Miei appunti dalla relazione “Dimensione comunitaria e pubblica della fede”
tenuta nel corso dell’incontro con il gruppo MEIC La Sapienza del 22-1-06 presso la cappella
universitaria dell’Università La Sapienza di Roma da mons.Giuseppe Lorizio, all’epoca
assistente del gruppo MEIC La Sapienza, professore ordinario di teologia
fondamentale della Pontificia Università Lateranense, preside dell’istituto
superiore di scienze religiose Ecclesia Mater, membro del comitato scientifico
della rivista rosminiana, direttore della rivista Lateranum.
Appunti della relazione annotati
da Mario Ardigò; testo non rivisto dal relatore. Gli appunti potrebbero non
corrispondere al pensiero dell’autore.
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“La dimensione comunitaria e
pubblica della fede”.
Il tema si presta moltissimo alla
discussione, anche in base alle rispettive esperienze professionali attraverso
le quali si media o è chiamata a mediarsi la professione di fede. Mentre
riflettevo a questa conversazione che dovevo fare con voi, il titolo lo avevo
indicato qualche settimana fa con precisione al nostro presidente, mi veniva
incontro un articolo apparso sull’Avvenire
di ieri che la dice lunga sull’attualità del tema. La prima pagina di Agorà era dedicata a un intervento di un
politologo liberal che si chiama Michael
Walzer, il quale intitolava la sua riflessione “Fede pubblica virtù” e dava
appunto alcune coordinate al suo punto di vista
(che è un punto di vista che naturalmente risente da un lato della sua
appartenenza sociologica, quindi è la posizione di un sociologo, e dall’altro
del suo inserimento nella società statunitense, quindi un’altra appartenenza
precisa) su questo problema se la fede appunto sia una virtù pubblica. Il mio
approccio sarà ovviamente un po’ diverso, perché non faccio il sociologo e non
sono americano. Faccio il teologo e sto a Roma. Un punto di vista è importante
per la comprensione di un approccio ad un tema così complesso come può essere
quello che siamo chiamati ad affrontare questa sera. Dopo magari potremmo entrare
nel merito di alcune affermazioni piuttosto tranchant
che troviamo su questo articolo di Avvenire
sul problema del “muro” o del “non muro” fra livello della Chiesa e quello
dello Stato, della società civile e della
società religiosa; le posizioni appunto riportate di Habermas
su questi temi sono, penso, abbastanza conosciute. Prima di tutto volevo dire
che il discorso sulla fede oggi si presenta esposto ad un paio di sfide che
tendono appunto a mettere in discussione questo che noi possiamo chiamare il
suo “ruolo pubblico”. Però prima ancora che il ruolo pubblico e quindi civile e
quindi di espressione di quella che chiamiamo
la sfera della laicità del credere, prima ancora di questo c’è il
problema della dimensione comunitaria della fede. Perciò ho voluto dare questo
titolo alla mia riflessione. La dimensione comunitaria della fede riceve già,
per certi aspetti, dall’interno alcune provocazioni in relazione –e questo non
da oggi direi; per fare riferimento semplicemente alla nostra storia dell’Occidente,
già dai tempi di Lutero riceve delle provocazioni interne attraverso le quali
si tenta comunque di rimandare la fede alla sfera dell’atto della persona; nel
mistero della coscienza ognuno sa se vuole o non vuole credere, ognuno decide
di credere o non credere; e questo sacrario della coscienza individuale rimane
sostanzialmente inviolato, risulta decisamente inaccessibile. Ora, questa
posizione non è esattamente, ovviamente,
la posizione cattolica nel concepire la fede, laddove anche nella
trasmissione della fede la Chiesa cattolica ha sempre tenuto conto dell’aspetto
comunitario, cioè laddove non è solo il singolo –il “singolo mi rammenta già,
oltre che Lutero, Kierkegaard, per esempio- non è solo il singolo in questo
“teogramma”, direbbe Von Balthasar, nel suo rapporto con Dio a lottare con lui
come faceva Giacobbe, e quindi poi a decidere se credere o non, ma già il
trovarsi in questa situazione, cioè in una relazione con qualcosa che lo
trascende, il singolo non lo deve solo a sé stesso. Ma d’altra parte io credo
che se non avessimo qualcuno che in qualche modo ci ha comunicato la fede, noi
non crederemmo o comunque crederemmo in modo diverso, dalla famiglia, alla
tradizione, all’appartenenza socio-culturale, eccetera, il credere cattolico ha
sempre camminato in un orizzonte comunitario. Ora questa modalità di
trasmissione della fede, che si trasmetteva addirittura con lo stesso
linguaggio, con i proverbi (“non si muove foglia che Dio non voglia”), eccetera
eccetera, che si trasmetteva con l’etnia, quasi, di appartenenza, ha ricevuto
di fatto una sua oggettivazione ed esasperazione per cui il credere è diventato un fatto meramente tradizionale.
Allora il problema, già lo poneva Tertulliano, è se cristiani si nasce o si
diventa. E allora nei Paesi in cui si è data, in passato soprattutto, una forte
appartenenza cattolica, in fondo ci si è trovati a nascere cristiani. E ci si è
dimenticati di “diventare” cristiani. Questo, ovviamente, ha comportato una
messa in ombra di aspetti che non sono unici, ma sono comunque importanti
nell’atto del credere, cioè l’aspetto del
coinvolgimento della soggettività. E quindi della libertà, della
coscienza. Per cui, ad un certo punto, noi ci siamo trovati addirittura –gli
amici del Sud lo sanno bene- a definire “cristiano” la persona (“quello è un cristiano” vuole
dire “quello è una persona”), per cui essere cristiano, essere uomini, essere
cittadini, essere appunto umani, era semplicemente definito con l’essere
cristiano, diventava una cosa naturale, come ci viene trasmesso un linguaggio,
come ci viene trasmesso un modo di vestire, così ci è stato trasmesso un modo
di essere cristiano. Che poi nella
percezione ulteriore del credere cattolico è diventato anche fortemente
riduttivo. Io ricordo nel mio paese di origine, in cui c’era un bel gruppo di
evangelici, quindi riformati insomma, questi evangelici dai cattolici venivano
ritenuti non cristiani, dimenticando che almeno il Battesimo ce l’avevamo in
comune, se non anche appunto la Parola di Dio. Ecco dalla contrapposizione a
questo cristianesimo per nascita o “anagrafico” (risultava anche nella carta
d’identità la religione di appartenenza), si è passati alla contrapposizione di
un cristianesimo che deve essere accolto individualmente, con l’ulteriore
rischio, cioè il rischio opposto, di perdere la sua dimensione comunitaria, e
poi ulteriormente, naturalmente, la sua dimensione pubblica. Ora questo
ovviamente comporta delle derive. E in particolare ci sono delle modalità di
interpretare il credere che risultano quanto meno insufficienti. Cioè oggi
anche in teologia, e in alcuni trattati di teologia fondamentale che non vi sto
a citare perché se no poi facciamo una discussione accademica, prevalgono due
linee nella descrizione e nella definizione del credere.
La prima linea si esprime in questi termini,
cioè nei termini dell’atto di fede come poggiante strutturalmente
sull’affettività, la struttura affettiva del credere. Anche questa è una
posizione che viene da lontano, la religione come sentimento di Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher (
1768-1834) (nota 1). L’età romantica in opposizione a una sorta di
razionalismo. Voglio sottolineare che questa posizione teologica, che è
presente sul mercato, nei saggi e nei trattati teologici su questo, in cui
l’affettività viene posta come nucleo centrale del credere (poi naturalmente
sarà anche scelta, conoscenza), il credere è soprattutto un fatto di affetto,
in un certo senso –i medici potrebbero pure equivocare- siamo “affetti” dal
credere, come fosse una malattia, ecco, questa sottolineatura viene incontro
ovviamente a una società e ad una cultura nella quale l’affettività trova un
posto importante. La sfera degli affetti risulta particolarmente, come dire,
coinvolgente, soprattutto per il mondo
giovanile; per cui le espressioni del credere che diventano più interessanti,
più seguite, maggiormente, come dire, applaudite, sono quelle che fanno leva
sull’affetto, sul sentimento. Con, nuovamente, tutta una serie di cose
interessanti e belle, ma anche con tutta una serie di rischi che capiamo
facilmente essere legati proprio alla contingenza dell’emotività, quando
l’emotività poi viene meno c’è da chiedersi che cosa rimane di queste
espressioni del credere. La grande “pastorale degli eventi”, che speriamo
finisca un volta per tutte, o almeno che ci diano un po’ di tregua fino alla
prossima generazione in modo che noi possiamo morire tranquilli prima della
catastrofe, questa pastorale degli eventi in fondo ha giocato molto sul
coinvolgimento affettivo, soprattutto delle giovani generazioni.
[…]
Io non sono contro gli affetti, l’emotività,
assolutamente, però sono per una complessità del credere, molto oltre questo fatto
affettivo:perché non posso credere solo
perché credere è bello. Poi non posso credere solo perché “percepisco” qualcosa.
C’è un bellissimo passaggio, viene molto contestato il fatto che facendo
riferimento a personaggi come Kierkegaard parlo anche della fede come un “salto
nel buio”, ma non lo dico mica io, ma lo
dice il Catechismo della Chiesa Cattolica
al n. 165 citando il Credo di Paolo
VI, il nostro rapporto con il mistero, con il mistero di Dio, oggi lo viviamo
nell’oscurità della fede, è domani che lo vivremo nella visione. Un
cristianesimo nel quale proliferano le visioni, credo che sia un cristianesimo
che si deve preoccupare.
L’altro aspetto invece … è la tendenza a
riportare la fede, proprio per volerla anche staccare da questa radice di
emotività –da questa precedente interpretazione-, alla radice della libertà.
Deliberazione vitale come atto del credere; cioè l’atto del credere non è
altro che un’espressione del mio voler
credere, per cui continuo a credere non perché sia coinvolto emotivamente, non
perché la mia intelligenza abbia un qualche ruolo in questo atto, ma in quanto
voglio credere. Credo perché voglio credere, voglio continuare a credere. E
voglio continuare a credere –qui il fideismo è forte- nonostante tutto,
nonostante i preti, nonostante, no, i mali della Chiesa, nonostante i mali
della società, voglio, voglio continuare a credere, un esercizio della volontà
o deliberazione vitale come scelta di fondo che i teologi colleghi moralisti
chiamavano una volta “opzione fondamentale”. Cioè è un’opzione fondamentale
dell’esistenza, una scelta. Anche in questo, non è che sia del tutto negativo
ritenere che la fede è una scelta ed è una scelta nella quale gioca un ruolo
fondamentale la volontà, ma è anche da ritenersi che non possa tutto essere
rimandato alla scelta. Come non tutto può essere ridotto all’emotività.
L’elemento che grazie anche, ma non solo, alla Fides et ratio deve essere recuperato è esattamente quello della
fede come conoscenza, cioè il coinvolgimento di questa terza facoltà: il
sentimento, la volontà, ma il conoscere, come facoltà. Questo comporta
evidentemente una possibilità della ragione di essere coinvolta nell’atto del
credere. Per cui, ecco, credere non è irrazionale. Credere non è nemmeno
razionale. Per cui si dice: “credere è ragionevole”. Ora, questa ragionevolezza
dell’atto del credere e il suo recupero è uno dei ruoli importanti attraverso
cui gettare dei ponti, dall’aspetto più individuale, più dell’interiorità,
della coscienza, e così via,e della volontà e dall’aspetto dell’emotività,
proprio verso la dimensione comunitaria
e verso soprattutto la dimensione pubblica. Cioè in fondo, supponendo che siamo
credenti, la sfida principale che ci viene oggi chiamatelo dal “mondo laico”
–gli atei non esistono più, che fregatura! Non sappiamo più con chi dialogare-
è questa: “Perché credi?”. Cioè la sfida è ad esibire non il credo, ma le
ragioni del credo. Cioè non è che basta dire “Credo, perché voglio credere”,
non basta dire “Credo, perché mi sento di credere”, ma ad un certo punto devo
sapere almeno balbettare qualche motivazione per la quale ritengo di credere.
“Credo di credere” era il titolo del libro di Gianni Vattimo, ma lui ci ha
raccontato – poi dirò qualcosa anche su questo- che il titolo gli era venuto in
mente –non so se ve l’ho detta questa cosa- in una conversazione telefonica con
Bontadini, un vecchio maestro della Cattolica. Parlavano di altre cose, cioè di
concorsi universitari. Ad un certo punto pare che Bondatini gli abbia detto ex abrupto “Ma Gianni, ma tu ci credi
ancora?”. E pare che lui abbia risposto “Credo
di credere”. E da qui, poi, dopo
tanti anni, il titolo “Credere di credere”.Ora all’interno di questa, diciamo,
“cattura” appunto della fede all’interno dell’ambito volontario, nell’ambito
emotivo, la insistenza, la sottolineatura, della ragione nell’ambito della fede
credo sia importante. Anche perché l’aspetto dell’elemento della conoscenza e
della razionalità del credere, la ragionevolezza del credere, viene a
determinarsi in un’altra direzione, come sintomo ancora una volta di
quell’atteggiamento al quale si faceva riferimento anche prima, cioè se il credere
non sia un fatto privato. Di qui, cioè dal fatto che il credere non è un fatto
privato, dovrebbe derivare un riconoscimento pubblico del sapere della fede,
cioè della teologia, cosa che non accade, perché si ritiene, più o meno, esercizio di
sagrestia. Questo in società che vogliono ritenersi civili. L’espulsione della
teologia dall’università di stato oltre che i motivi politici, contingenti, in
cui si è verificato l’evento, è il sintomo di un venire meno, del fatto che la
fede tutto sommato non è una questione di conoscenza e quindi non ha diritto a
strutturarsi accademicamente come una delle tante forme di conoscenza
possibili, non l’unica ovviamente. Allora di qua ne potrebbe derivare una
rivendicazione anche del ruolo pubblico della teologia, che non significa
semplicemente farla nelle università pubbliche, la si può fare ovunque –anche
in internet, sul mio sito, trovate questo contributo che diedi sulla teologia nella città, teologia per la città,
sulla dimensione secolaredelle
scienze teologiche.
Allora, dentro queste, come dire, provocazioni
interne alla stessa riflessione sulla fede, alcune sono proprio interne –quella
dell’emotività, per esempio, o della deliberazione vitale, sono interne- c’è la
tendenza ormai fortemente diffusa a relegare la fede nell’ambito del puro
privato. “Il futuro della religione”, questo libro-intervista in cui dibattono
sulla religione Richard Rorty e
Vattimo vuol essere proprio l’espressione, diciamo, più accademicamente
avvertita di questa tesi: credere è un
fatto privato. E avrà un futuro la religione nella misura in cui si svilupperà
sempre all’interno di questa sfera puramente privata dell’esistenza. E non avrà
invece un futuro se vorrà continuare a imprimersi nella società, ai diversi
livelli, dalla società civile a quella politica, ovviamente. Ora, a questa tesi
se ne aggiunge poi una abbastanza divertente, sempre di Vattimo, secondo la
quale la fede è un “ornamento” dell’esistenza. Come posso possedere, in casa,
un pezzo di antiquariato, con il quale diletto il mio spirito, sempre dal punto
di vista dell’emotività eccetera, così posso credere o non credere. Il mio
credere è un ornamento della mia vita, la ciliegina sulla torta, la torta però
è fatta di altro. Sono tendenze molto
forti. Tanto forti da incidere anche sul nostro stesso credere. Noi cattolici
che riteniamo invece di avere anche una certa una modalità autentica di
interpretare la fede, quanto volte ci vergogniamo del credere, dell’espressione
del credere. E’ un sintomo – vedo persone anche sinceramente credenti- un fatto
di pudore, non fare la croce, non mettere la croce nel luogo pubblico, per
pudore non lo fanno. E’ un modo per ritrarsi. Dall’altra parte ci sarebbe un
volere imporre il proprio credere attraverso dei segni particolari a chi magari
potrebbe essere disturbato da questa imposizione. Il problema di avere una
linea media è sempre difficile.
Io volevo poi, sempre declinando questo tema,
dire due altre modalità molto, come dire, intriganti per diversi
aspetti,attraverso le quali oggi si declina questa dimensione
pubblico-comunitaria del credere. La prima modalità -è una cosa che mi fa
sempre molto riflettere;io non sono di quelli che tendono a demonizzare queste
cose- è la tendenza sempre più diffusa, anche attraverso note, opere letterarie,
cinematografiche, e così via, a ritenere la fede autentica, come dire, quasi
una espressione esoterica. Un esoterismo della fede. Per cui, no, appena
succede che si parli di cose esoteriche, tutti cominciano ad attizzare le
orecchie, tutti si sentono in qualche modo interessati a questo aspetto,
facendo per esempio riferimento ad alcuni temi che fanno parte della nostra
tradizione, ma vi fanno parte, come dire, in una maniera o con una
intenzionalità, un’accezione molto diverse da quello che può essere il modo
comune. Pensiamo alla parola “mistero”. Pensate alle parole “iniziazione
cristiana”. Parole che derivano, e che il cristianesimo aveva in comune proprio
con i gruppi misterici, che avevano i loro riti di iniziazione, non a caso si
chiamavano gruppi misterici. Ora, la tendenza attuale è proprio quella,
quasi, di riportarci dentro la dimensione del culto misterico.
Ora, se ci pensate -non c’è niente di nuovo sotto il sole, alla fine- se ci
pensate era questo uno dei modi in cui gli avversari del cristianesimo nascente
lo interpretavano. Cioè i primi cristiani venivano ritenuti come, o alla
stregua, dei diversi gruppi, delle diverse sette potremo dire oggi, che
appartenevano più o meno a dei gruppi misterici, a dei culti misterici, che
facevano cose strane.
[…]
Questo fatto, pensate, se il cristianesimo
nascente avesse in qualche modo, come dire, interpretato sé stesso in questo
modo, il cristianesimo nascente sarebbe morto come sono morti tutti i culti
misterici dell’epoca. Chi fa più i culti misterici in quel modo lì? Perché … il
culto misterico a un certo punto diventa interessante? Io poi vorrei fare tutto
un discorso sullo gnosticismo, ma ve lo risparmio, perché se no poi dopo
andiamo lontano….mi divertono molto queste cose. Perché il culto misterico ad
un certo punto diventa interessante, all’interno di una società pagana, in cui
appunto la religione di stato è una religione pagana? In cui la religione
istituzionale è pagana. Perché la religione istituzionale non risponde più al
bisogno religioso della persona. E il culto misterico, quando non propriamente
ufficiale, Delfi è un esempio tipico ma anche atipico per altri aspetti, i
culti misterici dell’età, diciamo, romana avanzata, tardo imperiale, sono culti
domestici, sono culti privati, sono culti di piccoli gruppi, i quali però,
siccome sono pagani, poi non hanno nessun problema a tributare all’imperatore
quello che gli spetta, tanto un dio in più, un dio in meno, che problema gli
poteva fare, all’interno di un politeismo pagano. Guardate che le
attualizzazioni possibili di questo sono tantissime. Allora il problema diventa
ad un certo punto quello di un cristianesimo che si presenta sul sociale, che
si presenta nella società con la propria identità, e lì cominciano naturalmente
da un lato le accoglienze e dall’altro lato le persecuzioni. Fosse rimasta una
religione domestica, ecco, non so se
saremmo qui a parlarne. Per cui a fronte di questa grande diffusione del
carattere esoterico di ogni religione e in particolare della religione
cristiana, bisogna fortemente rivendicare il carattere essoterico, cioè
pubblico. Non c’è niente di segreto. Adesso che ci siamo tolti di mezzo pure il
terzo segreto di Fatima, credo che non
ci sia più niente da fare. Il quale segreto, per altro, non faceva neanche parte
della Rivelazione, no? La Rivelazione così come deve essere rettamente intesa
dal punto di vista dei cristiani è pubblica. E non c’è nulla di segreto. Se
eventualmente si dà una iniziazione è perché si cerca in quale modo,
didatticamente, di strutturare dei percorsi. Ma l’atto del credere lo si trae
da tutta la Rivelazione. Non è che io credo a pezzi. Non so, quando in una
certa età della vita credo in Dio, poi credo nella Trinità, poi credo nella
Chiesa. Credo insieme tutto questo. E’ un complesso unico. L’iniziazione c’è,
ma è un espediente pedagogico.
L’altro aspetto, pure molto interessante, e
qui incrocio in qualche modo le riflessioni di Michael Valzer (filosofo
statunitense) ,è l’aspetto oggi
dibattutissimo della religione civica. Popolare, come sapete, negli Stati Uniti. Ma poi, di riflesso, anche
da noi.
[…]
Dal punto di vista della religione civile, le
descrizioni che ne vengono dal Centro Studi sulle Nuove Religioni del
Pontificio consiglio per il dialogo con i non credenti non sono, come dire,
fortemente entusiaste, al contrario. Sono piuttosto preoccupate. […] [La]
religione civile … viene descritta come caratteristica degli Stati Uniti
d’America, e poi di altre società come la Svezia, la Russia e il Giappone.
Negli Stati Uniti l’espressione indica un minimo comun denominatore che
dovrebbe unire persone di fedi religiose diverse e insieme promuovere una
mitologia che fa degli stessi Stati Uniti una specie di nuovo Israele o di
popolo eletto, la cui sorte è guidata da una non meglio identificata
Provvidenza. E qua, sul fatto della Provvidenza, noi abbiamo altre esperienze
di “uomini della Provvidenza”. In Svezia, un Paese caratterizzato da una grave
crisi del cristianesimo luterano, che è la forma più presente lì, la religione
civile è diventata l’espressione del welfare, cioè dello stato assistenziale.
Anche qui noi a volte rischiamo qualcosa del genere, quando identifichiamo l’aspetto sociale e
civile del cristianesimo con l’impegno assistenziale- e in Svezia pare che sia
capitando questo. Quindi: lo stato assistenziale che pensa a tutto, dalla culla
alla bara. Questa è la religione civile. Dall’altra parte in Russia, dopo la
fine del comunismo, dice che è troppo presto per affermare che assistiamo
all’inizio di una religione civile, destinata a prendere il posto
dell’ideologia che sarebbe stata soppiantata dalla caduta del Muro, ma non
possiamo neanche escludere un processo del genere. Specie se si osserva in
certi movimenti la nascita di forme di nazionalismo che si presentano come
possibile fonte di un credo immanentista. In Giappone, infine, si può parlare
di una religione insieme civile e religiosa, se si guarda allo scintoismo come
religione di stato. Poi ci sono altre osservazioni di Introvigne, da questo
punto di vista, il quale ci aiuta in qualche modo a descrivere e interpretare
il fenomeno della religione civile secondo queste quattro categorie. L’appello
alla morale –la religione come un quadro di valori-. Quindi: “Che significa
essere credenti?”. “Essere credenti significa credere in questa gerarchia dei
valori”. Credere nella vita, credere nella giustizia, eccetera eccetera…Quindi,
come dire, una riduzione del credo all’ethos. L’esaltazione dell’imprenditore
privato onesto, il secondo aspetto. L’idea della missione degli Stati Uniti
d’America nel mondo, missionari in questo senso. E la designazione di
avversari, variabili nel tempo. Perché senza il nemico non saprebbero che cosa
fare. Ora direi, tra Scilla e Cariddi, -poi ci sono altre cose… ma non
interessano- che cosa viene da dover dire per andare un po’ alla radice del
problema. Viene da dover dire che dobbiamo essere attenti anche al linguaggio.
Per esempio: ritenere che la fede sia un atto personale, cioè un atto della
persona, non significa ritenere che esso sia un atto individuale. E neppure che esso sia o designi soltanto un
insieme di relazioni. Perché sappiamo –e la cultura personalista penso che ci
appartenga, anche come Azione Cattolica, abbastanza- che la persona è insieme
soggetto e relazione. E dunque è in
questo punto credo che ci sia da
innestare il discorso. Cioè la fede come atto della persona significa che è mio
ma che non è soltanto mio, perché io sono un soggetto sempre e comunque in
relazione. Né come soggetto sono la somma delle relazioni, ma non sono neppure un puro soggetto. Non
avrei neppure avuto la possibilità di esistere se non ci fosse stata una
relazione originaria dalla quale, più o meno, sono venuto fuori. Di qui io
penso che derivino delle conseguenze importanti. Anche quando descriviamo la
fede come atto propriamente della persona, poi dobbiamo sempre integrare il più
possibile quelle tre dimensioni che dicevamo prima, senza staccarle, senza
separarle: l’affettività, la volontà, la conoscenza. Per cui l’atto del credere
ci deve coinvolgere in tutti questi aspetti. L’atto del credere puramente
affettivo scadrebbe nel devozionismo. Un atto del credere puramente volitivo ci
porterebbe quasi a ritenerci più buoni degli altri: “Mi salvo perché lo
voglio!”. Un atto del credere puramente conoscenza mi porterebbe a ritenere il
cristianesimo una teoria, della società, della vita, della storia. Il tenere
insieme questi aspetti comporta allora il passaggio anche dalla dimensione
costitutivamente comunitaria del credere a quella che chiamo la funzione pubblica
del credere. Però, attenzione, che la dimensione pubblica del credere ha
bisogno di continue mediazioni. Cioè non può essere mai verticalmente imposta.
C’è sempre da mediare. E quando ha ricevuto queste mediazioni, per esempio a
livello di valori, per esempio entrando
nella costituzione di uno stato laico,
per esempio determinando alcune scelte di legislazione –in cui è
presente la bioetica…-, quando ciò è successo tutto ciò non esaurisce il
credere. L’atto del credere, la fede come atto e come contenuto, trascende
sempre e comunque anche le sue espressioni pubbliche, le sue espressioni
sociali, le sue espressioni giuridiche. Come trascende le sue espressioni
etiche. Perché? Perché in tutto questo non si tratta di credere in dei valori,
non in un quadro di valori, non si tratta di fare delle battaglie per delle
leggi. L’atto del credere riguarda il mio rapporto di persona, quindi soggetto
relazionato, con Gesù Cristo. Questo è il punto. Cioè l’atto del credere in
fondo altro non è se non la mia risposta personale, di soggetto relazionato,
alla domanda “Voi chi dite che io sia?”, “ Tu chi dici che io sono?”. Questa
riposta che è affettiva, volitiva, conoscitiva insieme è il luogo sul quale poi
e col quale poi deve confrontarsi ogni mediazione del credere nelle diverse
situazioni, professionali, civili, politiche. Da questo punto di vista io credo
che sia molto importante proprio raccogliere la sfida e allora “giocare” la
sfida della fede come pubblica virtù con la consapevolezza che, quando ciò
accade, non esprime tutta la fede. Quando ciò è storicamente accaduto, quando
la cultura e la fede sono arrivate a identificarsi, fino a produrre il modello
della cosiddetta christianitas medioevale,
quante nefandezze non sono state commesse! Voglio dire: andiamoci calmi col
dire…che quando la fede diventa ispiratrice, non so, della società, dei poteri,
eccetera, poi tutto va bene. E poi, no,
ci troviamo a fare gli Anni Santi, a batterci il petto, a dire che
l’Inquisizione… “Sì, però…”, che le Crociate… “Sì, però…”, e tutti questi “Sì, però” che non finiscono
mai. Cioè la fede resta in effetti una
realtà complessa e al tempo stesso misteriosa.
Per esempio misteriosa in un’altra sua polarità fondamentale, è un
paradosso credere, la polarità della
fede come dono e come scelta. Noi siamo credenti perché abbiamo avuto il dono
della fede. Questo dono è stato accolto in una scelta, ma attenzione a non
escludere l’aspetto del dono dalla scelta e viceversa. Perché se continuo a
scegliere di credere è anche perché sono sostenuto…
[da questo punto della relazione
i miei appunti non sono pienamente intelligibili. Li integro con un brano di un
articolo sullo stesso tema della relazione apparso su Coscienza n.5/2006].
Concludo: è un paradosso credere
e tale paradossalità si esprime nel bipolarismo della fede come dono e come
scelta. Noi siamo credenti perché abbiamo avuto il dono della fede. Questo dono
è stato accolto in una scelta, ma attenzione a non separare l’aspetto del dono
da quello della scelta, del coinvolgimento effettivo e dell’esercizio della
ragione, e viceversa. Perché se continuo a credere è perché sono sostenuto
dalla grazia di Dio, che individualmente e comunitariamente dobbiamo sempre
invocare ed accogliere, con la speranza che il Figlio dell’uomo, al suo ritorno,
trovi ancora autentica fede sulla terra.
(1)
Secondo il teologo Friedrich Daniel
Ernst Schleiermacher ( 1768-1834) , la religione non sarebbe un insieme di
verità concettuali, né un insieme di norme etiche, ma un atto di intuizione
del sentimento dell’unità di infinito e finito (uno dei motivi del
romanticismo).