempio, si è preferito lasciare campo libero alla religiosità cosiddetta popolare, quella dei santuari, delle
sagre e anche dei grandi raduni qui e là per il mondo con folle osannanti ai
nostri capi religiosi del clero, e non affrontare un impegno molto più serio,
vale a dire quello di indurre nei laici
una consapevolezza piena di ciò che, in un contesto di democrazia avanzata, è
possibile produrre in società, agendo con autonomia e competenza raggiunte con
un adeguato processo di formazione e autoformazione, per trattare il temporale ordinandolo secondo Dio, secondo l’auspicio
dei saggi del Concilio. Non lo si è fatto perché da questo processo poi possono
sorgere, ed in effetti sono sorti, alcuni dispiaceri, proposte di cambiamento
molto incisivo sgradite innanzi tutto ai nostri teologi, i quali hanno bisogno di secoli
per introdurre nuove sistematizzazioni, ma poi anche a chi comanda tra noi e
teme di perdere il controllo del gregge, in particolare che si perda dietro pastori di complemento, cattivi maestri,
falsi Messia, come li si voglia chiamare. Tuttavia la più
efficace medicina contro le deviazioni ideologiche è quella di formare il gregge ad essere un po’ meno simile a un gregge vero e proprio,
a indurre nei fedeli un atteggiamento meno vicino a quello delle pecore della
pastorizia. Farli crescere, farli diventare adulti,
in modo che abbiano una fede adatta all’età anagrafica e da adulti non pensino,
in religione, come quando erano bambini. Lo ha scritto anche Paolo di Tarso: “quando ero bambino ragionavo da bambino. Da
quando sono diventato uomo ho smesso le cose da bambino”. Perché
conquistino la facoltà del discernimento,
innanzi tutto imparandola e poi facendone tirocinio. Fatto sta che l’espressione credenti adulti da noi in religione suona invece
quasi come un insulto, come dire credente presuntuoso e indisciplinato. Ma
in realtà l’iniziazione religiosa dei laici proprio dei credenti adulti dovrebbe
proporsi di ottenere. Non di rado invece se ne vede l’obiettivo nell’indurre
uno stato di permanente minorità, per cui liberamente
si
rinuncia alla propria libertà, e dunque all’emancipazione, e infine ci si
risolve a obbedire puramente e semplicemente. Ma oggi l’obbedienza non è più una virtù, ma la più
subdola delle tentazioni, come scrisse Lorenzo Milani, artefice di un nuovo
modello di iniziazione religiosa dei laici che comprendeva innanzi tutto la
loro promozione umana per elevare la
gente alla cittadinanza civile. In particolare non è una virtù per il laico di
fede che deve agire in società.
E quindi, ad un certo punto, come osserva
Lonardo, nella catechesi deve prodursi una discontinuità,
rispetto all’iniziazione dell’infanzia. Questo è assolutamente condivisibile.
Fondamentalmente perché a un ragazzo
serve diventare adulto, è il suo
lavoro biologico. Se noi però gli proponiamo di passare dal dominio dei
genitori a quello, eterno, di una schiera sterminata di altri padri, quindi di rinunciare all’emancipazione
perché non arriviamo mai ad avere sufficiente fiducia in lui, allora
probabilmente lo disamoriamo alla fede e lo perderemo.
Fatta la Cresima, come una volta si faceva il militare, vissuto come un triste e insensato obbligo
sociale, una assurda perdita di tempo, ci lascerà con un sospiro di sollievo, come quando si prende la
licenza scolastica e allora spesso si buttano tutti i libri. Saprà il Padre
Nostro e l’Ave Maria, che presto scorderà, e saprà farsi il segno della Croce.
Sa del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, della Madonna e della Croce.
Avrà timore reverenziale per tutti i Santi, che sono finiti tutti male, ma poi ti possono fare la
grazia e scamparti dal pericolo. Dei Comandamenti ricorderà bene solo il Sesto,
che continuerà a violare sistematicamente per tutta la vita, ma “lo fanno tutti”, e questa sarà l’unica
cosa che saprà raccontare al confessore nelle rare occasioni in cui lo
incontrerà, senza saper veramente di che parlare con lui. E al momento del
matrimonio non dovrà sottoporsi alla noia del catechismo per la Cresima: questo
il vantaggio di averlo fatto da ragazzo. Ci sarà solo da subire il corso
prematrimoniale, il solito bla bla bla del prete e dei suoi accoliti, condito
di eterno, indissolubile, responsabilità,
cose che entreranno da un orecchio e usciranno subito dall’altro, perché ormai
si sarà da tempo persa l’abitudine ad agganciare fede e vita sociale, e ciò che
si chiede è solo questa benedetta
benedizione, per la festa coi parenti, e che la facciano poi finita, ci si
rivedrà, forse, per il primo battesimo della prole.
E tutto
il resto che i saggi del Concilio si aspettavano da un laico di fede, la
trasformazione del mondo, la giustizia sociale, l’agàpe universale,
l’inculturazione della fede, la condivisione di gioie e dolori? Probabilmente il
nostro catechizzato non ne avrà mai sentito parlare.
Non gli
avremo insegnato ad essere credente
adulto e allora egli sarà divenuto adulto
al di fuori della vita religiosa, perché divenire adulti bisogna!, un adulto
però con una fede infantile, non emancipata, dunque poi una persona incapace di
interagire validamente in società per quel lavoro che i saggi del Concilio si
attendevano da un laico di fede.
Gli sarà
stata inculcata una sorta di Bibbia supercondensata e super insufficiente
come quella, progettata anni fa dal Readers Digest, la Bibbia condensata appunto, sulla quale Guido
Ceronetti scrisse (La Stampa, 29-4-76) un pezzo giornalistico formidabile
che finiva così:
“E’ lì che un
Giustiziere nell’ombra che con un diluvio da lui stesso scatenato ti annienta
tutto il genere umano e perfino le formiche, eccetto una famiglia di
raccomandati, certi Noachidi. Ed è Lui, sempre, che fatta una figurina di fango
gli soffia dentro il prurito terribile di vivere, e glielo fa sfogare sopra una
costola che gli estrae dal sonno come un ladro, e da quel balordo incrocio
nascono infiniti sciagurati (impossibile condensarli in poco spazio: dilagano)
che corrompono e divorano tutto, e si sterminano tra loro, s’imbavagliano,
strappano le mammelle alle vergini, segano in due i migliori moralisti, spiano
compiaciuti da un tondino di vetro dei disgraziati che si torcono in preda al
gas, si fingono filatelici ma sono maschilisti implacabili, innalzano al
proprio cadavere monumenti imperituri di bronzo e di granito, passano le sere al bar e alla fine della ronda non hanno più memoria
di quanto male abbiano fatto al mondo e vanno mendicando, con smorfie impure,
non so quale facile misericordia divina e insieme ammirazione e lode agli
storici per le loro opere di sciagura.
La conclusione deluderà. Meglio era arrivarci
lentamente, o mai. Trattandosi di Bibbia cristiana l’ultimo suo testo canonico
è l’Apocalisse detta di Giovanni, rotolo di scrittura su cui ne abbiamo
veramente sentite troppe e procreatore dell’aggettivo apocalittico che oggi i tasti delle portatili spruzzano sui
fogli senza neppure che li tocchiamo. Il titolo significa Rivelazione, ma l’Autore
di tanta spaventosa eppure quanto utile rovina non ci è rivelato. Giovanni,
uomo candido, insiste nel dire che si tratta di un Agnello. Sarà.”
“L’iniziazione
cristiana, per rinnovarsi pienamente, ha bisogno di recuperare le prospettive
del Concilio” scrive Lonardo.
Questo è un punto dolente nella nostra
parrocchia, dove, come ho sentito dire dai nostri sacerdoti, i documenti del
Concilio non sono conosciuti. Io, effettivamente, non ne ho mai sentito parlare. Tutto ciò che
ho imparato in materia mi è stato insegnato in altri ambienti, a partire dalla
FUCI. Perché?
Sì
certo, possiamo saperne qualcosa anche studiando il Catechismo della Chiesa Cattolica, come scrive Lonardo. Ma perché
non andare alla fonte? Perché non leggere e cercare di capire, con buoni
maestri e sussidi, in un lavoro pluriennale certo, ciò che direttamente scrissero e approvarono i
saggi di quel Concilio? Quei documenti che il Montini definì il catechismo del mondo moderno. E perché non provare anche a fare un bilancio dell’attuazione
in Italia, e in particolare nella nostra parrocchia, delle intuizioni di quei saggi, processo in
cui secondo alcuni siamo piuttosto indietro? Ecco che qui si renderebbe
necessario promuovere un impegno di formazione permanente dei catechisti, che
dovrebbero conoscere almeno a) i
documenti del Concilio, b) le linee guida della diocesi in materia di
iniziazione religiosa, c) lo stato dell’arte catechetica nella nostra
parrocchia. Non si può pensare di affidare la classe a un/una volenteroso/a
al/alla quale si è dato come unica preparazione e fonte informativa il
manualetto di istruzioni, a volte nemmeno di fonte diocesana. Si deve lavorare
in equipe per apprendere gli uni dagli altri e tutti dall’esperienza e da buoni
maestri, e poi per verificare i risultati e se necessario per fare delle correzioni nei metodi seguiti. E poi,
si lavora per la diocesi, non per questo o quel gruppo di tendenza: si vuole
costruire, anzi meglio “indurre” il popolo di fede, rendendo la gente
consapevole di ciò che già è, una realtà
universale, veramente globale, non
riprodurre il microcosmo di appartenenza. Si
lavora sul popolo di Dio, di cui scrissero i saggi del Concilio. L’ho
scritto: l’amore per le serre di pregiata umanità religiosa ci sta portando
alla rovina. Pensiamo in grande, così come seppero farlo i saggi del Concilio!
E cerchiamo di diffondere gli ideali del Concilio, innanzi tutti conoscendoli e
poi, ancora, conoscendoli meglio. Quando si inizia a parlare dell’ultimo
Concilio spesso fioccano le avversative: ma, però, tuttavia… Si comincia da questo, un po’ come quando in
religione si parla della libertà. Per sviluppare e diffondere bisognerebbe avversare un po’ meno.
Proposte
operative: ogni gruppo di catechismo non sia affidato a un catechista, ma a una equipe
catechistica, composta di giovani e
meno giovani, sempre però con una persona più esperta in mezzo da cui prendere
esempio, e il suo lavoro sia
supervisionato da una persona di fiducia designata dal parroco, per garantire
la linearità e continuità di indirizzo. Nella classe di catechismo devono
essere ammessi tirocinanti, ma con spazi di manovra corrispondenti ai loro
livelli di formazione. Una certa familiarità con i documenti del Concilio e con
la storia contemporanea degli ultimi due secoli dovrebbe essere condizione indispensabile per essere qualificati come catechisti a pieno titolo. Perché anche questi temi rientrano tra gli
obiettivi della formazione religiosa dei laici di fede. L’appartenere a un
gruppo organizzato intorno a gerarchie di capi-catechisti
non deve abilitare automaticamente a interagire con un gruppo di catechismo
parrocchiale, senza una adeguata istruzione in base alle linee guida diocesane.
L’iniziazione religiosa parrocchiale è quella secondo quelle linee guida, non secondo quelle
neocatecumenali o di altre articolazioni settoriali. Si vogliono formare laici
del popolo di fede universale, non membri di un qualche suo gruppo particolare.
Chi non se la sente di rispettare questo principio deve essere pregato di farsi
da parte. Lavori con chi, consapevolmente, ha accettato di farsi neocatecumeno
o adepto di altra articolazione di spiritualità. E, infine: qualunque sia il suo livello di
conoscenza delle cose della fede e il suo stile di vita, si abbia sempre ben
chiaro che un battezzato rimane sempre un
battezzato; nessuno deve mai farsi
lecito di considerarlo qualcosa di meno.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente
papa - Roma, Monte Sacro, Valli