Presepe
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Da:
Joseph Ratzinger, L’infanzia di Gesù, Libreria editrice vaticana 2012
Torniamo
al grande contesto del momento storico in cui è avvenuta la nascita di Gesù.
Con il riferimento all’imperatore Augusto e «all’intera ecumene» Luca ha creato
consapevolmente un quadro insieme
storico e teologico per gli avvenimenti da raccontare.
Gesù è nato in un’epoca determinabile con
precisione. All’inizio dell’attività pubblica di Gesù, Luca offre ancora una
volta una datazione dettagliata ed accurata di quel momento storico: è il
quindicesimo anno dell’impero di Tiberio Cesare; vengono inoltre menzionati il
governatore romano di quell’anno e i tetrarchi della Galilea dell’Iturea e
della Traconitide, come anche dell’Abilene, e poi capi dei sacerdoti (Lc 3,
1s).
Gesù non è nato e comparso in pubblico
nell’imprecisato «una volta» del mito. Egli appartiene ad un tempo esattamente
databile e ad un ambiente geografico esattamente indicato: l’universale e il
concreto si toccano a vicenda. In lui, il Logos, la Ragione creatrice di
tutte le cose, è entrato nel mondo. Il Logos si è fatto uomo, e di
questo fa parte il contesto di luogo e tempo. La fede è legata a questa realtà
concreta, anche se poi, in virtù delle Risurrezione, lo spazio temporale e
geografico viene superato e il «precedere in Galilea» (cfr. Mt 28,7) da parte
del Signore introduce nella vastità aperta dell’intera umanità (cfr Mt 28,
16ss) [pag.27].
[…]
Al
termine di questo lungo capitolo si pone la domanda: come dobbiamo intendere
tutto ciò [la narrazione dell’Adorazione dei Magi]? Si tratta veramente
di storia avvenuta, o è soltanto una meditazione teologica espressa in forma di
storie? Al riguardo Jean Daniélou, a ragione osserva: «A differenza del
racconto dell’Annunciazione [a Maria], l’adorazione da parte dei Magi non tocca
alcun aspetto essenziale per la fede. Potrebbe essere una creazione di Matteo,
ispirata da un’idea teologica; in quel caso niente crollerebbe» (Les Èvangeles
de l’Enfance, p.105). Daniélou stesso, però, giunge alla convinzioneche si
tratti di avvenimenti storici il cui significato è stato teologicamente
interpretato dalla comunità giudeo-cristiana e da Matteo.
Per dirla in modo semplice: questa è anche la
mia convinzione. Bisogna però constatare che, nel corso degli ultimi
cinquant’anni, nella valutazione della storicità, si è verificato un
cambiamento d’opinione, che non si fonda su nuove conoscenze storiche, ma su un
atteggiamento diverso di fronte alla Sacra Scrittura e al messaggio cristiano nel
suo insieme. Mentre Gerhard Delling, nel quarto volume del Theologisches Wörterbuch
zum Neuen Testament (1942), riteneva la storicità del racconto sui Magi
ancora assicurata in modo convincente dalla ricerca storica (cfr. p. 362, nota
11), ormai anche esegeti di chiaro orientamento ecclesiale come Ernst Nellessen
o Rudolf Pesch sono contrari alla storicità o per lo meno lasciano aperta la
questione.
Di fronte a tutto ciò, merita di essere
considerata attentamente la presa di posizione, ponderata con cura di Klaus
Berger nel suo commento del 2011 all’intero Nuovo Testamento: «Anche nel caso
di un’unica attestazione […] bisogna supporre – fino a prova contraria – che
gli evangelisti non intendono ingannare i loro lettori, ma vogliono raccontare
fatti storici […] Contestare per puro sospetto la storicità di questo racconto
va al di là di ogni immaginabile competenza di storici». (Kommentar zum
Neuen Testament, p.20).
Non posso che concordare con
quest’affermazione. I due capitoli del racconto dell’infanzia in Matteo non
sono una meditazione espressa in forme di storie. Al contrario: Matteo ci
racconta la vera storia, che è stata meditata ed interpretata teologicamente, e
così ci aiuta a comprendere fino a fondo il mistero di Gesù. [137s].
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Di questi tempi, quando le mie figlie erano bambine
e ragazze, iniziavo a preparare il presepe grande (in famiglia ne teniamo uno
più piccolo sempre allestito in soggiorno). Ora ci pensano loro e io ci metto
mano qua e là: una tradizione è passata di generazione in generazione. Io ho
imparato da mia madre, che ne faceva uno molto grande in terrazzo, che poi
guardavamo dal finestrone del soggiorno.
A Roma, nelle festività natalizie, c’è
l’usanza di girare di chiesa in chiesa per ammirare i presepi. Mia moglie da
giovane abitava nel quartiere San Saba – Aventino e da fidanzati ci piaceva
molto andare a vedere il grande presepio a Sant’Alessio, a fianco del Giardino
degli Aranci: era composto in più scene che partivano addirittura dalla
creazione e aveva molti elementi mobili. L’accendersi e lo spegnersi delle luci
guidavano i visitatori da uno scenario all’altro. Lo facevano nella cripta, ma
adesso non è più possibile, perché, a
ciò che mi hanno riferito, ci sono problemi di statica del grande locale.
Si organizzano anche recite ispirate alla
Natività e all’Adorazione dei Magi. Lo facciamo anche noi in parrocchia.
Cominciò, si racconta, Francesco d’Assisi a
Greccio, nel Duecento, con un presepe vivente.
Si
tratta sempre di spiegare e spiegarsi gli uni gli altri il senso di quella
nascita in mezzo all’umanità. E’ quindi catechesi nel rivolgersi alle altre
persone e meditazione e ascesi per chi organizza e costruisce ma anche per chi
assiste. C’è anche arte, ma non si tratta tanto di fare un bello spettacolo,
quanto di avvicinare alla gente e avvicinarsi personalmente a ciò di cui i
teologi parlano come del «mistero di Gesù».
Aver
questo sempre ben presente è necessario soprattutto quando partecipano i più
piccoli. Penso che sarebbe veramente utile che, insieme alla regia per così
dire artistica, ci fosse una particolare attenzione e collaborazione da parte
del prete, del diacono o del catechista.
Quando
avevo le figlie piccole, mi avvantaggiavo in questo perché io e mia moglie
partecipavamo, con amici di gioventù, ad un ritiro natalizio. Questo è avvenuto
fino a che l’epidemia di Covid 19 lo
ha sconsigliato.
Penso che non sarebbe male, nell’accingersi
ad organizzare presepe e recita in occasione delle festività natalizie, partecipare
a un ritiro, per chiarirsi bene sul senso di ciò che si sta facendo e del
messaggio che si vuole diffondere.
Ho sempre avuto ben chiaro, fin da piccolo,
perché me lo hanno spiegato molto bene, che il protagonista di tutto è appunto
colui che nacque. Non Giuseppe, non Maria, non i pastori, non i Magi, né gli
angeli e tutti gli altri personaggi. Al centro non è la maternità e il parto,
che nel Vangelo di Luca sono trattati molto sobriamente, né quindi la
paternità.
Di solito si mette in risalto, sulla scia di
Francesco d’Assisi, che si trattò di un parto in povertà, ma questo nella
narrazione evangelica non c’è. Fu, si legge, un parto nel corso di un viaggio. Della sacra famiglia i Vangeli non ci narrano
che fosse povera. Il Maestro durante gli anni del suo ministero pubblico disse di
non avere dove posare il capo, ma questa espressione non necessariamente
significa che fosse indigente, anzi venne accusato di non esserlo e, in
particolare, di frequentare gente ricca, ma forse più che altro che non
possedeva qualcosa come un tempio, o simili. E questo anche se c’è
indubbiamente chi, e tra questi Francesco d’Assisi, intese il detto come
riferito alla povertà materiale. Nelle narrazioni evangeliche il Maestro non ci
viene presentato come un povero mentre si muove per la Palestina del suo tempo,
predicando e guarendo le persone malate.
Colui che la teologia chiama anche Logos, «la
Ragione creatrice di tutte le cose», secondo l’espressione del Ratzinger, venne
nella nostra storia, nell’umanità di
allora, umano come noi, non nelle nostra fantasie. La Natività è dunque un
modo di presentare l’Incarnazione del divino. Una realtà grandiosa alla
quale si è gradualmente introdotti nella catechesi e nella liturgia e nella comprensione
della quale si prosegue per tutta la vita. Ad essa un grande teologo come
Ratzinger dedicò gli ultimi suoi anni, con grande amore, non per parlare da
teologo a teologi, ma per parlare a tutti noi del suo e nostro Signore: una
delle missioni di un Papa.
Penso che particolare attenzione si debba
avere quando si coinvolgono i più piccoli. Bisognerebbe sempre ricordare che,
in tal caso, si lavora principalmente per loro, e non per gli spettatori. Importa
più ciò che si riesce a far comprendere a loro che la resa per chi assiste. Chi
partecipa capisce meglio, ma è necessario che sia ben definito ciò che si vuole
comunicare. Non di rado ho visto presepi e recite un po’ pasticciati quanto a questo.
Va poi scoraggiato il divismo tra più piccoli, che sempre deriva da non aver ben
compreso, da parte degli organizzatori, l’obiettivo del lavoro che si fa.
Insomma, la direzione per così dire pastorale è molto più importante di quella artistica, altrimenti
il vero scopo della cosa rischia di venire mancato od offuscato.
Mario
Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli