Ordinare la pace
La formazione alla pace dei fedeli si rivela, di questi tempi, insufficiente.
In particolare, le persone non riescono a distinguere tra le guerre e altre violenze che riguardano singoli o gruppi più limitati.
Si può parlare di guerra solo nel caso di violenza organizzata, e anzitutto ordinata, da un ordinamento politico che, in una certa area geografica, definita territorio, sia riuscito a prevalere su ogni altro, riuscendo, in particolare, a farsi obbedire. Ogni altro tipo di violenza, anche molto intensa, anche organizzata, non può essere definita guerra.
L’utilità di fare questa distinzione sta in questo: ad una guerra propriamente detta non ci si può sottrarre volontariamente, con una decisione presa nella propria coscienza. E anche ciò che chiamiamo obiezione di coscienza verso la guerra vale solo nei limiti in cui chi ordina la guerra la riconosce.
Questo spiega come possa accadere che la dottrina sociale tuttora insegnata non consideri le violenze dei soldati in guerra come una colpa personale, nei limiti in cui ci si sia limitati ad obbedire. C’è ancora una teologia della guerra giusta, che implica che non tutte le guerre lo sono, ma si ritiene che solo chi è al vertice degli ordinamenti politici capaci di ordinare la guerra abbia la competenza per valutare quando una guerra lo sia, e in teoria possa rispondere personalmente del peccato di guerra (perché la guerra rimane un peccato grave, in quanto va contro ad uno dei principali comandamenti evangelici). Quindi la nostra Chiesa in genere non ha ordinato l’obiezione di coscienza se non al clero e ai religiosi, istituisce cappellani negli eserciti dove ciò è ammesso, e benedice anche le truppe quando le è richiesto. È accaduto che la nostra Chiesa abbia benedetto certe guerre, o addirittura le abbia ordinate, quando ebbe la forza politica di farlo, ma, ai nostri tempi, l’assistenza religiosa alle truppe viene giustificata con il fatto che sono composte di persone in grave pericolo di vita. Naturalmente ciò comporta un brutale ridimensionamento della predicazione, decurtandola del comandamento di cercare di includere nell’agápe anche i nemici.
In guerra sono ordinate e vengono compiute incredibili ed efferate violenze su larghissima scala. È ipocrita chi se ne stupisce. Le guerre si fanno così. Ma chi combatte non ha un fatto personale con quelli dell’altra parte. Combatte e uccide perché così gli è stato ordinato, e quando è in battaglia cerca di uccidere per non essere ucciso.
Ritornata la pace, quando la si è ordinata, accade che i governi un tempo belligeranti organizzino eventi in cui tra ex nemici ci incontra per onorare tutti i caduti. Così facendo si continua a riconoscere l’indispensabilità della guerra, la virtuosità del coraggio in battaglia (che si manifesta nel rischiare gravemente la propria vita per distruggere e uccidere il più possibile), quindi ad accreditare la plausibilità della guerra come istituzione politica.
Il combattente che sopravvive a una guerra è chiamato veterano. Da anziani, i veterani diventano reduci. In quelle occasioni di commemorazione dei caduti di cui dicevo, accade che partecipino reduci di entrambi gli schieramenti, con le loro divise, i quali incontrandosi nella cerimonia non si sbranano più come in guerra era stato loro comandato di fare, ma si salutano come vecchi amici. Questo mi è sempre sembrato un controsenso. In realtà, nell’ottica della politica di governo che ammette l’istituzione della guerra, non lo è: da quel punto di vista, obbedire all’ordine della guerra è una elevata virtù civica; quindi chi ha obbedito combattendo è onorato anche dall’ordinamento politico che animava il nemico. La politica dei governi in genere costruisce ideologie di disprezzo sociale verso coloro che rifiutano obbedienza in guerra, diffamandoli come vili. Sta accadendo anche ora, in questi tristi tempi di guerra, in questa guerra con la Federazione Russa che anche l’Italia sta già combattendo. Infatti armare uno dei belligeranti è già fare guerra. Si può osservare che questa guerra non è stata ordinata nelle forme previste in Costituzione, lo stato di guerra non è stato infatti deliberato, e il dibattito parlamentare sull’invio di armi e sul riarmo è stato viziato dalla medesima ipocrisia praticata dal governo della Federazione russa: ci si è vietato di chiamare guerra la guerra.
Dagli scorsi anni Cinquanta si è capito, in Europa e a seguito dell’esperienza della Seconda guerra mondiale, conclusa con le atroci stragi di Hiroshima e Nakasaki perpetrate con armi nucleari molto meno potenti di quelle di cui oggi disponiamo in migliaia di pezzi venduti, e della nostra guerra fredda con l’Unione sovietica, in cui si fece l’equilibrio del terrore e quindi non si combatterono guerre mondiali essendovi plausibile l’annientamento reciproco, che questa ideologia della guerra come virtù civica non andava più bene. Bisognava dunque che i popoli non dovessero più limitarsi a subirla obbedendovi, ma dovessero essere formati a resistervi, in particolare contrastandola con la lotta nonviolenta, ora insegnata anche da papa Francesco. Si basa sull’obiezione di coscienza, per la quale, secondo l’espressione di Lorenzo Milani, grande anima, tutti ci si sente responsabili di tutto e l’obbedienza non è più una virtù ma la più subdola delle tentazioni. In questo quadro ogni persona è competente sulla questione della decisione sulla guerra giusta e, valutato che nessuna guerra può esserlo ai nostri tempi perché fa correre il rischio dell’annientamento dell’intera umanità, anche legittimata a rifiutare obbedienza all’ordine di guerra. Questo, dal punto di vista di chi si attribuisce il potere di ordinare la guerra, è un crimine politico: è una decisione dunque che richiede molto coraggio. Già ora vediamo le dure reazioni contro chi osa essere contro la guerra, come il Papa insegna ad essere, in particolare nel suo libro che si chiama proprio così: contro la guerra.
Si dice che il passaggio dalla guerra alla pace richiede che si faccia giustizia. Ma non è così che sono mai finite le guerre. Le guerre finiscono solo quando chi le ha ordinate ordina invece la pace. E ciò, in genere, accade quando i belligeranti trovano convenienza a farlo. La spinta di popoli che resistano all’ordine di guerra facendovi obiezione di coscienza contro può essere un potente fattore per costringere quelli che ne hanno il potere a ordinare la pace.
I popoli hanno dalla loro parte questa giustificazione etica: la guerra è la prima ingiustizia, perché nulla è perduto con la pace mentre tutto può esserlo con la guerra.
Mario Ardigò- Azione Cattolica in San Clemente Papa - Roma, Monte Sacro Valli