Affrontare la complessità
A chi la osserva superficialmente la nostra Chiesa appare cosa per vecchi, bambini ed illusi estatici. Questo accade perché in genere viene predicata così. La complessità viene riservata a clero e religiosi (maschi), che però sono sempre meno e sempre più anziani. Così, quella che veniva paventata come ipotesi remota ora è veramente più realistica: vale a dire l’estinzione. Di tutto: Chiesa e fede. Del resto, la riforma tentata dagli anni Sessanta, l’ultima di moltissime condotte nei due millenni della nostra tremenda storia ecclesiale per cercare ciclicamente di rivitalizzare la nostra esperienza religiosa in modo da renderla ancora utile come criterio di orientamento in una realtà sociale profondamente mutata, è sostanzialmente fallita. Non è questa la sede per tentare di capirne le ragioni, ma così è. Va aggiunto che questo comprometterà anche il processo ecumenico, il progressivo avvicinamento delle esperienze religiose delle Chiese cristiane, alcune delle quali ricadute nei tristi e violenti costumi del passato, in cui furono strumento di sacralizzazione di poteri politici impostisi e mantenuti con la violenza e le guerre di sopraffazione e rapina. In quanto ritornano ad essere questo, esse meritano di essere combattute senza quartiere al pari delle organizzazioni criminali, con gli strumenti del pensiero e del diritto umanitario. L’ecumenismo, come la pace sinodale in genere, richiede di essere costruito, e innanzi tutto pensato, confrontandosi con la complessità sociale. Le Chiese schierate in guerra cercano solo di distruggerla.
La leggenda di Francesco d’Assisi viene in genere proposta per scoraggiare quel lavoro di affrontare la complessità. Si sogna, così, di diventare persone semplici e in questo modo di cambiare una società violenta. Ma il principio dell’ evangelium sine glossa, vale a dire praticare il vangelo senza interpretarlo alla luce delle diverse situazioni, rende impossibile la costruzione sociale orientata secondo i principi evangelici, come subito capirono gli stessi religiosi che si ispirarono alla via francescana, che infatti presto l’abbandonarono. Letteralmente, senza glosse quindi, non c’è nei Vangeli ciò che Francesco pretese di leggervi. Anche la sua, in definitiva, fu una interpretazione evangelica alla luce dei suoi tempi. Certamente, da ciò che ne sappiamo, Gesù di Nazaret non visse come Francesco. Il suo blando anarchismo verso i poteri religiosi del giudaismo di allora contrasta nettamente con la severa professione di obbedienza al papato che Francesco espresse e praticò. Con i canoni contemporanei potremmo definire la teologia di Francesco, perché tale fu, come un rivolta non violenta contro i costumi dissoluti delle gerarchie religiose del suo tempo. Propriamente, quindi, un tentativo di riforma religiosa praticata dal basso mentre la si pensava. In questo l’analogia con i processi di riforma sinodale voluti da Papa Francesco, il quale, fin dal nome scelto per il suo supremo ministero, al santo medievale intende ispirarsi.
I cristianesimi antichi furono molto più di come le bambinesche favole devozionali ce li presentano. Furono innanzi tutto frutto di un intenso lavorio intellettuale, opera di scrittori che poi gradatamente divennero anche capi religiosi, dialogando e anche combattendosi nel campo della costruzione sociale. Già gli scritti attribuiti a Paolo di Tarso, i più vicini agli eventi evangelici, ne sono espressione. Ma non corrisponde al vero quanto superficialmente sogliono ripetere certi polemisti irreligiosi che il cristianesimo sia stato costruito da Paolo. Ho letto che, invece, il paolinismo tardò abbastanza ad affermarsi. Fin dalle origini non si manifestò il cristianesimo ma un insieme molto variegato di cristianesimi che però vollero entrare in relazione non appagandosi mai della propria sfera particolare di influenza sociale che ciascuno era riuscito a conquistare: ed è ancora oggi così, anche nella nostra Chiesa, nonostante la posticcia e fantasiosa immagine di uniformità che vi si vuole appiccicare sopra. Non basta sottomettersi ad un unico gerarca per essere un’anima sola. Egli può porsi al servizio dell’unità, ma non ne può essere il fattore esclusivo. L’unità di spirito che i cristiani chiamano agápe è costruzione sociale collettiva, frutto di pensieri e pratiche in relazioni, dalle quali nessuno è escluso, anche se pensi di esserlo; è una risultante delle forze sociali in concreto operanti.
In questi desolanti tempi di guerra andrebbe intensificato il lavoro sinodale sulle vie di una convivenza di nuovo pacificata. Ciò richiede di entrare in dura polemica con i circoli di governo che hanno ordinato la guerra, tutti, obbligando le popolazioni sottomesse a prendervi parte. Si preferiscono invece vie consolatorie, ad esempio, affidando l’avvento di una nuova pace alla potenza celeste, nel frattempo cercando di recuperare un qualche benessere psicologico, in particolare cercando di chiamarsi fuori rovesciando il peccato di guerra sugli altri. O chiamando il Cielo a proprio sostegno: c’è chi accusa questo atteggiamento di blasfemia, ma in realtà fu quello adottato per millenni, dal quale solo molto di recente tra i cattolici ci si è cominciati ad affrancare, con scarso successo.
Di solito si intende il comando evangelico di fare agápe con il nemico (ἐχθρόs - echtròs,questo il termine del greco antico usato nei Vangeli, che indica principalmente l’avversario personale, mentre per il nemico di guerra c’è πολεμικός polemikòs), nel senso di un qualche trasporto sentimentale verso le persone di coloro che ci sono avversi, che poi, di solito, non viene naturalmente corrisposto, perché nulla si fa per rimuovere le cause di inimicizia, e allora ci si rassegna e si assegna all’avversario la parte del malvagio. Non è questo che però ci viene comandato. Il sentimento conta poco. Occorre agire sulle cause sociali dei conflitti e, in ciò, mettersi in questione. Negli attuali frangenti di guerra chi lo fa viene invece accusato di intelligenza con il nemico e di disfattismo. Eppure questa è la strada per costruire la pace indicata da papa Francesco in alternativa a quella della guerra che anche i governi occidentali hanno intrapreso.
Il confronto con la complessità richiederebbe di non fermarsi a constatare chi per primo ha varcato la frontiera del vicino, cercando poi di procurare la vittoria di chi ha subito l’invasione. Questa vittoria è impossibile. Nessuno può infatti vincere una guerra simile, che rapidamente sta degenerando in un conflitto continentale tra Europei occidentali e Europei orientali, la guerra che per oltre settant’anni non abbiamo combattuto perché ci terrorizzava, in quanto implicava il rischio della catastrofe totale. Sapevamo bene appunto, allora, ma ora pare non più, che una guerra simile non può essere vinta da nessuno.
La nostra colpa, di Occidentali ricchi e potentemente armati? Non aver saputo costruire ai confini tra ucraini e russi un processo analogo a quello che in Europa occidentale ha condotto all’abolizione delle frontiere, e quindi alla pace tra Stati nazionali che dal Seicento si erano aspramente combattuti. In quell’arte di pacificazione i cristiani democratici, e tra essi i cattolici, ebbero un ruolo molto importante, avendo affrontato il faticoso lavoro di confrontarsi con la complessità sociale, uscendo dall’ideologia favolistica che non di rado viene spacciata per spiritualità adatta alle persone laiche. Non è un caso che proprio nel mesto declino del cristianesimo democratico, nell’ultratrentennale duro inverno ecclesiale che ci ha tanto cambiati, è rinato potente lo spirito di guerra, contro il quale i popoli europei sembrano non avere più anticorpi.
Bisogna trovare la forza di ripartire. In particolare dai più giovani, quelli che nella guerra hanno più da perdere.
Mario Ardigó – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli