Azione Cattolica: fede religiosa
e democrazia
PARTE TERZA
(la parte prima e seconda sono nei post sopra quello che state leggendo)
di Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa -
Roma, Monte Sacro, Valli
edizione ottobre 2018, con nuovi materiali
46
L’incontro
della Chiesa col mondo
(23 dicembre 2012)
Nel 1982 un amico mi condusse
alla presentazione dell’ultimo volume degli scritti di mons. Enrico Bartoletti,
vescovo che ebbe un ruolo fondamentale, quale segretario della Conferenza
Episcopale Italiana, nell’attuazione del Concilio Vaticano 2°. L’opera
completa, in quattro volumi, era stata curata da don P.G.. So che ora è parroco
in Toscana. Quel giorno un suo amico e collaboratore, che era sacerdote e
svolge anch’egli il suo ministero in Toscana, mi diede da leggere tutti i
quattro libri e io lo feci. Non ebbi più occasione per chiedergli se intendesse
riaverli indietro. Da allora fanno parte della mia biblioteca, mi hanno sempre
accompagnato dove ho abitato e mi sono stati preziosi per formare la mia
spiritualità e, innanzi tutto, per capire il clima di quel Concilio.
Nel quarto volume
dell’opera citata, intitolato La Chiesa e
il mondo, ho trovato questa citazione, da un discorso che mons.Bartoletti tenne nel gennaio 1962 (nella fase
preparatoria del Concilio) al Movimento
Laureati Cattolici, che oggi si chiama MEIC-
Movimento ecclesiale di impegno culturale:
“E
giacché il primo incontro della Chiesa col mondo avviene in noi, che già siamo
in lei, e pur portiamo la cultura, e istanze, le incertezze del mondo, si
tratta di offrirci alla Chiesa in consapevole disponibilità, perché inizi o
rinnovi in noi il suo compito di penetrazione e di santificazione”.
Per intendere la portata anticipatrice di queste
considerazioni, bisogna figurarsi la Chiesa come era a quell’epoca. Era
un’organizzazione che vedeva in prima fila il Papa e i vescovi, la gerarchia,
poi i loro collaboratori, i preti, e
poi, come quasi come truppe scelte, gli istituti religiosi, frati, monaci,
suore e monache. Tutte le altre persone, gli altri fedeli, erano oggetto di una
normazione di carattere giuridico e morale: si diceva loro che cosa dovevano
fare e si pretendeva che lo facessero. Al più si ammettevano libertà di
dettaglio, per tradurre meglio nella società quello che si era deciso in alto.
Naturalmente c’erano eccezioni. Proprio nel Movimento
Laureati Cattolici, che all’epoca era una delle organizzazioni professionali dell’Azione Cattolica, ci sforzava di formarsi meglio, di approfondire
le questioni, di dare un contributo più ampio. Questo in particolare dopo che
il cattolici, nell’Europa ricostruita dopo al disfatta del nazismo tedesco e
dei vari fascismi suoi alleati, avevano avuto tanta parte nelle
riconfigurazione delle istituzioni pubbliche e dei principi.
Le attese (e i
timori) maggiori erano per quello che saremmo diventati noi laici, dopo tanti secoli di posizione subordinata
nelle cose religiose, anche se riguardavano poi le cose del mondo, di ciò che si muoveva fuori dello
spazio liturgico.
Nel corso degli anni
’50, sulla scorta di riflessioni avviate già nei precedenti anni ’30 in
Francia, si pensava che l’efficacia dell’azione della Chiesa nella storia
sarebbe stata in futuro molto più condizionata dall’atteggiamento dei laici.
Da alcuni si temeva
una deriva protestante dei cattolici,
ma, in realtà, movimenti analoghi si erano prodotti anche in alcune Chiese non
cattoliche. Ad esempio nel movimento promosso negli Stati Uniti d’America da
Martin Luther King, pastore della Chiesa Battista.
Certe storiche
divisioni tra cristiani erano state spesso già superate nella pratica. E in
molte cose il Concilio Vaticano 2° più che essere un aggiornamento a ciò che si
muoveva nel mondo, fu semplicemente
un aggiornamento a ciò che si era già prodotto nella Chiesa cattolica.
Bisogna dire che,
dopo un inizio piuttosto effervescente e promettente, qualcosa venne meno nello
slancio sulla strada indicata dal Concilio Vaticano 2°, i cui deliberati, più
che bisognosi di essere attuati chiamavano
ad essere sviluppati. Ci furono
resistenza da varie parti, ci furono insufficienze in molti, in particolare nei
laici. Talvolta si assistette, nelle sperimentazioni che vennero promosse, a
una clericalizzazione dei laici e a
una laicizzazione dei preti e dei
religiosi. Questi ultimi entrarono in crisi, non riuscendo più a inquadrare
bene il senso del loro ruolo nella Chiesa, mentre i laici, spesso anche per
remore clericali, stentarono a conquistare il campo loro proprio, di ordinare
secondo i principi religiosi le cose del mondo, in cui erano immersi, di cui
erano coautori e partecipi.
Ci furono aspre
controversie negli ambienti laicali più impegnati, delle quali oggi solo i più
anziani serbano lo spiacevole ricordo. Non merita nemmeno di perderci ancora
tempo su, visto che ai tempi nostri sono divenute insignificanti. Ma
certamente, specialmente nella realtà italiana, i laici si sono formati a due scuole con obiettivi divergenti, per cui, quando in parrocchia ci
si trova insieme e si cerca un accordo sulle cose da fare e specialmente su
come manifestarsi all’esterno, la differenza di impostazione si sente. In
realtà oggi si pensa di solito che occorra agire dall’interno della società in
cui si vive, come lievito, che fa crescere l’impasto ma non è più riconoscibile
nel prodotto finale, e nello stesso tempo anche rendersi presenti come gruppi
sociali organizzati. Sempre più spesso assistiamo a vaste convergenze tra
gruppi che in passato si guardavano piuttosto in cagnesco.
Una parte del lavoro
che dobbiamo fare in Azione Cattolica, per la nostra vocazione specifica, è di
fare unità, di promuovere l’amicizia e la comprensione tra chi vive la fede nei
tanti modi in cui lo si può legittimamente fare, senza che ci si scambi
arbitrariamente scomuniche o simili.
L’altra parte di quel
lavoro è di capire meglio le società in cui viviamo e in cui democraticamente
abbiamo diritto di parola e di scelta, senza scegliere la via della separazione
settaria, nel presupposto che tutto il male sia fuori della nostra Chiesa e che
il mondo in cui viviamo sia la città del
diavolo destinata alla perdizione.
C’è infine un ultimo
lavoro che occorre fare, e che è la parte forse più dolorosa del nostro
impegno, che è quello della purificazione
della memoria, del riconoscimento franco e veritiero del male che, come Chiesa vivente sulla Terra, è stato
storicamente fatto, per sterilizzare i conati reazionari che vorrebbero
riproporre infelicemente ciò dal quale solo di recente, in particolare sotto la
guida del Papa Giovanni Paolo 2°, ci siamo distaccati. Non illudiamoci che sia
un compito facile. Né che l’arrendevolezza ai voleri altrui, spacciata per
ubbidienza gerarchica, sia la via più virtuosa. In questo si dovrà praticare la
virtù della fortezza, della fermezza sui principi acquisiti. E questo sforzo è
tanto più difficile perché sono stati veramente tanti i secoli bui dai quali
velocemente, nella seconda metà del Novecento ci siamo distaccati come
confessione religiosa. L’Azione Cattolica ha fatto parte
storicamente del movimento laicale che ha spinto per questo risultato, trovando
udienza nei capi religiosi. Ricordiamo che le radici del Concilio Vaticano 2°
affondano addirittura nei moti religiosi dell’Ottocento.
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47
Cattolicesimo
forza di progresso?
(29 novembre 2012)
Dalla Costituzione dogmatica
Lumen Gentium sulla Chiesa, del
Concilio Vaticano 2° (1962-1965), n.36
I fedeli perciò devono
riconoscere la natura profonda di tutta la creazione, il suo valore e la sua
ordinazione alla lode di Dio, e aiutarsi
a vicenda a una vita più santa anche con opere propriamente secolari,
affinché il mondo si impregni dello spirito di Cristo e raggiunga più
efficacemente il suo fine nella giustizia, nella carità e nella pace. Nel compimento universale di questo
ufficio, i laici hanno il posto di primo piano. Con la loro competenza
quindi nelle discipline profane e con la loro attività, elevata
intrinsecamente dalla grazia di Cristo, portino efficacemente l'opera loro,
affinché i beni creati, secondo i
fini del Creatore e la luce del suo Verbo, siano
fatti progredire dal lavoro umano, dalla tecnica e dalla cultura civile per
l'utilità di tutti gli uomini senza eccezione, e siano tra loro più
convenientemente distribuiti e, secondo la loro natura, portino al progresso
universale nella libertà umana e cristiana. Così Cristo per mezzo dei
membri della Chiesa illuminerà sempre di più l'intera società umana con la sua
luce che salva.
Inoltre i
laici, anche consociando le forze, risanino le istituzioni e le condizioni del
mondo, se ve ne siano che provocano al peccato, così che tutte siano rese
conformi alle norme della giustizia e, anziché ostacolare, favoriscano
l'esercizio delle virtù. Così agendo impregneranno di valore morale la
cultura e le opere umane. In questo modo
il campo del mondo si trova meglio preparato per accogliere il seme della
parola divina, e insieme le porte della Chiesa si aprono più larghe, per
permettere che l'annunzio della pace entri nel mondo.
Ai tempi nostri probabilmente la
definizione del cattolicesimo come forza di progresso non troverebbe un
generale consenso. Eppure è proprio questo, in fondo, il fine che durante il
Concilio Vaticano 2° si pensò di assegnare all’azione dei laici nelle società
in cui vivono e operano. Ne è un esempio il brano della Costituzione dogmatica Lumen Gentium (trad. dal latino: Luce per le genti) che ho sopra
trascritto. Possiamo considerarlo una novità in un documento della gerarchia
ecclesiale, tenendo conto delle precedenti millenarie prese di posizione in
merito.
Come ho osservato in
altri miei interventi, non è facile, leggendo le deliberazioni del Concilio
Vaticano 2°, individuare quelle parti che contengono sviluppi innovativi.
Questo accade in particolare in un documento di particolare rilevanza,
normativo, come la Costituzione dogmatica citata, che riguarda la Chiesa. Ad
uno sguardo superficiale tutti i temi che solitamente si facevano rientrare in
questo argomento sono esposti nell’ordine consueto. Infatti troviamo le parti
che spiegano di dove, da chi e come la Chiesa originò, la ripartizione dei
compiti in esso, da chi e come
l’autorità in essa venga esercitata, il carattere sacro di alcune funzioni,
come quelle del papa, dei vescovi e dei preti, le caratteristiche dell’impegno
dello stato religioso, la posizione degli altri fedeli, la missione della
Chiesa nella società del suo tempo, vale a dire in quello che nel gergo
teologico viene definito il mondo o
anche il mondo profano.
Eppure le novità ci
sono, anche se esse non vengono mai presentate come idee che si contrappongono
alla precedente tradizione, in particolare a
quella che riguarda i principi fondamentali, ma, al limite, come
scoperta, o riscoperta, di potenzialità di bene che storicamente erano state
poco capite o praticate. E ciò anche quando, sostanzialmente, si viene a
ripudiare qualcosa di male che si riconosce esserci stato nel passato.
E’ solo con il Grande
Giubileo dell’anno 2000, indetto e guidato dal papa Giovanni Paolo 2°, che si
giunge a richiedere a tutti, come
esercizio specificamente religioso, un lavoro particolare per raggiungere una
memoria storica veritiera sull’azione della Chiesa del mondo e il ripudio, vale a dire l’impegno a non
riproporli in futuro, di certi modi di essere, di organizzarsi, di entrare in
relazione con le altre persone, individualmente considerate o nei gruppi in cui
sono inserite vitalmente.
Le conseguenze sono
state molto rilevanti, perché i principi normativi del Concilio Vaticano 2°
sono stati fecondi e hanno ispirato molteplici sviluppi, che, in larga parte,
corrispondevano a modi di vivere la religiosità che si erano già affermati, più
o meno largamente, tra i fedeli e che attendevano solo di essere riconosciuti
in un documento normativo della gerarchia. Questo in particolare ha riguardato
i compiti dei laici cattolici, anche se su questo tema in genere c’è ancora
insufficiente consapevolezza e ciò per vari motivi.
Il primo è di ordine
culturale: mentre per i sacerdoti e i religiosi è previsto e obbligatorio un
processo di formazione continua, questo non è previsto per i laici, dopo il
periodo dell’iniziazione ai Sacramenti nell’infanzia e nell’adolescenza, che di
solito termina con la Cresima, se non ancora prima, con la Prima Comunione.
Il secondo
motivo è di ordine organizzativo: poiché
nella Chiesa cattolica i principi morali e di organizzazione e le linee guida
delle varie attività vengono formulati da appartenenti all’Ordine Sacro, quindi
dal clero, è ovvio che abbiano avuto il massimo risalto le questioni che
riguardavano questa parte qualificata dei fedeli, innanzi tutto per mantenere
un loro ruolo preminente in ogni settore e poi per conservare l’integrità della
struttura gerarchica del clero, centrata su centri di potere sostanzialmente
monarchici, con temperamenti di collegialità a vari livelli. Lo scopo è di
rendere coerenti su scala mondiale
gli insegnamenti religiosi, le liturgie e l’organizzazione ecclesiale, in modo,
in particolare, che la Chiesa appaia parlare con una sola voce, diventando
manifestazione dell’unità dei fedeli, secondo il comandamento ricevuto
evangelicamente.
Il terzo motivo è che
spesso i laici sono appagati da una religiosità meramente liturgica, e in
particolare sacramentale, della quale essi, sebbene coinvolti molto
profondamente nella loro interiorità, sono partecipi ma non protagonisti, in
quanto in tale campo emerge e prevale la missione del clero. Del resto, per
millenni è solo questo che, in definitiva, si è preteso dai laici, vale a dire
da chi non era prete, vescovo, monaco o monaco, frate o suora.
Le società civili, e
le loro popolazioni, erano lasciate al dominio di monarchi, con i quali la
Chiesa, a diversi livelli, tramite suoi plenipotenziari, e al massimo livello
in persona dei papi, entrava in relazione innanzi tutto per garantire spazi di
libertà alla propria organizzazione (clero e religiosi, con esenzioni e
privilegi che riguardavano le persone e i beni) e poi per assicurarsi il
riconoscimento di un potere spirituale sui sudditi dei monarchi civili,
venendosi in tal modo a realizzare una sorta di condominio sulle posizioni assoggettate al trono e all’altare. I due tipi di potere, quello civile e quello
religioso, venivano poi a sostenersi a vicenda, specialmente dove il monarca
civile riconosceva quella cattolica come unica
religione ammessa nel suo dominio e/o le autorità della Chiesa riconoscevano la
qualifica di cattolica a una dinastia
monarchica civile. Per queste relazioni politiche
tra autorità civili e religiose, la critica sociale su base religiosa, di cui
si trovano tanti esempi nell’Antico Testamento e che quindi aveva una salda
base biblica, era in genere scoraggiata dalle autorità religiose, perché
avrebbe messo in crisi quegli accordi, a volte semplici armistizi piuttosto
precari, raggiunti con le autorità civili. Ad esempio nel documento normativo
denominato Sillabo (=elenco),
allegato all’enciclica Quanta Cura (1864)
del papa Pio 9°, con l’indicazione di quelli che la dottrina cattolica riteneva
essere i principali errori del tempo, si dichiarava erronea l’idea che fosse
logico negare obbedienza e anzi
ribellarsi ai prìncipi legittimi.
L’esperienza delle
due guerre “mondiali” combattute nel Novecento manifestò l’insufficienza dei
princìpi che erano stati seguiti per millenni nelle relazioni con i capi delle nazioni, secondo
l’espressione utilizzata dal papa Benedetto 15°, nel 1917, nel chiedere di
fermare l’inutile strage in cui si
era risolta la Prima Guerra mondiale.
Il primo di quei due
conflitti bellici catastrofici era stato iniziato da monarchi cristiani e combattuto fra popoli di
antica civiltà cristiana. Il secondo era stato scatenato da despoti
rivoluzionari che si erano avvalsi in modo nuovo dei popoli assoggettati, non
più come storici sudditi di una dinastia, ma come espressioni di una nuova
condizione umana di dominatori, in virtù della quale avevano il diritto, come
sorta di stirpi elette, di predare e soggiogare il mondo. Qualcosa di simile
aveva travolto la dinastia imperiale cristiana russa, portando all’ordine
sovietico, in cui la religione era considerata una impostura di classe per
tenere soggiogata la parte subalterna delle popolazioni. Risolutiva, in
entrambe le guerre mondiali, era stata l’azione della democrazia statunitense,
la quale aveva fondamenti religiosi espliciti ma che, nello stesso tempo, era
struttura con un’organizzazione politica pluralista. Ad essa, nel pensare
l’Europa che sarebbe sorte dopo la fine dei totalitarismi guerrafondai nazisti
e fascisti, si cominciò a guardare come esempio di coesistenza pacifica di
popoli con diverse tradizioni etniche, culturali, linguistiche, religiose. E’
questo il momento il cui, anche sulla scorta di antecedenti storici risalenti
all’Ottocento, comincia a prodursi nella Chiesa cattolica quel movimento che
ebbe piena manifestazione molto più tardi, negli anni Sessanta, in particolare
con il Concilio Vaticano 2°.
In Francia e in
Italia ci si stava ragionando fin dagli anni ’30, sullo spunto del pensiero dei
filosofi Jacques Maritain ed Emmanuel Mounier.
Maritain intervenne
nel Concilio Vaticano 2° quale rappresentante degli intellettuali e in tale
veste ricevette uno specifico messaggio del Papa.
L’idea era che la
sfida lanciata dai regimi popolari totalitari, quello nazista tedesco, i
diversi fascismi europei e il regime comunista sovietico, non poteva essere
vita con i metodi e i principi del passato, quindi con la riproposizione della
restaurazione di una civiltà cristiana europea retta da un condominio di
dinastie civili e di monarchi religiosi, ma che occorresse coinvolgere più
profondamente, non solo chiamandole all’ubbidienza, le masse dei popoli
europei, rendendole protagoniste della costruzioni di civiltà, intese innanzi
tutto come istituzioni politiche, economiche e sociali, che non configgessero
con gli ideali di sempre della cristianità.
Una prima pronuncia
in questo senso della gerarchia cattolica al massimo livello si trova nel
radiomessaggio natalizio del 1944 del papa Pio 12°, che ho più volte citato, in
cui ci si chiede se gli sconvolgenti avvenimenti dei decenni passati avrebbero
potuto essere evitati se i popoli europei avessero avuto più voce in regimi
democratici.
Questa lunga premessa
è stata necessaria per comprendere il senso del brano della costituzione Lumen Gentium che ho trascritto
all’inizio. Ci ritornerò sopra in altri interventi. Vorrei però che chi legge
lo facesse interiormente proprio, direi quasi mandando lo a memoria.
La prima
caratteristica di questa che è giuridicamente una legge fondamentale della
nostra Chiesa, parte di un documento normativo molto importante, è che non pone divieti e non indica nemmeno precisi obblighi di fare, come, ad esempio, nel
Decaloco, quando si prescrive di non
rubare (obbligo negativo – di non fare) o di
santificare le feste (obbligo positivo – di fare).
Il discorso che viene
sviluppato in quel brano è in sostanza un
appello, una chamata ad un lavoro, rivolto in primo luogo ai laici, a coloro che quindi non fanno
parte del clero o dei religiosi (frati e suore, monaci e monache).
Si riconosce ai laici
una competenza, vale a dire un
insieme di conoscenze e di saper fare, nelle discipline profane, che sono tutte quelle che non sono comprese
nella teologia, in cui sono formati il clero e i religiosi. Li si chiama ad
essere, come persone singole ma ance associandosi, forze di progresso a
beneficio non solo della Chiesa cattolica, ma di tutti gli esseri mani senza
eccezione.
Ecco in che cosa
consiste l’auspicato progresso: a)nel far progredire i beni creati mediante il
lavoro umano, la tecnica e la cultura civile; n) nella giustizia distributiva,
perché i beni creati aumentati e migliorati dall’azione umana, siano più
convenientemente distribuiti perché aia fonte di libertà umana e cristiana per tutti. L’obiettivo finale è risanare le istituzioni e le condizioni
del mondo, perché siano rese conformi alle norme
di giustizia e in tal modo favoriscano, anziché ostacolare, l’esercizio
delle virtù e, in particolare, quelle predicate nell’evangelizzazione dei
popoli.
In sostanza l’appello
è per operare per un progresso
tecnologico, culturale, civile e sociale, se del caso cambiando anche le
istituzioni, perché a tutti gli esseri umani sia aperta la via delle virtù
nella libertà. Questa è definita come opera di illuminazione dell’intera società umana e l’utilizzo di questa
espressione è analogo a quello che ne fecero gli illuministi nel Settecento. Solo che nella prospettiva cattolica
non si vede contraddizione tra la luce portata dalla ragione e la luce portata
da Cristo.
Se volessimo
individuare dal brano citato della Lumen
Gentium delle parole d’ordine, potremmo individuarle in queste: progresso, libertà, giustizia sociale, unità
per risanare il mondo comprese le sue istituzioni sociali, virtù, illuminazione
religiosa. Esse non sono rivolte
dalla gerarchia cattolica (solo) ai capi
delle nazioni, ma in primo luogo a tutti i fedeli laici. E’, a mia conoscenza la
prima volta che accadde nella storia della Chiesa in un documento normativo
della gerarchia. Vi invito a verificare la correttezza di questa mia
osservazione.
Certamente nel
passato nella dottrina del magistero di era fatta questione del buon governo, ama gli insegnamenti era
rivolti essenzialmente ai capi delle
nazioni e, a partire dall’enciclica Rerum
Novarum di Leone 13° (1891), alle parti sociali, imprenditori e lavoratori,
invitate a trovare una composizione dei reciproci interessi essenzialmente
nello spirito di non sfruttare le classi lavoratrici a tal punto dallo
spingerle alla rivolta. La giustizia
sociale, come la intende ai nostri giorni a partire da movimenti politici
che si diffusero nell’Ottocento, era estranea a questa prospettiva.
Bisogna precisare
che in questo la Chiesa cattolica, scrivendo sue norme fondamentali, non
intese, all’improvviso, aggiornarsi a come andava il mondo, corrispondendo in
tal modo alle attese di molta gente. Non è di questo aggiornamento che si è
trattato. In realtà la Chiesa cattolica, nella sua dottrina teologica e nella
sua normazione, si aggiornò a come essa era
già diventata nel corso dell’Ottocento e del Novecento, soprattutto
nell’impegno alla costruzione della nuova Europa dopo la catastrofe bellica
degli anni ’40. Già i cattolici si stavano infatti da tempo impegnando nel
senso auspicato dalla Lumen Gentium,
trovando però difficoltà nella normazione e nella teologia ufficiale della loro
Chiesa. In qualche modo, in questo campo, i
deliberati conciliari vennero
semplicemente a ratificare e a sistemare teologicamente, creando una
continuità dogmatica tra il passato e il presente, ciò che già i laici erano diventati e stavano facendo.
E infatti questo che
fu effettivamente un significativo cambio di rotta nel magistero gerarchico no
fu effettivamente avvertito come una novità, mentre fecero molta più
impressione le riforme che, dopo il Concilio Vaticano 2° e sulla base dei suoi
deliberati, vennero attuate nella liturgia della Messa: in questo campo infatti
fu effettivamente introdotto un rito diverso, pur se articolato nelle parti
tradizionali, e, soprattutto, iniziarono ad essere usate le varie lingue
nazionali dei popoli cristiani, in luogo del solo latino liturgico.
Concludo questo
intervento scrivendo che il difficile per noi laici non è tanto il capire gli
appelli che ci sono venuti dal Concilio Vaticano 2°, ma, esercitando
collettivamente le competenze che si sono proprie, ciascuno ragguagliando gli
altri sulle proprie specifiche e acquisendo dagli altri notizie sulle loro
(nessuno infatti nel mondo di oggi è capace di interloquire validamente su
tutto), capire il mondo in cui viviamo
per individuare come farlo progredire verso una migliore giustizia sociale,
per rimuovere gli ostacoli all’esercizio delle virtù e, innanzi tutto, quello
che è costituito dalla mancanza di libertà, determinata dall’ignoranza e dal
bisogno.
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48
Fede
religiosa, forza di progresso
(4 gennaio 2013)
L’angelo
è … il messaggero che, secondo le immagini bibliche, collegando il cielo alla
terra, annuncia a un essere umano che la Parola divina che l’ha creato vive
ancora nel suo intimo più profondo, anche nel momento della sua disperazione.
L’esteriorità è dunque necessaria a
questa speranza, essa aiuta a combattere il destino, a imporsi su di esso e a
crescere. Per coloro i quali non
percepiscono angeli nella loro esistenza quotidiana così spesso tormentata,
questa esteriorità – dice il Rabbi di Gur – proviene dalle parole della Torà.
Sono esse che hanno la forza stupefacente di rinnovare il desiderio di vita in
ognuno. Questa esteriorità talvolta prende anche la forma della voce di
un’altra persona, che, proponendo parole di vita a colui o a colei che si trova
imprigionato nel labirinto delle sue sofferenze e del suo male, non sa più
trovarle. Ma in ambedue i casi, e del resto uno non esclude l’altro, è
necessario affinché quella persona le intenda e colga il filo di chiarore che
gli viene teso –attraverso parole udite da una voce che non è la sua – che
quella persona resti attenta a ciò che quelle parole vengono a toccare in lei:
quel punto di speranza non domato, quella certezza, non verosimile rispetto al
tempo e alla natura, che la vita può ancora vincere sulla morte e sulla notte,
malgrado le prove e la tenacia degli scacchi subiti.
[da Caterine Chalier, Angeli
e uomini, Giuntina, 2009, pag.62]
Ai tempi nostri, e
anche nell’insegnamento catechistico, si è piuttosto cauti nel proporre una
visione religiosa della vita, pensando che poi possa risolversi,
nell’interpretazione personale, in qualche tipo di stranezza per cui mediante
certe pratiche liturgiche o ad esse somiglianti, o comunque mediante una disciplina personale,
si confidi di poter cambiare, quasi magicamente, la realtà intorno a sé. Si
preferisce parlare della santità personale come risultato del confidare nella
Parola di Dio, la quale però, nelle situazioni concrete che si presentano, non
è facile da individuare e allora poi si finisce per consigliare di fidarsi
dell’interpretazione che ne dà la Chiesa in persona del clero o addirittura dei
capi della comunità a cui si è più legati. Ecco quindi che una parte di quelli
che sono stati raggiunti dal messaggio religioso si allontanano dalla comunità
in cui l’hanno ascoltato, cercando l’autonomia e la libertà di pratica e
giudizio. Questo pregiudica l’efficacia propria dell’azione laicale, che ha
bisogno di gente per essere attuata, essendo anche un lavoro collettivo, ma
anche della possibilità di sviluppare in concreto concezioni particolari,
adatte ai vari problemi che si affrontano, facendo quindi reagire in modo
originale e autonomo fede religiosa e vita concreta, senza però aspettative
eccessive quanto a felicità qui su questa terra.
Sarebbe bello poter
dire che se si ha fede si è felici, in qualsiasi situazione ci si trovi, ma non
è vero che questo accada sempre. Anzi, per ciò che mi è stato dato di
sperimentare accade piuttosto di rado e non penso nemmeno che ci si debba
sentire in colpa per questo, perché non si è felici pur essendo parte di una
collettività religiosa e avendo in misura maggiore o minore una fede religiosa.
E’ vero che invece i cambiamenti in
meglio della vita delle persone possono dipendere da azioni, individuali e
collettive, a fondamento religioso, nel senso di motivate non sulla base di
come vanno di solito le cose, quindi su un realismo materialista, ma su
considerazioni paradossali, fondate su come vorremmo che fosse il mondo, quindi
su un’esigenza interiore che ci fa essere diversi perché collegata all’idea di
essere creature, non un accidente
della natura, quindi esseri dotati di una speciale dignità. E’ qualcosa che,
come scritto nel brano che ho sopra riportato, giace e opera nel nostro intimo
più profondo ed è a volte suscitato, riportato alla superficie della coscienza,
dall’esterno: qualcuno la descrive come esperienza angelica, per altri è il
contatto con le scritture sacre, per altri ancora si tratta della voce di
un’altra persona o di un’altra situazione in cui ci si trova. E’ allora che si
risveglia in noi “quel punto di speranza
non domato, quella certezza, non verosimile rispetto al tempo e alla natura,
che la vita può ancora vincere sulla morte e sulla notte, malgrado le prove e
la tenacia degli scacchi subiti.” E che si comincia a costruire un mondo
nuovo, in cui le tante cose dolorose della realtà che viviamo e che pure è
appunto la realtà siano superate e
migliorate. Ad esempio una società basata sul principio di uguaglianza intesa
come pari dignità, una cosa che in natura
semplicemente non c’è, come ricordavano gli schiavisti contro le obiezioni
degli abolizionisti. Tra gli esseri umani c’è stato sempre chi ha sfruttato e
chi è stato sfruttato, osservavano. Eppure questa realtà umana storica dello schiavismo è stata contrastata sulla
base di motivazioni in fondo religiose, quindi paradossali, almeno fin dal
Cinquecento, e dal Settecento con particolare efficacia, e ha portato
l’abolizionismo a prevalere a livello globale. E ciò anche se nella Bibbia,
composta di scritti composti in tempio piuttosto antichi, in cui lo schiavismo
era realtà giuridica accettata non c’è una parola esplicita contro di esso,
dico un appello alla rivolta contro
di esso. Eppure il movimento contro lo schiavismo, specialmente nell’Ottocento,
ebbe anche motivazioni religiose cristiane (pur avendone avute anche di
analoghe le pratiche schiavistiche degli Europei contro gli africani e i nativi
americani).
A una persona più
giovane di me che ha lasciato le consuetudini di fede respinta dal fideismo
irriflessivo che le era stato proposto, non attesterei mai che recuperando la
fede sarà felice su questa Terra, ma certamente le farei notare che su basi
religiose, dunque di ribellione contro le cose come normalmente vanno, in
particolare in natura, potrebbe capitarle di collaborare a cambiare in meglio
il mondo, in particolare nello sviluppo dei diritti fondamentali dell’uomo nel
pensiero e nella pratica. La nostra fede non ci impone di rassegnarci ad accettare
le cose come vanno e a ritenerle volontà di Dio, anche se si trattasse, ad
esempio, di una malattia grave o di un altro accidente “naturale”. L’altro
giorno sono stato in visita ad un centro oncologico e alle persone che ho
incontrato in sala d’attesa davanti agli ambulatori non avrei mai fatto questo
discorso. Né avrei promesso che, seguendo certi riti, Dio le avrebbe salvate. O
che, comunque, anche nella prospettiva della morte avrebbero trovato la
beatitudine, la felicità. La mia infatti non è una fede consolatoria o di rassegnazione,
ma di ribellione, di rivolta, a partire da una realtà affrontata senza facili illusioni. E’ vero tuttavia che, in
una prospettiva religiosa, in particolare cristiana, si può dare un senso a ciò
che ci accade e quindi si può essere portati ad agire di conseguenza: questo
rafforza il sentimento della propria dignità di fronte a una realtà sociale o
naturale che invece porta a deprimerla. Fa bene e porta a fare il bene. Non mi
sentirei di dire che accada sempre e
non ne faccio una colpa a quelli ai quali non accade. Per un malato grave, ad
esempio, la fede può essere solo un problema in più da affrontare e talvolta il
problema della teodicea, di
giustificare l’operato di Dio nel mondo, quindi il mondo come risultato di creazione, può superare effettivamente
le nostre forze. Ma di solito nella sofferenza è ancora possibile, come scrive
la Chalier, percepire un filo di chiarore,
e ciò sovente deriva da un’esperienza francamente religiosa, di voce o
situazione che risveglia una convinzione paradossale, che riguarda “parole di vita a colui o a colei che si
trova imprigionato nel labirinto delle sue sofferenze e del suo male, non sa
più trovarle”.
Il primo dovere
religioso del laico è quello di capire
realisticamente ciò che sta succedendo, per lui la fede non è quindi un fattore
anestetizzante, e poi di agire per
realizzare un mondo diverso (ordinare le
cose temporali secondo Dio, nel gergo teologico). In particolare è questo
appello, non di rassegnazione, che viene ai laici, e a tutti gli esseri umani
di retta volontà, dal Concilio Vaticano 2°
e dai documenti del magistero che si sono proposti di svilupparne i
deliberati.
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49
Noi, la Chiesa e la società nella crisi
(7 gennaio 2013)
Il duro inverno che si prepara per tutti gli italiani, ma più carico di
sacrificio per i disoccupati, pensionati e lavoratori a redditi bassi e medi,
per le famiglie con più figli piccoli, ispira a noi il senso di una severa
provvidenzialità di questo eccezionale convegno. E ciò non solo per la
sollecitazione a rinnovate opere di diaconia della Chiesa. Ma perché è l’intero
rapporto della Chiesa con la società italiana e col mondo che viene in primo
piano. E non più solo o tanto per riferimento alle profonde trasformazioni del
sistema sociale e politico italiano, nel passato prossimo immediato, ma
soprattutto per la sfida che la crisi economica, istituzionale e culturale pone
al presente e al prossimo futuro nella società e civiltà italiana.
Il nostro paese è in incombente pericolo di
precipitare in un nuovo periodo di decadenza, secondo una triste regolarità
della nostra storia. C’è già chi si rassegna. Ed è forse proprio contro la
inclinazione anche di molti cattolici alla rassegnazione che questo convegno acquista
ora la sua drammatica attualità.
Tra le non molte interpretazioni complessive
della situazione attuale della società italiana, che ho trovato tra i documenti
di risposta pervenuti dalle diocesi, da singole comunità e gruppi di lavoro di
Chiese locali [nella fase preparatoria – nota mia], da associazioni nazionali cattoliche e da qualche comunità cosiddetta
di base – la rassegnazione non trova però spazio.
Il senso di gran lunga prevalente delle
risposte sul tema generale del rapporto fra la Chiesa e la società italiana, è
che occorre accrescere il mutuo aiuto tra Chiesa e mondo nello spirito della
“Gaudium et spes”. E proprio la ricerca, da parte della cattolicità italiana,
di vie e modi e obiettivi specifici, per una congiunta e non contraddittoria azione,
di annuncio del Vangelo e di impegno per la giustizia e per la partecipazione
alla trasformazione del mondo, configura lo specifico apporto della Chiesa alla
società profana.
[Dall’intervento del sociologo Achille Ardigò (1921-2008) al
convegno ecclesiale “Evangelizzazione
e promozione umana”, tenutosi a Roma dal 30 ottobre al 4 novembre del 1976
– in Evangelizzazione e promozione umana
– atti del convegno ecclesiale – Roma 30 ottobre/4 novembre 1976, Editrice
A.V.E, 1976]
Le parole che ho sopra
trascritto sembrano scritte per i giorni nostri, perché descrivono un problema
della nostra Chiesa che è ancora attuale e che riguarda il modo di entrare in
relazione con il mondo al di fuori degli spazi liturgici, e invece risalgono a
trentasei anni fa. Che significa questo?
Significa che un lavoro che si era iniziato a fare negli anni ’70 fu interrotto
e che ora può essere ripreso, perché le condizioni per farlo si sono fatte
nuovamente favorevoli, in particolare dopo l’appello rivolto ai fedeli e al mondo
nell’enciclica Caritas in veritate
del papa Benedetto 16°.
Che cosa è la nostra
Chiesa? Non parlo naturalmente della sua origine, della sua natura e delle sue
finalità sotto il profilo teologico,
della fede comune professata nella tradizione. Ma di ciò che è dal punto di
vista sociale, delle relazioni come collettività con il mondo in cui è
storicamente inserita. Questo è un argomento molto importante per decidere che fare per fare progredire la società
arricchendola con i principi evangelici che riguardano la vita comune.
Non vi aspettate che
vi dia qui delle risposte. Le chiedo io a voi. Vorrei che se ne discutesse
nelle nostre riunioni infrasettimanali. Mi piacerebbe che a questo dibattito
prendessero parte anche coloro che negli anni passati si sono allontanati dalla
vita della parrocchia e anche coloro che sono entrati in polemica con la Chiesa
come è ora e lo dicono francamente, ma tuttavia nella loro interiorità
apprezzano ancora, al di là di quelle critiche anche dure, un discorso
religioso.
Siamo, ad esempio,
una ditta per la propaganda del sacro? Siamo una federazione di collettività che in
senso molto lato condividono una certa cosmologia religiosa e certi miti e che
fanno vita separata, considerando con un po’ di sospetto le esperienze altrui?
Siamo una federazione di organizzazioni caritative? Siamo una collettività che
vuole dare una giustificazione religiosa alla società come è ora e sostenerla
contro le critiche e gli attacchi che ci vengono dall’esterno? Siamo papa-men/women, vale a dire
un’organizzazione che ha come scopo principale sostenere l’azione del Papa nel
mondo di oggi e in particolare in Italia? Siamo dei rivoluzionari che pensiamo
di avere la ricetta giusta per cambiare il mondo rovesciando i principi
perversi su cui esso si fonda? Siamo gruppi di oranti che pensano di ottenere
il cambiamento del mondo con la preghiera incessante? Che cosa sono i preti, i
vescovi e il Papa per noi? In che cosa i preti si differenziano dagli
assistenti sociali, dagli psicologi, dagli psichiatri e dagli insegnanti delle
scuole? Quale autorità riconosciamo loro, di fatto?
In questo Anno della fede queste domande mi
sembrano importanti. Possiamo aspettarci che la risposta ci venga dall’azione
catechistica svolta nella Chiesa, che quindi altri ci dicano che cosa
siamo o come dovremmo essere? O dovremmo, come punto di partenza,
riconoscere francamente come abbiamo
voluto essere finora e capire se questo modo
di essere è sufficiente in relazione ai principi che proclamiamo e che,
come non cessano di ripeterci i vescovi, hanno informato di sé e ancora
informano di sé in particolare l’Europa (il tema delle cosiddette radici cristiane)?
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50
Un processo continuo di liberazione
(8 gennaio 2013)
Se c’è,
come non può non esserci nel mondo un processo continuo di liberazione, la
Chiesa, il cristiano con la Chiesa e per la Chiesa, deve essere presente in
questo processo di liberazione. In che modo? Con la triplice azione
sacramentale che è propria della Chiesa e del cristiano.
[…]
Con la
parola.
Nel
processo di liberazione e di promozione umana che è nel mondo, la Chiesa e il
cristiano deve essere innanzi tutto presente con la parola di Dio.
[…]
Con la
vita.
La
Chiesa. … e il cristiano nella Chiesa non può accontentarsi di parlare di liberazione, non può contentarsi di
parlare alla liberazione; la Chiesa
attraverso i suoi membri, secondo lo stato e le condizioni di ognuno, secondo
le capacità e la vocazione di ognuno, deve partecipare al processo di
liberazione dell’uomo.
[…]
Con il sacramento.
Ma infine…è con i sacramenti che
la Chiesa deve portare nel mondo la liberazione totale e integrale operata da
Cristo.
[ da La Chiesa sacramento di Cristo e segno e
strumento di liberazione, relazione tenuta il 27-6-73 a Terni dal vescovo
Enrico Bartoletti – all’epoca segretario generale della CEI, in Enrico Bartoletti, La Chiesa nel mondo – a
cura di Pietro Gianneschi, Editrice AVE, 1982].
Lo scritto che ho sopra riportato rende bene
il clima degli anni immediatamente dopo il Concilio Vaticano 2°. La Chiesa
cattolica, a lungo considerata essenzialmente una forza di contenimento sociale e personale, se non una
organizzazione francamente reazionaria, veniva concepita in modo nuovo, nel
senso che come fedeli ci si assegnava compiti nuovi, religiosamente motivati,
in un mondo in cui era generale l’ansia di elevazione di popolazioni o strati
di popolazioni fino ad allora considerati fatalmente destinati alla sofferenza
e alla minorità.
Bisogna dire che di certi temi in Italia si parlava
accostandoli piuttosto da lontano, ad esempio di quello dell’elevazione e
liberazione delle popolazioni del cosiddetto Terzo Mondo, in Africa e in Asia.
Ai tempi nostri, in cui strati di popoli africani e asiatici sono migrati dalle
nostre parti, i problemi si sono fatti più concreti.
E’ necessario anche aggiungere che il disegno
conciliare prevedeva un ruolo molto più attivo dei fedeli laici in questi nuovi
compiti. Il convegno ecclesiale Evangelizzazione
e promozione umana, dell’ottobre/novembre 1976 volle progettare un lavoro
di preparazione di questa parte della Chiesa, nella sua totalità, non in alcune
sue porzioni particolarmente illuminate. L’impostazione cambiò abbastanza sotto
il pontificato del papa Giovanni Paolo 2°, che aveva in mente un altro modello
di presenza dei fedeli laici nella società in cui
vivevano. In Italia, comunque, si ebbero frutti: ad esempio, negli anni ’80,
nell’impegno dei laici siciliani contro le organizzazioni mafiose.
Oggi, se consideriamo chi siamo, noi cattolici, visti nel nostro complesso e parlando
francamente, dobbiamo considerarci prevalentemente una forza di liberazione e promozione umana, o una forza di contenimento, o ancora una forza di reazione, gente che quindi vuole tornare ai tempi di prima?
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51
Pace come promozione umana
(13 gennaio 2013)
Dalla Costituzione
dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium,
del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), n.13:
“In tutte quindi le nazioni della terra è radicato un solo popolo di Dio,
poiché di mezzo a tutte le stirpi egli prende i cittadini del suo regno non
terreno ma celeste. E infatti tutti i fedeli sparsi per il mondo sono in
comunione con gli altri nello Spirito Santo, e così « chi sta in Roma sa che
gli Indi sono sue membra ». Siccome dunque il regno di Cristo non è di questo
mondo (cfr. Gv 18,36), la Chiesa, cioè il popolo di Dio, introducendo questo
regno nulla sottrae al bene temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario
favorisce e accoglie tutte le ricchezze, le risorse e le forme di vita dei
popoli in ciò che esse hanno di buono e accogliendole le purifica, le consolida
ed eleva. Essa si ricorda infatti di dover far opera di raccolta con quel Re,
al quale sono state date in eredità le genti (cfr. Sal 2,8), e nella cui città
queste portano i loro doni e offerte (cfr. Sal 71 (72),10; Is 60,4-7). Questo
carattere di universalità, che adorna e distingue il popolo di Dio è dono dello
stesso Signore, e con esso la Chiesa
cattolica efficacemente e senza soste tende a ricapitolare tutta l'umanità, con
tutti i suoi beni, in Cristo capo, nell'unità dello Spirito di lui.
In virtù di questa cattolicità, le singole parti portano i propri doni alle
altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e per
uno sforzo comune verso la pienezza nell'unità. Ne consegue che il popolo
di Dio non solo si raccoglie da diversi popoli, ma nel suo stesso interno si
compone di funzioni diverse. Poiché fra i suoi membri c'è diversità sia per
ufficio, essendo alcuni impegnati nel sacro ministero per il bene dei loro
fratelli, sia per la condizione e modo di vita, dato che molti nello stato
religioso, tendendo alla santità per una via più stretta, sono un esempio
stimolante per i loro fratelli. Così pure esistono legittimamente in seno alla
comunione della Chiesa, le Chiese particolari, con proprie tradizioni,
rimanendo però integro il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede
alla comunione universale di carità, tutela le varietà legittime e insieme
veglia affinché ciò che è particolare, non solo non pregiudichi l'unità, ma
piuttosto la serva. E infine ne derivano, tra le diverse parti della Chiesa,
vincoli di intima comunione circa i tesori spirituali, gli operai apostolici e
le risorse materiali. I membri del popolo di Dio sono chiamati infatti a
condividere i beni e anche alle singole Chiese si applicano le parole
dell'Apostolo: « Da bravi amministratori della multiforme grazia di Dio, ognuno
di voi metta a servizio degli altri il dono che ha ricevuto» (1 Pt 4,10).
Tutti gli uomini sono quindi chiamati a
questa cattolica unità del popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace
universale; a questa unità in vario
modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri
credenti in Cristo, sia infine tutti gli uomini senza eccezione, che la grazia
di Dio chiama alla salvezza.”
Dalla Costituzione
pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), n.4:
“E mentre il mondo avverte così lucidamente la sua unità e la mutua
interdipendenza dei singoli in una necessaria solidarietà, violentemente viene
spinto in direzioni opposte da forze che si combattono; infatti, permangono
ancora gravi contrasti politici, sociali, economici, razziali e ideologici, né
è venuto meno il pericolo di una guerra capace di annientare ogni cosa.
Aumenta lo scambio delle idee; ma le stesse parole con cui si esprimono i
più importanti concetti, assumono nelle differenti ideologie significati assai
diversi.
Infine, con ogni sforzo si vuol
costruire un'organizzazione temporale più perfetta, senza che cammini di pari
passo il progresso spirituale.
Immersi in così contrastanti condizioni, moltissimi nostri contemporanei
non sono in grado di identificare realmente i valori perenni e di armonizzarli
dovutamente con le scoperte recenti.
Per questo sentono il peso della inquietudine, tormentati tra la speranza e
l'angoscia, mentre si interrogano sull'attuale andamento del mondo.
Questo sfida l'uomo, anzi lo costringe a darsi una risposta.”
Dalle relazione tenuta
da mons. Enrico Bartoletti (1916-1976, dal 1972 Segretario generale della
C.E.I.) al seminario della Caritas italiana
del 27-4-73. In Enrico Bartoletti, La
Chiesa nel mondo, Editrice A.V.E., 1982, pag.123.
Ecco allora quello che è la Chiesa
o per lo meno quello che ella è virtualmente e potenzialmente e quello che ella
deve di continuo divenire: una comunità,
una comunione di uomini amati da Dio e che hanno la capacità per il dono dello
Spirito che è stato loro concesso di trasfondere, di manifestare, di realizzare
questo amore di Dio per gli uomini verso i loro fratelli. Innanzi tutto
verso coloro che Dio ha chiamato a partecipare alla medesima sorte, ad essere
membra vive della medesima Chiesa; per poi essere disposti ad amare tutti gli
uomini: “ogni uomo è mio fratello”.
Se noi comprendiamo questo e se non ripetiamo pappagallescamente lo slogan
dell’amore che risolve tutto, ma arriviamo a comprendere la radice profonda
che costituisce l’essenza intima e autentica della Chiesa come comunità di
credenti, come comunione di coloro che Cristo ha redento, allora veramente noi
abbiamo della Chiesa e quindi di noi stessi un’altra visione. Noi comprendiamo
che se questa è l’essenza profonda della Chiesa, se questa è la sua realtà di
base, la sua intima connessione interiore, se questo in fondo è il suo mistero,
rivelare questo mistero al mondo non è altro che realizzare la Chiesa: noi per
primi e poi via via a cerchi concentrici la Chiesa sparsa nel mondo. Sicché gli uomini dovrebbero poter dire: ecco,
Dio non ha abbandonato il mondo, Dio non abbandona gli uomini, Dio non ha
abbandonato la storia perché ha messo nel mondo e nella storia dopo Cristo Gesù
nell’amore dello Spirito, questi uomini, cioè la Chiesa che vuole il mondo
secondo il progetto di Dio, manifestando al mondo l’amore che Dio ha avuto per
lui.
Intendere la Chiesa comunità pacificante è
stata una delle idee forti che si sono manifestate nel Concilio Vaticano 2°
(1962-1965).
Bisogna considerare che sul tema della pace
non la si è sempre pensata allo stesso modo nella Chiesa, in particolare dopo
il Concilio Vaticano 2° c’è stata una veloce evoluzione verso le concezioni che
oggi sono diffuse dal magistero.
Il tema della pace, nei documenti conciliari,
si lega poi a quello del ruolo dei laici, perché, poiché la pace è cosa da
realizzare nel mondo profano, nello spazio che c’è fuori dei templi dove
dominano le azioni liturgiche, essa venne vista come compito principalmente
laicale. L’obiettivo politico che il magistero da decenni indica per
l’instaurazione e il mantenimento della pace
tra i popoli è quello di un’autorità mondiale, universalmente
riconosciuta e accreditata, che possa svolgere una sorta di polizia di pace, nel senso di mediare la pace, ma anche di imporla di fatto, nel caso che i
conflitti non si risolvano consensualmente. E’ stato osservato che
un’organizzazione con un potere così grande potrebbe costituire, nel caso di
degenerazioni, un pericolo per la libertà dei popoli e delle persone. In
realtà, dal punto di vista politico, il magistero confida, per la realizzazione
di un ordine pacifico, in una accordo tra
autorità costituite, con una cessione di
sovranità ad un’autorità superiore. E’ un ordine di idee che troviamo
espresso anche nella Costituzione della nostra Repubblica, nell’art.11:
L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli
altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali;
consente, in condizione di parità con gli altri Stati, le limitazioni di
sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra
le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali a tale scopo.
In
realtà un’autorità mondiale di questo tipo non è stata ancora realizzata.
L’esperienza europea di pacificazione continentale, che l’anno scorso ci è fruttata il Nobel per la pace, è basata molto su una progressiva convergenza
dei costumi dei popoli oltre che sull’azione di autorità a vario livello,
secondo il principio, riconosciuto anche dalla dottrina sociale della Chiesa,
della sussidiarietà. In questo quadro
ha avuto molta importanza la penetrazione sociale di costumi democratici,
intesi sia come forme partecipate e pacifiche di decisioni su temi di interesse
comune sia come affermazione concreta dei diritti umani fondamentali.
Il lavoro di pacificazione può farsi rientrare
nell’impegno di promozione sociale,
quindi di progresso umano, che è stato dato come obiettivo fondamentale al
laicato cattolico nel corso del Concilio Vaticano 2°. Negli scritti che ho
sopra riportato, due tratti da documenti conciliari e l’ultimo da un intervento
fatto in sede di esecuzione degli impegni conciliari, non sono indicate
specifiche modalità o specifici interventi. Programmare come realizzare la pace
in concreto, con ideazioni originali basate sull’attenta considerazione del
contesto sociale umano ( lo scrutare i
segni dei tempi), è infatti una parte del compito dei laici, che, nella
visione conciliare, deve essere svolto cercando l’unione con tutti le altre
persone bene intenzionate.
Pace, in senso religioso, non è solo assenza
di conflitti, ma l’instaurazione di un ordine sociale in cui la personalità
degli esseri umani possa affermarsi liberamente e pienamente, secondo il vero bene
di ciascuno. E questo è un altro campo in cui potrà esercitarsi l’azione
laicale.
Nei discorsi religiosi e su base biblica, si
collega la pace e la giustizia, intendendo che una vera pace potrà essere
realizzata solo in un ordine sociale giusto. E tuttavia, realisticamente, non è
garantito che dalla giustizia derivi sempre la pace nelle società umane, in cui
si manifestano sempre, ad un certo livello, delle devianze rispetto all’ordine
costituito, talvolta sulla base esclusivamente degli appetiti e degli interessi
individuali e di gruppo. Questo significa che per il mantenimento della pace occorrerà sempre
l’esercizio, in un certo grado, della forza, della violenza. Ma, in una
prospettiva religiosa, si può pensare di ridurre al minimo questo aspetto e,
comunque, di prevedere che l’esercizio della forza debba farsi solo con
procedure che consentano di mantenere in ogni caso il rispetto delle persone
umane, secondo ciò che ci si propone nei sistemi giudiziari delle democrazie
avanzate, sia in sede di accertamento di violazioni, sia nell’attività di
punizione dei colpevoli.
Mons. Bartoletti metteva in guardia dal
parlare con troppa disinvoltura di amore
come fonte della pace. La pace è un compito collettivo che richiede un impegno
concreto di ideazione e attuazione, non può pensarsi che essa scaturisca, quasi
magicamente, dal parlare di amore.
Pacificare le società umane non è sempre
facile e questo è constatabile anche senza pensare su scala globale o
nazionale. Pensiamo ai contrasti che vi sono talvolta in una comunità
parrocchiale o tra parenti o tra condòmini, quindi in ambiti piuttosto
limitati. E’ qui che si può cominciare a fare un tirocinio nell’arte di essere operatori di pace. In un contesto come
quello del nostro quartiere, in cui comincia a manifestarsi una certa presenza
di stranieri, fedeli di altre religioni, giunti dall’Europa orientale e dall’Asia, l’integrazione sociale degli
stranieri può essere un altro campo per esercitarsi in quel lavoro. Ma, nelle
realtà sociali più prossime, ci sono altri motivi di tensione che possono
essere presi in considerazione per un’azione pacificatrice su base religiosa.
Naturalmente come gruppo parrocchiale composto in prevalenza di adulti e
adultissimi dobbiamo fare i conti innanzi tutto con le nostre concrete capacità
di intervento. Ci sono, ad esempio, delle occasioni di tensione a sfondo
politico tra gruppi giovanili diversamente orientati sui quali non abbiamo la
possibilità di intervenire, fino a quando non riusciremo ad attrarre gente più
giovane. Si tratta di un problema serio, ma al di fuori della nostra portata.
A proposito di gente più giovane, sarebbe bello poter entrare di nuovo in contatto
con le tante persone più giovani che, formatisi in religione nella nostra
parrocchia, non la frequentano più, forse essendo rimasti a vivere in zona.
Anche questo farebbe parte di un’opera di pacificazione, se si fossero
allontanati per qualche motivo di risentimento o di rancore nei confronti della
nostra comunità. Molti sono impegnati
nel lavoro o nello studio quando il gruppo si riunisce. Io stesso ho talvolta
difficoltà a partecipare ai nostri incontri. E anche gli impegni di famiglia
possono ostacolare un impegno extradomestico in certi orari. Sentiamo però la nostalgia e il bisogno di
queste persone più giovani, ci piacerebbe conoscere le loro storie. Come ho
detto altre volte, non agiamo in questo da piazzisti
del sacro, siamo solo persone che vogliono cambiare il mondo in cui vivono
per renderlo migliore, più accogliente per gli esseri umani, secondo grandi
principi. Un lavoro che si fa in modo religioso, vale a dire ben consci della
sproporzione delle nostre forze rispetto all’obiettivo. Eppure, passo dopo
passo, sbagliando e correggendosi, una Europa pacificata è pure sorta dai
millenni bui delle guerre continue!
Non abbiamo la pretesa, noi del gruppo
parrocchiale di AC di San Clemente papa, di cambiare magicamente la vite degli
altri. La cura degli altri, la sollecitudine verso di loro, richiede un impegno
enorme anche per salvare una sola vita, come ben sappiamo noi che stiamo
facendo l’esperienza di genitori. Ecco perché la pacificazione sociale, che
passa anche il prendersi cura degli altri
a fini di giustizia, è necessariamente un compito collettivo, e non solo,
ma un compito in cui devono essere coinvolte le masse.
Ma, in definitiva, lo sforzo che si fa in un
gruppo limitato come il nostro ha pur sempre un senso, segna innanzi tutto un progresso spirituale, che, come
contagio, può diffondersi nella società intorno a noi, nei punti in cui entriamo
in contatto con essa.
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52
Unita’/comunione
nella Chiesa e promozione umana
(13
gennaio 2013)
Dalla Costituzione
dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium,
del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), n.13:
“In tutte quindi le nazioni della
terra è radicato un solo popolo di Dio, poiché di mezzo a tutte le stirpi
egli prende i cittadini del suo regno non terreno ma celeste. E infatti tutti i
fedeli sparsi per il mondo sono in comunione con gli altri nello Spirito Santo,
e così « chi sta in Roma sa che gli Indi sono sue membra ». Siccome dunque il
regno di Cristo non è di questo mondo (cfr. Gv 18,36), la Chiesa, cioè il
popolo di Dio, introducendo questo regno nulla sottrae al bene temporale di
qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e accoglie tutte le ricchezze, le
risorse e le forme di vita dei popoli in ciò che esse hanno di buono e
accogliendole le purifica, le consolida ed eleva. Essa si ricorda infatti di
dover far opera di raccolta con quel Re, al quale sono state date in eredità le
genti (cfr. Sal 2,8), e nella cui città queste portano i loro doni e offerte
(cfr. Sal 71 (72),10; Is 60,4-7). Questo carattere di universalità, che adorna
e distingue il popolo di Dio è dono dello stesso Signore, e con esso la Chiesa
cattolica efficacemente e senza soste
tende a ricapitolare tutta l'umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo,
nell'unità dello Spirito di lui.
In virtù di questa cattolicità, le singole parti portano i propri doni alle
altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo
universale e per uno sforzo comune verso la pienezza nell'unità. Ne
consegue che il popolo di Dio non solo si raccoglie da diversi popoli, ma nel
suo stesso interno si compone di funzioni diverse. Poiché fra i suoi membri c'è
diversità sia per ufficio, essendo alcuni impegnati nel sacro ministero per il
bene dei loro fratelli, sia per la condizione e modo di vita, dato che molti
nello stato religioso, tendendo alla santità per una via più stretta, sono un
esempio stimolante per i loro fratelli. Così pure esistono legittimamente in
seno alla comunione della Chiesa, le Chiese particolari, con proprie
tradizioni, rimanendo però integro il primato della cattedra di Pietro, la
quale presiede alla comunione universale di carità, tutela le varietà legittime
e insieme veglia affinché ciò che è particolare, non solo non pregiudichi
l'unità, ma piuttosto la serva. E infine ne derivano, tra le diverse parti
della Chiesa, vincoli di intima comunione circa i tesori spirituali, gli operai
apostolici e le risorse materiali. I membri del popolo di Dio sono chiamati
infatti a condividere i beni e anche alle singole Chiese si applicano le parole
dell'Apostolo: « Da bravi amministratori della multiforme grazia di Dio, ognuno
di voi metta a servizio degli altri il dono che ha ricevuto» (1 Pt 4,10).
Tutti gli uomini sono quindi chiamati a
questa cattolica unità del popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace
universale; a questa unità in vario
modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli altri
credenti in Cristo, sia infine tutti gli uomini senza eccezione, che la grazia
di Dio chiama alla salvezza.”
Da “Una Chiesa in
ricerca, in servizio, in crescita”, intervento di p.Bartolomeo Sorge al Convegno ecclesiale “Evangelizzazione e
promozione umana”, tenutosi a Roma dal 30-10-76 al 4 -11-76, in Evangelizzazione e promozione umana – atti
del convegno ecclesiale, Editrice A.V.E., 1977:
“…se le
due funzioni di servizio, proprie della Gerarchia e dei laici, sono tra loro
chiaramente distinte, non sono però separate e devono trovare la loro sintesi
nella unità organica della comunione ecclesiale, dell’unica missione
evangelizzatrice. Il vero contributo della evangelizzazione alla promozione
umana non sarà mai opera della Gerarchia o dei laici separati tra loro, ma per
essere adeguato deve passare attraverso il servizio della comunità ecclesiale
unita. Perciò, oggi in Italia il primo problema da risolvere per tradurre
efficacemente nei fatti il nesso intrinseco tra evangelizzazione e promozione
umana (tante volte ribadito dal convegno) è quelle della realizzazione di una
piena comunione ecclesiale”.
Venerdì prossimo
inizierà la settimana per l’unità dei cristiani e, quando parliamo di questo
tema, pensiamo alle diverse confessioni cristiane che ancora hanno
organizzazioni separate mentre, nella visione cattolica, le si vorrebbe tutte
legate a un unico pastore, al mondo in cui esse vogliono essere sottomesse ad
un unico Signore.
Tuttavia il problema
dell’unità sussiste anche all’interno della nostra stessa confessione
religiosa. Esso si è fatto più pressante nel corso degli sviluppi del Concilio
Vaticano 2°, come indica il brano della relazione del 1976 del padre Sorge che
ho sopra trascritto. Dell’accentuazione del pluralismo organizzativo laicale ha
fatto le spese in particolare l’Azione Cattolica, la quale negli anni ’70 e ’80
ha visto ridursi molto i propri associati e ai tempi nostri vede addirittura
messo in discussione il proprio ruolo di collaborazione primaria con il Papa e
i vescovi e di principale articolazione dell’azione laicale nella Chiesa.
Ad esempio nella
nostra parrocchia possiamo facilmente constatare come l’Azione Cattolica non
sia più, da tempo, la principale articolazione del laicato. Ad essa si è
sostituita l’organizzazione del Cammino
Neocatecumenale la cui storia, la cui azione e i cui punti di vista nella
Chiesa e nel mondo hanno caratteristiche
piuttosto distanti da quelle dell’Azione Cattolica. Insomma l’Azione Cattolica da casa di tutti è
diventata nella parrocchia un gruppo fortemente minoritario. Oggi la nostra
parrocchia e altre che hanno subito dinamiche simili assomigliano a una
confederazione di vari gruppi in precario equilibrio, in cui non c’è una vera comunicazione
tra le varie parti che coesistono intorno alla chiesa parrocchiale e svolgono
varie attività nella liturgia, nell’azione caritativa e nella formazione.
L’unità in definitiva si fa intorno ai sacerdoti e, in particolare, al parroco.
Come ho cercato di
riassumere nei miei precedenti interventi l’Azione Cattolica, nelle varie forme
organizzative che ha avuto dall’inizio del Novecento, nasce storicamente per
l’esigenza dei laici cattolici di partecipare di più all’edificazione della
società del loro tempo, in particolare sfruttando le opportunità offerte dai
sistemi politici democratici. Con il tempo questo ha comportato il pensare
anche in modo nuovo il ruolo del laico nella Chiesa e nel corso del Concilio
Vaticano 2° è stato assecondata questa dinamica. Dopo il Concilio Vaticano 2°
l’Azione Cattolica ha fatto dello sviluppo dei principi conciliari uno dei suoi
principali obiettivi. Tutto questo accadeva in epoche in cui si sentiva una
certa frizione tra i principi religiosi e quelli secondo i quali era
organizzata la società civile. Una delle ragioni del decremento della
partecipazione all’Azione Cattolica può essere vista nel venir meno
dell’importanza di questo contrasto. Non si tratta solo dell’emergere del
fenomeno della secolarizzazione, per cui certe convinzioni religiose hanno
avuto meno forza nella società e vengono riservate fondamentalmente ai momenti
rituali e cerimoniali della società, ma proprio del fatto che la società
civile, venutasi finalmente consolidandosi intorno a principi democratici, tra
i quali quello della libertà religiosa, sembra richiedere di meno un attivismo
dei fedeli laici, che allora possono, come dire, concentrarsi sugli aspetti più
prettamente spirituali della fede. Ad un certo punto si è sentita di meno l’esigenza dell’unità di
pensiero e azione nell’Azione Cattolica, mentre certe richieste e indicazioni
che venivano formulate dal Papa e dai vescovi hanno trovato altri modi di
essere proposte nella sede civile e in quella politica. Ecco quindi che
l’esteso pluralismo delle organizzazioni del laicato cattolico italiano ha
potuto svilupparsi senza più remore di sguarnire il fronte comune. Questo ha
fatto emergere un elemento che nell’Azione Cattolica si cercava di contenere,
vale a dire le diverse concezioni della società e dell’umanità nel suo
complesso che ci sono nel laicato cattolico. Perché se è chiaro che da un punto
di vista dogmatico e liturgico ci si ritrova ancora in unità, le cose cambiano
quando si cominciano a fare programmi su come le cose devono andare nella
società, sul modo in cui porsi nei confronti di altre componenti della società,
sul modo in cui vivere una buona vita cristiana e poi, principalmente, sul problema
degli alleati che si vogliono avere per fare
progredire la società, vale a
dire in quella che, nel gergo nostro, chiamiamo promozione umana. Tutto questo accade senza i toni drammatici del
passato, in cui in ogni cosa era in gioco veramente la libertà della Chiesa e
della sua azione di evangelizzazione, come quando ci si confrontava duramente con le ideologie liberali, fasciste o socialiste che esprimevano un’azione di
forte contrasto con le organizzazioni religiose cattoliche. E’ una dinamica che
si è fatta sentire particolarmente a partire dagli anni ’80: all’epoca si
individuava una cultura della mediazione,
impersonata dall’Azione Cattolica, e una cultura della presenza, della quale erano viste come portatrici varie organizzazioni, tra le quali
il Cammino Neocatecumenale. In genere
si ritiene che sotto il pontificato di Giovanni Paolo 2° per l’Italia la Chiesa
abbia scelto il metodo della presenza.
Oggi si è ormai perso il senso di questo
diversità di visioni e di prospettive, perché le varie organizzazioni hanno
imparato a collaborare, specialmente a livello nazionale. Tuttavia esso attraversa
ancora, di fatto , il nostro laicato, quando, ad esempio, ci si conta e allora
ci sono quelli per i quali i cattolici, considerati come presenza di testimonianza religiosa
effettiva, sono un piccolo resto, una minoranza, e coloro per i quali i
principi religiosi informano ancora di sé la società perché tuttora la
pervadono e la dirigono, anche se su certi aspetti, come nelle questioni delle
relazioni sessuali, c’è un vasto dissenso pratico con i principi insegnati dal
magistero.
Certamente siamo
chiamati all’unità e ad un’unità di tipo particolare che chiamiamo comunione. Innanzi tutto siamo chiamati
a parlare delle nostre scelte con gli altri con i quali ci sentiamo di dover
essere in comunione. Mancano però di
solito le sedi e i luoghi per farlo, perché ognuno se ne sta nel proprio gruppo
separato.
Ma non è detto che poi, parlando, discutendo, si
arrivi effettivamente a deliberazioni comuni, anche se uno degli esercizi di
laicità che ci vengono consigliati nel progetto formativo dell’A.C. è proprio
in questo senso: arrivare democraticamente a decisioni comuni condivise.
Bisogna riconoscere però che il metodo democratico, che si è ampiamente
affermato nelle società civili della nostra Europa, stenta ad essere praticato
nella nostra Chiesa, che, del resto, protesta orgogliosamente la propria
a-democraticità. Insomma, la piena comunione ecclesiale è ancora di là da
venire, mi pare.
Uno dei luoghi in cui
essa potrebbe manifestarsi è proprio l’organizzazione dell’Azione Cattolica, la
quale appunto non ha le caratterizzazioni forti
di altri gruppi e pratica il metodo
democratico. Essa potrebbe anche essere il centro in cui potrebbero iniziare a
convergere coloro che nel passato hanno scelto altre strade per esprimere il
proprio impegno religioso nella società civile, al di fuori di organizzazioni
ecclesiali, e addirittura coloro che si sono staccati dalla comunità
parrocchiali per polemica, rancore o risentimento.
Se però guardiamo
alla nostra realtà di gruppo vediamo che quel traguardo è molto lontano
dall’essere realizzato. In realtà è in forse la nostra sopravvivenza
associativa, se non riusciremo ad attrarre forze nuove nel nostro lavoro.
Eppure esso sarebbe ancora importante nella Chiesa, perché nella Chiesa la democrazia è ancora un problema. C’è
ancora un contributo che potremmo dare alla crescita dell’insieme e, purtroppo,
non ci sono altre organizzazioni che si occupano di fare il lavoro al quale
storicamente l’Azione Cattolica si è impegnata, che possiamo sintetizzare
efficacemente nell’idea dell’evangelizzazione come promozione umana e della
promozione umana come evangelizzazione.
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53
Scrutare
i segni dei tempi
(15 gennaio 2013)
Dalla Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, del Concilio Vaticano
2° (1962-1965):
Pertanto il santo
Concilio, proclamando la grandezza somma della vocazione dell'uomo e la
presenza in lui di un germe divino, offre all'umanità la cooperazione sincera
della Chiesa, al fine d'instaurare quella fraternità universale che corrisponda
a tale vocazione.
Nessuna ambizione
terrena spinge la Chiesa; essa mira a questo solo: continuare, sotto la guida
dello Spirito consolatore, l'opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel
mondo a rendere testimonianza alla verità, a salvare e non a condannare, a
servire e non ad essere servito.
LA CONDIZIONE DELL'UOMO NEL MONDO CONTEMPORANEO
4. Speranze e angosce.
Per svolgere questo
compito, è
dovere permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo,
così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni
interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro
relazioni reciproche. Bisogna
infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue
aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico. Ecco come si possono
delineare le caratteristiche più rilevanti del mondo contemporaneo. L'umanità vive oggi un periodo nuovo della
sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente
si estendono all'insieme del globo. Provocati dall'intelligenza e
dall'attività creativa dell'uomo, si ripercuotono sull'uomo stesso, sui suoi
giudizi e sui desideri individuali e collettivi, sul suo modo di pensare e
d'agire, sia nei confronti delle cose che degli uomini. Possiamo così parlare di una vera trasformazione sociale e culturale, i
cui riflessi si ripercuotono anche sulla vita religiosa.
Come accade in ogni crisi di crescenza, questa trasformazione
reca con sé non lievi difficoltà.
L’Azione Cattolica è
particolarmente impegnata non solo ad attuare
i deliberati del Concilio Vaticano 2°, ma a svilupparne
tutte le idee innovative, in particolare quelle che riguardano il ruolo dei
laici nella Chiesa e nel mondo e che assecondarono una trasformazione che già
si era prodotta nel corso dell’Ottocento e del Novecento. Non dobbiamo
nasconderci che questo non è, nella Chiesa di oggi, l’unico modo di considerare
ciò che si debba fare nel dopo Concilio.
Ci sono anche tendenze e movimenti in senso contrario, vale a dire in senso reazionario. C’è insomma chi ha
nostalgia della Chiesa-di-prima,
anche se probabilmente ormai sono pochi a serbarne memoria affidabile. Ciò in
particolare accade con riferimento alla liturgia e al modo di proporsi al
mondo in cui i cristiani vivono, a ciò
che si muove fuori dello spazio specificamente liturgico. Qui mi interessa in
particolare la seconda questione.
Riassumendo molto,
le posizioni che prevalsero durante il Concilio Vaticano 2° furono quelle
piuttosto fiduciose nelle trasformazioni che le civiltà umane stavano subendo
in vari campi, in particolare in quelli della scienza e della tecnica e della
politica. Si aveva la consapevolezza di problemi, anche gravi, che venivano
producendosi e si capiva che essi riguardavano o avrebbero riguardato anche gli
aspetti religiosi della vita umana, si aveva quindi consapevolezza di trovarsi
in un tempo di crisi, in una fase di passaggio, ma si era ottimisti sui
risultati di questo processo. Nel brano della Gaudium et spes che ho sopra trascritto si parla infatti di crisi di crescenza con riferimento ad
esso. Si volle quindi aprire gli occhi e
il cuore a quello che accadeva nel mondo, per capirne le opportunità
religiose di bene. Si usò a questo proposito l’espressione evangelica scrutare i segni dei tempi, parlandone
come di un dovere permanente per la Chiesa: anch’essa la troviamo nel brano
che ho sopra riportato. Ora, bisogna considerare che, storicamente, questa può
essere considerata una novità rispetto alle posizioni precedenti del
magistero. E giunse in un tempo in cui
ancora sussisteva l'Unione Sovietica, una delle principali minacce per le
visioni religiose diffuse nel mondo, un sistema politico in cui si faceva
propaganda attiva di ateismo, e si era ancora nel tempo della cosiddetta guerra
fredda, la contrapposizione anche militare tra i due blocchi politici
dominati dagli Stati Uniti d'America e dall'Unione Sovietica che tuttavia non esplodeva in una conflitto guerreggiato,
in una nuova guerra mondiale, per il
timore dell'annientamento globale a causa dei tremendi effetti distruttivi di
una guerra combattuta con l'impiego di armi nucleari. Tuttavia bisogna
ricordare che, dopo la morte dell'egemone russo Stalin, si era anche nel tempo
in cui sembrava che si aprissero nuove prospettive di pace mondiale. Anche
l'impossibilità pratica di una nuova guerra mondiale venne considerata da
alcuni (ad esempio dal politico cattolico Giorgio La Pira) come un segno provvidenziale. Dovettero però
passare altri trent'anni perché queste speranze di vera distensione a livello
mondiale divenissero infine realtà.
Fino al Settecento la
Chiesa cattolica fu piuttosto integrata
con il mondo in cui viveva, ne era parte autorevole e attiva, ma generalmente
al modo in cui lo erano le potenze di quelle epoche, vale a dire attraverso i
suoi capi o, comunque, i suoi esponenti principali: Papa, vescovi, altro clero,
religiosi. Un ruolo religioso ebbero alcune dinastie profane. Il resto del
popolo dei fedeli generalmente si limitava ad obbedire, così come faceva con i
suoi signori delle nazioni.
A partire dal
Settecento la situazione mutò rapidamente. Non furono tanto e non solo i
fondamenti ideali del pensiero religioso ad essere messi in questione, ma il
potere temporale della Chiesa, vale a dire la sua capacità di influenza sul
mondo in cui viveva. Di fronte a queste contestazioni, che poi vennero
cristallizzandosi nei movimenti liberali e socialisti, la Chiesa reagì con un
moto di opposizione e di contrasto in quasi tutto il mondo in cui la sua azione
era consentita, con l’eccezione degli Stati Uniti d’America per la
particolarità dell’ideologia rivoluzionaria di quella entità statale, che aveva
mantenuto saldi legami con fondamenti religiosi cristiani. Questo modo di
proporsi al mondo culminò in due momenti: l’elencazione legislativa degli
errori del tempo, contenuta nel documento denominato Sillabo, allegato all’enciclica Quanta
Cura, promulgata nel 1864 dal papa Pio 9°, la condanna del movimento cosiddetto
modernista, contenuta nell’enciclica Pascendi Dominicis gregis, promulgata
nel 1907. Con specifico riferimento alla situazione italiana si aggiunse il
divieto fatto ai cattolici, dopo la conquista di Roma da parte del Regno
d’Italia sabaudo, di partecipare alla vita politica, impartito con
provvedimento della Penitenzieria
Apostolica (un ufficio della Santa Sede) del 1870, confermando un
precedente provvedimento del 1868 di altro ufficio della Santa Sede. Con
l’enciclica Graves de communi, promulgata
dal papa Leone 13°, del 1901, venne condannata esplicitamente l’idea di una
politica democratica cristiana.
Possiamo considerare come espressione dello stesso modo di intendere le cose
anche la conclusione, nel 1929, dei Patti
Lateranensi con il regime fascista italiano: benché presentati come conciliazione con il Regno d’Italia,
quindi con il mondo profano, essi assecondarono di fatto le tendenze
reazionarie diffuse in quel tempo in Italia, che in particolare colpivano i
movimenti liberali, socialisti e, in genere, ogni tendenza democratica. La
situazione cominciò lentamente a cambiare dopo la Seconda guerra mondiale,
sotto il pontificato del papa Pio 12°, non tanto con riferimento alla posizione
del magistero, ma ai contributi che, di fatto, venivano dati dai laici
cristiani alla costruzione del nuovo mondo. Le idee che trovarono espressione
nei deliberati conciliari furono elaborate nei vent’anni precedenti.
Nel brano della Gaudium et spes che ho sopra riportato
viene chiarito il senso dell’espressione scrutare
i segni dei tempi: essa vuole dire conoscere e comprendere il mondo in si vive, le sue attese, le sue
aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico.
La Chiesa nei secoli precedenti si era
considerata e dichiarata maestra di
umanità, come ancora ritiene di
essere. Generalmente però aveva dedotto i propri insegnamenti in materia
dalla propria tradizione teologica. Dal Concilio Vaticano 2° in poi si è
proposta di avere una visione più realistica del mondo fuori dello spazio
liturgico, per capirlo meglio. In questo lavoro ha riconosciuto una specifica
competenza dei laici, i quali in precedenza era considerati generalmente degli esecutori delle deliberazioni del
magistero. Possiamo notare, in particolare, come questa concezione abbia molto
influito sull’elaborazione della dottrina sociale della Chiesa, in particolare
dall’enciclica Populorum progressio,
promulgata dal papa Paolo 6° nel 1967.
La concezione ottimistica dell’andamento delle cose del mondo espressa nei
deliberati del Concilio Vaticano 2° è andata piuttosto temperandosi durante il
pontificato del papa Giovanni Paolo 2°. Egli fu certamente uno dei maggiori
artefici degli sviluppi conciliari, ma era portatore, specialmente negli ultimi
anni del suo regno, di una visione pessimistica sull’umanità sua contemporanea,
vista come soggiogata da potenze di morte. Ho letto che fu abbastanza forte in
questo l’influsso del pensatore eclettico ortodosso russo Vladimir Soloviev
(1853-1900), il quale pronosticava l’avvento dell’Anticristo nell’apparente progressismo
delle tendenze sociali moderne e che era portatore di una visione di stampo
religioso fortemente pessimistica sul
mondo del suo tempo. In quest'ordine di idee abbiamo quindi oggi dei movimenti
che idealmente agiscono come piccolo
resto in opposizione a un mondo malvagio, dando molto risalto agli aspetti
negativi e antireligiosi delle civiltà contemporanee. Come in certe fasi del
cristianesimo delle origini allora ci si ritrae, di fronte a una supposta
ostilità o vera e propria persecuzione del mondo di oggi, in piccole comunità
di impronta familiare, quindi autoritaria, in cui si cerca di vivere un
cristianesimo integrale sorretto dall’amicizia e dalla solidarietà degli altri
aderenti che condividono le stesse idee e lo stesso impegno di vita.
Con l’enciclica Caritas in veritate, promulgata nel 2009 dal papa Benedetto 16°, la
tendenza si è di nuovo invertita.
Non che nella Chiesa cattolica non
possano avere cittadinanza forme di vita comunitaria improntate all’idea del piccolo resto: esse anzi ci saranno
sempre, in particolare nella vita comunitaria degli istituti di vita religiosa.
La Chiesa cattolica, nonostante ciò che comunemente si crede, ha un ordinamento
fortemente pluralistico, in cui da sempre
sono ammesse molte varietà di interpretazione del cristianesimo, pur nella
condivisione di alcuni principi comuni, in particolare di quelli che
specificamente vengono denominati dogmi di fede. Ma, dato l’ordinamento democratico
della gran parte delle società civili contemporanee, è importante che vi sia
chi si occupa di partecipare ad esse per sostenere i punti di vista religiosi
non solo con la modalità della testimonianza
di vita, ma anche con quella della partecipazione attiva per influire
articolando i principi religiosi, i valori, in forme che possano essere
condivise anche da chi religioso non è (secondo la tecnica della mediazione
culturale) e collaborando ai processi di trasformazione sociale che
comunque vengono incontro alle istanze religiose, come ad esempio quella della
pace universale tra i popoli e della universale libertà religiosa.
Capire il mondo è fatica, non
nascondiamocelo. Per i più anziani è poi più semplice chiudersi in una
religiosità familiare che richiama quella della loro infanzia, centrata
prevalentemente sulle liturgie parrocchiali e sulla spiritualità personale. Ma,
devo dire, i più anziani del nostro gruppo di Azione Cattolica dimostrano
invece lo spirito indomito laicale della loro gioventù e in questo a volte sorprendono i più
giovani, i quali sono più facili allo scoramento.
Bisogna riconoscere che nell’opera
di comprendere meglio il mondo più si è più il risultato è migliore. E ciò è
ancora più vero se in questo lavoro sono coinvolte persone appartenenti a
diverse generazioni che tuttavia sono disposte al dialogo reciproco. Nel nostro
gruppo di Azione Cattolica mancano le persone più giovani. Finisco quindi, come
spesso mi accade di fare, con un appello ai più giovani perché prendano parte a questo nostro lavoro,
nella consapevolezza che esso non consiste tanto in un ritornare, quindi in un moto reazionario,
ma nel costruire il nuovo, un mondo come, anche dal punto di vista religioso,
non c’è mai stato nel
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54
Fede cristiana: speranza credibile e onesta o pia
illusione?
(17 gennaio 2013)
Preghiera
di Paolo VI per la Messa funebre per Aldo Moro (13 maggio 1978 – San Giovanni
in Laterano)
Ed ora le nostre labbra, chiuse
come da un enorme ostacolo, simile alla grossa pietra rotolata all’ingresso del
sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi per esprimere il “De profundis”, il grido
cioè ed il pianto dell’ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca
la nostra voce.
Signore, ascoltaci!
E chi può ascoltare
il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai
esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo Uomo
buono, mite, saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato
il suo spirito immortale, segnato dalla Fede nel Cristo, che è la risurrezione
e la vita. Per lui, per lui.
Signore, ascoltaci!
Fa’, o Dio, Padre di
misericordia, che non sia interrotta la comunione che, pur nelle tenebre della
morte, ancora intercede tra i Defunti da questa esistenza temporale e noi
tuttora viventi in questa giornata di un sole che inesorabilmente tramonta. Non
è vano il programma del nostro essere redenti: la nostra carne risorgerà, la
nostra vita sarà eterna! Oh! che la nostra fede pareggi fin d’ora questa
promessa realtà. Aldo e tutti i viventi in Cristo, beati nell’infinito Iddio,
noi li rivedremo!
Signore, ascoltaci!
E intanto, o
Signore, fa’ che, placato dalla virtù della tua Croce, il nostro cuore sappia
perdonare l’oltraggio ingiusto e mortale inflitto a questo Uomo carissimo e a
quelli che hanno subìto la medesima sorte crudele; fa’ che noi tutti
raccogliamo nel puro sudario della sua nobile memoria l’eredità superstite
della sua diritta coscienza, del suo esempio umano e cordiale, della sua
dedizione alla redenzione civile e spirituale della diletta Nazione italiana!
Signore, ascoltaci!
Interrompo
gli interventi sui temi del Concilio Vaticano 2° per proporre una riflessione
sulla base del dibattito che si è
articolato nella riunione di martedì scorso del nostro gruppo.
La fede religiosa ci salva dalla sofferenza
dandole un senso, si è detto. Eppure spesso siamo piuttosto angosciati da ciò
che ci accade e lo sono stati anche dei Papi in alcuni momenti della loro vita.
Ho sopra trascritto la preghiera che il papa Paolo 6° recitò nel corso della
messa funebre per Aldo Moro, il presidente della Democrazia Cristiana, suo
amico personale, ucciso quattro giorni prima da un’organizzazione terrorista di
impronta comunista, le “brigate rosse”, dopo un lungo sequestro di persona.
Una delle accuse più tremende rivolte alla
nostra religione è di essere una organizzazione dedita a una pia frode, che
prospetta realtà soprannaturali immaginarie per lenire sofferenze reali invece
che porvi rimedio per quanto possibile, disperando di riuscirvi o rinunciando a
farlo per vigliaccheria o addirittura per collusione con gli oppressori e
aggressori. Si tratta di un’obiezione molto dura perché, dal punto di vista
storico e sociologico ha qualche fondamento di verità, anche se, nella nostra
spiritualità, ci convinciamo che in definitiva è infondata.
Noi, da credenti, non ci facciamo illusioni
sulla consistenza ed effettività del male e del dolore nella vita degli esseri
umani: costituiscono effettivamente un grosso ostacolo sulla via della fede, simile alla grossa pietra rotolata
all’ingresso del sepolcro di Cristo, secondo l’espressione usata dal papa
Paolo 6°. Se certamente la fede religiosa
può essere uno dei modi per reagire alle avversità, in alcuni casi essa
può addirittura essere di impaccio sulla strada della resistenza e allora ce se
ne libera. Ma, di solito, quello che in certe condizioni personali difficili si
rifiuta non è la vera fede, ma una sua approssimazione insufficiente, il
fideismo. Tuttavia non dobbiamo sottovalutare le difficoltà che anche da
credenti ben formati si incontrano in certe condizioni di contrasto e di
dolore. La nostra infatti è una fede religiosa paradossale, che quindi non
trova definitive conferme
nell’osservazione del realtà intorno a noi, anche se la magnifica complessità
della natura suggerisce l’idea di un disegno
intelligente che si spera essere anche amorevole,
visto che l’amore nella natura c’è. La caducità delle cose e dei viventi e
l’incessante lotta di questi ultimi per la sopravvivenza e, anche oltre questo,
per prevalere a spese di altri possono anche sorreggere convinzioni opposte.
Per quanto poi ci si ragioni molto su e ci cerchi di dimostrare in concreto che
le cose, in conclusione, vanno per il meglio, è solo nella spiritualità
interiore profonda che noi troviamo il fondamento della nostra speranza
religiosa, alla quale, per quanto osteggiata nel mondo come effettivamente va,
sentiamo di non poter rinunciare, pur mantenendo una visione realistica delle
cose, quindi non chiamando bene il male per poi superficialmente concludere che
tutto è bene. Piuttosto, e qui richiamo una espressione che lo scrittore
Bernanos usò nel romanzo Diario di un curato di campagna (1936), possiamo arrivare ad ammettere che tutto è grazia, che insomma, pur con
tutte le sue avversità e con la prospettiva certa della morte, la vita
umana, la nostra vita, merita di essere
vissuta, che le cose belle che ci sono capitate non ce le siamo in fondo
meritate ma ci sono state come donate e che, nella prospettiva della gioia che
è al fondo del vivere, riusciamo ad accettare quella realtà di dolore che
sembra ineliminabile dalla nostra esistenza e addirittura l’idea della fine.
Naturalmente in religione c’è molto di più di questo, ma non darei per scontato
che tutti riescano ad arrivarci con facilità:
ad agevolare in questo i credenti serve appunto la nostra organizzazione
religiosa, in cui ci si sorregge gli uni gli altri. E’ bello riuscire a
concludere, secondo le espressioni usate dal papa Paolo 6°: Non è
vano il programma del nostro essere redenti: la nostra carne risorgerà, la
nostra vita sarà eterna! Oh! che la nostra fede pareggi fin d’ora questa
promessa realtà.
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55
La Chiesa
vuole rinnovare il mondo
(19 gennaio 2013)
Dal decreto Apostolicam Actuositatem (traduzione dal
latino: L'attività apostolica)
sull'apostolato dei laici, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965)
L'opera di redenzione di Cristo ha per natura sua come fine la salvezza
degli uomini, però abbraccia pure il
rinnovamento di tutto l'ordine temporale. Di conseguenza la missione della
Chiesa non mira soltanto a portare il messaggio di Cristo e la sua grazia agli
uomini, ma anche ad animare e perfezionare l'ordine temporale con lo
spirito evangelico. Il laici dunque, svolgendo tale missione della Chiesa, esercitano il loro apostolato
nella Chiesa e nel mondo, nell'ordine spirituale e in quello temporale. Questi
ordini sebbene distinti, tuttavia sono così legati nell'unico disegno divino,
che Dio stesso intende ricapitolare in Cristo tutto il mondo per formare una
creazione nuova: in modo iniziale sulla terra, in modo perfetto alla fine del
tempo. Nell'uno e nell'altro ordine il
laico, che è simultaneamente membro del popolo di Dio e della città degli
uomini, deve continuamente farsi guidare dalla sua unica coscienza cristiana.
In queste poche righe
del decreto conciliare Apostolicam
Actuositatem, del Concilio Vaticano 2°, sono concentrati alcuni principi
molto importanti e anche molto controversi nella storia della nostra
confessione religiosa.
Innanzi tutto,
iniziamo a tradurre i termini che vengono utilizzati nel documento, i quali, a
loro volta, sono una traduzione dal testo originale scritto in latino
ecclesiastico moderno.
Che cosa è l'ordine temporale? E' il mondo in cui
viviamo, l'ambiente naturale e
sociale. Lo si distingue dall'ordine spirituale che, nella terminologia
teologica, è quello della fede, in cui
il soprannaturale tocca la realtà naturale e, in particolare, interagisce e
dialoga, con noi viventi qui sulla Terra. Questi due ordini da sempre sono
stati considerati distinti per i
cristiani, e, da un certo punto in poi, diciamo più o meno, dal terzo secolo
della nostra era, però anche legati.
Il cristianesimo
nasce nella Palestina del primo secolo, in un popolo di cultura e religione
ebraica ma sotto occupazione militare e politica romana. La situazione politica
del tempo non era tranquilla. La rivolta covava, ma c'erano periodi in cui
bisognava organizzare una convivenza in qualche modo pacifica. L'idea di distinzione
origina da questa situazione, per cui, ad un certo punto, dinanzi al problema
dell'ossequio preteso dalle autorità degli occupanti, invece di risolversi per
la guerra ai romani, all'opposizione dura,
si deliberò di dare "A Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel
che è di Dio". Cesare era
l'imperatore romano: anche in seguito gli imperatori romani mantennero questo
appellativo, così come altri monarchi dei tempi successivi (Zar è un forma contratta di Cesare). Parlando di Dio in quel contesto ci si volle riferire
ai doveri specificamente religiosi.
Nei primi secoli,
quelli dell'opposizione e della persecuzione, il modo della distinzione prevalse. Poi il
cristianesimo, con un processo durato circa due secoli, si integrò nell'ordine
politico dell'impero romano. In questa epoca comincia a porsi il problema del legame, vale a dire dell'influenza dei
principi religiosi, oggi diremmo dei valori,
sull'ordinamento politico e civile della società. Non è che, prima di allora,
le società dominate dall'impero romano non fossero religiose: non dobbiamo fare
l'errore di considerare quelli che, secondo la terminologia un po' intollerante
dei secoli dell'affermazione politica del cristianesimo nell'impero romano,
chiamiamo i pagani fossero atei.
Tutto al contrario, i pagani dell'ellenismo
e della latinità erano molto religiosi. Altrimenti non si spiegherebbe perché costruirono tutti quei
grandi e magnificenti templi, molti dei quali sono giunti fino a noi. Il fatto
è che le religioni precristiane diffuse nell'impero romano avevano principi
molto diversi da quelli cristiani, anche se poi alcuni loro aspetti, in
particolare quelli liturgici, furono assimilati dal cristianesimo. Basti
pensare al titolo di pontefice che si
dà al Papa e che richiama il massimo sacerdozio religioso dell'antica Roma pagana.
La dialettica, che
ebbe storicamente anche evoluzioni drammatiche, tra il papato romano e gli
imperatori, e i monarchi, politici in genere, che si succedettero in Europa
nelle nazioni divenute cristiane si basò tutta sul rapporto tra distinzione e legame.
Il problema non è mai stato del tutto risolto. Nelle ere delle monarchie
assolute, quelle in cui i popoli erano considerati una sorta di proprietà
ereditaria delle dinastie regnanti o, al più, figli in una famiglia politica
autoritaria di cui il monarca era come il padre (voglio ricordare che
l'appellativo di Papa, attribuito al monarca assoluto della nostra confessione
religiosa, deriva dal vocabolo greco pàpas,
che significa papà), si era
instaurato una sorta di condominio sui sudditi, tra i papi (sovrani nello spirituale) e i monarchi civili (sovrani nel temporale) ed esso, come
succede nei condomini negli edifici, era travagliato da continue controversie,
aggravate dal fatto che fin da epoca remota i papi furono anche sovrani propriamente temporali
(un simulacro di questa realtà è in qualche modo l'attuale Città del Vaticano,
a Roma). Ancora oggi, di fronte a certe pronunce del Papa che investono
problemi morali implicati nella legislazione politica sorgono problemi.
L'accusa di papismo cattolico
ostacolò a lungo la via ai candidati cattolici alla presidenza degli Stati
Uniti d'America, superata solo al tempo dell'elezione di John Kennedy.
Questioni analoghe costarono la vita all'inglese san Tommaso Moro (1478-1535),
importante ministro e consigliere del re
Enrico 8°.
Nella visione antica
del legame tra temporale e spirituale,
pace si otteneva quando i sovrani nei due ordini riuscivano a trovare
un'intesa. Ciò fatto, la rivolta contro il principe in un ordine era
considerata illecita anche dal principe dell'altro ordine. Questo ordine di
idee portò dal Settecento la Chiesa cattolica, intesa in particolare come
gerarchia del clero, a schierarsi, in genere,
con le dinastie civili contro i moti popolari democratici. In questo
costituisce una eccezione il caso degli Stati Uniti d'America, ordinamento
politico in cui però all'origine prevalevano i principi religiosi di
confessioni originate alla Riforma e i cattolici, quando iniziarono ad
arrivare, in particolare con l'immigrazione irlandese, polacca e italiana erano
emarginati.
Dal Settecento, rinnovamento dell'ordine temporale, vale a dire della società
civile, significò in genere, nelle nazioni europee soggette a monarchie
assolute e nei popoli a loro assoggettati, rivoluzione.
I primi a farla, in senso moderno, furono i coloni britannici del Nord America,
nel 1776. La Chiesa cattolica non fu mai storicamente favorevole alle rivoluzioni, anche se nella teologia
ufficiale tomistica c'erano principi anche per decidere quando rivoltarsi a un
sovrano ingiusto. Ma in particolare si è dimostrata avversa alle rivoluzioni democratiche come quelle che
portarono alla deposizione delle dinastie regnanti con le quali aveva concluso
accordi favorevoli. Ancora oggi vediamo talvolta ricevuti in Vaticano con onori
particolari gli eredi di antiche dinastie regnanti ormai senza più alcun
potere.
L'assimilazione alle
monarchie assolute iniziò però ad essere vissuta con fastidio dai papi da un
certo momento in poi, diciamo dai tempi del Concilio Vaticano 2°. Essi, ad
esempio, cominciarono a sentirsi a disagio nei momenti liturgici in cui,
secondo un'antica tradizione, dovevano indossare il fastoso copricapo detto tiara o triregno, che reca tre corone, una sopra l'altra, incastonate in
una sorta di turbante dorato, simbolo dell'essere, in vari sensi, anche in
quello politico, re dei re.
E' chiaro che la
prospettiva è molto diversa nel brano della Apostolicam
Actuositatem che ho sopra citato. Qui
l'idea di rinnovamento delle
società civili è addirittura centrale. Non c'è l'immagine della Chiesa come regno, ma come popolo. Infatti, storicamente, negli ultimi tre secoli il rinnovamento è scaturito da azioni di
popolo. Ma anche l'immagine degli ordinamenti politici è diversa da quella
di un tempo: essi vengo denominati città degli
uomini, espressione cara a Giuseppe
Lazzati e che richiama l'idea contemporanea di sovranità popolare. Insomma si tratta di una rappresentazione in
cui, con riferimento all'idea di rinnovamento
delle società civili, sono tramontati i monarchi
e sono sorti i popoli.
La pace tra cielo e
terra non è poi più affidata ad un accordo condominiale
tra monarchi del temporale e dello spirituale, ma a un'altra realtà che in
passato era guardata con grande sospetto, quando pretendeva di sindacare gli
ordini di sovrani: la coscienza.
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56
Democrazia, difficile virtù
In religione si ha di solito difficoltà a
pensare alla democrazia come ad una virtù. In un certo senso la si subisce e
perciò, quando se ne parla, si cerca di mettere in guardia i fedeli dalle sue
degenerazioni e, in definitiva, si suggerisce di rimettersi al giudizio della
gerarchia del clero, un’organizzazione non solo non democratica, ma addirittura
antidemocratica. E, infatti, si ripete
abbastanza spesso che le nostre collettività non sono delle democrazie (ed in effetti così come sono
organizzate non lo sono) e non si
capisce che questo non è un loro aspetto di cui andare fieri, ma un loro
problema, perché, appunto, la democrazia è una virtù.
Considerando che tra il 1944 e il 1991 la democrazia è entrata anche nella
dottrina sociale della Chiesa, nel senso che la si considera una condotta
politica virtuosa, dopo che, fin dagli esordi dei processi democratici moderni,
a fine Settecento, la si era sostanzialmente assimilata all’eresia e
condannata, bisognerebbe insegnare la democrazia nella nostre collettività di
fede, e soprattutto praticarla.
Democrazia non è solo la regola per cui la
decisione comune è quella maggioritaria. Significa, prima di tutto, libertà di
coscienza e di parola, rispetto degli altri, processi decisionali preceduti da
un dibattito franco, aperto, completo, informato, responsabilità dei capi verso
i governati, temporaneità delle funzioni di comando, e soprattutto un
particolare impegno a quella che Ghandi (Mahatma
- “grande anima”, politico indiano vissuto tra il 1869 e il 1948) definiva non - menzogna e che significa non tanto
dire sempre la verità, perché noi non possediamo la verità e sempre la dobbiamo cercare come a
tentoni, ma ripudiare la menzogna, ciò che sappiamo non essere la verità. In
religione significa, ad esempio, rinunciare ad impiegare, per asservire le
persone, ai molti effetti speciali di tipo magico-spirituale che possono essere
impiegati e storicamente lo sono stati ma che hanno collegamenti assai labili
con la verità, come quando si promette al sofferente la guarigione da mali
fisici o morali in cambio di sottomissione acritica, e rinunciare all’idea di ricostruire gli altri secondo un certo nostro modello
promettendo la felicità.
Bisognerebbe fare scuola di democrazia a
partire dai bambini della prima iniziazione religiosa, quando scoprono
l’amicizia. La democrazia ha molto a che fare con l’amicizia, perché presuppone
la condivisione di valori forti ancor prima che inizino i processi decisionali.
Questi valori sono appunto quelli implicati nell’amicizia tra gli esseri umani,
il riconoscersi reciprocamente bisognosi gli uni degli altri, quella dimensione
relazionale che ci fa crescere, come ci è stato spiegato nel primo incontro del
ciclo Immìschiati sulla dottrina sociale della Chiesa, per cui
non si ha cuore di rinunciare a nessuno. E’ per questo che la democrazia, prima
di studiarla sui libri, occorre viverla e innanzi tutto scoprirla nelle relazioni
con gli altri. Questo significa che occorre farne tirocinio. E, innanzi tutto,
imparare a non diffidarne.
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57
Dottrina sociale, liturgia e Concilio Vaticano 2°
I documenti del Concilio Vaticano
2° (1962-1965) sono leggi per la nostra confessione religiosa e contengono
importanti disposizioni in materia di liturgia e di dottrina sociale. Le novità
più rilevanti apparvero essere, fin dai primi anni, quelle in materia di
liturgia. Ma anche la dottrina sociale venne profondamente innovata.
Nell’Ottocento, quella che
consideriamo “la” dottrina sociale, ma che in realtà ne è storicamente l’ultima
propaggine, iniziò ad occuparsi dei fenomeni democratici che si venivano
manifestando in Europa, animati da spirito di libertà e di giustizia sociale.
Se ne occupò per contrastarli. Entrò subito in polemica, fin
dall’enciclica Le novità del papa Pecci del 1891, con il
liberalismo e il socialismo. Questa polemica non è ancora sopita, tanto che è
stata ripresa dai relatori nel corso del primo incontro del ciclo Immischiati,
nella nostra parrocchia.
Durante il Concilio Vaticano 2° si
corresse il tiro. La libertà di coscienza del liberalismo e l’impegno per la
giustizia sociale del socialismo divennero virtù anche in senso religioso.
Nello stesso tempo si cercò di
avvicinare la liturgia al popolo, consentendo molto più ampiamente l’uso delle
lingue nazionali in luogo del latino, che era diventato un grosso ostacolo alla
formazione religiosa dei fedeli mediante la partecipazione alle azioni
liturgiche, in particolare alla Messa. Per volontà del papa Montini l’uso della
lingua nazionale divenne poi la forma normale delle liturgie con la
partecipazione dei laici, al di fuori degli ambienti monastici o della Curia
Vaticana e di altri ambienti particolari.
Per quanto riguarda il rito della
Messa, i saggi del Concilio così scrissero nella Costituzione Il Sacro
Concilio:
48.
Perciò la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come
estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo
bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all'azione sacra
consapevolmente, piamente e attivamente; siano formati dalla parola di Dio; si
nutrano alla mensa del corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo la
vittima senza macchia, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con
lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per la mediazione di
Cristo, siano perfezionati nell'unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio
sia finalmente tutto in tutti.
La partecipazione attiva alla
liturgia era collegata all’impegno per la giustizia che si ritenne di
promuovere nei fedeli laici: per lavorare nella società per infondervi i
principi religiosi, per ordinarla secondo Dio, come
venne scritto nella Costituzione Luce per le genti
n.31
Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le
cose temporali e ordinandole secondo Dio.
i laici dovevano essere adeguatamente
preparati e la liturgia era un’occasione molto importante per farlo.
Il nuovo ruolo dei laici di fede
nella società disegnato dai saggi del Concilio spiega perché negli anni
successivi venne accettata anche la democrazia come virtù politica e religiosa
insieme, in un processo conclusosi nel 1991 nelle affermazioni teoriche, con
l’enciclica Il Centenario del papa Wojtyla, ma ancora in
corso nei suoi sviluppi pratici.
Nell’incontro Immìschiati sulla
persona è stato detto che la dottrina sociale non è una terza via tra
liberalismo e socialismo ed è vero. In realtà si tratta di una mediazione
culturale della nostra fede che recepisce, ibridandoli, principi liberali e
principi socialisti. Ne costituisce una sintesi, costruita per rendere
compatibili le loro principali istanze con la nostra fede religiosa. In
un’ottica di fede si è però respinta l’idea che ognuno sia libero di fare di sé
stesso e degli altri tutto ciò che è possibile fare, perché noi non siamo dei,
ma solo creature fragili. E’ questa è sicuramente la realtà.
Nell’Ottocento la via democratica
era ancora molto di là da venire in religione.
Il nazionalismo del Regno d’Italia
privò i Papi del loro piccolo regno nell’Italia centrale ed essi la presero
molto male.
Il Regno d’Italia era retto da un
sistema politico che integrava conservatorismo, autoritarismo, nazionalismo e
liberalismo. Nel primo dopoguerra si vide però che di quest’ultimo poteva fare
a meno. Ma, insomma, ai tempi dell’insorgere del contenzioso con il Papato si
presentava come uno stato democratico, anche se l’elettorato era piuttosto
selezionato, tra i soli uomini di un determinato censo o con un livello minimo
di istruzione (che all’epoca era di pochi). Fatto sta che il Papato, nella
polemica con il Regno d’Italia, intese promuovere un movimento del popolo
minuto, che, sebbene a suo avviso insidiato da un arrogante e presuntuoso ceto
politico irreligioso, tuttavia era ancora custode delle buone e antiche
tradizioni italiane. Represse coloro, prevalentemente appartenenti ai ceti
colti, che cercavano una via per vivere attivamente le istituzioni
democratiche del Regno, come Romolo Murri, il promotore a fine Ottocento del
movimento politico della democrazia cristiana, e anche l’ideatore
del nome e del concetto di tale politica, e cercò di mantenere le
masse lontane dalle istituzioni politiche dello stato, per utilizzarle come
strumento di pressione per riavere ciò che gli era stato tolto con la guerra
del 1870 per la presa di Roma. Volle così dimostrare di avere mantenuto
una sovranità sugli italiani. La prima dottrina sociale della
Chiesa si presenta quindi come un insieme di norme date da un sovrano, il Papa,
al suo popolo. Non era ammessa alcuna partecipazione all’elaborazione di quei
principi sociali, sebbene le encicliche sociali non siano mai state il frutto
di un lavoro solitario dei Pontefici, ma sempre un lavoro collettivo, a
più mani, perché i Papi hanno una formazione prevalentemente teologica,
anche se, ad esempio, persone come Montini e Wojtyla si intendevano pure di
filosofia. La repressione dei ceti colti dei laici di fede determinò che la
religione apparisse cosa da incolti. In più, i fedeli erano indotti a non
partecipare alle elezioni politiche e così si trovavano nella stessa condizione
degli analfabeti, esclusi dal parteciparvi a causa della loro condizione di
ignoranza. Fu con Giuseppe Toniolo, agli inizi del Novecento, che si cominciò,
faticosamente, a cercare di andare in altra direzione, dando una formazione ai
fedeli laici, ed anche alle donne dal primo dopoguerra. L’Azione Cattolica, nata
per essere un più docile strumento alla politica papale in Italia rispetto alla
rissosa Opera dei Congressi, indotta a sciogliersi d’autorità nel momento di
più acceso scontro tra intransigenti (contrari alla
partecipazione alle istituzioni democratiche) e democratici,
divenne lo strumento di questa elevazione delle masse che proseguì, nelle
organizzazioni intellettuali del gruppo, anche dopo il compromesso del papato
con il regime fascista, che consentì di chiudere la questione
romana, le rivendicazioni papali di uno stato nel Lazio, con l’istituzione
della Città del Vaticano e con risarcimenti di notevole entità. Dalle file
dell’Azione Cattolica uscirono molti dei politici che governarono l’Italia dopo
la sconfitta del regime fascista mussoliniano e fino al 1994 (ma anche oltre).
L’ideologia di questi politici democratici cristiani fu
modellata sulla dottrina sociale della Chiesa, ma anche contribuì a modellarla.
Questo contributo laicale fu riconosciuto dai saggi del Concilio che lo
inserirono nella loro nuova dottrina sociale.
Ecco ad esempio che cosa si
legge nella Costituzione Luce per le genti al n.37:
I pastori, da parte
loro, riconoscano e promuovano la dignità e la responsabilità dei laici nella
Chiesa; si servano volentieri del loro prudente consiglio, con fiducia affidino
loro degli uffici in servizio della Chiesa e lascino loro libertà e margine di
azione, anzi li incoraggino perché intraprendano delle opere anche di propria
iniziativa. Considerino attentamente e con paterno affetto in Cristo le
iniziative, le richieste e i desideri proposti dai laici e, infine, rispettino
e riconoscano quella giusta libertà, che a tutti compete nella città terrestre.
Da questi familiari
rapporti tra i laici e i pastori si devono attendere molti vantaggi per la
Chiesa: in questo modo infatti si afferma nei laici il senso della propria
responsabilità, ne è favorito lo slancio e le loro forze più facilmente vengono
associate all'opera dei pastori. E questi, aiutati dall'esperienza dei laici,
possono giudicare con più chiarezza e opportunità sia in cose spirituali che
temporali; e così tutta la Chiesa, forte di tutti i suoi membri, compie con
maggiore efficacia la sua missione per la vita del mondo.
Sia nella liturgia che nelle cose
sociali, il metodo indicato dal saggi dell’ultimo Concilio fu quello di
promuovere la partecipazione del popolo. La liturgia e la dottrina sociale non
furono più solo affare del clero. Ma la partecipazione di tutti richiede di
fare tirocinio di democrazia. In questo siamo ancora piuttosto indietro.
Da un lato la gerarchia del clero
diffida profondamente del popolo, sempre visto sul punto dell’apostasia e
bisognoso che qualcuno gli inculchi (questo è il tremendo
verbo che viene spesso utilizzato nel gergo clericale) i principi di vita
buona. Dall’altro nel popolo sorgono ciclicamente capi e capetti che cercano di
imporre la propria volontà (spesso in buona fede, ma non sempre) con la forza
del numero o della loro veemenza.
In particolare si ha sempre
difficoltà a confrontarsi con il pluralismo sociale e religioso dei nostri
tempi.
Le cose si sono molto complicate
nella società italiana di oggi. Per molti italiani è impossibile tornare a
una fede religiosa che non è mai stata quella della loro tradizione, perché
provengono dall’ortodossia orientale e da altre confessioni cristiane,
dall’islamismo, dall’induismo, dal buddismo, dallo sikhismo e via dicendo. E il
maggior livello di istruzione della gente, raggiunto per merito del sistema
scolastico pubblico, ha comportato che su molte questioni di
coscienza non si sia più disposti all’obbedienza acritica.
Nessuno in genere, neanche le donne che in passato sono state le fedeli
più docili, è più disposto adabitare ambienti
sociali in cui gli è vietato di mettere bocca, di proporre cambiamenti. Inoltre
certe umiliazioni non le si sopportano più, come quelle che colpirono, e ancora
talvolta colpiscono, coloro che hanno avuto problemi coniugali. Ma anche i
fedeli considerati di serie B perché non hanno raggiunto certi traguardi di perfezionamento.
Così, ad esempio, si è
insofferenti, è accaduto nella nostra parrocchia, a usi liturgici, come la
Veglia di Pasqua super-prolungata all’uso neocatecumenale e infarcita della
simbologia di quel movimento, che ostacolano la partecipazione di tutti e la
comprensione di ciò che accade. Non ci si va più e non ci si pongono tanti
problemi, e tanti saluti alla partecipazione e alla formazione.
La partecipazione attiva nella
società del nostro tempo richiede la democrazia, e innanzi tutto il rispetto
degli altri, perché ci troviamo a vivere in un contesto sempre più
pluralistico. Per capirlo bene occorre guardarlo sotto diversi punti di vista,
è necessaria una vasta collaborazione. Nessuno, ai tempi nostri, può sapere
tutto di tutto, salvo che in settori superspecialistici, ma per questo sempre
più limitati. Come scrisse Pierre Riches in un bel libro di tanti anni fa (Note
di catechismo per ignoranti colti, Mondadori, non più in commercio) al più
riusciamo ad essere ignoranti colti. Insieme ci sforziamo di
superare i nostri limiti individuali. La sapienza degli altri ci arricchisce e
viceversa. Confrontando le conoscenze e le opinioni, le correggiamo. E’
questo che si fa nel dialogo: ci si mette in relazione gli uni con gli altri,
chiarendosi. Questo è l’inizio della democrazia.
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58
Convincersi della democrazia
Ho imparato la democrazia in FUCI,
tra gli universitari cattolici, a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80 del
secolo scorso, anni duri, anni in cui furono assassinati due grandi esponenti
del movimento cattolico-democratico, Aldo Moro, tra in fondatori della nostra
nuova Repubblica nel secondo dopoguerra e tra i principali artefici di varie
fasi di rinnovamento della democrazia italiana, ucciso nel 1978, e Vittorio
Bachelet, tra i rifondatori della nostra Azione Cattolica, ucciso nel 1980.
Divenne evidente il carattere antidemocratico dei moti insurrezionali
dell'epoca motivati da costruzioni ideologiche comuniste: la democrazia
italiana, però, a quei tempi riprese a funzionare e il pericolo, lentamente,
nel corso degli anni ’80, fu vinto. Di solito si fanno finire quelli che
vengono definiti anni di piombo con l’omicidio di Roberto
Ruffilli, altro esponente del cattolicesimo democratico, nel 1988. A quei tempi
egli era impegnato in un disegno di riforma dello stato democratico.
Di fronte al pericolo, si
ricostituirono dei legami sociali, si riprese fiducia gli uni negli altri,
questo cambiò il clima sociale della nazione, pur in un’epoca di duri conflitti
sindacali. Ci fu una risposta giudiziaria ai crimini politici, ma non avrebbe
avuto successo senza questa nuova situazione nella società italiana.
La FUCI storicamente è stato
l’ambiente sociale della nostra fede che più si è dedicato, fin dalle
origini, a fare tirocinio di democrazia. Fu fondata a fine Ottocento, qui a
Roma, dal democratico cristiano Romolo Murri, prete e
attivista politico, in un tempo in cui ai cattolici era ancora
vietata la politica in Italia, e allora la si doveva praticare come una
generica azione sociale.
Quello degli universitari è un
mondo favorevole al tirocinio democratico, perché il tempo in cui si studia
all’università è il momento in cui si avverte più acutamente il bisogno degli
altri, la propria non autosufficienza. Fino al liceo il mondo può stare in
manuale e sembra di avere tutto lo scibile umano nella propria piccola libreria
domestica. All’università si approfondisce, si entra nei particolari, e più lo
si fa, più si capisce di riuscire a controllare settori sempre più limitati
della conoscenza, per cui, per fare ciò che ci si aspetta da una persona di
cultura, occorre interagire con gli altri, che si sono concentrati in altri
settori e hanno ciò che serve per completare il proprio lavoro. Bisogna, in
questo dialogo con gli altri, fare uno sforzo per far capire i risultati della
propria ricerca, traducendoli dal proprio gergo specialistico, e anche per
capire quella altrui. In sostanza, all’università più si sa e più si capisce
quanto non si sa. Sapere di non sapere venne considerato da un
antico saggio greco come la sapienza più grande. Ma lo è anche il sapere, il
rendersi conto, di ciò che non si sa, quindi uscire dal
generico e individuare bene i propri limiti, per capire che cosa occorre, quale
collaborazione cerare, per andare avanti. E' in quel momento che si comincia a
ricercare chi possa aiutare a superare quei limiti. Il vero sapiente è sempre
alla ricerca (Ricerca è la rivista dei fucini). Nel momento
in cui si capisce di avere bisogno degli altri per superare i propri
limiti nasce anche la democrazia. Infatti per interagire con gli altri occorre
creare il contesto giusto, praticare un certo metodo.
Non si può praticare la democrazia
quando si pensa di sapere tutto ciò che serve e si è convinti che gli altri non
solo non servono, ma costituiscono anche un pericolo, o comunque un fastidio,
perché tendono a mettere in dubbio certe sicurezze. Allora si cerca di imporre
agli altri la propria visione, così come avviene certe volte nelle riunioni
condominiali, e si finisce per litigare inutilmente: la cosa comune poi ne
risente, si deteriora, perché non c’è accordo su come farne la manutenzione.
L’incapacità di democrazia degrada la società, che richiede un lavoro comune
per sostenersi, e innanzi tutto un impegno, di molti. Fino al Settecento la
democrazia veniva considerata in religione, ma sulla base di un antico pensiero
greco, una forma di disordine e di allontanamento dalla verità. La democrazia,
come oggi la intendiamo, nel senso di potere di tutti, ha invece
bisogno di ordine, di chiarezza, e anche di fiducia reciproca e
di rispetto.
All’origine della democrazia c’è
l’amicizia: in un certo senso possiamo considerare la democrazia come una forma
di amicizia. Si deve riconoscere di aver bisogno dell’aiuto degli altri ed
essere disposti a lavorare insieme a loro per il bene di tutti, irraggiungibile
senza la collaborazione di tutti. Si deve rispettare ma anche essere
rispettati. E sforzarsi di farsi capire, come si fa tra amici. Questo
collegamento con l’amicizia spiega perché in religione si è cominciato a
collegare la democrazia con quella particolare benevolenza amicale che
definiamo carità e che rimanda al concetto sottostante al
termine del greco antico agàpe, vale a dire a un lieto
convito in cui ce n’è per tutti.
Se la democrazia è una forma di
amicizia, si capisce come non si possa praticarla veramente per via telematica.
Occorre incontrarsi faccia a faccia e fare esperienza concreta gli uni degli
altri. In questo incontro ci si svela e si possono avere sorprese piacevoli e
spiacevoli, ma comunque in genere si hanno sorprese. Finché gli altri rimangono
una linea di caratteri sul video servono a poco. D’altra parte conoscerli
veramente è impegnativo, in tutti i sensi: richiede uno sforzo, una pazienza
nell’avvicinarli e conoscerli, e una fatica, un tempo da trascorrere insieme.
E’ così che però si costruisce la società, si creano legami duraturi.
Se lo stare insieme dipende solo
dalla comune soggezione ad un qualche gerarca, culturale, politico, religioso e
via dicendo, ha basi labili. Perché il legame vero è solo con il punto di
riferimento gerarchico non tra le persone alla base. Ecco perché l’ingenuo
attuale papismo delle nostre collettività religiose serve a poco sia per
formare la gente, sia per rinsaldare le nostre esperienze sociali.
Certe volte ci si incontra, in
religione, e tutto si risolve in un gridarsi gli uni gli altri le parole
d’ordine dei rispettivi gerarchi di riferimento. A che serve? Si rimane
estranei come prima, con in più molto risentimento.
Un universitario per la prima
volta nella sua vita viene posto di fronte alla realtà così com’è veramente, ed
essa è complessa. Tutte le semplificazioni degli studi precedenti si rivelano
ciò che sono, vale a dire, appunto, semplificazioni, una base di partenza.
Scopre che ci sono molte interpretazioni, ma che la realtà le supera tutte,
anche perché è in movimento, evolve. La cultura segue la realtà, ma ne è anche
parte, ed evolve anch’essa. Questo è vero anche per tutte le verità, comprese
quelle ritenute fondamentali, della nostra fede. E’ per questo che si scrive
tanto di teologia. Se tutto fosse così semplice come talvolta viene presentato,
non servirebbe.
Il primo passo per affrontare il
pensiero sociale della nostra fede è il convincersi della democrazia, perché
questo è stato il principale traguardo raggiunto dalla dottrina sociale nel
corso del Novecento. La democrazia è infatti la via per influire nelle società
pluralistiche dei nostri tempi per cercare di infondervi i grandi principi
ideali della nostra fede. Non ce n’è un’altra perché non è possibile dominare
culturalmente da gerarchi religiosi, in un impero religioso,
un mondo di otto miliardi di persone sempre più mescolate tra loro. Ma la
democrazia non è ancora di casa, in genere, nelle nostra collettività
religiose, ad esempio nella nostra parrocchia. In religione la si pratica in
circoli intellettuali come la FUCI. Ma in realtà non dovrebbe essere così,
perché la democrazia è per tutti, ed è solo così che è
veramente efficace.
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59
Democrazia dei cristiani, democrazia di
tutti
(30-3-16)
[dal libro: Pietro Scoppola, La
democrazia dei cristiani - Il cattolicesimo politico nell’Italia unita -
intervista a cura di Giuseppe Tognon, Laterza, 2005, €10,00, disponibile in
commercio]
Domanda: Ma ci sarà un ruolo
significativo per i cattolici nella vita politica italiana di domani?
SCOPPOLA: Certamente, anche se sarà
diverso da quello che svolsero in passato, al momento dell’Unità d’Italia nel
1861, quando restarono esclusi dallo stato liberale e mortificati proprio
perché cattolici, o alla caduta del fascismo nel ’43, quando assunsero la
responsabilità di guidare un paese sconfitto e lacerato verso la libertà e lo
sviluppo.
Il loro futuro sarà di sostenere
la democrazia, che è in difficoltà e che ha bisogno di una profonda ispirazione
etica e religiosa. Non da soli, insieme agli altri credenti, alla migliore
tradizione laica e alle tradizioni popolari delle sinistre europee, ma ancora
una volta decisivi per l’Italia e per l’Europa.
La Democrazia cristiana è stato il
partito dei cattolici italiani, l’espressione più riuscita della loro maggiore
età politica, lo strumento del loro enorme potere e insieme della loro crisi,
come sempre accade nella storia umana.
Ma oggi il problema è la
democrazia di tutti e la maturità del cattolicesimo politico italiano si
misurerà proprio nella capacità di abbandonare la nostalgia per la Democrazia
Cristiana per un proprio partito esclusivo, e di lavorare piuttosto per
la democrazia dei cristiani, che è la democrazia di tutti (pag.3-4).
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Quand’è che si entra veramente in
società? Un primo momento importante è quando si trova un lavoro stabile.
L’altro è quando si forma un famiglia coniugale, basata su un rapporto
d’amore coniugale, più stabile perché si pensa anche a dei figli. In genere, ai
tempi nostri, ci si arriva intorno ai trent’anni.
E quand’è che si hanno le prime
esperienze veramente sociali, al di fuori della famiglia, nella società
generale, che di solito coincidono con la scoperta dell’amore sessuale,
la base della famiglia coniugale? Per me è accaduto al terzo anno delle
superiori, a sedici anni.
I trentenni di oggi hanno compiuto
sedici anni nel 2002. Il libro di Scoppola da cui ho tratto la citazione sopra
trascritta è stato pubblicato nel 2005. E’ un testo da universitari. I
trentenni di oggi potrebbero averlo avuto tra le mani appena pubblicato.
Scoppola parla della Democrazia Cristiana, il partito dei cattolici, finito
dieci anni prima. Una realtà della quale un universitario della metà del primo
decennio degli anni 2000 non aveva mai avuto personale esperienza, anche se era
citata in un capitolo o due dei libri di storia per le superiori.
Un trentenne di oggi, allora,
potrebbe effettivamente credere, se non avesse avuto tra le mani quel testo di
Scoppola o altri libri del genere, che in Italia i cattolici abbiano vissuto
sotto il dominio dei laici, intesi come gli irreligiosi, i non credenti. Invece
i cattolici, dal 1946, hanno dominato la politica italiana, ininterrottamente
sino ad oggi, prima con lo strumento di un partito e poi, dalla metà degli anni
’90, mediante un’azione di pressione politica attuata direttamente dalla Conferenza
Episcopale Italiana per il tramite di gruppi di pressione transpartitici.
Di solito si ricordano le leggi
sul divorzio (1970) e sull’interruzione volontaria della gravidanza (1978) come
casi di sconfitta delle posizioni politiche dei cattolici. Sono stati gli unici
due casi in cui ciò è avvenuto, nella storia della Repubblica democratica. E in
realtà non si trattava di una sconfitta dei cattolici, perché si
trattò di leggi ampiamente condivise dai cattolici, come dimostrarono i
successivi referendum promossi su di esse, ma di una sconfitta della politica
della gerarchia cattolica.
Un terzo caso simile potrebbe
darsi nel caso della legge sulle unioni civili delle persone omosessuali e
sulle unioni di fatto, che ancora è in gestazione. L’azione di interdizione
politica della gerarchia cattolica aveva sino ad ora impedito l’approvazione di
qualsiasi legge in materia, e dunque anche il suo vaglio di costituzionalità,
che aveva travolto la legge sulla fecondazione assistita del 2004, pesantemente
condizionata dall’azione politica della gerarchia cattolica. Anche nel caso
delle unioni civili omossessuali e delle unioni di fatto i sondaggi evidenziano
un ampio consenso della maggioranza degli italiani, cattolici compresi. Se la
legge fosse approvata, e non è ancora sicuro che lo sia, e si andasse ad un
referendum, probabilmente sarebbe democraticamente confermata dalle urne.
Tutto il resto della politica
italiana, nell’era della Repubblica, è stato costruito con il contributo
determinante della politica dei cattolici, e secondo la loro volontà, ispirata
in maniera preponderante alla dottrina sociale della Chiesa, in particolare a
quella successiva agli anni Sessanta, epoca dalla quale si attenuò molto
l’orientamento in genere reazionario che l’aveva caratterizzata dalla fine
dell’Ottocento e in cui si fece più sensibile l’influenza del pensiero laicale
in varie discipline, in particolare l’economia, l’antropologia e la sociologia.
L’idea di trovarsi in uno
stato ostile ai cattolici è quindi del tutto falsa. Ecco perché Scoppola
parlò del partito dei cattolici come lo «strumento del
loro enorme potere».
Il potere dei cattolici italiani
raggiunse il suo massimo livello nel regime democratico post-fascista. Fu
sorretto da un’ideologia originale, riconducibile al pensiero di politici
come Luigi Sturzo, Alcide De Gasperi, Giuseppe Dossetti, Aldo Moro, che colmava
le grandi lacune della dottrina sociale in materia di democrazia. Quest’ultima
fu accettata pienamente dalla gerarchia cattolica solo con l’enciclica Il
Centenario, del 1991, del papa Wojtyla. Ma nei testi della
dottrina sociale la democrazia non viene trattata in dettaglio. La si presenta
genericamente come una forma di potere del popolo che richiede partecipazione.
Ma come si debba partecipare non è precisato. In genere si è molto attenti a
fissarne dei limiti nei confronti della gerarchia del clero e in materia di
trasformazioni sociali. La gerarchia, in genere, diffida del popolo; e
spesso non comprende bene la vita della gente, i suoi problemi, le sue
aspirazioni. Vive in un universo autoreferenziale. E poi sente il pensiero
democratico come un pericolo per il suo stesso potere, perché essa non è
organizzata democraticamente e addirittura se ne vanta, non vuole esserlo (ma
le spiegazioni che dà in merito non sono molto convincenti). Questo spiega
anche perché il tirocinio democratico non rientra in genere tra le esperienze
che vengono proposte ai fedeli nelle collettività di base. Lo si pratica, ad
esempio, nei circoli intellettuali della FUCI e del MEIC, due movimenti
scaturiti dall’Azione Cattolica che in questo si sono particolarmente
specializzati.
In realtà la democrazia, come ai
tempi nostri la intendiamo, è una forma di governo delle società umane molto
particolare, perché è strettamente legata alla giustizia, la comprende al suo
interno. Nelle altre forme di potere essa può essere al più un orientamento
morale, rimanendo sempre qualcosa di esterno: in quei casi la legge suprema del
potere è il potere stesso, il mantenimento del potere, e di fronte ad essa la
giustizia recede. Viene praticata se e nella misura in cui serve al
mantenimento del potere, alla creazione di un consenso sociale, al mantenimento
della pace sociale. La democrazia, il potere di tutti, invece, vive della
giustizia, perché non si può governare tutti senza
essere giusti, senza riconoscere a tutti la
medesima dignità sociale, il medesimo diritto alla vita e alla ricerca della
felicità. Senza giustizia si ricade nelle altre forme di potere, non
democratiche: la democrazia degenera. La democrazia è essa stessa una forma di
giustizia, perché dà veramente a ciascuno il suo, riconosce ad ogni essere
umano la dignità che gli compete. Ma non solo: la democrazia indica come essere
giusti in ogni campo, è anche un importante criterio di orientamento morale,
oltre che politico. La giustizia sociale come nei nostri tempi la intendiamo
non può derivarsi direttamente da un testo sacro formatosi migliaia di anni fa.
Questo crea qualche problema alla dottrina sociale, intesa
come forma di teologia. Ed in effetti il riconoscimento del valore della
democrazia è recentissimo in quella dottrina, lo possiamo considerare una
conquista dell’altro ieri. La teologia, quindi, specialmente quella dei
nostri capi religiosi, ancora si è poco familiarizzata con la democrazia.
Questo rende ancora difficile, talvolta, spiegare teologicamente come
una vita di fede possa esprimersi anche in democrazia, in particolare nella
collaborazione a politiche democratiche. E questo anche se la pratica sociale e
il pensiero politico dei fedeli hanno da molto tempo superato queste
difficoltà, contribuendo addirittura a costruire la nostra nuova Europa,
fondata su democrazia e giustizia sociale.
Io che ho fatto il liceo ai
tempi della Democrazia Cristiana, il partito dei cattolici, o
il partito cristiano come lo definì un altro fine
intellettuale del nostro mondo, Gianni Baget Bozzo, non ho difficoltà a capire
come la vita di fede possa sostenere un pensiero e un’azione politica da
esprimersi in un contesto e con metodi democratici. Un trentenne di oggi
dovrebbe forse ripartire da capo.
Innanzi tutto occorre fare
realisticamente i conti con la storia. Respingere certe interessate
falsificazioni, correnti nel nostro mondo, secondo le quali i cattolici
vivrebbero nell’Italia democratica al modo degli antichi Israeliti sotto il
regno dei Faraoni egiziani. La Repubblica democratica post-fascista è stata
costruita come la vollero i cattolici e anche la sua crisi ha radici nel mondo
cattolico, ed è innanzi tutto crisi del pensiero democratico espresso
dalle nostre genti di fede. Un cattolico dovrebbe quindi sentire una
particolare responsabilità per ciò che sta accadendo in politica. Tutto
questo è necessario in
politica. Non basta brandire il Compendio della Dottrina sociale della
Chiesa come una sorta di Libro delle Giovani Marmotte,
in cui pretendere di trovare risposta a tutti i problemi politici. Quel testo
può essere solo un inizio. Serve per orientarsi tra le fonti, i vari testi dei
Papi dai quali origina la dottrina sociale. Ma poi bisogna andare a leggere i
testi di riferimento, oggi tutti disponibili sul WEB sul portale
<www.vatican.va>. Per accorgersi che la dottrina sociale ha avuto uno
sviluppo storico, è cambiata rapidamente nel giro di poco più di un secolo,
il tempo che intercorre tra l’enciclica Le Novità, del 1891, del
papa Pecci, e la Laudato si’, del 2015, del
papa Bergoglio, che esprime una dottrina sociale molto innovativa. E quindi,
per poi approfondire ulteriormente. In questo tempo di sviluppo della
dottrina sociale, le novità dei tempi hanno inciso
moltissimo. Esse sono venute per la massima parte dal mondo dei laici, intesi
come le persone non inquadrate nel clero o nei religiosi. Tuttavia questa
realtà non ha trovato ancora riconoscimento nella dottrina
sociale che è rimasta, appunto, una dottrina,
vale a dire una branca della teologia che diffonde un pensiero il quale
pretende di essere obbedito per l’autorità, non democratica, di chi lo emana.
Questa realtà normativa è poco adatta al pensiero
sociale diffuso in quella dottrina, che sempre richiede verifiche e
sperimentazioni, sempre richiede processi democratici.
Non so quanti sarebbero disposti,
ad esempio, a condividere questa affermazione, riportata nel Compendio
della dottrina sociale della Chiesa, n. 227, riprendendo pronunce del papa
Wojtyla:
“Le unioni di fatto,
il cui numero è progressivamente aumentato, si basano su una falsa concezione
della libertà di scelta degli individui e su un’impostazione del tutto
privatistica del matrimonio e della famiglia”.
Questa sentenza non corrisponde a
ciò che vedo realizzato in società. Ed è anche inutilmente insultante verso chi
ha realizzato unioni coniugali non formalizzate in un matrimonio, religioso o
civile, ma comunque stabili e feconde in tutti i sensi. Non rende giustizia a
quelle unioni. Non riconosce dignità a coloro che le esprimono. E infatti non è
uscita da un pensiero democratico, ma dagli autocrati della dottrina sociale.
E' stato scritto che essi appaiono sempre in ritardo rispetto alle conquiste
sociali.
Alla democrazia è essenziale un
pensiero sociale che sia sviluppato democraticamente, vale a dire nel
libero confronto e nel dialogo tra le persone. Altrimenti non si possono fare
progetti, anche perché la conoscenza affidabile sfugge. E l’immischiarsi in
politica lascia, allora, un po’ il tempo che trova, come si dice.
O si vorrebbe che la gente,
imparando la dottrina sociale della Chiesa, ritornasse ad essere il braccio
secolare della gerarchia, il suo strumento di pressione in politica, secondo il
progetto originario dei Papi? Ecco, appunto questo l’esperienza di politica
democratica della Democrazia Cristiana volle superare.
Come persone di fede non possediamo la
verità, ogni soluzione giusta, sui fatti sociali e politici. Le soluzioni
devono essere ricercate nel confronto democratico, in quella che Scoppola
definiva la democrazia di tutti. Il filosofo Aldo Capitini ne parlava
come di Omnicrazia, che significa la stessa cosa, e la vedeva attuata
attraverso Centri di orientamento, in cui capire e scegliere nel
confronto e dialogo democratici.
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60
Nella grande politica
(6-6-16)
Incollo di seguito il testo di un
discorso tenuto il 3 giugno scorso dal papa Francesco a magistrati convocati a
Roma da tutto il mondo dalla Pontificia Accademia delle scienze. In esso ha
ripreso il tema della necessità di immischiarsi nella
politica e, in particolare, in quella “grande”. Ha parlato anche della
necessità di liberare i giudici da pressioni indebite, politiche e di altra
natura.
I primi commentatori delle parole
di Bergoglio hanno notato il riferimento alla "grande" politica più
che quello alla libertà dei giudici. Entrambi però sono importanti e connessi e
rappresentano delle novità nell'ideologia proposta negli ultimi anni alle
collettività di fede che riconoscono l'autorità religiosa del vescovo di Roma.
Più o meno dal Sesto secolo della
nostra era la Chiesa cattolica come complesso di istituzioni è stata uno dei
più importanti attori politici europei; questo in particolare a partire dal
secondo millennio, da quando si è costituita come un impero religioso ad
ordinamento feudale. Quindi è sempre stata "in politica", e in
quella "grande". Dove sta la novità?
La novità sta nel fatto che nelle
parole di Bergoglio quell'impero non c'è più. Lui per primo ne ha rifiutati i
segni andando a vivere in albergo, invece che nella reggia romana dei
pontefici.
Ci sono i popoli e ci sono delle
esigenze di giustizia, in particolare delle sofferenze da lenire, ci sono delle
vittime a cui dedicare "grande attenzione". C'è un ordine sociale da
cambiare per esigenze di giustizia. Un compito che viene evocato come una
"buona onda", "dall'alto in basso e viceversa, dalla periferia
al centro e viceversa, dai leader fino alle comunità e dai popoli e
dall'opinione pubblica fino ai più altri livelli dirigenziali", dove quei
"viceversa" sono molto importanti, perché in passato non se ne faceva
conto e tutto colava dall'alto: dall'alto in basso e dal centro alla periferia.
In quest'ottica sembra quasi che
dal giudice si pretenda molto di più di quello che egli è autorizzato a fare,
anche negli ordinamenti di tipo democratico: qualcosa che pare una rivoluzione
sociale, da fare agendo insieme, in comunità, per "aprire brecce, vie
nuove di giustizia". E' perché Bergoglio, prendendo lo spunto dall’udienza
a quei magistrati, sembra aver considerato il giudice come un modello di
cittadino democratico e ha in realtà invitato tutti a
farsi giudici dell'ordine sociale esistente e a farlo liberamente, contrastando
i condizionamenti indebiti e innanzi tutto quello della corruzione,
avendo come guida la giustizia e non le "strutture di peccato"
che dalla giustizia lo allontanano, perché la giustizia è il primo attributo della
società, che senza di essa non dà felicità e pace. Bisogna ricordare che la
Chiesa cattolica-istituzione è stata, e ancora per certi versi è, uno dei più
potenti centri di pressione politica in senso proprio, con critiche che non
hanno risparmiato i giudici accusati talvolta di voler creare un
nuovo diritto per fini di giustizia (gli ultimi episodi risalgono solo a
qualche settimana fa, in Italia). Il ragionamento di Bergoglio può quindi
essere considerato anche un'autocritica: egli in fondo ha imparato la lezione
dell'illuminismo, ma ne ha anche assimilate di altre. Può liberare forze
potenti in quella che può essere considerata attualmente anche la più
importante compagine politica italiana, l'unica non ancora allo stato liquido o
semi-liquido.
Venendo veramente da un altro
mondo, egli recupera un discorso iniziato da Montini a cavallo tra gli anni
Sessanta e Settanta, un forte appello all'azione politica per la riforma
sociale, presentata come dovere religioso: " Prendere sul serio
la politica nei suoi diversi livelli - locale, regionale, nazionale e mondiale
- significa affermare il dovere dell'uomo, di ogni uomo, di riconoscere la
realtà concreta e il valore della libertà di scelta che gli è offerta per
cercare di realizzare insieme il bene della città, della nazione,
dell'umanità" [lo scrisse nel 1971 nel documento "L'80°
Anniversario"].
"Giustizia, libertà, azione
collettiva per il cambiamento sociale": ora in religione se ne riprende a
parlare, ma le si è apprese da altri, a partire dall’Ottocento. Un capo
religioso di oggi sostiene che non se ne può fare a meno, che bisogna
riscoprirle. Molti invece le avevano sepolte, e forse dimenticate, forse
sottovalutate come eccessi di gioventù, nelle loro biblioteche. C'è, mi pare,
tutta una tradizione da recuperare. Un lavoro da fare anche in religione, per
l’importante azione politica che la fede vissuta collettivamente produce, ma
anche perché i principi religiosi incidono sia sugli obiettivi sia sui metodi.
“La politica è una maniera esigente - ma non è la sola - di vivere l'impegno
cristiano al servizio degli altri.”, scrisse anche Montini nel documento che ho
sopra citato. La definì “una testimonianza personale e collettiva della serietà
della loro fede mediante un servizio efficiente e disinteressato agli uomini”
tale da rendere necessario “inventare forme di moderna democrazia non soltanto
dando a ciascun uomo la possibilità di essere informato e di esprimersi, ma
impegnandolo in una responsabilità comune.” E’ questa responsabilità alla
luce della fede che rende esigente l’impegno politico come
valore anche religioso.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°
INTERVENTO DEL SANTO
PADRE FRANCESCO
AL VERTICE DI GIUDICI E MAGISTRATI
CONTRO IL TRAFFICO DELLE PERSONE UMANE E IL CRIMINE ORGANIZZATO
[VATICANO, 3-4 GIUGNO 2016]
Casina Pio IV
Venerdì, 3 giugno 2016
Buonasera. Vi saluto cordialmente e rinnovo l’espressione della mia stima
per la vostra collaborazione nel contribuire al progresso umano e sociale, di
cui la Pontificia Accademia delle Scienze Sociali è capace.
Se mi rallegro di tale contributo e mi compiaccio con Voi, è anche in
considerazione del nobile servizio che potete offrire all’umanità,
approfondendo sia la conoscenza di questo fenomeno così attuale, ossia
l’indifferenza nel mondo globalizzato e le sue forme estreme, sia le soluzioni
dinanzi a tale sfida, cercando di migliorare le condizioni di vita dei nostri
fratelli e sorelle più bisognosi. Seguendo Cristo, la Chiesa è chiamata a
impegnarsi. Ossia, non vale l’adagio dell’Illuminismo secondo il quale la Chiesa
non deve mettersi in politica; la Chiesa deve mettersi nella “grande” politica!
Perché — cito Paolo VI — la politica è una delle forme più alte dell’amore,
della carità. E la Chiesa è anche chiamata a essere fedele alle persone, ancora
più quando si considerano le situazioni dove si toccano le piaghe e la
drammatica sofferenza, nelle quali sono coinvolti i valori, l’etica, le scienze
sociali e la fede; situazioni in cui la vostra testimonianza come persone e
umanisti, unita alla vostra specifica competenza sociale, è particolarmente
apprezzata.
Nel corso degli ultimi anni non sono mancate importanti attività della
Pontificia Accademia delle Scienze Sociali sotto il vigoroso impulso della sua
Presidente, del Cancelliere e di alcuni collaboratori esterni di grande
prestigio, che ringrazio di cuore. Attività in difesa della dignità e libertà
degli uomini e donne di oggi e, in particolare, attività volte a sradicare la
tratta e il traffico di persone e le nuove forme di schiavitù come il lavoro
forzato, la prostituzione, il traffico di organi, il narcotraffico, la
criminalità organizzata. Come ha detto il mio predecessore Benedetto XVI, e
come io stesso ho affermato in diverse occasioni, questi sono veri e propri
crimini di lesa umanità che devono essere riconosciuti come tali da tutti i
leader religiosi, politici e sociali e plasmati nelle leggi nazionali e
internazionali.
L’incontro con i
leader religiosi delle principali religioni che oggi
influiscono nel mondo globale, il 2 dicembre 2014, come pure il vertice degli
amministratori e dei sindaci delle città più importanti del mondo,
il 21 luglio 2015, hanno espresso la volontà di questa Istituzione di
perseguire l’eliminazione delle nuove forme di schiavitù. Serbo un ricordo
particolare di questi due incontri, come anche dei significativi seminari dei
giovani, tutti su iniziativa dell’Accademia. Qualcuno potrebbe pensare che
l’Accademia debba muoversi piuttosto in un ambito di scienze pure, di
considerazioni più teoriche: e questo risponde certamente a una concezione
illuministica di quello che deve essere un’Accademia. Un’Accademia deve avere
radici, e radici nel concreto, perché altrimenti corre il rischio di fomentare
una riflessione liquida, che si vaporizza e non arriva a niente. Questo
divorzio tra l’idea e la realtà è chiaramente un fenomeno culturale del
passato, e più precisamente dell’illuminismo, ma che ha ancora la sua
incidenza.
Ora, ispirata dagli stessi aneliti, l’Accademia vi ha convocato, giudici e
pubblici ministeri di tutto il mondo, con esperienza e saggezza pratica nello
sradicamento della tratta, del traffico di persone e della criminalità
organizzata. Siete venuti qui in rappresentanza dei vostri colleghi con il
lodevole intento di progredire nella piena consapevolezza di tali flagelli e,
di conseguenza, di rendere manifesta la vostra insostituibile missione dinanzi
alle nuove sfide che ci pone la globalizzazione dell’indifferenza, rispondendo
alla crescente richiesta della società e nel rispetto delle leggi nazionali e
internazionali. Farsi carico della propria vocazione significa anche sentirsi e
proclamarsi liberi. Giudici e pubblici ministeri liberi: da che cosa? Dalle
pressioni dei governi; liberi dalle istituzioni private e, naturalmente, liberi
dalle “strutture di peccato” di cui parla il mio predecessore san Giovanni
Paolo II, in particolare della “struttura di peccato”, liberi dal crimine
organizzato. So che subite pressioni, subite minacce in tutto questo; e so
anche che oggi essere giudici, essere pubblici ministeri, significa rischiare
la pelle, e ciò merita un riconoscimento al coraggio di quelli che vogliono
continuare a essere liberi nell’esercizio della propria funzione giuridica.
Senza questa libertà, il potere giudiziario di una nazione si corrompe e semina
corruzione. Tutti conosciamo la caricatura della giustizia per questi casi, no?
La giustizia con gli occhi bendati, alla quale cade la benda tappandole la
bocca.
Fortunatamente, per l’attuazione di questo complesso e delicato progetto
umano e cristiano, cioè liberare l’umanità dalle nuove schiavitù e dal crimine
organizzato, che l’Accademia realizza seguendo la mia richiesta, si può anche
contare sull’importante e decisiva sinergia con le Nazioni Unite. C’è una
maggiore consapevolezza di ciò, una forte consapevolezza. Sono lieto che i
rappresentanti dei 193 Paesi membri dell’ONU abbiano approvato all’unanimità i
nuovi obiettivi di sviluppo sostenibile e integrale, in particolare il numero
8.7, che recita: «Adottare misure immediate ed efficaci per eliminare il lavoro
forzato, porre fine alle forme moderne di schiavitù e alla tratta di esseri
umani e assicurare il divieto e l’eliminazione delle peggiori forme di lavoro
infantile, inclusi il reclutamento e l’uso di bambini soldato e, al più tardi
entro il 2025, porre fine al lavoro infantile in tutte le sue forme». Fin qui
la Risoluzione. Si può ben dire che realizzare tali obiettivi sia ora un
imperativo morale per tutti i Paesi membri dell’ONU.
Perciò occorre generare un moto trasversale e ondulare, una “buona onda”,
che abbracci l’intera società dall’alto in basso e viceversa, dalla periferia
al centro e viceversa, dai leader fino alle comunità, e dai popoli e
dall’opinione pubblica fino ai più alti livelli dirigenziali. La realizzazione
di ciò esige che, come hanno già fatto i leader religiosi, sociali e i sindaci,
così anche i giudici prendano piena consapevolezza di tale sfida, sentano
l’importanza della propria responsabilità davanti alla società e condividano le
proprie esperienze e buone pratiche e agiscano insieme — è importante, in
comunione, in comunità, che agiscano insieme — per aprire brecce e nuove vie di
giustizia a beneficio della promozione della dignità umana, della libertà,
della responsabilità, della felicità e, in definitiva, della pace. Senza cedere
al gusto della simmetria, potremmo dire che il giudice sta alla giustizia come
il religioso e il filosofo alla morale, e il governante o qualsiasi altra
figura personalizzata del potere sovrano alla politica. Ma solo nella figura
del giudice la giustizia si riconosce come il primo attributo della società. Ed
è una cosa che va recuperata, perché la tendenza sempre più forte è quella di
“liquefare” la figura del giudice attraverso le pressioni e le altre cose che
ho menzionato prima. E tuttavia è il primo attributo della società. Appare
nella stessa tradizione biblica, non è vero? Mosè ha bisogno di istituire 70
giudici perché lo aiutino, giudichino i casi. È il giudice a chi si ricorre. E
anche in questo processo di liquefazione, gli aspetti contundenti, concreti
della realtà interessano i popoli. Ossia, i popoli hanno un’entità che dà loro
consistenza, che li fa crescere, avere i propri progetti, accettare i propri
fallimenti, accettare i propri ideali; però stanno anche soffrendo un processo
di liquefazione, e tutto quello che è la consistenza concreta di un popolo
tende a trasformarsi nella semplice identità nominale di un cittadino. E un
popolo non è lo stesso di un gruppo di cittadini. Il giudice è il primo
attributo di una società di popolo.
L’Accademia, convocando i giudici, aspira solo a collaborare in base alle
proprie possibilità, secondo il mandato dell’ONU. È opportuno ringraziare qui
quelle nazioni che, tramite gli Ambasciatori presso la Santa Sede, non si sono
mostrate indifferenti o arbitrariamente critiche, bensì, al contrario hanno
collaborato attivamente con l’Accademia per la realizzazione di questo vertice.
Gli ambasciatori che non hanno sentito tale necessità o che se ne sono lavati
le mani o che hanno pensato che non era poi così necessario, li aspettiamo alla
prossima riunione.
Chiedo ai giudici di realizzare la propria vocazione e missione essenziale:
stabilire la giustizia senza la quale non c’è ordine né sviluppo sostenibile e
integrale, e neanche pace sociale. Senza dubbio, uno dei più grandi mali
sociali del mondo odierno è la corruzione a tutti i livelli, che debilita
qualsiasi governo, debilita la democrazia partecipativa e l’attività della
giustizia. A voi giudici spetta fare giustizia, e vi chiedo una speciale attenzione
nel fare giustizia nell’ambito della tratta e del traffico di persone e, di
fronte a ciò e al crimine organizzato, vi chiedo di guardarvi dal cadere nella
ragnatela delle corruzioni.
Quando diciamo “fare giustizia”, come voi ben sapete, non intendiamo che si
debba cercare il castigo di per sé, ma che, quando si comminano pene, queste
siano date per la rieducazione dei responsabili, in modo tale che si possa dare
loro una speranza di reinserimento nella società. Ossia, non c’è pena valida,
senza speranza. Una pena chiusa in se stessa, che non dà luogo alla speranza è
una tortura, non è una pena. Su questo mi baso anche per affermare seriamente
la posizione della Chiesa contro la pena di morte. Chiaro, mi diceva un teologo
che nella concezione della teologia medievale e post-medievale la pena di morte
conteneva la speranza: «li affidiamo a Dio». Ma i tempi sono cambiati e non è
più così. Lasciamo che sia Dio a scegliere il momento... La speranza del
reinserimento nella società: “neppure l’omicida perde la sua dignità personale
e Dio stesso se ne fa garante” (San Giovanni Paolo II, Evangelium vitae,
n. 9). E se questa delicata congiunzione tra giustizia e misericordia — che in
fondo è preparare per un reinserimento — vale per i responsabili dei crimini
contro l’umanità come per ogni altro essere umano, a fortiori vale
soprattutto per le vittime che, come indica il loro stesso nome, sono più
passive che attive nell’esercizio della loro libertà, essendo cadute nella
trappola dei nuovi cacciatori di schiavi. Vittime tante volte tradite nel più
intimo e sacro della loro persona, cioè nell’amore che aspirano a dare e a
ottenere, e che le loro famiglie devono loro o che viene loro promesso da
pretendenti o mariti, i quali invece finiscono col venderle nel mercato del
lavoro forzato, della prostituzione o del traffico di organi.
I giudici sono chiamati oggi più che mai a dedicare grande attenzione ai
bisogni delle vittime. Sono loro le prime a dover essere riabilitate e
reintegrate nella società, e per loro si devono perseguire in una lotta senza
quartiere trafficanti e carniferos, i carnefici. Non vale il
vecchio adagio: «Sono cose che esistono da che mondo è mondo». Le vittime
possono cambiare e di fatto sappiamo che cambiano vita con l’aiuto dei buoni
giudici, delle persone che le assistono e di tutta la società. Sappiamo che non
poche di queste persone sono uomini e donne avvocati e politici, scrittori
brillanti o hanno incarichi di successo per servire in modo valido il bene
comune. Sappiamo quanto sia importante che ogni vittima trovi la forza di
parlare del suo essere vittima come di un passato che ha superato
coraggiosamente essendo ora un sopravvissuto o, per meglio dire, una persona
con qualità di vita, con dignità recuperata e libertà assunta. Riguardo a
questo tema del reinserimento, vorrei raccontare un’esperienza empirica. Mi
piace, quando vado in una città, visitare il carcere. Ne ho visitati diversi. È
curioso, senza voler offendere nessuno, ma la mia impressione generale è stata
che le carceri in cui il direttore è una donna vanno meglio di quelle in cui il
direttore è un uomo. Questo non è femminismo, è curioso. La donna ha, riguardo
al tema del reinserimento, un olfatto speciale, un tatto speciale che, senza
perdere energie, per ricollocare queste persone, per reinserirle. Alcuni lo
attribuiscono alla radice della maternità. Ma è curioso, lo dico come
esperienza personale, vale la pena rifletterci. E qui in Italia c’è un’alta
percentuale di carceri dirette da donne, molte donne, giovani, rispettate e che
sanno trattare con i detenuti. Un’altra mia esperienza personale è che alle
udienze del mercoledì non è raro che partecipi un gruppo di detenuti — di una o
l’altra prigione — portati dal direttore o dalla direttrice; stanno lì. Sono
tutti gesti di reinserimento.
Voi siete chiamati a dare speranza nel fare la giustizia. Dalla vedova che
insistentemente chiede giustizia (Lc 18, 1-8) alle vittime di oggi,
tutte alimentano un anelito di giustizia, come speranza che l’ingiustizia che
attraversa questo mondo non sia l’ultima realtà, non abbia l’ultima parola.
A volte può essere di giovamento applicare, secondo modalità proprie di
ciascun paese, di ogni continente, di ogni tradizione giuridica, la prassi
italiana di recuperare i beni criminosamente acquisiti dai trafficanti e dai
delinquenti, per offrirli alla società e, in concreto, per il reinserimento
delle vittime. La riabilitazione delle vittime e il loro reinserimento nella
società, sempre realmente possibile, è il bene più grande che possiamo fare a
loro, alla comunità e alla pace sociale. Certo, il lavoro è duro. Non termina
con la sentenza. Termina dopo, facendo sì che vi siano un accompagnamento, una
crescita, un reinserimento, una riabilitazione della vittima e del carnefice.
Se c’è una cosa che attraversa le beatitudini evangeliche e il protocollo
del giudizio divino con cui tutti saremo giudicati secondo il Vangelo di Matteo
(cap. 25), è il tema della giustizia: «Beati quelli che hanno fame e sete di
giustizia, beati quelli che soffrono per la giustizia, beati quelli che
piangono, beati i miti, beati gli operatori di pace, benedetti dal Padre mio
quelli che trattano il più bisognoso e il più piccolo dei miei fratelli come me
stesso». Essi o esse — e qui è il caso di riferirci in particolare ai giudici —
avranno la ricompensa più grande: possederanno la terra, saranno chiamati e
saranno figli di Dio, vedranno Dio, e gioiranno eternamente insieme al Padre.
In tale spirito oso chiedere ai giudici, ai pubblici ministeri e agli
accademici di continuare la loro opera e realizzare, nei limiti delle loro
possibilità e con l’aiuto della grazia, le felici iniziative che onorano il
loro servizio alle persone e al bene comune. Grazie!
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61
Il partito del Papa
Con l’enciclica Laudato
si’, dell’anno scorso, Bergoglio ha diffuso un progetto integrato di
riforma della società contemporanea, un vero e proprio manifesto politico. Esso
deve essere discusso democraticamente, ma proprio per la fonte da cui proviene
è difficile farlo in religione, e al di fuori dei contesti religiosi non lo si
fa perché non interessa. Infatti il partito del Papa non
ha seguito in Italia. Il nostro è stato il Paese che dal 1948 al 1994 è stato
dominato da un artito cristiano ed è stato impressionante
constatare che nelle ultime elezioni cittadine non solo nessuno dei movimenti
che le animavano si è richiamato a quella tradizione, ma che anche nessuno ha
affrontato il tema di Roma come città della fede, e questo nonostante il
Giubileo in corso. Nessuno si è richiamato ai temi politici della Laudato
si’, che probabilmente è poco conosciuta anche negli ambienti di fede, e
anche laddove è conosciuta viene presentata attenuandone l’impatto
specificamente politico. Sembra che, assuefatti all’imponente letteratura
pontificia, si sia considerato distrattamente un documento in cui invece ogni
parola è importante perché segna un cambiamento di rotta e l’apertura di nuove
opportunità. Si dà uno sguardo ai titoli, si legge qualche brano scelto
traendolo dai commentatori, e poi si aspetta il prossimo documento, che
infatti è venuto con l’esortazione Letizia dell’amore.
Fare politica
ha a che fare con il potere e, di solito, in religione, sebbene il potere lo si
sia sempre esercitato e anche piuttosto disinvoltamente, si ritiene
sconveniente parlarne. Alla fine si cerca di assimilarlo proponendolo come
una forma esigente di carità. Questa espressione viene attribuita,
sbagliando, al papa Montini, mentre è del suo predecessore Achille Ratti - Pio
11°, il Papa dei Patti lateranensi. La usò nel 1927 in un discorso tenuto ai
dirigenti della Federazione Universitaria Cattolica Italiana, del quale sono
riuscito a trovare uno stralcio sul WEB:
“I giovani talora si chiedono se, cattolici come sono, non debbano fare
alcuna politica. Ed ecco che, dedicando il loro studio ai suddetti argomenti,
vengono a porre in se stessi le basi della buona, della vera, della grande
politica, quella che è diretta al bene sommo e al bene comune, quello
della polis, della civitas, a quel pubblico bene, che è
la suprema lex a cui devono esser rivolte le attività sociali.
E così facendo essi comprenderanno e compiranno uno dei più grandi doveri
cristiani, giacché quanto più vasto e importante è il campo nel quale si può
lavorare, tanto più doveroso è il lavoro. E tale è il campo della
politica, che riguarda gli interessi di tutta la società, e che sotto questo
riguardo è il campo della più vasta carità, della carità politica,
a cui si potrebbe dire null'altro, all'infuori della religione, essere
superiore.
È con questo intendimento che i
cattolici e la Chiesa debbono considerare la politica; poiché la Chiesa e i
suoi rappresentanti, in tutti i gradi di tal rappresentanza, non possono essere
un partito politico, né fare la politica di un partito, il quale per
natura sua attende a particolari interessi, o se pur mira al bene comune,
sempre vi mira dietro il prisma di sue vedute particolari.”
In quegli anni la Santa Sede stava contrattando con il Mussolini quelli
che poi, nel 1929, furono stipulati come Patti Lateranensi.
Parlando dell’uomo con cui aveva concluso quegli accordi che oggi molti in
religione ritengono disonorevoli e di cui si volle assumere la piena
responsabilità, disse, parlando agli universitari della Cattolica di
Milano il 13 febbraio 1929, due giorni dopo l’evento:
“Dobbiamo dire che siamo stati anche dall’altra parte nobilmente assecondati. E
forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza Ci ha fatto
incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per
gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o
piuttosto disordinamenti, tutte quelle leggi, diciamo, e tutti quei regolamenti
erano altrettanti feticci e, proprio come i feticci, tanto più intangibili e
venerandi quanto più brutti e deformi. E con la grazia di Dio, con molta
pazienza, con molto lavoro, con l’incontro di molti e nobili assecondamenti,
siamo riusciti « tamquam per medium profundam eundo» a conchiudere
un Concordato che, se non è il migliore di quanti se ne possono fare, è certo
tra i migliori che si sono fin qua fatti; ed è con profonda compiacenza che
crediamo di avere con esso ridato Dio all’Italia e l’Italia a Dio.”
Montini, invece, nella lettera apostolica L’Ottantesimo
Anniversario[della prima enciclica sociale Le novità, del
1891] fece un discorso diverso, sollecitando all’azione:
"Significato dell’azione politica
46 […]È vero che sotto il
termine «politica» sono possibili molte confusioni che devono essere chiarite;
ma ciascuno sente che nel settore sociale ed economico, sia nazionale che
internazionale, l'ultima decisione spetta al potere politico.
Questo, in quanto è il vincolo naturale e necessario per assicurare la
coesione del corpo sociale, deve avere per scopo la realizzazione del bene
comune. Esso agisce, nel rispetto delle legittime libertà degli individui,
delle famiglie e dei gruppi sussidiari, al fine di creare, efficacemente e a
vantaggio di tutti, le condizioni richieste per raggiungere il vero e completo
bene dell'uomo, ivi compreso il suo fine spirituale. Esso si muove nei limiti
della sua competenza, che possono essere diversi secondo i paesi e i popoli; e
interviene sempre nella sollecitudine della giustizia e della dedizione al bene
comune, di cui ha la responsabilità ultima. Tuttavia non elimina così il campo
d'azione e le responsabilità degli individui e dei corpi intermedi, onde questi
concorrono alla realizzazione del bene comune. In effetti, «l'oggetto di ogni
intervento in materia è di porgere aiuto ai membri del corpo sociale, non già
di distruggerli o di assorbirli». Conforme alla propria vocazione, il
potere politico deve sapersi disimpegnare dagli interessi particolari per
considerare attentamente la propria responsabilità nei riguardi del bene di
tutti, superando anche i limiti nazionali. Prendere sul serio la
politica nei suoi diversi livelli - locale, regionale, nazionale e mondiale -
significa affermare il dovere dell'uomo, di ogni uomo, di riconoscere la realtà
concreta e il valore della libertà di scelta che gli è offerta per cercare di
realizzare insieme il bene della città, della nazione, dell'umanità. La
politica è una maniera esigente - ma non è la sola - di vivere l'impegno
cristiano al servizio degli altri. Senza certamente risolvere ogni
problema, essa si sforza di dare soluzioni ai rapporti fra gli uomini. La sua
sfera è larga e conglobante, ma non esclusiva. Un atteggiamento invadente,
tendente a farne un assoluto, costituirebbe un grave pericolo. Pur
riconoscendo l'autonomia della realtà politica, i cristiani,
sollecitati a entrare in questo campo di azione, si sforzeranno di raggiungere
una coerenza tra le loro opzioni e l'evangelo e di dare, pur in mezzo a
un legittimo pluralismo, una testimonianza personale e collettiva
della serietà della loro fede mediante un servizio efficiente e
disinteressato agli uomini."
Che cosa c’è di diverso tra il
pensiero del Sarto e quello del Montini sulla politica? C’è la democrazia, che
significa anche considerare la politica non come inevitabile sviluppo di interessi
particolari, ma come servizio efficiente e
disinteressato per realizzare insieme il bene della
città, della nazione, dell'umanità. E c’è la mediazione,
che significa concepire la politica come ricerca insieme
ad altri, in un clima di pluralismo.
Esercitare il potere in modo
insieme democratico e conforme allo spirito evangelico non è innato nei
fedeli: è cosa che si impara, della quale occorre fare tirocinio. Negli anni
’80 se ne aveva chiara consapevolezza e infatti fu quella l’epoca in cui in
Italia fiorirono tante scuole di politica. Ma poi
emerse il pluralismo della politica e si lasciò perdere. Si
riprese a fare politica andando dietro a un Papa, come negli anni bui dell’intransigentismo ottocentesco,
quelli della polemica durissima con il liberalismo democratico, che ancora
risalta moltissimo nelle parole del papa Sarto che ho sopra trascritto. Si è
persa una tradizione di impegno politico, della quale oggi si può avere un’idea
solo sui libri. Quindi poi la rinnovata esortazione all’impegno politico
democratico di Bergoglio cade nel vuoto. Anzi, mi pare che in genere, rispetto
agli orientamenti politici della Laudato sì,
la maggioranza dei fedeli sia all’opposizione, diciamo su posizioni francamente
di destra, che oggi significano, ad esempio, posizione dura su migranti ed
emarginati sociali, difesa del tenore di vita degli italiani a scapito di
qualsiasi onere di solidarietà sociale che possa comportare più
tasse, posizione ostile all’integrazione sociale di stranieri residenti e
di fedeli di altre religioni, contrarietà a misure di controllo sociale per
preservare ambiente naturale e territorio dai danni delle attività industriali
e dell’edilizia intensiva.
Ad essere cittadini di una
democrazia avanzata si impara e se la politica democratica ha un valore anche
religioso si tratta di un lavoro che deve essere impostato anche negli ambienti
di fede, come una parrocchia. Si inizia con un tirocinio, con fare esperienza
di democrazia negli affari minuti, nella gestione di un gruppo, di un servizio,
rifuggendo e contrastando il cesarismo dei capi. Poi ci
si ragiona sopra, trovando i riferimenti culturali. E’ cosa che costa fatica,
perché ci si è disabituati. Anche da noi in parrocchia, per lungo tempo, tutte
le sedi di partecipazione democratica sono cadute un po’ in disuso, a
cominciare dal Consiglio pastorale, che mi pare ormai privo di legittimazione
democratica, poiché, a mia memoria, non riesco più a ricordare quando si
svolsero le ultime elezioni di alcuni suoi componenti e alcune delle stesse
persone che vi partecipano, per ciò che mi è stato riferito, non hanno ben
chiaro a che titolo vi partecipino.
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62
Fede
e politica: una relazione essenziale
[da: Ludwig Hertling, Storia
della Chiesa - La penetrazione dello spazio umano ad opera del
cristianesimo, Città Nuova, 1974 (ed.originale Morus-Verlag, Berlin,
1967)]
La nuova serie di papi
sotto l’influenza degli imperatori
Ottone I (1°) [912-973, duca di
Sassonia, re di Germania e imperatore del Sacro Romano Impero dal 962] e suo
figlio Ottone II (2°) [955-983, duca di Sassonia, re di Germania e imperatore
del Sacro Romano Impero dal 973], che morì troppo presto, erano intervenuti
nelle cose di Roma con le migliori intenzioni, ma senza ottenere veri
risultati. E’ strano quindi che ciò sia invece riuscito al terzo Ottone [Ottone
III (3°) di Sassonia, 980-1002, re d’Italia e di Germania, imperatore del Sacro
Romano Impero dal 996], il quale personalmente non possedeva la qualità
dell’uomo forte anche per la sua età ancor giovanile, ma deve avergli giovato
il prestigio che s’era notevolmente accresciuto attorno alla corona imperiale
per merito di suo padre e di suo nonno.
Gregorio V e Silvestro II
Quando nell’anno 996 morì Giovanni
XV (15°), Ottone III si trovava proprio in viaggio verso Roma. I romani lo
pregarono di designare il nuovo papa. Ottone III contava allora 16 anni, era
profondamente religioso, essendo stato educato dai migliori maestri del
tempo, ed inoltre era un idealista entusiasta che sognava gli splendori
dell’antico Impero romano. Egli designò come papa il suo cappellano di corte,
che era anche un suo parente, Brunone. Questi, a sua volta molto giovane,
perché contava solo 24 anni, in fatto di idealismo non la cedeva
all’imperatore. Eletto papa, assunse il nome di Gregorio V (5°),
ma morì già nel 999, dopo aver iniziato un pontificato assai promettente. Dopo
di lui Ottone III scelse come papa il suo antico maestro Gerberto. Gerberto, un
francese, prima vescovo di Reims e poi di Ravenna, era molto ammirato per la
sua cultura, al punto tale che la leggenda popolare ne ha fatto un mago. Non
meno idealista del suo predecessore, Gerberto si chiamò Silvestro II (2°),
era tuttavia un uomo già maturo. Per la prima volta, dopo un lungo tempo la
Chiesa aveva un nuovo papa che mirava alla cristianità. Silvestro
istituì la gerarchia per la Polonia divenuta ormai quasi completamente cristiana
e le assegnò come metropoli Gnesen. Lo stesso fece per gli ungari con
la metropoli di Gran, A colui che era stato fino allora il duca degli
ungari, santo Stefano, conferì il titolo di re.
Il nuovo predominio dei signori di
Tuscolo
Dopo la morte prematura dell’imperatore
Ottone III (1002) a Roma, a Roma scoppiò nuovamente un conflitto tra i conti di
Tuscolo e i Crescenzi, i quali già sotto Gregorio V avevano tentato di
suscitare disordini e ora giunsero persino a creare un antipapa. Ma il nuovo
imperatore Enrico II (2°) fece accettare ai romani il legittimo
pontefice Benedetto VIII (8°) (1012-1024) della famiglia di
Tuscolo. Benedetto VIII aiutò Pisa e Genova allorché queste due città vinsero i
saraceni presso Luna, strappando così la Sardegna ai musulmani. Nel 1020 il
papa si recò in Germania e consacrò il duomo di Bamberga, fatto erigere
da Enrico II. Poi tenne insieme all’imperatore un sinodo in Pavia, in cui il
celibato del clero veniva ancora inculcato. Inoltre vennero promulgati fin d’allora
decreti contro la simonia, ossia il conferimento degli ordini sacri in cambio
di denaro, o di altri vantaggi. Nel concetto di simonia si vennero un po’ alla
volta a comprendere tutti gli abusi che derivavano dal sistema delle chiese di
proprietà privata e, in genere, dalla dipendenza della Chiesa dai signori
feudali, e che alla fine la condussero a ingaggiare la lotta delle investiture.
I conti di Tuscolo tornarono a
essere, come cent’anni prima, i padroni di Roma. Il fratello di Benedetto VIII,
Alberico, governava la città col titolo di console. Dopo la morte di Benedetto
VIII, un terzo fratello divenne papa col nome di Giovanni XIX (19°).
Questi incoronò imperatore Corrado II (2°). Ai festeggiamenti intervennero i re
Rodolfo III (3°) di Borgogna e Canuto di Danimarca e Inghilterra. quanto al
resto, egli non si occupò d’altro che di denaro. L’imperatore Basilio II (2°)
di Bisanzio gli profferse (=offrì) del denaro, qualora avesse riconosciuto al
patriarca di Costantinopoli il titolo di «patriarca ecumenico», che i papi
precedenti gli avevano sempre negato. Giovanni XIX si dichiarò pronto, ma
dovette rinunciarvi a causa della indignazione che questo fatto suscitò tra i
monaci cluniacensi (federazione di abazie benedettine facenti capo a quella di
Cluny, in Francia). Dopo la sua morte, nel 1933, la famiglia dei conti di
Tuscolo, che voleva a tutti i costi occupare la Sede apostolica con uno dei
suoi membri, impose come papa il figlio di Alberico,il tredicenne Teofilatto.
Il ragazzo, che si chiamò Benedetto IX (9°), venne cacciato
dopo poco tempo dai romani; ma l’imperatore Corrado II (2°) ve lo ricondusse,
dal momento che in fin dei conti era pur il legittimo papa. Cacciato un’altra
volta, egli ritornò ancora. Finalmente, per far cessare lo scandalo, il ricco arciprete
di San Giovanni a Porta Latina, Giovanni Graziano, gli promise una notevole
pensione, qualora avesse abdicato, Benedetto IX accettò, tanto più che dal
partito contrario gli si era innalzato contro un antipapa per nome Silvestro
III (3°).
Intervento di Enrico III (3°)
Giovanni Graziano aveva agito con
le migliori intenzioni. Ma non fu cosa saggia l’aver ora accettato egli stesso
l’elezione a Sommo Pontefice. Gregorio VI (6°), come egli si
chiamò, possedeva tutte le qualità necessarie, e dagli ecclesiastici più
rigidi, come Pier Damiani, fu salutato con entusiasmo. Ma poiché uno dei
principali punti del programma di riforma si riferiva alla simonia, e cioè al
commercio degli uffici ecclesiastici, appariva quanto meno un’imperfezione che
il papa regnante avesse pagato il suo predecessore con lo scopo di farlo
abdicare. Inoltre Benedetto IX si pentì ben presto della sua abdicazione e
ricomparve come papa, cosa che fece pure l’antipapa Silvestro III. In questo
ginepraio senza via di uscita solo l’imperatore poteva essere d’aiuto. Enrico
III (3°), successore di Corrado II, venne chiamato in Italia. Egli tenne un
sinodo a Sutri, una cittadina a settentrione di Roma. Benedetto IX, che già
aveva abdicato, e Silvestro II che non era mai stato legittimo papa, furono
definitivamente deposti. Gregorio VI (6°) acconsentì a lasciare volontariamente
il soglio pontificio e, per non far scoppiare un nuovo scisma, l’imperatore lo
prese con sé in Germania. Lo accompagnava un giovane chierico romano,
Ildebrando,che avrebbe dovuto svolgere in seguito un ruolo storico di grande
importanza. Gregorio VI morì a Colonia nel 1047.
L’imperatore sembrava l’unica
personalità in grado di ristabilire l’ordine, tanto che tutti furono d’accordo
che fosse lui stesso a nominare i papi seguenti. I suoi due primi papi, Clemente
II (2°), precedentemente vescovo di Bamberga, e Damaso II,
vescovo di Bressanone, uomini eccellenti entrambi, morirono dopo pochissimo
tempo dopo la loro elezione. Allora Enrico III nominò un alsaziano, il vescovo di
Toul. Il nuovo papa, però, Leone IX (9°), desiderò un’elezione
regolare da compiersi a Roma. Nel viaggio che doveva condurlo a questa
città, prese con sé il giovane Ildebrando, il quale, dopo la morte di
Gregorio VI, s’era fatto monaco, probabilmente a Cluny. Ildebrando servì lui e
i suoi successori, finché non venne eletto papa egli stesso [con il
nome di Gregorio 7°].
[…]
Alessandro II [papa
eletto nel 1061, per l’influsso di Ildebrando e senza l’ingerenza
dell’imperatore] morì il 21 aprile 1073. Ai funerali, che ebbero luogo il
giorno e furono presieduti da Ildebrando nella sua qualità di arcidiacono, il
popolo acclamò Ildebrando stesso come suo successore. I cardinali si ritirarono
immediatamente a San Pietro in Vincoli per eleggerlo secondo le regole
precedentemente stabilite. Ildebrando, prudente, procrastinò il giorno
dell’incoronazione per attendere l’approvazione del re tedesco Enrico IV. A
ricordo del nobile spirito di Gregorio VI, che egli aveva accompagnato
nell’esilio, volle chiamarsi Gregorio VII (7°).
Gregorio VII
appartiene a quegli uomini della storia di cui basta pronunciare il nome perché
suscitino le reazioni più diverse. Non è cosa facile, perciò, dare un giudizio
appropriato sulla sua personalità. Il Gregorovius (storico tedesco studioso del
medioevo, morto nel 1891) solitamente pieno di odio per tutto quanto è
cattolico e papale, trova che, al paragone di Gregorio VII, Napoleone appare un
barbaro. E fa di lui una specie di mago, che, con armi invisibili, incute
spavento al mondo intero. La Chiesa lo annovera tra i suoi santi celebrandone
la festa ogni anno il 25 maggio. Vi sono però anche dei cattolici per i quali
Gregorio VII è il tipo del papa politico anziché religioso. Certo è che
Gregorio VII fece un’impressione enorme anche sui suoi contemporanei. San Pier
Damiani lo chiamava scherzosamente «un santo demonio», volendo con ciò
significare l’instancabilità e la passione che distinguevano Gregorio da ogni
altro. Come già l’apostolo san Paolo, Gregorio VII era piccolo di statura, mobilissimo,
infaticabile, pieno di coraggio personale, d’un’incredibile vitalità. Lo zelo
lo consumava, ma era unicamente lo zelo per la casa di Dio. Ogni cosa era per
lui una realtà da conquistare. In ciò egli assomiglia a sant’Ignazio di Lojola.
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Quando da ragazzo lessi le pagine
che ho sopra trascritto, da un libro di studio di mia madre, rimasi
meravigliato dello sforzo fatto dal gesuita Ludwig Hertling di argomentare,
contro certe evidenze, una qualche continuità tra la Chiesa in cui mi ero
formato da bambino negli anni Sessanta e poi da ragazzo nel decennio seguente e
quella a cavallo dell’anno Mille. Rimasi anche affascinato dai suoi racconti
sul papa Gregorio VII. Per certi versi il secondo millennio della nostra fede
e, in particolare, la struttura delle nostre istituzioni religiose dipende dal
suo attivismo, è un progetto suo.
Nel 2013 è stato eletto papa
un vescovo, un religioso dello stesso ordine di Hertling, che ha assunto
un nome da sovrano senza un numero dietro. Non c’era mai stato prima un papa di
nome Francesco. E’ andato a vivere in un albergo nella cittadella
vaticana di cui è sovrano politico assoluto. Ma non ha rifiutato le insegne
della sovranità religiosa. E ha aperto sicuramente un nuovo corso politico, con
il suoi documenti La gioia del Vangelo, del 2013,
e Laudato si’, del 2015. Un po’ come avvenne intorno
all’anno Mille. All’epoca il moto di cambiamento fu sostenuto dai monaci della
federazione di Cluny, oggi dal movimento conciliare.
Quanto è importante la politica
nella fede?
Una tesi che si potrebbe tentare
di argomentare (ci vorrebbe una vita e tanto, tanto studio per farlo) è
che è tutto, da un punto di vista storico e sociologico,
naturalmente. Non mi riferisco alla teologia e all’ordine soprannaturale.
Adottando il lessico di
Hertling, mi appare, così, a uno sguardo un po’ superficiale come è quello di
un ignorante colto come io sono, uno che non è uno specialista di certi temi e
che pure per rendere ragione della propria fede deve tentare di ragionare su di
essi, come se dal Quarto secolo della nostra era la penetrazione dello
spazio umano ad opera del cristianesimo sia avvenuta per la
massima parte per via politica. Una politica che nel primo millennio fu dominata
dai sovrani civili, gli imperatori romani e poi da quelli che
si considerarono loro successori, e che nel secondo millennio, da Gregorio
VII in poi, è stata ancora dominata da essi ma anche dai sovrani religiosi
romani, che strutturarono le istituzioni da loro dipendenti come un impero
religioso a imitazione di quello civile, esercitando una sorta di condominio su
un popolo di sudditi. Questa era dei papi-imperatori sta volgendo al
termine in questi anni ed è questa l’epoca in cui noi fedeli siamo finiti in
mezzo, ma poteva andarci peggio, potevamo nascere nella Roma dominata dai
signori di Tuscolo, che espressero sovrani religiosi definiti da alcuni
storici, spregiativamente, pornocrati.
Se, da un punto
di vista storico, la politica è stata la principale via per l’affermazione
della fede, è evidente che chi propone l’apoliticità della
fede non fa gli interessi della religione. In realtà le divisioni, a volte
durissime non nascondiamocelo, che ci sono oggi tra i fedeli non vertono, a ben
vedere, su temi teologici, ma su temi politici. Come deve cambiare la società
del nostro tempo? Che ruolo, ad esempio, deve avervi la donna? Come deve fare
il pastore chi a questo ruolo è designato in quanto membro del
clero? E poi: come combattere la povertà? Come evitare che l’industria rovini
l’ambiente in cui viviamo? Chi e in base a che criteri deve fare le parti della
ricchezza che si produce? Una fede religiosa che non affronti questi temi
diventa inutile. E la nostra fede non lo è
mai stata storicamente e non lo è. Infatti di questi temi si discute oggi, in
religione.
La politica contemporanea si fa
con metodo e secondo principi democratici, che significa partecipazione
di tutti al governo, elevazione di tutti alla
sovranità. Questo implica un tirocinio, una formazione che non può
limitarsi allo studio dell’imponente letteratura dei papi. La politica
democratica richiede una partecipazione anche alla elaborazione dei principi e,
vista la stretta connessione tra fede e politica, per cui la nostra mi appare
essere stata sempre (questo mi sembra il suo vero tratto distintivo rispetto ai
tanti culti misterici che le furono coevi nel primi tre secoli
della nostra era) una fede politica, ciò finirà (come del resto è
già accaduto con lo sviluppo del movimento di idee che sfociò negli scorsi anni
Sessanta nell’ultimo Concilio ecumenico) per riflettersi anche sul modo
di pensare la fede. E’ stato osservato, ad esempio, che
alcuni dei più importanti movimenti scaturiti nel
post-Concilio hanno sviluppato una propria caratteristica
teologia, anche se leggo che alcuni teologi di professione ne evidenziano in
genere alcuni tratti rudimentali e insufficienti. E sicuramente dietro la
proposta politica del nostro vescovo e padre universale
Bergoglio si scorge una teologia piuttosto ben definita che, mi pare per la
prima volta nella storia della nostra fede, viene ora proposta per la
discussione di tutti, non imposta d’autorità o proposta al vaglio
solo degli specialisti.
Possiamo considerare, sotto
l’aspetto politico, i papi Wojtyla, regnante come Giovanni Paolo
2°, e Ratzinger, regnante col nome di Benedetto 16°, gli ultimi sovrani
dell’era apertasi con Gregorio 7°, tanto diversi da quelli del primo millennio.
E Bergoglio-Francesco (senza il numero vicino), il papa che ci è venuto dal
Nuovo Mondo, l'America che non è mai stata dominata dai sovrani medievali alla
cui memoria il Wojtyla era ancora tanto legato, il capostipite di una
nuova schiera di capi religiosi. Probabilmente è un processo che coinvolgerà
anche noi fedeli, e direi che ciò sta già avvenendo. Un ritorno al passato è
impossibile. L’umanità è troppo cambiata. Il nostro mondo è la Terra
intera e non il piccolo universo umano in cui pensavano di essere signori del
mondo i papi intorno all'anno Mille.
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63
La
vita di fede come esperienza civile
La fede può essere alla base di
un’esperienza civile? In Italia a lungo si è pensato che fosse possibile.
Questo ha caratterizzato molto la nostra religiosità. Una storia analoga si è
vissuta in Germania. In altre regioni europee la fede è stata integrata
nel nazionalismo: ma questa è un’altra cosa. Mi riferisco, ad esempio, alla
Spagna e alla Polonia. In Italia al centro di tutto ci sono stati dei
valori e il coinvolgimento delle masse mediante processi democratici. Tutto ciò
è durato fino agli anni ’80, poi si è presa un’altra strada. A questo punto,
però, la fede e la vita religiosa possono apparire inutili.
Di tutto ciò si sono avuti
riflessi anche in parrocchia. Ne ho scritto molto in passato. Ho ricordato i
fermenti degli anni ’70. La situazione di oggi, a paragone con quell’epoca,
appare piuttosto impoverita. C’è meno gente, si fanno meno cose. In passato, e
molto a lungo, si è pensato che oltre a catechismo e famiglia ci fosse
poco di buono. In sostanza si sono rifiutati quasi due secoli di storia, in cui
la nostra Azione Cattolica è stata protagonista.
Negli ultimi vent’anni c’è stato
anche un problema di formazione del clero. Sono venuti a collaborare molti
sacerdoti stranieri, che non erano stati parte di quella storia di esperienza
civile di cui dicevo e neanche la conoscevano; non conoscendola non
l’apprezzavano neanche. E i sacerdoti italiani, a parte molte eccezioni
naturalmente, mi pare abbiano avuto una formazione molto ritualistica, molto
centrata sul sacro, sull’incenso e sugli accessori liturgici ad esempio. Quando
ho avuto occasione di avvicinare questi ambienti di seminaristi, mi ha fatto
impressione la grande quantità di incenso utilizzata, per cui me li ricordo
sempre circonfusi di questa nebbia azzurrina e profumata. E con noi visitatori
laici i futuri preti sembravano non avere molta dimestichezza: certo, eravamo
meno disciplinati di loro, introducevamo un elemento di disturbo in qualche
modo, ma, in fondo, non eravamo ilgregge, quelli a cui loro erano
destinati? E’ un po’ quello che accade nelle Messe per le Prime comunioni, a
cui partecipa molta gente che si vede bene non essere abituata a stare in
chiesa. Ma non è proprio questo il nostro popolo? Quando lo si idealizza nei
bei documenti del nostro supremo magistero, popolo qui,
popolo lì … tutto va bene, ma quando il popolo esce dalla
carta e diventa carne e sangue non fa più quella buona impressione. E’ perché
manca un’esperienza civile, di contatto e consuetudine in cui ognuno sia
ammesso veramente con la propria vita, in spirito repubblicano di
eguaglianza, rispetto, amicizia: così si entra in chiesa da estranei. Ma la
liturgia serve appunto anche asuscitare un popolo diverso,
per precorrere un’esperienza civile di quel tipo, per cambiare le cose intorno
a noi, per scoprirci più che fratelli, legati più che altro da una certa
storia biologica per cui abbiamo un po’ le stesse facce, ma anche e
soprattutto amici; non serve solo adeodorare gli ambienti
con questi nugoli di incenso.
Si è puntato molto al perfezionamento interiore,
cercandolo di sorreggerlo con strutture di gruppo forti, che mi
pare abbiano vissuto un po’ una vicenda analoga a quelle di alcuni ordini
religiosi, le quali da luoghi di libertà personale dove vivere a pieno
l’amicizia della fede si sono trasformati in cupe prigioni, in particolare per
le donne. Ma la vita di fede non sta solo in questo.
Agli albori del cattolicesimo
democratico, nel 1797, scriveva il bolognese Nicolò Fava Ghisilieri, in Riflessioni
politico-morali raccolte da un solitario ad uso della gioventù libera
d’Italia [citato in Vittorio E. Giuntella, La religione amica
della democrazia - i cattolici democratici del Triennio Rivoluzionario
(1976-1799)]:
“Quand’è che l’uomo
può dirsi un buon cittadino? Allorché, rispettando le leggi, e i diritti de’
suoi fratelli, rende dolce e amabile la società a suoi simili, e rendendola
dolce a se stesso non può non amarla. Come si ottiene ciò, se non co’ principi
della morale? Ma dove vi fu mai morale più precisa, più certa, più dettagliata,
più stabile della morale dell’Evangelo, non abbandonata però alle
interpretazioni in spirito privato de’ protestanti? Ciò si è già dimostrato. Il
più dolce, e il più soave processo, che c’imponga una simile religione, qual
altro è mai, se non quello della Carità? E non è forse nel sistema
repubblicano, che più si cerca di fraternizzare? Or qual religione vi è più
opportuna di questa a un tal uopo, se c’istruisce, e ci obbliga a riguardarci
tutti come fratelli. Le dissensioni civili, che son tanto nemiche della
Libertà, non trovano forse ostacolo, ne’ suoi precetti, che ci rendono rei
dinanzi al Giudice supremo persino dei temerari giudizi e delle maldicenze, che
lacerano l’altrui fama, non che degli odi covati a lungo nel seno?”
Ad uno spirito
religioso può non bastare di distinguersi dalla società, di starsene da parte
in un mondo tutto suo che, man mano che ci si separa, finisce per diventare
tutto fantasia, sogno, o peggio gioco di ruolo. E’ per questo che siamo stati
mandati nel mondo? Da giovane non avrei sopportato questa prospettiva, che per
altro non mi fu mai proposta, ma neanche da anziano mi ci adatto. Però ci sono
pochi posti in cui vivere un’esperienza civile animata dalla fede. Uno deve
fare da sé. Certe cose non te le spiegano in parrocchia e nemmeno altrove.
Viene tra noi uno come don Ciotti e sembra un marziano, una persona da un altro
mondo. Eppure intorno a lui ci sono tante persone di fede che condividono la
sua esperienza civile.
Da dove ripartire?
Direi dai più giovani perché in
genere hanno più tempo per la formazione: è il loro lavoro. Il tempo degli
adulti è affollato di tanti altri doveri e ne rimane poco per qualcos’altro.
Oggi i più giovani ci sfuggono forse perché il modo in cui presentiamo la
religione la fa apparire inutile per loro, se non peggio. Il nucleo di spinta
di ogni organizzazione, quello che ne consente la costante rigenerazione, è
costituito dai ventenni/trentenni. Ma non basta che ci siano: occorre che
sappiano lavorare in società, che non la temano, che non ne diffidino, che
arrivino anche ad amarla. Spesso in religione prospettiamo loro le fosche
visioni del futuro che hanno i più anziani, e che anche i nostri ultimi sovrani
religiosi ebbero nella loro vecchiaia. L’immagine di una società in
disfacimento, corrotta, preda del peccato e di pulsioni di morte. Ma non c’è
solo questo intorno a noi.
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64
Condominio o
repubblica
C’è una bella differenza tra un
condominio e una repubblica, anche se in entrambi si prendono decisioni
seguendo il metodo democratico.
In un condominio ci si finisce
perché si compra un appartamento e si diventa proprietari anche di parti
comuni, come l’ascensore. Si è scelta una cosa, ci si serve anche di altre
cose, però per queste si è obbligati a
farlo insieme agli altri. Se non ci fossero gli altri sarebbe meglio
o peggio? In fondo si pensa che sarebbe meglio. Non li si è scelti, con loro
bisogna solo condividere l’uso di certe cose. Ma chi li conosce veramente e,
soprattutto, chi li vuole conoscere? Fanno sempre un sacco di difficoltà nelle
decisioni comuni. Spesso hanno abitudini fastidiose e non le vogliono
cambiare. E probabilmente di noi pensano lo stesso.
Una repubblica nasce quando ci si
sceglie tra persone. L’obiettivo comune è creare una società migliore, in cui
si viva meglio, ad esempio in cui nessuno sia abbandonato alla propria
sofferenza. Gli altri sono molto importanti, le cose molto meno. Ci si cerca
perché si vive bene insieme. Al centro di una repubblica ci sono dei valori:
questo significa una certa concezione di società. E poi la fedeltà a quei
valori. Si è disposti a dare molto, anche la vita, per realizzarli. Uno
di essi, molto importante, è l’eguaglianza in dignità, che significa
rifiutare ogni tirannia. Si è sovrani in molti e questo richiede di essere
sovrani giusti, come raramente sono i signori della Terra. Per
diventarlo, giusti, perché raramente lo si è dall’inizio, la
giustizia infatti è una conquista culturale, occorre tener conto degli altri e
innanzi tutto mettersi in relazione, discutere, esaminare insieme le questioni,
i problemi, le soluzioni. Il metodo democratico non comincia quando si decide
che vinca la maggioranza, ma quando si attribuiscono ad
ognuno dei diritti fondamentali che nessuna maggioranza
può ledere. E’ questo che faceva degli antichi sovrani quelli che erano, ciò
per cui li si definiva sacri. Nella democrazia repubblicana ogni
persona è sacra, nel senso che ha diritti intangibili.
Questa è una concezione religiosa perché non dipende da ciò che si trova in un
qualche momento in società, dai rapporti di forze al suo interno, non è
qualcosa che oggi c’è e domani potrebbe cambiare. E non dipende nemmeno da come
vanno le cose in genere: religione è ribellarsi alla tirannia dell’esistente,
che certuni pensano eterno e che invece in una fede viene relativizzato, per
cui si scopre che non lo è affatto, che ha un prima in
cui non c’era e che avrà un dopo in cui non ci sarà più.
Ma c’è qualcosa che non passa? C’è. Dopo ogni incidente della storia ci si
ritrova insieme e si scopre che è ancora bello farlo. Come lo chiamiamo questo?
In religione lo si è definito, con un termine del greco antico, agàpe,
che richiama l’idea di un lieto convito in cui ce ne sia per tutti e nessuno
venga escluso. In italiano lo si traduce in tanti modi, con tante parole, che
però sembrano in genere usurate e quindi poco adatte a rendere l’idea. Repubblica potrebbe
anche andare bene, se però le affianchiamo l’aggettivo universale. Nessuno
escluso.
Alcuni dicono che bisogna
cominciare a cambiare sé stessi, per cambiare il mondo. E seguono vie di
perfezionamento. Ma vedo che spesso in questa loro sforzo di perfezione rimangono
poi soli con sé stessi. Gli esseri umani non sono fatti per
essere così. Questi cammini allora dove portano? Ci si perfeziona,
se uno proprio deve dare importanza a un fatto come questo, nell’agàpe,
crescendo con gli altri. E’ soprattutto il lavoro dei giovani, che da realtà
limitate e limitanti, come in genere sono le famiglie, devono aprirsi all’universale,
a tutto quello che c’è intorno.
Anche in una parrocchia, come in
ogni specie di società, si fa la scelta di essere condominio o repubblica. Dipende
da che cosa pensiamo degli altri. Che cosa è il sacro per
noi: la statua del santo antico o l’essere umano che vive? La statua la
si condivide al modo dell’ascensore in un condominio,
con l’essere umano si entra in relazione.
La nostra Cena rituale, con le
povere cose che condividiamo, alle quali però diamo un valore infinito
perché ci mettono in relazione benevolente e universale, non è
forse la celebrazione dell’agàpe religiosa? Farne una realtà condominiale sembra
impossibile, eppure è una via che qualche volta si è seguita, fondamentalmente
per il fastidio che certi altri portano nell’allestimento scenografico. Evocare
una realtà universale, in cui nessuno sia escluso, in cui ognuno
sia sacro… Ma non è meglio essere in meno a condividere, in
modo che ce ne sia di più per quelli che ci sono? Questa è
fondamentalmente la ragione politica della crisi della nostra nuova Europa
comunitaria. Ecco allora che si fa molto conto delle cose e
non si ragiona nell’ottica della moltiplicazione, quella per cui nell’agàpe l’inventario contabile di
ciò che c’è non rende l’idea delle possibilità che ci sono nella benevolenza
universale, di come, quando si fa posto agli altri, poi c’è n’è per tutti e ne
avanzano ceste e ceste, come è scritto. Gente di poca fede, e di poca umanità,
stiamo diventando in Europa. Da dove possono venire le risorse per cambiare? La
nostra fede ne ha molte. Molti dei valori repubblicani europei originano
da essa. L'ideologia fondamentale della nostra nuova Europa è piena dei valori
della nostra fede, quindi la nostra fede può essere una risorsa per
rigenerarla. Se però si riesce a viverla con spirito repubblicano.
Può sembrare paradossale con i tanti prìncipi del clero che ci
portiamo dietro e a cui dobbiamo fare spazio. Ma la loro autorità è cambiata:
ci hanno fatto spazio. Ed è questo spazio che noi laici dobbiamo riempire in
spirito repubblicano e non condominiale.
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65
Fedi omicide
Ci sono nel
mondo di oggi persone che manifestano le loro convinzioni religiose uccidendo e
uccidendosi. Il principale loro bersaglio sono quelli della loro stessa fede: è
tra essi che fanno il maggior numero di morti. L’Europa c’entra perché è la sua
cultura che è criticata: infatti vengono colpiti quelli che vivono all’europea.
Parlando di questioni culturali,
bisogna dire che condividiamo con altre fedi monocratiche un importante
patrimonio culturale e che in quest’ultimo c’è anche l’antico comando di
sterminio degli infedeli e degli apostati,
quelli che hanno rinnegato la propria fede di prima. Leggiamo pagine tremende
in merito negli scritti sacri originati dall’antico ebraismo. Ma anche parti di
quelli formatisi nelle nostre prime collettività di fede sono stati
interpretati in quel senso nel corso della storia.
Di fatto le nazioni che
abbracciarono la nostra religione si resero responsabili di orrende stragi per
ragioni religiose, che nelle Americhe divennero addirittura genocidio. In
Europa ebbero motivazioni religiose i pogrom, le periodiche
persecuzioni antiebraiche, attuati in Polonia e Russia.
Strumentalizzarono la nostra fede
i razzismi nordamericani e sudafricani. L’organizzazione razzista
nordamericana Ku-Klux-Klan celebrava i suoi delitti con croci
infuocate.
La particolarità della religiosità
omicidiaria contemporanea è l’autoannientamento degli stessi omicidi, in un
quadro di martirio religioso, di testimonianza di fede nella
prospettiva di una ricompensa soprannaturale, in un aldilà. E’ qualcosa di
diverso dal cercare la morte in battaglia. Infatti, di solito, sono colpiti
degli inermi e la morte dell’omicida non è solo una eventualità, ma una
sicurezza, come nel caso di quelli che si fanno esplodere in ambienti
affollati. L’autoannientamento ha ragioni politiche e serve a potenziare
l’effetto terroristico di queste azioni stragiste, ma anche a ostacolare le
indagini, eliminando la possibilità di dichiarazioni dei colpevoli.
La fede, e in particolare una
fede basata sulla cultura biblica, può essere stragista? Poiché di fatto lo è
stata, attraverso i secoli, dobbiamo riconoscere che lo può essere. Perché, in
genere, non lo è più? Perché c’è stata una conquista culturale derivata dai
processi democratici originati in Europa e nel Nord America, per cui si è
riusciti a far convivere pacificamente religioni esclusiviste, le
quali quindi in linea di principio escludono la possibilità di altre fedi.
Questi sviluppi hanno coinvolto entrambe le due maggiori fedi monocratiche del
mondo, ma anche, e da tempi molto più antichi, l’ebraismo. Quest’ultimo, dopo
la distruzione della propria entità politica nel Vicino Oriente e la diffusione
in Europa e in altre parti del mondo, si è trovato a dover convivere con popoli
di altri fedi, e ha sviluppato una corrispondente religiosità.
Quello che emerge dalle stragi di
questi anni, commesse con moventi religiosi, è che con la teologia si può
convincere la gente di tutto, veramente di tutto. E che quindi la teologia ha
molte e serie controindicazioni. Naturalmente serve gente che, per qualche sua
ragione, non è più disposta ad esercitare qullo spirito critico che è la base
della convivenza civile.
In Europa non si uccide più per
moventi religiosi tratti dalla nostra fede, ma ancora si discrimina. Ci si
convince, ad esempio, che la donna è inferiore all’uomo e che ha un destino
servile. O che certe famiglie non sono vere famiglie e non vanno riconosciute
come tali. Bergoglio qualche giorno fa ha detto che dobbiamo chiedere perdono
agli omosessuali, e qualche ragione evidentemente c’è. Si tratta di
discriminazioni su basi teologiche che la teologia non riesce ancora a
superare. L’ultima grande persecuzione motivata da ragioni religiose della
nostra fede è stata quella contro i modernisti, attuata all’inizio del secolo
scorso dal papa Giuseppe Melchiorre Sarto. Fu molto dolorosa. Colpì animi buoni
e di grande valore. Qui la teologia è molto cambiata.
Nel mondo contemporaneo, in cui
vive un numero di gente enormemente superiore che nel passato e in cui ci siamo
intensamente legati gli uni con gli altri nei processi economici, è indispensabile
che le religioni convivano pacificamente. Esse sono necessarie per conservare
l’umanità del nostro vivere, ma a condizione che nessuna pretenda
l’esclusività. Altrimenti diventano disumane e fanno vivere male. Uccidono. La
soluzione è di promuovere di generazione in generazione quel processo culturale
per cui in concreto esse possono convivere. Significa accentuare i processi
democratici, secondo i quali la persona umana ha diritti fondamentali
intangibili, che ruotano intorno al diritto alla vita. E’ l’antico
comandamento Non uccidere! che in democrazia viene preso molto sul
serio, tanto che, ad esempio, nella nostra nuova Europa non c’è più la pena di
morte. E poi costruire e sostenere, nella gente, con un’adeguata
formazione e anche in sede religiosa, la capacità critica, per cui, ad esempio,
si riesca a distinguere in eventi come quelli del Bangladesh i loro veri
moventi, al di là della paccottiglia ideologica religiosa che li riveste. E’
quello che facciamo nella nostra fede accostando il tema storico delle
Crociate.
Gli assassini vogliono farci
odiare gli uni gli altri, è stato osservato da più parti in questi giorni: la
giusta reazione quindi non è quella di odiare, perché sarebbe fare quello che
quelli vogliono da noi, ma di attuare e intensificare forme di convivenza
pacifica tra genti di fedi diverse. Nel mondo di oggi è possibile e in genere
accade: gli odiatori religiosi sono sparute minoranza, ormai, per nostra buona
sorte.
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66
Le
religioni e il tribunale della coscienza e della ragione
(16
luglio 2016)
Solo da quale decennio la nostra
religione ha aderito alla cultura della pace universale, e ora ci sembra
assurdo che potesse essere altrimenti. Ma non lo è.
Storicamente la nostra religione è
stata mortifera quanto, e, al tempo della sua diffusione mondiale, addirittura
molto più delle altre religioni coeve. Condivide un importante patrimonio
culturale con le altre principali religioni monoteistiche e in esso vi è il
germe della violenza stragista. L’ebraismo della nostra era lo ha superato, al
tempo della sua dispersione tra le genti, e ha costituito un buon esempio di
come farlo. Noi ci abbiamo messo molto più tempo, essenzialmente perché
la nostra fede è diventata e rimasta a lungo strumento di potere, e
potere e violenza sono strettamente legati.
I grandi principi umanitari che
costituiscono il nerbo dell’etica sociale e politica dell’Occidente
contemporaneo furono proclamati, a fine Settecento, nel corso di due
rivoluzioni, quella nord americana e quella francese, che espressero una
notevole violenza, in particolare la seconda. Eppure quei principi condussero
alla cultura dei diritti fondamentali della persona e al rifiuto della violenza
pubblica, compresa la pena di morte, della nostra nuova Europa. Occorse però il
bagno di sangue della Seconda guerra mondiale per produrre questo risultato.
Con la laicizzazione delle istituzioni pubbliche le religioni cessarono, in
Occidente, di costituire fattore di ordine pubblico e furono liberate dalla
loro violenza. Nella nostra religione, i teologi ci spiegarono come fare per
vivere la fede in modo molto diverso dal passato e, innanzi tutto, che si
poteva, e anzi si doveva farlo. E’ il processo che venne denominato purificazione
della memoria. E’ pur vero, però, che, anche ai nostri tempi,
dobbiamo riconoscere, come scriveva Aldo Capitini, che solo ieri
eravamo violenti.
Sarebbe bello constatare che il
rifiuto della violenza si sia prodotto storicamente per virtù propria
della nostra religione, ma purtroppo non avvenne così. Gli strumenti della
violenza ci dovettero essere strappati dalle mani, dagli stati liberali, e non
di rado ne esprimiamo anche una certa nostalgia.
Ci stupisce la violenza collettiva
a sfondo religioso espressa nel Vicino Oriente e la pretesa di altre religioni
monoteistiche di monopolizzare le religioni dei popoli, di ridurre tutte le
altre fedi a culti tollerati (nel migliore dei casi) o di
annientarle (nei casi limite): ma questa è stata anche la nostra cultura fino
all’altro ieri e ciò fin dalle origini. Ci vantiamo di essere stati, nei tempi
antichi, distruttori di idoli, ma in realtà questo significa essere stati
persecutori religiosi. La distruzione stragista del soprannaturale altrui fu
eclatante nella colonizzazione europea della Americhe.
La violenza per sottomettere le
donna e quella contro gli omosessuali fanno parte della nostra cultura
religiosa, delle nostre radici bibliche, e infatti ciclicamente si manifestano
ancora tra noi.
Chi oggi prenderebbe alla lettera
il comando biblico di sterminare gli infedeli? Eppure a lungo lo si è fatto, ad
esempio nella distruzione delle culture native americane e nelle guerre di
religione europee.
Sulla via del contrasto della
violenza bellica ebbe i suoi guai il nostro Lorenzo Milani, nella sua polemica
contro i cappellani militari italiani che avevano trattato da vili gli
obiettori di coscienza. Si era, appunto, nell’altro ieri della
nostra storia religiosa.
Per gran parte dei due millenni
della nostra storia religiosa si è stati convinti che in guerra un qualche dio
fosse con noi, nel mentre facevamo a pezzi gli altri. Lo stesso che avrebbe
dato una ricompensa eterna, in un qualche suo paradiso, ai morti sul campo di
battaglia. Questo fu appunto lo spirito penitenziale con cui
si affrontarono storicamente le “crociate”.
Si insegna, in religione, che la
nostra è un fede che ci porta oltre la morte: sicuramente la nostra religione è
stata utilizzata per contenere la paura della morte, specialmente in battaglia.
L’etica del milite europeo è stata, molto a lungo, anche religiosa.
Oggi ci definiscono “crociati”, ma
è solo perché non ci conoscono bene. La nostra buona battaglia religiosa
non è più quella della guerra. Abbiamo imparato la lezione di uno come Immanuel
Kant che consigliava la pace perpetua e invitava a vergognarsi
della vittorie belliche. E allora c’è una vecchia religione
che abbiamo abbandonato e una nuova religione alla quale
e nella quale ci siamo aperti. Nella violenza con pretesti religiosi di questi
giorni vediamo allora noi stessi come eravamo solo l’altro
ieri.
Ad un certo punto abbiamo portato
la nostra religione davanti al tribunale della coscienza e della ragione e ci
siamo ritrovati noi stessi sul banco degli imputati: la religione era solo lo
specchio di noi stessi, di come volevamo essere.
In un’umanità di otto miliardi di
persone, strettamente interconnessa, per cui quasi tutti gli oggetti di nostro
uso quotidiano vengono prodotti dall’altra parte del globo, è ancora
ammissibile poter sostenere lo sterminio degli infedeli, e tante altre
cose della vecchia religione? Ad esempio tutto il
sessismo che troviamo nelle nostre scritture, per cui un certo pluralismo in
questo campo provocherebbe l’ira soprannaturale, lo sterminio, la pioggia di
fuoco e simili. Non è, questa concezione, una bruttura solo degli altri,
è anche nostra. E’ solo l’altro ieri che una donna non poteva
entrare in chiesa senza coprirsi il capo.
Questo portare la religione, e noi
stessi, davanti al tribunale della coscienza e della ragione è il secolarismo.
Benedetto secolarismo se ci ha portato la pace, se ha tolto la violenza alle
religioni, quella che di questi tempi ci si scaglia addosso provenendo da un
medioevo che si manifesta in mezzo a noi e dall’altra parte del nostro piccolo
mare! Ricordiamo che anche noi fummo così, solo l’altro ieri.
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67
La Nazione
Nella Costituzione vigente si fa riferimento al concetto di nazione in
tre punti, e in due di essi si parla di "Nazione", con l'iniziale
maiuscola. È scritto che i "parlamentari" (deputati e senatori)
rappresentano la "Nazione" (art.67). I pubblici impiegati sono al
servizio della "Nazione" (art.98). Il Presidente della Repubblica
rappresenta l' "unità nazionale" (art.87).
Che cosa è la "Nazione"?
La Costituzione non lo precisa. Non c'entrano lingua, stirpe e religione,
perché esse non possono essere fattori di particolare connotazione della
Repubblica: lo stabilisce L'art.3 della Costituzione. Di ciò che in genere, in
campo culturale, si ritiene definire la nazione, rimane una storia comune, che
significa anche una consuetudine di vita comune, di convivenza pacifica, in
particolare sotto il profilo politico, e solidarietà civile.
La storia della nostra costruzione
nazionale è stata particolarmente travagliata. Si dovettero combattere anche
resistenze politico/religiose, perché essa si fece anche contro il papato,
nell'Ottocento. Fatta l'Italia, si dovettero fare gli italiani, come fu
osservato. Da un certo punto di vista, l'Italia unita, politicamente
organizzata intorno alla monarchia Savoia, era fatta di tante nazioni, ciascuna
con una propria storia particolare, una propria lingua e una propria cultura.
L'Italiano era solo lingua letteraria. I Re Savoia parlavano correntemente
francese e piemontese. La gran parte della gente era analfabeta e quindi
confinata nelle culture particolari. Nella storia d'Italia, quindi, quando ci
riferisce alla Nazione, si intende una realtà che si è venuta costruendo
nell'arco di circa un secolo tra Ottocento e Novecento, in particolare sulla
base dell'ideologia politica di Giuseppe Mazzini. Nazione significa gente che
volle vivere insieme, per non essere "calpesti e derisi", e lo
eravamo perché non eravamo popolo, perché eravamo divisi, proprio come si canta
nell'inno nazionale. L'unità culturale italiana fu conseguita però, veramente,
solo nel secondo dopoguerra, in particolare per le vie dell'istruzione pubblica
di massa e di radio e televisione. È a partire da questa epoca che veramente la
Nazione si manifestò. Ed è significativo l'abbandono dei progetti
secessionistici che ebbero corso negli anni Novanta. Cercarono di parlare ai
popoli ma tra i popoli italiani ebbero un limitato seguito.
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68
Degrado della politica ed eclisse del Parlamento
(3-11 agosto 2016)
68.1. Nel corso dei
passati anni '90 si cominciò a presentare il Parlamento come un'istituzione
troppo affollata, inutilmente complicata, troppo lenta nel decidere, troppo
costosa, e i parlamentari come un ceto parassitario. La ragione può essere
individuata nel degrado della politica che si era manifestato nel corso del
decennio precedente. Esso era dipeso fondamentalmente dalla degenerazione della
politica controllata dai partiti, che si presentarono platealmente, nel corso
di inchieste giudiziarie svolte con una certa sistematicità dal 1992, come
minati dalla corruzione. Essi infatti avevano preso a finanziarsi pretendendo
una quota del denaro pubblico erogato per appalti pubblici da chi aveva assunto
gli appalti. E influivano sulla scelta degli appaltatori, facendo preferire
illegalmente quelli che avevano accettato di versare quel tributo. I partiti
avevano preso consapevolezza di questi fatti molto prima che emergessero in
sede giudiziaria: all'inizio degli anni Ottanta si iniziò a parlare di "
questione morale" e si faceva riferimento proprio al fatto che i partiti
avevano iniziato a controllare a proprio beneficio, non nell'interesse
pubblico, ogni settore della vita nazionale in cui venivano spese risorse
pubbliche.
Ma la corruzione pubblica non fu
l'unica ragione del degrado. Un'altra può essere individuata nella dissoluzione
del sistema sovietico, a cavallo tra gli anni '80 e gli anni '90, e nella
contemporanea metamorfosi del Partito Comunista Italiano, che attenuò le
istanze critiche verso la società di quel tempo. La presenza in Italia del più
forte partito comunista dell'Occidente democratico era stata storicamente un
potente stimolo, nel secondo dopoguerra, alla costituzione e mantenimento di
partiti politici forti e strutturati che gli si opponevano, cercando in
particolare di contendergli l'influsso sui lavoratori. La presenza
dell'opposizione comunista, con la sua ideologia fortemente centrata sui temi
della giustizia sociale e sulla riforma dello stato nel senso della piena
attuazione dei valori e principi costituzionali, con la sua critica politica
irriducibile, colta, perseverante, avevano indotto i partiti che ai comunisti
si opponevano a tener conto di coloro che nella società stavano peggio e a una
più attenta selezione del ceto politico ammesso a occuparsi in Parlamento degli
affari di stato. Il partito originato dalla riforma di quello comunista non
ebbe lo stesso effetto, perché si comincio a pensare che il capitalismo di tipo
statunitense e la società da esso prodotta non avessero alternative. Si scrisse
addirittura di una " fine della storia". In Italia l'idea di
sviluppo sostituì quella di giustizia sociale, che era stata alla base delle
ideologie dei partiti popolari. Lo sviluppo divenne faccenda da tecnocrati e le
basi sociali dei vecchi partiti di massa un ostacolo. I neo-partiti del nuovo
corso tesero a ricostruirle come comitati elettorali e non ne curarono più la
formazione politica. I movimenti laicali cattolici furono tra le poche
formazioni sociali a continuare a occuparsene sulla base dell'esteso corpo
ideologico della dottrina sociale e del pensiero sviluppato nelle università
religiose.
Che c'entrano i partiti con il
Parlamento? La loro occupazione del Parlamento non è all'origine del
progressivo minor credito dell'istituzione tra la gente?
In realtà, nel sistema
istituzionale disegnato nella Costituzione repubblicana entrata in vigore nel
1948, approvata dall'Assemblea Costituente nel 1947 al termine dei suoi lavori
svolti dalla metà del 1946, il nesso tra partiti politici e Parlamento era
fondamentale per realizzare la sovranità popolare, quindi un sistema politico
in cui le masse avessero voce in capitolo sulle sorti dello stato. Infatti il
popolo che i costituenti vollero elevare alla sovranità non era composto da
individui atomizzati, ma da collettività politiche organizzate nei partiti,
attraverso i quali i cittadini avrebbero potuto/dovuto concorrere a determinare
la politica nazionale (come è scritto nell'art.49 della Costituzione). Ed erano
stati infatti i partiti politici a organizzare la guerra di Resistenza contro
l'ultimo fascismo, dal settembre 1943, a riorganizzare le basi collettive e
ideologiche della politica democratica nel corso di quella lotta e, infine, a
pretendere la guida dello stato dopo la caduta del regime e a progettarne la
riforma Anche le basi culturali e giuridiche del nuovo stato democratico erano
state ideate e proposte in seno ai partiti.
Il faticoso processo di
elevazione del popolo alla cittadinanza democratica si era anche prima espresso
nei partiti di popolo, fin dalla seconda metà dell'Ottocento. Per i partiti di
popolo, che si proponevano di organizzare politicamente le masse, il metodo
democratico fu una conquista culturale, da un'iniziale diffidenza, determinata
dal fatto che la democrazia liberale che aveva realizzato l'unità nazionale era
stata un fatto elitario, essenzialmente espressione di una borghesia
illuminata, in una situazione in cui il diritto di voto era attribuito a meno
del 10% della popolazione.
Il primo grande partito politico
di massa italiano fu oggettivamente, al di là delle formali prese di distanza,
la Chiesa cattolica e fu inizialmente
antidemocratico. Questo segnò profondamente la storia nazionale.
L’accettazione dell’ideologia democratica da parte della Chiesa cattolica,
nella vita civile e, cautamente, anche nelle organizzazioni laicali, maturò tra
il 1941 e il 1991.
68.2. La
crisi dei partiti politici italiani ha portato ad un degrado della politica.
L'affermazione della democrazia
di popolo fu storicamente legata in modo molto stretto all'affermazione dei
partiti di massa e alla conquista culturale, da parte di essi, dei principi
democratici. Quest'ultima si manifestò in particolare nel lavoro parlamentare,
che determinò la formazione di una classe politica di derivazione popolare e al
popolo collegata in maniera vitale.
Il primo partito politico italiano
popolare, di massa, può essere considerato, sotto certi aspetti, la Chiesa cattolica, naturalmente intesa come
realtà di rilevanza sociologica, non nei suoi aspetti soprannaturali descritti
dalla teologia. Questa realtà politica della nostra Chiesa ci interessa
particolarmente come fedeli e cittadini italiani.
Bisogna ricordare che la Chiesa
cattolica ha cominciato a sviluppare un pensiero propriamente politico molto
precocemente, fin dal primo secolo della nostra era. Proprio Clemente romano, a
cui è intitolata la nostra parrocchia, ne fu una delle fonti. Successivamente,
dal Sesto secolo circa, la Chiesa cattolica divenne una attrice propriamente
politica e dall'Undicesimo secolo un soggetto politico sovrano, non più
feudatario di altre entità politiche. Tuttavia, fino alla metà dell'Ottocento,
agì politicamente al modo delle altre monarchie europee, trattando i popoli
solo come un insieme di sudditi e valendosi della sua autorità sacrale per
accreditare le proprie gerarchie in politica. Dall'Undicesimo secolo si
strutturò giuridicamente come un impero politico/religioso e questa configurazione
è quella che fondamentalmente ha e rivendica ancora oggi, pur dopo le molte
riforme che si è data con il Concilio Vaticano secondo (1962-1965). Ha
cominciato ad agire politicamente come un partito di massa in concomitanza con
la conclusione del processo di unificazione nazionale italiano e più
precisamente tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta dell'Ottocento, quando la
gerarchia del clero si rese conto che non avrebbe recuperato il suo piccolo
regno nell'Italia centrale, con capitale Roma, appoggiandosi agli altri sovrani
europei. A quel punto diede il via libera all'attivismo sociale del laicato di
fede italiano, che già si era venuto organizzando spontaneamente per sostenere
le pretese politiche del Papato. Tuttavia i papi accentrarono nelle loro mani
la direzione politica di quello che rapidamente assunse forma di movimento di
massa: essi divennero sostanzialmente i capi del primo partito politico di
massa, diffuso capillarmente sul territorio, che ebbe nell'Opera dei Congressi,
fondata nel 1871, praticamente all'indomani della caduta del Regno pontificio,
la sua centrale di coordinamento nazionale e nel socialismo molti riferimenti
ideali quanto a giustizia sociale e modi di intervento a favore delle masse.
L'enciclica "Le novità", del papa Gioscchino Pecci, Leone 13°, diffusa nel 1891, fu il suo manifesto
ideologico. Essa è tutta in polemica con il socialismo, ma ne recepì, dando
loro una copertura teologica, molti degli ideali. In particolare diede il via libera
all'attivismo sociale nelle masse con finalità di elevazione sociale.
Altri partiti di massa furono il
Partito socialista, fondato nel 1892, il Partito Repubblicano, di ideologia
mazziniana, fondato nel 1895, e, più tardi, quando finalmente il Papato rimosse
il divieto per i fedeli cattolici di partecipare alla politica nazionale
nell'attività parlamentare, il Partito Popolare Italiano, fondato dal prete don
Luigi Sturzo e da altri esponenti cattolici nel 1919. Nel 1921 vennero fondati
il Partito Comunista Italiano e il Partito Nazionale Fascista, entrambi
collegati all'esperienza socialista, in quanto il primo originò per
scissione dai socialisti e il secondo ebbe in Benito Mussolini, che era stato
uno dei massimi esponenti del socialismo italiano, il suo
"Duce", vale a dire il capo supremo carismatico. Nel corso della
Seconda guerra mondiale, nel 1942, sulla base dell'esperienza del Partito
Popolare e di quella dei giovani intellettuali cattolici formatisi alla
democrazia negli anni del fascismo, in particolare nella FUCI (gli universitari
cattolici), nel Movimento Laureati e nell'Università Cattolica di Milano, fu
fondata la Democrazia Cristiana, la quale ebbe in Alcide De Gasperi uno dei
suoi principali esponenti. Infine, nel 1946, esponenti del disciolto Partito
Nazionale Fascista fondarono il Movimento Sociale Italiano, partito che
ebbe un seguito popolare significativo, in particolare a Roma dove fu a lungo
il terzo partito cittadino, e che, pur nell'accettazione dei principi
istituzionali e dei metodi della nuova democrazia repubblicana, riproponeva
alcuni temi del fascismo storico, in particolare l'anticomunismo, il
nazionalismo, la preferenza per un Governo nazionale forte e accentratore, un
certo militarismo, un'etica sociale basata sul principio gerarchico, un'etica
familiare maschilista e paternalista, un ordinamento sindacale ispirato al
corporativismo, che escludesse quindi il conflitto sociale tra lavoratori e
datori di lavoro.
Ecco dunque descritti i principali
attori dei processi democratici dai quali, dalla metà degli anni Quaranta del
secolo scorso, originò la nostra democrazia repubblicana popolare, centrata sul
Parlamento, quella che bruscamente entrò in crisi all'inizio degli anni
Novanta.
68.3. La politica
italiana è entrata in crisi negli scorsi anni '70.
Nel secondo dopoguerra si era
prodotto in Italia, negli anni Cinquanta e Sessanta, un lungo periodo di
espansione economica basato su due fattori: il basso costo dell'energia e del
lavoro. Questo aveva favorito il varo di una estesa normativa di carattere
sociale a favore della popolazione meno ricca. Essa rientrava nei programmi sia
del partito egemone, la Democrazia Cristiana, ispirati alla dottrina sociale
della Chiesa, sia in quelli di socialisti e comunisti. Questo produsse anche
movimenti di rivendicazione sociale per ottenere ulteriori miglioramenti. Le
tensioni sociali giunsero al culmine nel corso degli anni '70, quando un
improvviso aumento dei prezzi del petrolio come ritorsione degli stati arabi
per la questione palestinese indusse una lunga crisi economica. Furono anni
colpiti da fatti di terrorismo politico gravi e ripetuti. In questo periodo i
partiti di governo iniziarono a contrattare il consenso sociale a fronte di
provvidenze a varie categorie. Il governo all'epoca aveva un largo margine
d'azione in quanto, direttamente o partecipando al capitale azionario di
società d'impresa, controllava larga parte dell'economia. E non aveva i limiti
di bilancio imposti oggi dalla partecipazione all'Unione Europea. Lo scontro
politico si fece meno ideologico, anche per l'evoluzione in del Partito
Comunista Italiani, che proprio in quegli anni prese una posizione molto più
autonoma dai partiti comunisti dell'Europa orientale. Questo però fece
degenerare la politica, perché le varie categorie cominciarono a ragionare in
termini di tornaconto particolare invece che di interessi nazionali. Si
produsse una "crisi di legittimazione" della politica e una
conseguente " crisi di governabilità". Mio zio Achille, sociologo
bolognese, ne trattò in un libro del 1980 intitolato "Crisi di
governabilità e mondi vitali". I "mondi vitali" sono quelli che
forniscono alle persone il senso della vita, ad esempio le famiglie o le
comunità religiose, ma anche alcune collettività politiche. Mio zio vedeva
nella crisi di queste realtà di mondo vitale la causa della perdita di senso
della politica, che quindi doveva "comprare" il consenso politico a
costi crescenti e insostenibili. La soluzione alla crisi della politica era
quindi per lui sostenere quei mondi vitali, innanzi tutto con un lavoro di
formazione e di sostegno. Per altri la soluzione giusta era invece quella di
consentire al governo di non dover più "contrattare" il consenso
politico, attribuendo un maggiore potere a chi alle elezioni fosse risultato
preferito, un potere non più "proporzionale" al suo "peso"
elettorale. Chi vinceva alle elezioni doveva avere garantita la maggioranza
parlamentare che lo sosteneva, fino alla tornata elettorale successiva. Tutti
i progetti di modifica istituzionale della politica abortiti o approvati
dagli anni '80 sono andati in questo senso. La proposta di mio zio fu seguita
dalla Democrazia Cristiana agli inizi degli anni '80 cercando di coinvolgere in
un nuovo progetto di riforma sociale la base cattolica, ma questa iniziativa
non ebbe successo, venendo penalizzata alle elezioni politiche, per la ragione
che nel frattempo il partito aveva virato a destra, laicizzandosi molto, e le
realtà sociali cattoliche faticavano a riconoscersi in esso.
Negli anni della Repubblica democratica,
caratterizzati da intensi scontri ideologici e politici, il Parlamento, con le
sue due Camere, ha fatto il lavoro che ci si attendeva, vale a dire ha
garantito la stabilità democratica, nella progressiva attuazione della
Costituzione, pur nel veloce mutare dei governi in carica. Il sistema fu
"bloccato" fino all'inizio degli anni Novanta, in quanto i partiti
che si riconoscevano nell'ideologia dell'Occidente democratico e capitalista
avevano convenuto di lasciare il Movimento Sociale Italiano, per i suoi legami
culturali con il fascismo storico, e il Partito Comunista Italiano, per quelli
con l'Unione Sovietica, fuori delle coalizioni di governo. Tuttavia il
lavoro parlamentare aveva consentito di accogliere, traducendole in norme di
legge, alcune istanze di giustizia sociale dell'opposizione comunista e di dare
comunque voce a quella "missina" ( come venivano chiamati gli
aderenti al Movimenti Sociale Italiano). E questo rispondere alle attese aveva
riguardato anche il Senato, che aveva svolto il ruolo di Camera
"alta" che gli era stato proprio di dalla sua istituzione nel Regno
Sabaudo, nel 1848. In una società che non era ancora invecchiata come
l'attuale, il solo fatto che i suoi membri fossero almeno quarantenni aveva
garantito quella maggiore riflessività e ponderazione che ci si aspetta dagli
anziani. Ma non era stato solo questo: i partiti politici, nello scegliere i
candidati, vi avevano mandato le loro persone più autorevoli. La presenza, come
membri di diritto, degli ex Presidenti della Repubblica, e quella dei cittadini
nominati da questi ultimi per avere "illustrato la Patria" aveva
rafforzato questa immagine. Insomma, almeno fino agli inizi degli anni '90, il
Senato non apparì assolutamente come una istituzione inutile, come è stata
presentata dai fautori della riforma costituzionale respinta nel 2016 mediante
un referendum popolare, anche se i
costituzionalisti, fin dai tempi della Costituente, consigliavano di
specializzarne le funzioni in modo che non fosse un puro e semplice
"doppione" della Camera dei deputati. In effetti il Senato non lo fu
mai, almeno fino agli anni Novanta, quando si manifestò la politica come ora la
viviamo, l'epoca di quella che venne chiamata "Seconda Repubblica",
che è quella in cui caddero tutte le preclusioni di un tempo all'accesso al
governo di certe forze politiche e, nel medesimo tempo quella in cui la
politica parlamentare, paradossalmente,
iniziò ad essere considerata una perdita di tempo.
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69
La sfida della pace
(21 febbraio 2016)
L’idea di una pacifica convivenza
tra i popoli a livello mondiale è recente e origina nelle culture più
fortemente improntate dalla nostra fede religiosa, dal secondo dopoguerra.
Fondamentale fu l’esperienza storica dei totalitarismi politici e ideologici
europei dal primo dopoguerra, diffusisi in popoli di antica civiltà religiosa.
La fede religiosa non sembrò aver costituito un ostacolo insuperabile alle
divisioni e ai conflitti, anzi il più delle volte vi fu coinvolta. Un esempio
spettacolare di ciò si ebbe durante il regime mussoliniano, in Italia, con il
quale la nostra gerarchia religiosa, ma non tutta la gente di fede, accettò di conciliarsi.
Lo stradone in stile cimiteriale che celebra quell’evento, e che fu realizzato
distruggendo un antico quartiere popolare e deportandone gli abitanti, ne è
ancor oggi l’immagine: la larga via che all’epoca fu aperta portava al regime
mussoliniano e la Conciliazione con il papato fu senz’altro uno dei
maggiori successi politici e ideologici del fascismo italiano. Con il senno del
poi dobbiamo riconoscere che può dirsi l’opposto per il papato, anche se la
sistemazione politica che fu data all’epoca vige tutt’oggi. La nuova via della
pace ha avuto anche il senso di una conversione in
senso religioso.
La novità delle concezioni
contemporanee sulla pace diffuse in Occidente è che esse non prevedono
l’assimilazione dei popoli in un’unica fede o in un’unica ideologia, ma si
propongono la convivenza delle diversità. Questo è stato il punto debole della
nostra bimillenaria esperienza di fede.
Se leggiamo storie delle nostre
collettività religiose risalenti ancora alla metà degli anni Sessanta le
troviamo viziate da un’incredibile faziosità, secondo la sensibilità
contemporanea naturalmente. Quelle cattoliche sono in genere veramente
ossessionate dal tentativo, realisticamente piuttosto difficile, di far
risalire l’organizzazione del papato imperiale del secondo
millennio ai primi secoli della vita delle nostre collettività religiose.
Studiando i libri di storia religiosa
si capisce perché la materia in essi trattata non è utilizzata, in genere,
nella formazione religiosa comune, quella rivolta a tutti e non alla
particolare cerchia degli specialisti o dei preti e religiosi. Innanzi tutto è
piena di polemiche durissime delle quali oggi è arduo capire l’importanza per
la vita di fede. E’ poi esprime una violenza ideologica e verbale, ma anche
fisica che è intollerabile con la mentalità di oggi.
A partire dal Quinto secolo
i gerarchi religiosi latini si separarono da quelli di cultura greca, derivati
dalle nostre più antiche collettività religiose, su questioni attinenti alla
persona del Fondatore che vennero presentate in modi oggi (ma anche all’epoca)
accessibili solo agli specialisti. Che riflesso potevano aver avuto sulla vita
della gente comune? Davvero i popoli che aderirono alle concezioni
ritenute errate dai gerarchi romani erano cattivi? Durante diverbi
tra gerarchi religiosi su quelle questioni, nel 449 a Efeso, una città di
civiltà greca sulle coste mediterranee dell’attuale Turchia, il vescovo di
Costantinopoli Flaviano fu picchiato e morì poco dopo.
Ai tempi nostri l’argomentare dei
teologi, almeno quando si rivolgono alla gente comune, è diverso. Si ragiona
sull’esperienza comune per poi spiegarne il senso religioso. Ha maggiore
importanza l’antropologia, la questione di come viene considerato l’essere
umano nelle sistemazioni ideologiche che vengono proposte. Questo modo di
procedere ha portato a un riavvicinamento con culture religiose della nostra
stessa fede dalle quali ci si era separati. Questo è avvenuto con le
collettività religiose che si sono riorganizzate sulla base dei principi
religiosi proposti da Lutero, Calvino e altri riformatori religiosi del secondo
millennio. Con i greci, i popoli di cultura ellenistica dai quali
ci si è separati molto prima, c’è la difficoltà che le loro antiche
collettività in Oriente sono in gran parte finite sommerse, sovrastate,
dall’altra grande fede monoteistica diffusa in quelle regioni a partire dal
Settimo secolo. Si cerca allora di riconciliarsi con
i loro eredi, con l’ortodossia dell’Europa orientale e si scopre che non
ci dividono da essa questioni di fede veramente fondamentali, ma essenzialmente
l’assetto istituzionale imperiale del papato romano che fu dato nel basso
medioevo. Ma è soprattutto la pacifica coesistenza nelle stesse nostre città
con quelli delle altre confessioni a fare la differenza dal passato. Si scopre
che si può vivere insieme, conoscendosi si finisce per stimarsi, e allora tutti
gli arzigogoli teologici si appianano. In Italia molte chiese ortodosse hanno
sede in chiese concesse dai vescovi cattolici perché non più utilizzate.
Anticamente la gente comune
rimaneva a fare da spettatrice a certi azzuffamenti teologici e gerarchici. Era
un po’, ma non sempre, nello stato di gregge. Nel secondo millennio
è stato diverso. Le spiritualità nuove prorompevano dalla gente comune e i capi
religiosi faticavano a venirne a capo. La scoperta, in Occidente nel
Quattrocento, della stampa tipografica mise la cultura religiosa alla portata
delle masse. Stiamo vivendo una rivoluzione analoga con il WEB, il trattamento
telematico delle informazioni consentito dalla rete internet e dalla sua
interfaccia sugli schermi dei nostri computer, organizzata in modo da essere
accessibile anche ai bimbi più piccoli. Questa possibilità di renderci conto
dei problemi ci responsabilizza molto. Siamo spinti ad uscire dallo stato di
gregge e abbiamo gli strumenti per farlo. In un certo senso la nostra nuova
Europa si fonda su questa nuova realtà. Le divisioni che oggi la minacciano
interpellano i suoi popoli. Essi hanno imparato a convivere e a conoscersi. E’
più difficile rinchiudersi nell’egoismo del passato e fondare partiti del Noi
soli. Anche i capi politici nazionalisti, che spingono per la chiusura
della frontiere, paradossalmente creano internazionali politiche. E’
lo stesso anche per le questioni in materia di fede. Certe forme di
spiritualità non soddisfano più e, soprattutto, non servono più.
Parlare di pace, come oggi la
intendiamo, è facile e anche bello, realizzare la pace è molto più difficile,
anche in religione. La vita nelle parrocchie lo dimostra. A volte la
coesistenza tra le loro componenti è piuttosto precaria. A volte si ricade nei
vizi delle origini, nella brutta abitudine di lanciarsi anatemi, vale a dire
scomuniche, senza avere nemmeno, tra l’altro, il potere giuridico. E questo
anche se la gente della nostra fede, dal secondo dopoguerra, ha mostrato molti
modi perfare pace e l’Europa contemporanea, pur con tutti i suoi
attuali problemi, ne è la dimostrazione.
Joseph Ratzinger qualche anno fa
diffuse un’enciclica la Carità nella Verità (2009) in
cui affrontò sostanzialmente la questione se venga prima la carità,
il fare il bene agli altri, o la verità,
il dire cose coerenti con il patrimonio di fede,
entrando in una inedita polemica con il suo predecessore Giovanni Battista
Montini, il quale nell’enciclica Lo sviluppo dei popoli (1967)
aveva lanciato un forte appello a tutte le persone di buona volontà a fare il
bene, affermando che lo sviluppo è il nuovo nome della pace,
anche in senso religioso.
Certe questioni noi laici di fede
possiamo tranquillamente lasciarle ai teologi di professione, come lo stesso
Ratzinger è stato per gran parte della sua vita.
La mia opinione è che ci si
debba concentrare, noi che non siamo teologi, sulla faccenda del fare
il bene, e innanzi tutto nel volersi bene, nel fare
pace come oggi lo si intende, comprendendo in quell’azione anche
lo sviluppo dei popoli e delle singole persone, per poi
cercare il senso religioso del bene che ci è riuscito di fare, quindi non
ragionando sulle sole intenzioni ma sui risultati ottenuti.
Nella questioni di fede, infatti, è vero che, come si dice, tra
il dire e il fare c’è di mezzo il mare.
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70
Impegno civile come attività religiosa
(3 gennaio 2015)
Claude Lévi-Strauss, il più grande
antropologo culturale dei nostri tempi, ha affermato in “Tristi tropici”, che
in tutta la storia umana, solo due sono state le strategie impiegate allorché
si è dovuto risolvere il problema diversità altrui: una è stata la strategia
“antropoemica”, l’altra la strategia “antropofagica”.
La prima consisteva nel
“vomitare”, nello sputar fuori gli altri, considerati come esseri
incurabilmente estranei e alieni, nel vietare il contatto fisico, il dialogo, i
rapporti sociali e qualsiasi tipo di«commercium» [=relazione di mutuo
scambio], commensalità o«connubium» (=alleanza basata su una
relazione affettiva profonda).Varianti estreme di questa strategia “emica”
sono oggi, come sempre, l’incarcerazione, la deportazione e la soppressione
fisica. Sue forme aggiornate, “raffinate” (modernizzate) sono la separazione
spaziale, i ghetti urbani, l’accesso selettivo agli spazi.
La seconda strategia consiste in
una cosiddetta “disalienazione” delle sostanze estranee:
nell’«ingerire», «divorare» i corpi e gli spiriti estranei in modo
da renderli , attraverso il metabolismo, identici e non più distinguibili dal
corpo che li ingerisce. Tale strategia assunse una parimenti varia gamma di
forme, dal cannibalismo all’assimilazione forzata: crociate culturali, guerre
dichiarate ai costumi, calendari, culti, dialetti e
altri «pregiudizi» e «superstizioni» locali. Se la prima categoria
mirava all’esilio e alla distruzione degli “altri”, la seconda puntava
all’annullamento o distruzione della loro “diversità”.
[da: Zygmunt Bauman, Modernità
liquida, Laterza, 2011 (opera edita per la prima volta in Gran
Bretagna nel 2000]
Sono nato, sono cresciuto e mi
sono formato in un ambiente religioso che dava molto importanza all’impegno
civile, inteso come il partecipare alla collettività politica per costruire
la città dell’uomo(espressione risalente a Giuseppe Lazzati,
1909-1986), vale a dire una società benevola verso tutti gli esseri umani. In
una società pluralistica come quella in cui siamo immersi l’impegno civile
richiede di essere democratico, vale a dire aperto al dialogo e alla
collaborazione con chi su molte cose la pensa diversamente ma è unito a noi
dalla comune umanità.
A volte però, in religione, si ritiene che il metodo del dialogo sia
inutile e anche controproducente, perché potrebbe portare a contaminazione. Per
reagire alla diversità altrui, vengono impiegate entrambe le tecniche
sunteggiate da Lévi-Strauss: l’esclusione e l’assimilazione.
Da un lato si costruiscono
frontiere ideologiche strettamente presidiate e isolate dal contesto sociale
intorno. All’interno, salvo che nel ruolo di semplice consumatore di
servizi religiosi, è ammesso solo chi accetta la conformità di pensiero, o,
almeno, si impegna a non contestarla, per amore di pace, come si dice. D’altro
lato, chi è ammesso all’interno viene esortato a farsi digerire, assimilare,
divenendo parte di una collettività di uguali,
in cui è abolita ogni diversità (e quindi la necessità di un vero e franco
dialogo), e in cui questa uguaglianza è realizzata mediante la pratica
dell’obbedienza verso dei formatori, in cui ogni
pensiero critico non viene accolto tanto bene.
Si tratta di ideologia piuttosto lontana da
quella indicata come preferibile nei documenti del Concilio Vaticano 2°.
In realtà essa, benché la si voglia
riferire alle origini, in realtà proiettando non del
tutto a proposito sul passato nostre attuali concezioni, diverge
marcatamente dai costumi delle nostre collettività religiose di tutti i tempi,
in cui l’impegno civile ha avuto una parte fondamentale: altrimenti non
parleremmo oggi di radici religiose dell’Europa. Essa ha infatti
origine storica piuttosto recente e precisamente in epoca fascista. Fu allora
che, a seguito del compromesso raggiunto all’epoca dai nostri capi religiosi
con il regime fascista, la religione si impegnò a non occuparsi
di politica (in realtà, così facendo, dando un formidabile appoggio al
regime fascista), quindi delle cose della città dell’uomo. Era
scritto nel Concordato che fu stipulato nel 1929 e che fu in
parte superato con l’avvento della Costituzione repubblicana entrata in vigore
del 1948 e, definitivamente, con gli Accordi di revisione di quel Concordato,
stipulati nel 1984.
Bisogna che sia più chiaro
che, nonostante tutte le metafore sociali che utilizziamo a fini propedeutici,
per rendere in termini semplici un’idea di cose molto difficili da capire,
noi partecipiamo a una collettività,
ne siamo anche responsabili; possiamo riconoscere anche di essere
generati alla fede in una collettività,
ma assolutamente non da una collettività: infatti,
come è scritto, noi dobbiamo rinascere dall’alto. Quindi poi nessuno può sentirsi obbligato a
farsi digerire o generare o rigenerare da una
certa collettività, per quanto poi possa decidere liberamente di farlo.
Il metodo di assimilare persone
in una collettività di fede che si vieta l’impegno civile, inteso come relazioni
con chi la pensa diversamente, porta alla progressiva emarginazione delle
persone di fede. Alla situazione, per intenderci che si sviluppò nell’Ottocento
nel conflitto tra il nostro nazionalismo e le pretese politiche del Papato ad
un suo regno intorno a Roma. Sentiamo gli altri come estranei e da loro siamo
sentiti estranei. Per farceli amici chiediamo troppo, chiediamo loro di farsi
digerire; loro non ci stanno e noi li vomitiamo.
L’impegno civile nella nostra
Repubblica, come è configurato nella vigente Costituzione, si basa su una
concezione personalistica che è stata ideata in ambito
cattolico negli anni ’30, sulla base di un filone di pensiero che risale al
Medioevo e che ha basi scritturistiche. Tale concezione si basa sul rispetto
della dignità della persona umana, sia come singola sia nelle formazioni
sociali a cui partecipa. Questo significa che non è ammesso che una formazione
sociale possa digerire una persona. Ma, a ben vedere, questo
principio digestivo è estraneo anche all’ideologia insegnata
dai nostri capi religiosi. Infatti la nostra fede si basa su una conversione intesa
come processo di metamorfosi personale e libera. In particolare, nei nostri
scritti sacri non ci viene mai presentato il nostro Maestro impegnato in
attività propriamente digestive.
La mia formazione religiosa ha
compreso anche insegnamenti su come partecipare a una collettività di fede da
laico. Essa è stata condotta nello spirito del Concilio Vaticano 2°, i cui
principi vennero entusiasticamente accolti nell’ambiente religioso della mia
famiglia. Il laico deve partecipare a una collettività di fede mantenendo
integra la sua dignità di persona umana e rispettando la dignità personale
degli altri fedeli. Si tratta di cosa di cui occorre fare tirocinio.
L’impegno civile è appunto quel
tipo di relazioni con gli altri che ci permette di collaborare con chi la pensa
in modo diverso da noi per costruire qualcosa di comune, in religione o
altrove. Esso, nella nostra fede, ha avuto sempre una forte valenza
religiosa, della quale non sempre, però, si è mantenuta consapevolezza.
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71
Spunti per un dialogo politico su democrazia di popolo e fede cristiana.
(29-1-15)
71.1. Note di metodo
Questa conversazione si propone di stimolare
un franco dibattito politico tra persone di fede.
Non proporrò contenuti eruditi.
Farò invece riferimento ad alcune idee chiave tratte dalla storia delle nostre
collettività permeate dal pensiero religioso.
Perché il dialogo sia veramente
libero non farò riferimento esplicito ad alcun documento di autorità religiose,
né menzionerò queste ultime. Presenterò in forma anonima il pensiero sociale
che storicamente espressero. Esso potrà così essere analizzato e
criticato senza alcuna remora.
Inizierò definendo che cosa
intendo per politica.
Proseguirò tratteggiando alcuni
tratti caratteristici di ciò che ho chiamato democrazia di popolo.
Richiamerò la storia del pensiero
politico espresso nella nostra fede religiosa, con particolare riferimento
all’Italia.
Infine analizzerò i problemi che
oggi in Italia si presentano alle persone di fede impegnate nel partecipare
alla democrazia di popolo.
La mia formazione è giuridica, ma
di pratico del diritto, non di teorico. Ho ricevuto una formazione politica dal
lungo contatto con mio zio Achille, persona di fede, professore di sociologia e
politico.
71.2. La politica
Definisco politica
l’attività di governo delle società umane. Un’attività di questo tipo si
riscontra anche in collettività poco numerose e primitive. E’ stata ritenuta
una caratteristica degli esseri umani come viventi sociali.
Lo studio delle collettività
primitive ci può dare un’idea dello sviluppo delle attività propriamente
politiche. Una delle linee di costituzione di un’autorità politica può
individuarsi, nelle collettività di tipo patriarcale, nell’espansione del
potere monocratico di un maschio dominante su collettività di parenti o
servitori. Nella nostra cultura l’idea di autorità è ancora piuttosto legata a
quella di paternità e ciò per un retaggio storico molto risalente nel tempo e
radicato nelle diverse culture che si sono incontrate, scontrate e ibridate
intorno al bacino del Mediterraneo.
Le nostre concezioni sulla
politica impiegano tuttora schemi di pensiero originati nelle filosofie
dell’antica Grecia. Solo dall’Ottocento si è cominciata a impiegare l’analisi
sociologica per capire i problemi politici. Una particolare chiave
interpretativa della politica è stata proposta dal marxismo a partire dalla
medesima epoca: essa è particolarmente caratterizzata dall’analisi storica
dell’evoluzione delle società umane. Sociologia e marxismo convergono
nell’individuare all’origine del potere politico le dinamiche sociali delle
popolazioni umane. In quest’ottica tutta la storia della politica è stata
reinterpretata utilizzando le acquisizioni di queste discipline. Per capire la
politica e per prevederne gli sviluppi si ritiene necessario capire le società
in cui essa si manifesta.
71.3. La democrazia di popolo
Definisco democrazia
un regime politico in cui l’autorità è legata in misura più o meno intensa alla
volontà collettiva dei governati, sia nella scelta di chi la esercita sia nei
suoi metodi, finalità generali e obiettivi concreti. Non consiste solo nel
metodo maggioritario per adottare decisioni collettive. Si fonda anche su un
sistema ampio di diritti di libertà, per consentire la partecipazione al
dibattito politico e ai processi decisionali collettivi. In democrazia è
essenziale la possibilità di un dialogo fra soggetti liberi. Anche nel definire
concettualmente i caratteri della democrazia si è soliti fare riferimento a
modelli realizzati e teorizzati nell’antica Grecia. Tuttavia la democrazia come
ai tempi nostri la si intende è un’esperienza sociale che non è mai esistita
prima del secondo dopoguerra. E non è mai stata neppure teorizzata prima degli
scorsi anni Venti. Il nostro mondo è veramente un nuovo mondo.
La chiamo democrazia di popolo per distinguerla dalle
precedenti esperienze storiche.
Il suo archetipo è il regime politico
emerso a fine Settecento dalla rivoluzione statunitense, che è stata espressa
anche mediante temi religiosi tratti dalla nostra fede. Quell’esperienza, anche
se in genere non se ne ha consapevolezza, non è stata solo una secessione dal
dominio di una monarchia europea, ma è stata propriamente una rivoluzione. Ha
infatti instaurato un nuovo modello di società, fondato su un’ideologia
egualitaria su basi religiose, secondo la quale tutti gli essere umani sono
stati creati uguali e con diritti inviolabili.
Crediamo in queste verità che sono
evidenti di per sé stesse, che tutti gli uomini sono creati uguali, dotati dal
loro Creatore di certi inalienabili diritti, e tra questi il diritto alla Vita,
alla Libertà e alla ricerca della Felicità. Per assicurare questi diritti
sono costituiti i Governi tra gli uomini. Essi derivano i loro legittimi poteri
dal consenso dei governati.[Dichiarazione d’Indipendenza delle Tredici
Colonie, costituitesi in Stati Uniti d’America, 4 luglio 1776].
E’ proprio da questa ideologia,
più che da quella espressa dopo pochi anni dopo dalla Francia rivoluzionaria,
che derivano le democrazie di popolo contemporanee. E ciò innanzi tutto per il
fatto che la democrazia statunitense ha avuto una durata molto più lunga di
quella espressa dalla rivoluzione francese, che fu veramente effimera. Essa ha
potuto quindi costituire un modello duraturo sul quale si sono innestati gli
sviluppi successivi. Poi per il fatto che nel secondo dopoguerra quel modello
fu preso come riferimento per riorganizzare i regimi politici europei. Il più
importante e duraturo contributo della rivoluzione francese alle democrazie di
popolo contemporanee è stata la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e
del cittadino del 1789, la base dello stato di diritto:
ogni autorità è soggetta alla legge e quest’ultima deriva dalla volontà
generale alla quale tutti hanno diritto di concorrere; gli esseri
umani nascono liberi e uguali, dotati di diritti inviolabili.
L’uguaglianza nell’ottica di quelle
rivoluzioni è un’uguaglianza in dignità. Essa è affermata
religiosamente, vale a dire in modo pregiudiziale e assoluto, a
prescindere da qualsiasi riscontro effettivo nella realtà (uso il termine religioso in
questo particolare senso, come lo intendeva il filosofo Aldo Capitini).
L’altro fattore da cui sono
scaturite le democrazie di popolo contemporanee è stato l’apporto del
socialismo, dall’Ottocento. In quest’ottica la politica viene concepita come
uno strumento per rendere effettiva l’uguaglianza in
dignità mediante la giustizia sociale. Tra i diritti inviolabili vengono
inclusi anche alcuni diritti sociali, ad esempio quello alla
libertà dal bisogno, all’istruzione, alla salute, al lavoro. Nell’insieme
costituiscono presidi della giustizia sociale e si aggiunsero ai diritti di
libertà proclamati nelle rivoluzioni americane e francese del Settecento.
In merito si ricorda come
archetipo la costituzione tedesca di Weimer del 1919, di cui trascrivo una
norma significativa.
Art.151. L’ordinamento della vita
economica deve corrispondere alle norme fondamentali della giustizia e tendere
a garantire a tutti un’esistenza degna dell’uomo. In questi limiti è da
tutelare la libertà economica dei singoli.
Altro archetipo è considerato la
costituzione sovietica del 1936 (detta di Stalin), in cui erano
previsti il diritto al lavoro e al riposo, all’assistenza materiale nella
vecchiaia e nella malattia o in caso di inabilità al lavoro, all’istruzione,
all’uguaglianza in dignità, oltre ai diritti di libertà previsti delle
costituzioni rivoluzionari settecentesche che ho sopra ricordato.
Trascrivo due articoli particolarmente significativi.
122. Alla donna sono accordati
nell’URSS diritti uguali a quelli dell’uomo in tutti i campi della vita
economica, statale, culturale e socio-politica. […]
123. L’uguaglianza giuridica dei
cittadini dell’URSS indipendentemente dalla loro nazionalità e razza, in tutti
i campi della vita economica, statale, culturale e socio-politica, è legge
irrevocabile.
Qualsiasi limitazione diretta o
indiretta dei diritti e, al contrario, qualsiasi attribuzione di privilegi
diretti o indiretti ai cittadini in dipendenza della razza o della nazionalità
alla quale appartengano, così come qualsiasi propaganda di settarismo razziale
o nazionale, ovvero di odio e disprezzo, è punita dalla legge.
Dalla storia sappiamo che
nell’Unione Sovietica questi diritti rimasero in gran parte solo nelle
costituzioni, non divennero mai realtà. Quella costituzione tratteggiò un mondo
nuovo che rimase però sempre a livello ideale.
Le previsioni costituzionali
relative ai diritti fondamentali e inviolabili delle costituzioni che ho citato
furono presi come riferimento nel secondo dopoguerra dai saggi della nostra
Costituente, nel 1947, i cui lavori precedettero quelli per la redazione
della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite,
approvata nel 1948. Da quest’ultima scaturì la concezione contemporanea della
democrazia a livello planetario, come regime politico universale destinato a
realizzare una reale eguaglianza in dignità degli esseri umani, a
prescindere dalla loro condizione di cittadinanza politica particoare,
mediante l’effettività dei diritti fondamentali e inviolabili, in particolare
di quelli sociali, a livello universale. Riporto un articolo particolarmente
significativo della Costituzione italiana vigente:
Art. 3
Tutti i cittadini
hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione
di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di
condizioni personali e sociali.
È compito della
Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando
di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno
sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Il secondo comma
è stato scritto dal socialista Lelio Basso. L’universalità della concezione
politica sottostante, espressa poi anche nella dichiarazione ONU, risalta dal
fatto che vengono ripudiate le discriminazioni su basi etniche e linguistiche,
rendendo la nuova Repubblica una democrazia non solo per gli
italiani e degli italiani. Considerata l’importanza che ebbero
elementi cattolico-democratici nella redazione dei principi fondamentali di
quella Costituzione, la possiamo considerare anche come espressione di una
teologia politica.
L’ultimo fattore
decisivo per la creazione delle democrazie di popolo è stato il suffragio
universale, che in Italia è stato realizzato solo dal 1946.
Una democrazia
di popolo è un regime con amplissima base popolare e basato su un’idea di
uguaglianza molto legata alla giustizia sociale da realizzare mediante riforme
sociali introdotte con l’autorità delle leggi. L’obiettivo delle democrazie di
popolo è la trasformazione delle società per rimuovere le cause di infelicità e
di discriminazione.
71.4. Il pensiero
politico espresso dalla nostra fede religiosa, con particolare riferimento alla
situazione italiana.
Di solito non si
ha sufficiente consapevolezza che i cristiani molto presto svilupparono un
pensiero politico su basi di fede. In caso contrario l’ideologia politica
basata sulla fede cristiana non avrebbe potuto sostituire, nel giro di quattro
secoli quella basata sull’antica religione politeistica. In particolare non se
fa menzione nella formazione religiosa di primo e secondo livello. Si passa dai
cristiani perseguitati dal potere imperiale romano agli imperatori cristiani.
Un indizio della
precoce partecipazione dei cristiani alla vita politica lo possiamo trovare
nella Lettera a Diogneto, che si fa risalire alla fine del secondo
secolo:
[I cristiani] abitano
ciascuno la propria patria, ma come stranieri residente; a tutto
partecipano attivamente come cittadini, a tutto assistono passivamente come
stranieri; ogni terra straniera è per loro patria, e ogni patria terra
straniera. [V,5].
Conquistato lo
stato romano, l’ideologia politica dei cristiani fu, in genere, quella di
ritenere che lo stato fosse espressione del popolo cristiano e che il monarca
dovesse svolgere anche compiti di guida religiosa. Il politologo Gianni Baget
Bozzo considerò come archetipo di questa mentalità il pensiero del vescovo,
teologo e storico Eusebio di Cesarea (265-340). La dimostrazione di
quanto essa si fosse radicata è che tutti i concili ecumenici del primo
millennio, dal primo di Nicea (325) al settimo di Costantinopoli (879), furono
convocati da imperatori. L’ideologia del monarca come capo civile e religioso
del popolo cristiano fu fondata sulle narrazioni veterotestamentarie adattate
ad una situazione storica molto diversa e rimase latente in Europa fino
all’avvento della secolarizzazione del potere politico, nell’Ottocento. Sempre
su base veterotestamentaria fu fondata, in Occidente, la parallela ideologia
che affermava una supremazia politica del potere religioso su quello
civile. Il popolo cristiano, in Occidente, finì per avere due padri che
pretendevano di governarlo, ma solo nel secondo millennio si produsse una vera
e propria competizione politica tra di essi. Nel quinto secolo le invasioni dal
Nord Europa provocarono il crollo della nuova civiltà cristiana in Occidente:
un evento che fu vissuto come una catastrofe anche religiosa. La storia che
seguì può anche essere interpretata come un tentativo del potere religioso
occidentale di porvi rimedio. In effetti gli invasori erano già venuti a
contatti con la civiltà imperiale mediterranea e la prendevano come modello di
potere politico. Ciò rese possibile assimilare la loro cultura in quella
politico/religiosa formatasi a partire dal quarto secolo. E produsse l’emergere
del patriarcato romano, uno dei cinque del cristianesimo delle origini
(Alessandria, Gerusalemme, Antiochia, Costantinopoli e Roma), come imperatore
religioso e politico. Il processo iniziò nel settimo secolo, sotto dominio
longobardo: al papato fu assegnato un regno territoriale nell’Italia centrale.
Questo dominio fu confermato in epoca carolingia, nel nono secolo, nella quale
il papato si federò con l’impero dei franchi adottandone la struttura feudale
nella sua organizzazione ed iniziando ad agire come sovrano propriamente
politico. Questa struttura di potere politico, fondata su due padri del
popolo, su due imperatori politico/religiosi, fu
rafforzata dalle necessità di difesa dalle travolgenti invasioni islamiche. In
Oriente rimase invece l’organizzazione politico religiosa del passato
imperniata sull’imperatore, con il patriarca religioso, l’ultimo rimasto in
Oriente, in posizione subordinata. Il consolidamento del potere imperiale del
papato avvenne nell’undicesimo e dodicesimo secolo. Fu basato su labili
collegamenti neotestamentari, sull’idea di un impero politico-religioso come
espressione della regalità divina, di cui il papato era manifestazione vicaria
(teologia del papato risalente al tredicesimo secolo). Nel Basso Medioevo, dai
costumi delle città medievali occidentali del secondo millennio, si produsse
l’idea che il mantenimento della pace politica e religiosa fosse
fondamentalmente un problema criminale, da affrontare irrogando pene efferate. Pace a
quell’epoca era una delle denominazione del diritto criminale. Da ciò
l’istituzione di polizie politiche di natura politica-religiosa la cui
manifestazione più eclatante fu l’Inquisizione cattolica. Ne può essere
considerata un’estensione la guerra di crociata, in particolare
quella condotta nel tredicesimo secolo contro i dissenzienti religiosi
albigesi. In un’ottica di fede, fino all’inizio dell’Ottocento, la politica
venne vista come un problema di fedeltà ad un capo politico/religioso; in
Occidente anche come quella ad uno o ad entrambi gli imperatori religiosi
emersi dal primo millennio. I fedeli, in genere, o erano sudditi o capi feudali
assoluti. Nel secondo millennio cominciarono a manifestarsi idealità di
giustizia sociale a base popolare ed evangelica: esse dovettero però venire a
patti con i padri politico-religiosi, con le gerarchie
assolutistiche monarchico-feudali civili e/o religiose, entrambe esercitanti
poteri propriamente politici, o vedersi da essi duramente represse come
espressioni criminali. Esperienze di tipo di tipo tendenzialmente democratico
furono organizzate nell’Europa occidentale fin dagli inizi del secondo
millennio da statuti cittadini e intorno alle corti dei sovrani, ma, a parte il
caso dell’importante influsso del calvinismo politico, la prima
espressione di una teologia politica su base democratica, e quello delle
rivoluzioni parlamentari inglesi del Seicento,
prodottesi in collettività di fede affrancate dal centralismo religioso romano,
l’idea di affidare ai popoli la definizione dei valori supremi delle società,
ciò che definiamo giustizia sociale, ebbe difficoltà ad essere
integrata nelle concezioni di fede. Del resto, nelle Scritture quel tipo di
democrazia semplicemente non c’è, per il contesto storico in cui esse si
formarono, e di ciò ha risentito la teologia su di esse costruita. C’è però
un’idea che è risultata al centro delle ideologie democratiche contemporanee:
l’uguaglianza in dignità. La possiamo trovare sintetizzata in questo
passo della lettera ai Galati: “Non c’è Giudeo né Greco; non c’è né schiavo
né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo
Gesù” (Gal 3,28. Vers.CEI 2008).
I processi
storici e sociali da cui sono emerse le democrazie contemporanee furono avviati,
sostanzialmente, a partire dalla seconda metà del Settecento, anticipati sul
piano ideologico dal pensiero liberale e illuminista. Ma fu l’Ottocento
il secolo del loro crogiolo. In Italia il confronto con le collettività di fede
fu particolarmente drammatico per i prevalere di fortissime tendenze
reazionarie, appoggiate da efficienti organizzazioni di polizia ideologica. In
origine non anti-religiosi, i moti rivoluzionari espressi nel Risorgimento
italiano, divennero anticlericali per le difficoltà incontrate nel processo di
unificazione nazionale ad opera delle organizzazioni clericali. Il motto del
mazzinismo “Dio e popolo” indica che una integrazione tra tendenze democratiche
e fede religiosa era possibile, ma essa fu duramente repressa. La storia delle
collettività di fede italiane dalla metà dell’Ottocento può essere interpretata
come un faticoso processo di integrazione tra idee religiose, idee di giustizia
sociale e idee di democrazia politica, con uno scontro durissimo su base
ideologica tra diverse componenti sociali religiose, che lasciò importanti
tracce, oltre che nella storia nazionale, anche nelle biografie dei più
importanti personaggi di fede di quel periodo, ad esempio in quelle di Romolo
Murri, il fondatore del movimento democratico-cristiano, e di Giuseppe
Toniolo. Fino alla metà degli anni Quaranta prevalsero tendenze reazionarie,
con conseguenze tragiche sul piano politico. Il ritardo dell’integrazione
democratica dei cattolici spianò infatti la strada al fascismo storico. Si riteneva,
da molti, che, al di fuori di un’organizzazione paternalistica, fortemente
accentrata, la fede religiosa si sarebbe corrotta. La democrazia era vista,
secondo un filone dell’antico pensiero greco, come fonte di disordine culturale
e sociale. Il crollo del fascismo storico e il ruolo dei cattolico-democratici
nella lotta antifascista e nell’organizzazione della nuova Repubblica aprirono
un nuovo corso. L’ideologia di fede sottostante era stata lungamente
elaborata in circoli ristretti a partire dal pensiero dei filosofi francesi
Jacques Maritain e Emmanuel Mounier. Il processo ebbe una tappa importante
negli anni Sessanta, ma l’idea che il regime democratico fosse quello
preferibile risale, nella teologia cattolica, addirittura al 1991. E’ una storia
non ancora conclusa, in particolare nell’Italia di oggi, dove l’influenza
clericale in politica è stata fortissima.
71.5. Problemi che
oggi in Italia si presentano alle persone di fede impegnate nel partecipare
alla democrazia di popolo.
L’idea che in religione
non si debba parlare di politica è un portato del fascismo storico e in
particolare del compromesso, da molti ritenuto disonorevole, concluso tra la
nostra gente di fede e il Mussolini nel 1929. In quel modo il fascismo chiuse
la bocca al cattolicesimo democratico, ma, più in generale, ad ogni forma di
teologia politica.
La scelta
religiosa che fu fatta in alcuni ambienti di fede negli anni scorsi
anni Sessanta, sulla scia dei risultati dell’assemblea di saggi della nostra
confessione religiosa svoltasi all’inizio di quel decennio, fu cosa
profondamente diversa. Liberò la fede dalla politica di partito, aprendola al
pluralismo e proponendosi una formazione e un tirocinio collettivi in merito.
In quell’epoca, infatti, sulla base di un pensiero teologico avviato nel
secondo dopoguerra, i problemi politici vennero concepiti anche come problemi
religiosi, quindi in un’ottica di fede. Fu infatti scritto:
Le gioie e le
speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto
e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze
e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che
non trovi eco nel loro cuore. [1965].
E anche:
Noi scongiuriamo per
primi tutti i Nostri figli. Nei paesi in via di sviluppo non meno che altrove,
i laici devono assumere come loro compito specifico il rinnovamento dell’ordine
temporale. Se l’ufficio della gerarchia è quello di insegnare e interpretare in
modo autentico i principi morali da seguire in questo campo, spetta a loro,
attraverso la loro libera iniziativa e senza attendere passivamente consegne o
direttive, di penetrare di spirito cristiano la mentalità della loro comunità
di vita. Sono necessari dei cambiamenti, indispensabili delle riforme profonde:
essi devono impegnarsi risolutamente a infonder loro il soffio dello spirito
evangelico. [1967].
Divenne
quindi centrale e possibile, ma di attuazione piuttosto difficile nelle
nostre collettività di fede, ciò che venne efficacemente sintetizzato, in
queste righe:
“La Chiesa […] con il II Concilio ha
mutato profondamente il suo rapporto con la società e l’umanità. Dalla difesa
del proprio campo di missione spirituale nel temporale (obiettivo della nuova
cristianità elaborato nei confronti dell’età moderna) intende passare
all’apertura evangelizzatrice a tutti gli uomini, al campo della societas
hominum, sul fondamento della sola, comune, natura
umana.
[…]
E’ nella comunità di Chiesa locale che
l’unità nell’essenziale e il pluralismo di partecipazioni politiche e sociale
debbano convivere se non integrarsi nella tensione talora, mai nella dialettica
profana, nella dialogicità spesso, che non esclude, anzi fa crescere la funzione
di guida e di autorità dottrinale e pastorale della gerarchia come la
partecipazione all’ufficio sacerdotale, profetico e regale dei laici, nella
Chiesa e nella
storia. […]
Sotto questo profilo, tutta
l’innovazione della Gaudum et Spes e dell’intero concilio sembra concentrarsi
in quel paragrafo 4 della Octogesima Adveniens di Paolo VI che così fatica a
trovare (ma il convegno ecclesiale del novembre ’76 [Evangelizzazione e
promozione umana] ne è un luminoso esempio) applicazione e sviluppi
pastorali. […] La comunità di Chiesa locale, guidata dal Vescovo, [deve essere]
assunta anche come luogo di confronti tra credenti, pure tra credenti con
scelte politiche diverse, per cercare insieme le vie essenziali di impegno di
tutta la Chiesa locale alla necessaria trasformazione della società in cui la
comunità di Chiesa opera, per l’evangelizzazione e la promozione umana”.[Achille
Ardigò, “Toniolo: il primato della riforma sociale. Per ripartire dalla
società civile”, 1978]
In quest’ottica, in religione si
dovrebbe parlare di politica. Una importante manifestazione del
nuovo corso, per la verità rimasta quasi l’unica, fu il convegno
ecclesiale Evangelizzazione e promozione umana, svoltosi a Roma nel
1976. Le difficoltà emerse negli scorsi anni Settanta portarono, dagli anni ’80
al prevalere di orientamenti paternalistici, in quello che, nel campo
fede/democrazia, può essere visto come un lungo inverno, nonostante il
recepimento della democrazia nel pensiero teologico. La pratica, quindi, non fu
all’altezza della teoria. Significativo di questo sviluppo mi pare sia stato
l’appello all’astensionismo dei cattolici in occasione di un referendum su tema
sensibile per la fede, nel 2005. E anche la dura repressione
delle teologie di liberazione di origine latino-americana. Oggi siamo
autorevolmente invitati a far ripartire quel processo di sviluppo democratico
nella pratica delle nostre collettività di fede, ma sembrano mancare risorse
sufficienti a farlo. Secondo il costume dell’ultimo trentennio, si attendono
ancora, paternalisticamente, istruzioni dettagliate dall’alto, invece di
suscitare un movimento in basso. Quest’ultimo dovrebbe avere come protagonisti
i laici di fede, più coinvolti del clero nei processi sociali democratici.
71.6. Da quanto ho esposto,
emerge la necessità di fare tirocinio di democrazia anche nelle nostre
collettività di fede, in particolare nella formazione permanente dei laici di
fede, impegnati con primaria responsabilità nel compito collettivo di
infondere valori nella società civile in cui sono immersi,
alla quale partecipano con poteri sovrani.
E’ passato ormai mezzo secolo da
quando si prese consapevolezza di questo, ma ancora quel tipo di tirocinio è
piuttosto ostico negli ambienti religiosi. Lo si vede con sospetto, come fonte
di disordine. Ma è proprio per affrontare in modo ordinato il metodo
democratico che esso occorre.
Storicamente le genti di fede sono
state ammaestrate ad obbedire e, in particolare, ad obbedire tacendo. “Obbedir
tacendo” fu un motto dell’Arma dei Carabinieri ed esso ha un senso preciso
negli ambienti militari: significa abnegazione nello sforzo di contribuire a un
risultato comune che richiede compattezza e coordinazione. Si ricorda che anche
il Garibaldi, rivoluzionario repubblicano risorgimentale, obbedì alle
autorità militari sabaude in diverse occasioni, in particolare con un famoso
telegramma spedito durante la Terza guerra d’indipendenza, la cui immagine ho
incollato qui sopra, e poi al termine della stupefacente conquista delle
regioni del regno borbonico dell’Italia meridionale. Ma la sua obbedienza non
fu solo una questione militare: fu prima di tutto frutto di una valutazione
realistica delle prospettive dell’unificazione nazionale e dello sviluppo di
uno stato degli italiani che sostituisse il precedente pluralismo regionale,
creando innanzi tutto un popolo capace di autogoverno, nelle forme democratiche
all’epoca vigenti e concretamente possibili, alle quali egli stesso
partecipò vivacemente nel dibattito politico.
Democrazia significa autogoverno
del popolo: essa richiede la capacità culturale di elevarsi alla sovranità. Nel
momento in cui si è deciso, anche in religione, tra gli anni Sessanta e gli
anni Novanta del secolo scorso, che non solo le persone di fede debbano sentire
il dovere religioso di partecipare all’autogoverno della società in cui sono
immerse, ma anche che i regimi democratici sono quelli preferibili per il
governo delle società, è chiaro che, accanto al tradizionale tema della
disciplina, dell’obbedienza, deve farsi strada quello del tirocinio
all’autogoverno, ad essere sovrani nella società e ad esserlo collettivamente,
secondo il metodo democratico incentrato sul dialogo. Non c’è altro modo,
infatti, per influire efficacemente nello sviluppo di società democratiche. In
quest’ottica, “la politica è la più alta forma di carità”, come insegnava il
beato Giovanni Battista Montini. E, non dimentichiamolo, fu san Karol
Wojtyla a insegnarci, con la sua lettera del 1991 in occasione dei cento
anni dalla lettera del suo predecessore che aveva inaugurato il magistero sociale,
che la democrazia è il regime preferibile, anche in un’ottica di fede.
Nella prospettiva democratica,
come sosteneva Lorenzo Milani, l’obbedienza non è più una virtù, se
significa sottrarsi al compito della sovranità collettiva.
La base del tirocinio democratico
è la coscienza storica. Essa mi pare carente nella formazione religiosa di
primo e secondo livello e anche in quella degli adulti e, in particolare, qui
da noi. Questo significa che, poi, il rapporto della nostra gente di fede con
la democrazia sarà piuttosto problematico. In ogni questione si andrà
ansiosamente alla ricerca di una sorta di padre a cui
sottomettersi, secondo un costume bimillenario in religione. Ma la scelta del
padre, in mancanza di sufficiente memoria storica, avverrà con criteri
superficiali, sulla base di apparenze di autorità, di forme luccicanti, di
sicumere esibite, di conformismo collettivo o di puro legalismo.
In religione ci troviamo a dover
convivere con molti padri i quali pretendono obbedienza paternalistica.
La democrazia però consiste in un certo senso proprio nel sindacare questa
autorità paternalistica e, nella mentalità democratica, si vorrebbe riscoprire,
nell’esercizio dell’autorità, il valore di una certa saggezza. I padri ce li
troviamo davanti per ragioni per così dire di natura, saggi
invece si diventa e si deve essere riconosciuti.
71.7. In genere nelle nostra collettività di fede non sappiamo parlare
efficacemente di libertà. Mettiamo subito le mani avanti, presentando tutti i
guasti che la libertà produrrebbe. Questo ci impedisce di lasciarci coinvolgere
nel pensiero democratico, che è centrato sull’idea di libertà. Non di rado si
finisce per dire che l’unica vera libertà è nell’obbedienza a ciò che ordinano
i nostri capi religiosi, anche se ciò viene presentato come obbedienza alla
volontà divina. Purtroppo la storia ci insegna che questa soluzione non è stata
sempre soddisfacente. E’ in questo senso che Lorenzo Milani scrisse che l’obbedienza
non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni.
All’inizio ho incollato
un’immagine della Statua della libertà, a New York. Ho ricordato
che sul suo piedistallo sono incisi gli ultimi versi della poesia Il
nuovo colosso, della poetessa americana Emma Lazarus:
“Datemi chi tra voi è esausto e povero,
le vostre masse che si accalcano
nell’anelito di libertà,
i miseri rifiuti della vostre
popolose terre.
Mandatemi quelli che non hanno più
casa e gli sventurati,
innalzando la mia luce mostrerò loro la
porta d’oro!”.
Questa lirica rende bene, con
forte impatto emotivo, il senso dell’azione di liberazione che è propria della
democrazia e dell’idea democratica di libertà, presenti con molta forza nel
pensiero che ispirò la rivoluzione americana del 1776, con esplicite radici di
fede. E spiega perché, anche da cristiani, noi ci dobbiamo innamorare della
libertà.
In democrazia libertà
significa libertà di essere giusti. La giustizia sociale
è al centro dell’idea democratica di libertà. Democrazia significa pensare,
tutti insieme, con metodo basato sul dialogo, un mondo nuovo, in cui essere
liberi di essere giusti. E’ questa la politica democratica. Che richiede di
elevarsi dalla soggezione all’ingiustizia alla libertà di essere giusti. Il
disegno preciso di questo mondo nuovo non c'è nelle nostre scritture sacre, che
risalgono a tempi antichi, in cui l'idea di una democrazia di tutti non
era stata ancora prodotta, anche se, in ambiente ellenistico, a cui però
l'ebraismo delle origini cristiane era in genere ostile, la cultura possedeva
varie teorizzazioni sulla democrazia. Nelle scritture sacre possiamo trovare
principi di giustizia sociale e, innanzi tutto, l'idea di pari dignità degli
esseri umani, creati uguali, ma non la democrazia di
tutti come noi oggi la intendiamo. Ciò non significa che democrazia e
fede non possano essere conciliate. La rivoluzione statunitense di fine
Settecento dimostra proprio il contrario.
Libertà di essere giusti. Ma che cos’è
questa giustizia?
Riporto di seguito alcune righe
che ci scrissi anni fa, prendendo spunto da una Giornata della memoria.
“Abbiamo molto sbagliato quando abbiamo
fatto una politica cinica, cattiva, violenta. Questa è la politica dei despoti.
Dobbiamo fare una politica che innanzi tutto rispetti gli infiniti mondi
vitali, mio zio Achille ci scrisse un libro su, che sorreggono la nostra vita.
Non escludere nessuno, non disprezzare nessuno. Ancora con Capitini:
interessarsi sommamente a tutti, sperare che la realtà di tutti arrivi a tutti
gli esclusi per guarirli; scoprire che c'è sempre una non violenza più
autentica e che "ieri eravamo violenti". Capitini definiva questo
come lavoro "religioso" perché ci mette in rapporto con una realtà
sommamente amata e rispettata, una ricerca "sacra" perché comprende
chi soffre e sta peggio di noi. Sulla via della più alta sovranità incontriamo
l'esigenza della più alta giustizia.
Io faccio parte di una genia di
malvagi persecutori. Noi cristiani siamo stati ciechi per millenni. Seguaci di
maestri ebrei, del fariseo Paolo di Tarso, abbiamo perseguitato l'ebraismo,
disprezzato le sue sante tradizioni, i suoi riti, le sue consuetudini; abbiamo
infierito in modo inaudito su quel mondo vitale sul quale nondimeno
continuavamo a invocare benedizioni: "Gerusalemme siano rinforzate le tue
porte e i tuoi bastioni, scorra in te latte e miele, siano salvate le tue
madri, crescano forti i tuoi figli...". Questa la situazione in cui mi
sono ritrovato, da cristiano. Ora che abbiamo finalmente iniziato a
convertirci, noi cristiani, ora capiamo l'infinito amore che c'è dietro ogni
gesto religioso dell'ebraismo, dietro ogni sua tradizione e preghiera, dietro
ogni rito, e ci strazia l'orrore di quello che è stato fatto per tanto tempo.
Il passato non può essere cambiato. Ma almeno per il presente e per il futuro,
nei quali si può essere diversi, vorrei mostrare di aver imparato la lezione
che ho ricevuto dalla storia e agire diversamente. "Teshuvà",
pentimento e conversione. E invitare i miei compagni a fare altrettanto, quando
insieme pensiamo a un mondo nuovo.
Prima di compiere qualsiasi
violenza, prima di cancellare sbrigativamente qualcuno dalla storia, prima di
disprezzare qualsiasi consuetudine o idea delle quali magari non capiamo subito
il senso, pensiamo bene se questa sia veramente la giustizia che ci serve per
elevare "tutti" ad essere re. Tutti i giorni mi pare che non manchino
occasioni per esercitare questa "pazienza", che significa apertura a
tutti, aspirazione alla giustizia somma, lì dove misericordia e verità finalmente
si incontrano e si baciano, come è scritto.”
Una persona che rappresenta bene
questi ideali democratici è il pastore battista statunitense nero Martin Luther
King (1929-1968), il più noto esponente del movimento statunitense dei diritti
civili degli anni Sessanta. Egli, seguace dell’ideologia non violenta
teorizzata dall’indiano Ghandi, fu un disobbediente per amore di giustizia:
questa fu la libertà che si prese.
71.8 L’esperienza del costituirsi di una collettività è vissuta spesso secondo
due modalità: quella del ritrovare un padre e quella del trovare una persona da
amare. Nelle nostre scritture sacre esse sono entrambe presenti, ma di solito
la seconda è più difficile da vivere, e innanzi tutto da accettare, nelle
nostre collettività di fede, secondo i modi religiosi che ci siamo costruiti.
Questo accade fondamentalmente perché la nostra ideologia religiosa è prodotta
da un ceto di maschi celibi che ambiscono al ruolo di padri e tendono a
organizzare collettività paternalistiche.
Nel tirocinio della democrazia occorre
riscoprire e rivivere quell’altra modalità, dell’amore.
L’esperienza dello stato nascente
è stata paragonata all’innamoramento, all’esperienza emotiva
dell’innamoramento. E c’è molta emotività amorevole nell’esperienza della
democrazia. Innanzi tutto ci si innamora dell’anelito di libertà, quindi della
libertà, non vivendola più come peccato e fonte di disobbedienza. In
democrazia, libertà significa libertà di pensare e costruire un mondo nuovo, in
cui tutti vengano liberati dal bisogno, dall’ignoranza, dalla malattia, dalle
discriminazioni su basi sociali ed economiche, dalla solitudine. E di farlo
come lavoro collettivo, in cui sono coinvolte le moltitudini. Democrazia
significa anche trovare e, innanzi tutto, accettare, moltissimi amici. Uscire da
una condizione di schiavitù, di servaggio, esistenziale per entrare in una
condizione amicale. “Vi ho chiamato amici”: riflettere a fondo sul
senso di questo detto evangelico (Gv 15,15) può essere molto utile in un
ragionamento sulla democrazia e le sue finalità. Esso è inserito in un
brano che tratta dall’agàpe, la forma di benevolenza sociale che è
caratteristica delle nostre concezioni di fede e che ha il senso di accogliere
gli altri in una piacevole convito. Gli amici non ce li troviamo imposti per natura,
come i fratelli, ma ce li scegliamo. Le democrazie contemporanee si propongono
di realizzare un’amicizia universale, di scegliersi come amica
l'intera umanità, secondo una particolare concezione di pace che
ha fatto breccia anche nel pensiero religioso, il quale finalmente è
giunto a riconoscervi le radici di fede.
In democrazia si sogna innanzi
tutto di essere liberi di avere tanti amici, di farsi tanti amici, di farsi
amiche popolazioni di tutta la terra, senza discriminazioni. Un lavoro molto bello
e appassionante, di cui ci si può e ci si deve innamorare. In democrazia ci si
innamora di questa libertà: le catene che vengono simbolicamente infrante sono
quelle della divisione e del pregiudizio verso gli altri.
*********************************************
72
In sintesi
(11-9-17)
Nei paragrafi qui sopra c’è materiale utile per rendere un’idea su che
cos’è e cosa fa l’Azione Cattolica. E’ solo una piccola parte di ciò che si è
scritto su questo tema.
Vorrei ora fornirne una sintesi della storia da cui nacque l’Azione
Cattolica, sufficientemente estesa per venire incontro a chi ha deciso di
accostarsi questa esperienza associativa, o a chi sente il bisogno di
approfondire le ragioni per proseguirla.
Cominciamo con il dire questo:
l’Azione Cattolica non è assimilabile ad alcuna delle altre aggregazioni
ecclesiali correnti in Italia. Questo significa anche che fa un lavoro che
nessun altro fa. Ma che dovrebbe fare?
Per capirlo occorre avere
consapevolezza della sua storia.
Tutto iniziò a metà Ottocento,
quando il Papato sentì la necessità di chiamare a raccolta il popolo a difesa
della sua missione. I moti nazionalistici italiani minacciavano il suo piccolo
stato nell’Italia centrale, con capitale Roma. Si voleva che fosse la capitale
del nuovo stato unitario e indipendente che si andava costituendo in quegli
anni, con sommosse popolari e guerre, sia tra stati e che tra milizie
popolari e stati. Il Papato riteneva di avere bisogno di quel suo stato per
essere indipendente dalla politica degli stati del mondo intorno ed essere
libero di svolgere la sua missione universale.
I moti nazionalistici italiani
erano suscitati da movimenti con ideologia liberale e democratica. Erano tali,
in particolare, i gruppi che si ispiravano al pensiero di Giuseppe Mazzini
(1805-1872). Essi non miravano solo all’unità nazionale e all’indipendenza, ma
anche alla riforma sociale, in particolare all’affermazione di
regimi democratici, da conseguire con il coinvolgimento del popolo non più solo
come concessione delle dinastie sovrane, che all’epoca, dopo la caduta del
regime di Napoleone Bonaparte nel 1815, dominavano nuovamente l’Europa. Il
nazionalismo italiano di quell’epoca non era anti-cristiano: il motto di
Mazzini era “Dio e popolo”. Divenne anticlericale per il rifiuto del Papato di
consentire l’unità nazionale con capitale a Roma.
Perché i nazionalisti ritenevano
indispensabile Roma? Per il suo significato simbolico, derivante dalla sua
storia antica, per la civiltà unificante che dalla sua cultura era scaturita.
Si pensava che così si sarebbe potuta consolidare meglio un’unità politica
ottenuta militarmente tra popoli da molti secoli divisi, combattendo e
sopprimendo i vari stati che all’unificazione si opponevano. Il Papato non
credeva nel liberalismo: pensava che avrebbe condotto il popolo lontano dalla
fede. Non credeva nella democrazia, che non concepiva come un sistema di
valori, ma come politica basata sulla forza del numero, non su quella
della ragione. Intendeva il liberalismo come dissoluzione dei valori e la
democrazia come disordine tra il popolo che avrebbe finito per darsi nelle mani
di demagoghi, di agitatori sociali senza valore e insofferenti dei veri valori
(in linea con il giudizio che della democrazia avevano dato grandi filosofi
greci dell’antichità). E soprattutto, come detto, riteneva l’indipendenza
politica del Papato, da attuare con il possesso di un vero e proprio regno
territoriale, come indispensabile per sottrarsi all’arbitrio e alla
volontà di potenza degli altri capi di stato, quindi a tutela della sua
missione universale. Nei secoli precedenti il Papato, per garantire la sua
indipendenza, si era appoggiato alle dinastie sovrane europee. Da metà
Ottocento ebbe sempre più difficoltà a farlo. I nazionalisti italiani
chiamavano a raccolta i popoli dell’Italia di allora, e così, ad un certo
punto, lo fece anch’esso. Come i nazionalisti parlavano di riforma sociale,
di cambiare in meglio la società civile, anche il Papato elaborò un suo
progetto di riforma sociale, sulla base delle esperienze di
solidarietà sociale che a quell’epoca, in tutta Europa e anche in Italia, si
andavano costituendo a sostegno della parte meno ricca della società. Questo
programma fu espresso solennemente in un’enciclica, un atto con forza di legge
per la Chiesa cattolica, la prima di quelle dell’età moderna con oggetto la riforma della
società, che il papa Vincenzo Gioacchino Pecci, regnante come Leone 13° (Papa
dal 1873 al 1903), diffuse nel 1891 con il nome di Rerum Novarum - Le
novità, dalle sue prime parole. Fu il primo documento di una
lunga serie che, nel complesso, si indica con il nome di dottrina
sociale. A quell’epoca il regno pontificio era stato soppresso,
all’esito di una breve guerra nel 1870. Ma il Papato lo rivoleva indietro. Su
questo era intransigente. Spingeva su questa posizione intransigente anche
il popolo che aveva chiamato a difesa delle sue ragioni. Ora ci sembra strano,
ma, a quei tempi, le formazioni cattoliche subivano il rigore delle misure di
polizia contro la sovversione politica. Il prete giornalista Davide Albertario,
direttore del quotidiano milanese L’osservatore cattolico, fu
arrestato nel 1898 e condannato a tre anni di reclusione, per aver criticato
aspramente la sanguinosa repressione, da parte del generale Fiorenzo Bava
Beccaris, dei moti popolari di quell'anno, motivati dalle difficoltà di vita
della gente meno ricca e, in particolare, dall'aumento del prezzo del pane. La
figura di Albertario sintetizza bene le posizioni politiche dell’intransigentismo
cattolico di allora: opposizione dura al nuovo Regno d’Italia
motivata con esigenze di riforma sociale nell'interesse
anzitutto del popolo.
E’ molto importante capire
questo: mentre gli altri sovrani degli stati che nella prima metà
dell’Ottocento dominavano l’Italia opponevano alle pretese di unificazione
nazionale la legittimità storica e giuridica del loro
dominio politico, in sostanza l’assetto politico che, dopo la caduta
dell’imperatore francese Napoleone Bonaparte, era stata data all’Europa nel
Congresso di Vienna (tenutosi a Vienna tra il 1814 e il 1815) dalle potenze
vincitrici, il Papato volle giustificare davanti ai popoli le proprie pretese
di un regno in Italia innanzi tutto sia con esigenze di tutela
dell’indipendenza della sua missione universale, ma anche con la critica della
nuova civiltà che i nazionalisti liberali e democratici volevano attuare in
Italia e la necessità di indipendenza politica per contrastarla, questa seconda
esigenza come parte della prima, della sua missione civilizzatrice. Sostenne
che questa nuova civiltà non era per il bene del popolo, che avrebbe richiesto
altri provvedimenti. Questa esigenza di riforma sociale, nel
periodo dell’intransigentismo, durato fino al 1909, quando il Papato
consentì ai cattolici italiani di partecipare alle elezioni politiche nazionali
(era stato loro vietato dal 1864 con una serie di provvedimenti dell’autorità
religiosa che vanno sotto il nome di non expedit - non conviene[partecipare
alle elezioni), era in fondo strumentale alle pretese del Papato riguardanti la
restaurazione del suo regno con capitale a Roma, ma successivamente, in
particolare in prospettiva delle elezioni politiche del 1913, le prime a
suffragio universale maschile (prima vi erano state limitazioni relative al
reddito e all'istruzione) e, ancor più durante la Prima Guerra Mondiale
(1914-1918), divenne assolutamente prioritaria, finendo addirittura per essere
inquadrata dal Papato nel dovere religioso di carità, a cominciare
da un discorso tenuto agli universitari della FUCI - gli universitari cattolici
- il 18 dicembre 1927 dal papa Achille Ratti, regnante in religione come
Pio 11°, di cui trascrivo il brano fondamentale per il tema che sto trattando:
I giovani talora si
chiedono se, cattolici come sono, non debbano fare alcuna politica. Ed ecco
che, dedicando il loro studio ai suddetti argomenti, vengono a porre in se
stessi le basi della buona, della vera, della grande politica, quella che è
diretta al bene sommo e al bene comune, quello della polis,
della civitas, a quel pubblico bene, che è la suprema lex a cui
devono esser rivolte le attività sociali. E così facendo essi comprenderanno e
compieranno uno dei più grandi doveri cristiani, giacché quanto più vasto e
importante è il campo nel quale si può lavorare, tanto più doveroso è il
lavoro. E tale è il campo della politica, che riguarda gli interessi di
tutta la società, e che sotto questo riguardo è il campo della più vasta
carità, della carità politica, a cui si potrebbe dire null'altro, all'infuori
della religione, essere superiore. È con questo intendimento che i
cattolici e la Chiesa debbono considerare la politica; poiché la Chiesa e i
suoi rappresentanti, in tutti i gradi di tal rappresentanza, non possono essere
un partito politico, né fare la politica di un partito, il quale per natura sua
attende a particolari interessi, o se pur mira al bene comune, sempre vi mira
dietro il prisma di sue vedute particolari. Atteggiamento questo tanto più
raccomandabile a giovani universitari che devono consacrarsi alla propria preparazione,
senza la quale la loro futura attività non può essere né illuminata, né
benefica. Come nel loro presente periodo essi attendono allo studio delle
future professioni e non le esercitano, così anche per ciò che riguarda il
viver sociale; essi devono ora attenersi al loro programma di preparazione,
perché, quando prenderanno il loro posto nella società, possano poi dare a
questa anche il contributo della buona, cristiana politica.
E’
per compiere questo lavoro di carità sociale che il papa
Giuseppe Sarto, regnante come Pio 10° dal 1903 al 1914, decise, nel 1905
con l’enciclica Fermo proposito - Il fermo
proposito [“che fin dai primordi del Nostro Pontificato abbiamo
concepito, di voler consacrare tutte le forze che la benignità del Signore si
degna concederCi alla restaurazione di ogni cosa in Cristo”], di ridisegnare
l’azione sociale dei cattolici con una nuova organizzazione, che è poi, in
sostanza, la nostra Azione Cattolica, formalmente costituita l’anno seguente
con l’approvazione dei suoi statuti. Essa sostituì una precedente
organizzazione con scopi simili che i laici cattolici avevano costituito di
propria iniziativa nel 1874 e che venne sciolta dal Papato nel 1904, a seguito
di dissidi insanabili tra la componente intransigente e quella democratica,
la quale intendeva iniziare a partecipare alla politica nazionale democratica
del Regno con un proprio progetto politico di democrazia ispirata ai valori di
fede, una democrazia cristiana, come la definivano.
Carità è
la parola italiana con la quale, insieme al termine “amore”, si traduce quella
del greco antico agàpe, che richiama l’idea di un lieto
convito in cui ce n’è per tutti. Agàpe ha un significato
teologico molto importante, su base evangelica. Collegare l’azione sociale all’agàpe significò
farne un valore di grande rilievo e, in particolare, riempirla di tanti
valori religiosi. E’ appunto questo che hanno fatto i laici cattolici di Azione
Cattolica nell’accostare i problemi della democrazia. La democrazia, come
oggi la si intende, e non la si è sempre intesa in questo modo, è frutto anche
del loro lavoro e comprende molti più valori che alle origini e, ad esempio
quello della pace, che non è sempre stata un valore democratico. Le
democrazie, storicamente, non sono state sempre pacifiche. Oggi si dà per
scontato che lo siano. E’ una conquista cultura che è stata mediata nelle
culture contemporanee anche con la collaborazione dei laici di Azione
Cattolica.
Man mano
che la democrazia si riempiva di valori, in particolare di quelli che rientrano
nel concetto di giustizia sociale e di tutela della persona
umana, cominciarono a cadere le riserve che storicamente il Papato aveva
avuto verso quel regime politico. Si è imparò molto dall’esperienza, in
particolare da quella dei totalitarismi europei del secolo scorso. Il lavoro
culturale del pensiero sociale cristiano, e in particolare cattolico,
precedette le modifiche della dottrina, dell’insegnamento impartito con
autorità dal magistero, innanzi tutto dal Papa. Anche in seguito fu così. La
prima grande svolta verso una democrazia piena di valori umanitari si ebbe con
una serie di importantissimi radiomessaggi natalizi, rilevanti quanto
un’enciclica sociale, diffusi dal papa Eugenio Pacelli, Pio 12°,
regnante dal 1939 al 1958, durante la Seconda Guerra Mondiale, tra il
1941 e il 1944.
In Italia
laici di fede in gran parte provenienti dall'Azione Cattolica si
riunirono nel 1943 nella foresteria di Camaldoli dei monaci camaldolesi, in
provincia di Arezzo, sull’Appennino Tosco - Romagnolo, per scrivere un progetto
di nuova costituzione, denominato Codice di Camaldoli. Tra il
1946 e il 1947 laici dell'Azione Cattolica furono tra i
protagonisti della scrittura della nuova Costituzione repubblicana, entrata in
vigore il 1 gennaio 1948, che disegnava una democrazia di popolo piena di
valori, tra i quali quello della pace. Leggiamo infatti nell’art.11:
L'Italia ripudia la
guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di
risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di
parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un
ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e
favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.
L’idea della
democrazia come strumento per l’affermazione dei valori, in primo luogo quella
della persona, ebbe sempre più credito nella dottrina sociale, il complesso
delle pronunce del magistero per organizzare la società secondo i valori
indicati dalla fede, attraverso le norme contenute nei documenti del Concilio
Vaticano 2° (1962-1965) e molti altri documenti del Papato, fino ad arrivare, a
cento anni dalla prima enciclica sociale, all’enciclica Centesimus
annus - Il centenario, diffusa nel 1991 dal papa Karol Wojtyla,
regnante come Giovanni Paolo 2°, in cui troviamo l’affermazione del valore di
una democrazia piena di valori:
45. La cultura e la prassi del
totalitarismo comportano anche la negazione della Chiesa. Lo Stato, oppure il
partito, che ritiene di poter realizzare nella storia il bene assoluto e si
erge al di sopra di tutti i valori, non può tollerare che sia affermato
un criterio oggettivo del bene e del male oltre la volontà dei
governanti, il quale, in determinate circostanze, può servire a giudicare il
loro comportamento. Ciò spiega perché il totalitarismo cerca di distruggere la
Chiesa o, almeno, di assoggettarla, facendola strumento del proprio apparato
ideologico.92
Lo Stato totalitario, inoltre, tende ad
assorbire in se stesso la Nazione, la società, la famiglia, le comunità
religiose e le stesse persone. Difendendo la propria libertà, la Chiesa difende
la persona, che deve obbedire a Dio piuttosto che agli uomini
(cf At 5,29), la famiglia, le diverse organizzazioni sociali e le
Nazioni, realtà tutte che godono di una propria sfera di autonomia e di
sovranità.
46. La Chiesa apprezza il sistema della
democrazia, in quanto assicura la partecipazione dei cittadini alle scelte
politiche e garantisce ai governati la possibilità sia di eleggere e
controllare i propri governanti, sia di sostituirli in modo pacifico, ove ciò
risulti opportuno.93 Essa,
pertanto, non può favorire la formazione di gruppi dirigenti ristretti, i quali
per interessi particolari o per fini ideologici usurpano il potere dello Stato.
[…]
un'autentica democrazia
è possibile solo in uno Stato di diritto e sulla base di una retta concezione
della persona umana.
[…]
Una democrazia
senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo,
come dimostra la storia.
[…]
47. Dopo il crollo del totalitarismo
comunista e di molti altri regimi totalitari e «di sicurezza nazionale», si
assiste oggi al prevalere, non senza contrasti, dell'ideale democratico,
unitamente ad una viva attenzione e preoccupazione per i diritti umani. Ma
proprio per questo è necessario che i popoli che stanno riformando i loro
ordinamenti diano alla democrazia un autentico e solido fondamento mediante
l'esplicito riconoscimento di questi diritti. Tra i principali sono da ricordare:
il diritto alla vita, di cui è parte integrante il diritto a crescere sotto il
cuore della madre dopo essere stati generati; il diritto a vivere in una
famiglia unita e in un ambiente morale, favorevole allo sviluppo della propria
personalità; il diritto a maturare la propria intelligenza e la propria libertà
nella ricerca e nella conoscenza della verità; il diritto a partecipare al
lavoro per valorizzare i beni della terra ed a ricavare da esso il
sostentamento proprio e dei propri cari; il diritto a fondare liberamente una
famiglia ed a accogliere e educare i figli, esercitando responsabilmente la
propria sessualità. Fonte e sintesi di questi diritti è, in un certo senso, la
libertà religiosa, intesa come diritto a vivere nella verità della propria fede
ed in conformità alla trascendente dignità della propria persona.
Anche nei Paesi dove vigono forme di
governo democratico non sempre questi diritti sono del tutto rispettati.
[…]
La Chiesa rispetta la legittima
autonomia dell'ordine democratico e non ha titolo per esprimere preferenze
per l'una o l'altra soluzione istituzionale o costituzionale. Il contributo,
che essa offre a tale ordine, è proprio quella visione della dignità della
persona, la quale si manifesta in tutta la sua pienezza nel mistero del Verbo
incarnato.
Nel 1969 l’Azione Cattolica, con
il suo nuovo statuto elaborato sotto la presidenza nazionale di Vittorio
Bachelet (1926-1980), fece dell’attuazione dei principi deliberati dai saggi
del Concilio Vaticano 2° uno dei suoi principali campi di azione sociale e si
propose come palestra di democrazia per l’attuazione sociale dei
valori nel quadro di una democrazia piena di valori, per riempire sempre meglio
la democrazia di valori e per salvaguardare il valore di quel tipo di
democrazia.
Fin dal suo sorgere, perché
negarlo?, l’Azione Cattolica ebbe struttura organizzativa simile a quella di un
partito politico. Del resto essa, storicamente, difese, più o meno al modo di
un partito, posizioni politiche del Papato, in primo luogo, alle origini,
quelle relative alla questione di Roma, la questione romana,
la quale fu chiusa, in modo che molti criticarono nel mondo cattolico, con
i Patti Lateranensi, conclusi nel 1929 con il Regno d’Italia
rappresentato in quella occasione del Capo del governo di allora Benito Mussolini,
fondatore e capo del fascismo. L’Azione Cattolica, ad esempio, ogni anno
distribuisce delle tessere. Oggi non sempre i partiti lo fanno. Ha
un’organizzazione democratica, e non tutti i partiti politici l’hanno avuta e
l’hanno. In Azione Cattolica si tengono elezioni per nominare le cariche
associative. Si deliberano documenti in varie assemblee, come si fa nei
parlamenti. E diversi laici di Azione Cattolica hanno rivestito importanti
cariche istituzionali in Italia. Ricordo per tutti il Presidente della
Repubblica Oscar Luigi Scalfaro (1918-2012), che tenne sempre al bavero il
distintivo dell’Azione Cattolica. Che cosa differenzia, però, l’Azione
Cattolica da un partito?
L’obiettivo dell’Azione Cattolica
è molto più vasto di quello di un partito, che serve per concorrere
all’esercizio dell’autorità pubblica, nello Stato, nelle Regioni, nei Comuni e
via dicendo. Lo scopo dell’Azione Cattolica è quello stesso della
dottrina sociale: la riforma sociale dell'intera società secondo
valori, per riempire la società e la democrazia di valori. L’Azione
Cattolica è pensiero, innanzi tutto formazione, e, appunto,
azione, che significa azione sociale, in ogni ambito in cui la
persona è inserita, a partire dalla famiglia e fin da molto piccoli.
Per trasformare secondo valori ogni società, lì dove le persone si
organizzano, e allora c'è chi comanda e chi segue, e quindi anche la
possibilità di agire per il bene comune, la felicità di tutti, o
approfittandosi a danno degli altri, facendoli soffrire. Famiglia, scuola,
lavoro, economia, politica istituzionale, solidarietà, arte, sport, cultura…
sono tutti campi di azione sociale di un laico di
Azione Cattolica per l’affermazione dei valori, per organizzare tutte le
società in cui è inserito, collaborando con tutti democraticamente, secondo i
valori. Ora il compito che ci è assegnato è molto più vasto di un tempo, non
riguarda più la sola Italia o l’Europa, ma il mondo intero: è questa la
prospettiva dell’enciclica Laudato si’, diffusa
nel 2015 dal papa Jorge Mario Bergoglio, regnante come Francesco dal 2013.
Non è un lavoro che si può affrontare da soli. Serve essere in tanti per
fare azione sociale, e innanzi tutto per capire realisticamente
il proprio tempo. Ma occorre essere in tanti per persuadere tanta altra gente
dei valori che occorre realizzare e, innanzi tutto, per mediare i
valori di fede in modo che possano essere condivisi da quante più persone
possibile. Bisogna prepararsi bene e fare tirocinio di
azione, come in tutte le attività umane. L’azione sociale si impara, non è
innata: anche a questo serve l’Azione Cattolica. Ma poi c’è da agire insieme,
ciascuno secondo quello che sa fare. Io, ad esempio, agisco anche
scrivendo cose come questa che state leggendo. Confrontandosi però con gli
altri, perché da soli spesso si smarrisce la strada. E’ come quando si va in
montagna in cordata, ciascuno legato ad
altri: se si cade, gli altri fanno sicurezza. I più esperti
indicano agli altri come fare per non rischiare. Spesso sanno come fare perché
hanno sbagliato e si sono corretti. La saggezza dei più anziani non di
rado si basa proprio su questo. Così progredisce l’umanità. Senza questa azione collettiva
i valori e la democrazia come valore sono a rischio. Di certi valori ci si deve
persuadere di generazione in generazione, a cominciare dai più giovani, per
parlar loro dei grandi valori e iniziarli al tirocinio
dell'azione sociale ad essi ispirata.
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FINE