Azione
Cattolica: fede religiosa e democrazia
PARTE PRIMA
(nei post che precedono, sotto quello che state leggendo, trovate le parti successive)
di Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa -
Roma, Monte Sacro, Valli
edizione
ottobre 2018, con nuovi materiali
PARTE PRIMA
0.Introduzione
1.
Religione che cambia il mondo agendo in democrazia.
1.1. Per
cominciare a capire
1.2.
Cercatori di verità
1.3
Azione per il cambiamento
1.4.
Riforma sociale come azione religiosa
1.5 Un
mondo da salvare
1.6
Catechesi civile
1.7
Religione come conquista culturale
1.8 Religione
difficile
1.9 La democrazia come
problema religioso per il cambiamento della società
2
Azione
Cattolica è azione nella società democratica
(26 settembre 2012)
3
Agire da
gente di fede nella società democratica di oggi
(29 settembre 2012)
4
Libertà e democrazia come esperienze collettive di
elevazione delle moltitudini alla piena
cittadinanza. Esse contrastano con la nostra esperienza religiosa? (30 settembre 2012)
5
Fede
religiosa, uguaglianza e democrazia:
relazioni in veloce evoluzione (1
ottobre 2012)
6
La
libertà come opportunità religiosa in democrazia (1 ottobre 2012)
7
L’uguaglianza come pari dignità sociale è alla base delle
democrazie di popolo contemporanee
(3
ottobre 2012)
8
Un appello per ripartire insieme
(4
ottobre 2012)
9
Le ragioni di un lavoro insieme
(5
ottobre 2012)
10
Azione Cattolica: un’esperienza di Chiesa
(7
ottobre 2012)
11
Noi cattolici: cittadini o stranieri nella società in cui
viviamo?
(8
ottobre 2012)
12
Europa, pace, diritti umani. E noi? Abbiamo vinto il premio
Nobel.
(13
ottobre 2012)
13
Insieme per agire da gente di fede
(14
ottobre 2012)
14
Costruire nella società per narrare il fondamento della
nostra speranza
(12
ottobre 2012)
15
Noi: popolo di Dio
(15
ottobre 2012)
16
Essere popolo unito da una fede religiosa
(16
ottobre 2012)
17
Unire le genti per una vita buona
(17 ottobre
2012)
18
Un popolo nuovo
(19
ottobre 2012)
19
Micro-Macro e la ricerca della felicità
(20
ottobre 2012)
PARTE SECONDA
20
Uguale dignità nella Chiesa tra tutti i fedeli
(21
ottobre 2012)
21
Città di Dio, città dell’uomo, città del diavolo
(22
ottobre 2012)
22
Quale impegno nell’Anno
della Fede? Andare avanti!
(24
ottobre 2012)
23
E
pluribus unum: quale fondamento per l’unità?
(25
ottobre 2012)
24
Gioia e timore alla base
dell’impegno religioso nella società
(27
ottobre 2012)
25
Fare memoria di un’alleanza
(30
ottobre 2012)
26
Azione Cattolica: insieme per promuovere la pace universale
(1
novembre 2012)
27
Un nuovo modello globale di organizzazione e convivenza
dell’umanità. Il modello della famiglia
umana.
(2
novembre 2012)
28
Realtà invisibili
(3
novembre 2012)
29
A occhi aperti
(5
novembre 2012)
30
La città dell’uomo
(7
novembre 2012)
31
Una lunga storia
(8
novembre 2012)
32
Sentirsi responsabili di tutto
(10
novembre 2012)
33
Rinnovarsi sempre, ma custodendo ciò che di vitale si è
ricevuto dal passato
(14
novembre 2012)
34
La fede fa scandalo?
(16
novembre 2012)
35
Fede e promozione umana
(19-11-12)
36
Conflitto come esperienza religiosa
(19
novembre 2012)
37
Una riunione “politica”
(23
novembre 2012)
38
Noi e la
storia. Chi siamo veramente?
(28 novembre 2012)
39
La parrhesia* evangelica
(29 novembre 2012)
40
Eterno presente o apertura verso un futuro diverso
(30 novembre 2012)
41
Sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente e
rilevanza religiosa della democrazia
(1
dicembre 2012)
42
La pace universale come finalità religiosa
(3
dicembre 2012)
43
Che fanno i laici cattolici nel mondo?
(3
dicembre 2012)
44
Laicità dello stato: nuovo fronte religioso?
(9
dicembre 2012)
45
Civiltà cristiana e Azione Cattolica
(15
novembre 2012)
PARTE TERZA
46
L’incontro della Chiesa col mondo
(23
dicembre 2012)
47
Cattolicesimo forza di progresso?
(29
novembre 2012)
48
Fede religiosa, forza di progresso
(4
gennaio 2013)
49
Noi, la Chiesa e la società nella crisi
(7
gennaio 2013)
50
Un processo continuo di liberazione
(8
gennaio 2013)
51
Pace come promozione
umana
(13-1-13)
52
Unita’/comunione nella Chiesa e promozione umana
(13 gennaio 2013)
53
Scrutare i segni dei tempi
(15
gennaio 2013)
54
Fede cristiana: speranza credibile e onesta o pia
illusione?
(17 gennaio 2013)
55
La Chiesa vuole rinnovare il mondo
(19
gennaio 2013)
56
Democrazia, difficile virtù
(22-3-16)
57
Dottrina sociale,
liturgia e Concilio Vaticano 2°
(23-3-16)
58
Convincersi della democrazia
(24-3-16)
59
Democrazia dei cristiani, democrazia di tutti
(30-3-16)
60
Nella grande politica
(6-6-16)
61
Il partito del Papa
(8-6-16)
62
Fede e politica: una relazione essenziale
(10-6-16)
63
La vita di fede come esperienza civile
(1-7-16)
64
Condominio o repubblica
(2-7-16)
65
Fedi omicide
(4-7-16)
66
Le religioni e il tribunale della coscienza e della ragione
(16 luglio 2016)
67
La Nazione
(1 agosto 2016)
68
Degrado della politica ed eclisse del
Parlamento
(3-11 agosto 2016)
69
La sfida della pace
(21 febbraio 2016)
70
Impegno civile come attività religiosa
(3 gennaio 2015)
71
Spunti per un dialogo politico su
democrazia di popolo e fede cristiana.
(29-1-15)
72
In sintesi
◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊◊
0.
INTRODUZIONE
1. Viviamo, come società italiana, tempi
impegnativi. Per ognuno lo è sempre la vita quotidiana. Si cambia, bisogna
farsi largo, bisogna sopravvivere, si cerca di durare il più a lungo possibile
e meglio che si può. Per ogni persona è così. Ma la riuscita degli sforzi
individuali dipende in larga misura da come è la società. Il benessere è sempre
un fatto collettivo. Innanzi tutto dipende dalle relazioni sociali. E poi certi
obiettivi, come la possibilità di vivere sicuri, di avere un’istruzione, di
avere una casa e un’alimentazione sufficiente, di poter svolgere un lavoro con
una retribuzione sufficiente, di essere aiutati nella nei periodi in cui non si
ha lavoro o non si può lavorare per malattia o vecchiaia, di potere fare sport,
musica e altre attività interessanti, anche di praticare una religione,
dipendono in gran parte da come è organizzata la società, a cominciare dalla
sua economia, in cui tanta parte hanno le iniziative collettive, di enti
pubblici e privati. Organizzare una società significa fare politica. Lo si può fare su grande e piccola scala. Non ci
sono solo gli stati, i comuni e via dicendo. Ognuno di noi, interagendo con gli
altri, fa politica, ad esempio nel palazzo dove abita,
nel quartiere, nel circolo che frequenta, nel gruppo sportivo, e anche in una
parrocchia. Ogni fatto collettivo influisce in maniera più o meno accentuata su
altri fatti collettivi e modifica la società intorno. Poi si cerca anche di
intervenire d’autorità, esercitando poteri pubblici, diramando ordini,
sentenziando, preparando programmi, stabilendo regole. Ma come verranno
accolti? Ogni società esprime una certa resistenza alle imposizioni. Per
vincerla c’è la strada della persuasione o quella della violenza. Si cerca di
fare in modo di scoraggiare la violenza
privata, ma allora si deve organizzare una certa misura di violenza pubblica.
Ma quando quest’ultima supera un certo livello, la società diventa infelice.
Accade anche quando non si riesce a limitare la violenza privata, ad esempio
quella delle bande criminali. Ma come persuadere più gente possibile? A questo
serve il dialogo politico, quello che
riguarda l’organizzazione della società. Perché sia efficace occorre però
fidarsi degli altri ed essere veramente convinti che insieme si possano trovare
e soprattutto attuare soluzioni più efficaci sia ai mali sociali, sia ai mali
privati che a quelli sociali sono tanto strettamente collegati. Per aver
fiducia gli uni negli altri occorre conoscersi. Meglio ci si conosce, più ci si
fida. Ma di chi? Se, conoscendo una persona, trovo che è cattiva, allora non
dovrei fidarmi di lei. Perché magari ora non è cattiva con me, ma solo con altri, ma
potrebbe venire il momento in cui lo sarà anche con me. Chi è cattivo, chi è
buono? Se lo chiedo, i miei interlocutori si trovano in imbarazzo a darmi una
risposta. In altre epoche si era meno indecisi. Ma ogni epoca ha avuto i suoi
criteri etici, per giudicare il buono e il cattivo. Nella nostra, appunto, si è
più indecisi. Però decidersi è importante. Ecco, l’Azione Cattolica, fu fondata
proprio per fare questo lavoro, politico in
senso ampio.
2. Di solito si
racconta le sue origini risalgono ad un gruppo di giovani bolognesi che si
costituì nel 1867. Si era in un’epoca molto impegnativa nella storia d’Italia.
Si sottolinea l’aspetto religioso dell’iniziativa, ma, in realtà, la politica
era il vero campo di impegno. Si stava completando l’unità nazionale. Il Regno
d’Italia, sotto la dinastia piemontese dei Savoia, era stato proclamato nel
1861. Mancava Roma e i nazionalisti di vario orientamento, i monarchici ma
anche i repubblicani di Giuseppe Mazzini (1805-1872), la volevano. A Roma e
dintorni c’era il Papa, che era anche il sovrano di un piccolo regno
nell’Italia centrale di allora, che dal 1860 si era ridotto più o meno al
Lazio. Vi furono quindi movimenti di laici cattolici che si organizzarono come
forza sociale di resistenza a difesa della monarchia pontificia. Nel 1870 lo Stato pontificio, il regno politico del
Papa, fu conquistato militarmente dal Regno d’Italia. In quel momento era in
corso a Roma un concilio ecumenico, il Concilio ecumenico Vaticano 1°. La
città fu assaltata; a cannonate si fece una breccia nelle mura della città, un
centinaio di metri a destra guardando Porta Pia. Ci furono combattimenti
sanguinosi con morti e feriti tra glie eserciti contrapposti, ma i pontifici si
arresero presto. L’anno seguente la capitale del Regno d’Italia fu trasferita a
Roma e, per garantire la posizione e la missione del Papato, fu approvata una
apposita legge, detta delle Guarentigie (=garanzie).
Il Papato vietò ai cattolici la partecipazione alla politica nazionale, sotto
pena di sanzione canonica e si considerò prigioniero
in Vaticano.
Questi fatti
suscitarono un’enorme impressione nella società cattolica italiana. Una parte
dei cattolici era stati ed erano nazionalisti. Ma molti si schierarono a difesa
del Papato, a sostegno delle sue rivendicazioni di restituzione del suo regno
intorno a Roma. Naturalmente questo movimento ebbe motivazioni profonde e
colte, che, in sostanza, proponevano l’idea che, senza quel piccolo regno, il
Papato fosse menomato anche nella sua missione religiosa. Quindi la posizione
politica intransigente verso i
nazionalisti monarchici e repubblicani, verso l’ideologia liberale che in
genere era da loro seguita, verso i nuovo regno unitario italiano, ebbe anche
profonde motivazioni religiose. Senza un Papato veramente indipendente, si
sosteneva, anche la civiltà del popolo italiano, che tanto era legata alla fede
religiosa, ne sarebbe uscita scossa, alterata. Si pensò, ed era la prima volta
che accadeva, di suscitare un vasto moto di resistenza nel popolo a difesa
delle ragioni del Papato, non solo con un’azione di propaganda culturale, ma
con un ampio programma di azioni sociali, sull’esempio di ciò che si stava
facendo in tutta Europa a quell’epoca, in particolare ad opera dei movimenti
socialisti, in particolare per sostenere e istruire i lavoratori dipendenti
delle città e delle campagne, ad esempio con mutue per assisterli nella disoccupazione o nelle
malattie, con cooperative di
lavoro. Si cercò di dare un coordinamento nazionale a tutte queste
iniziative creando un’organizzazione specifica, l’Opera dei Congressi, costituita nel 1974, con articolazione
centrale e locale, strettamente legata al Papa, sebbene non fosse una sua
emanazione. C’era tutta questa attività sociale a sfondo religioso, che
comprendeva anche un capillare lavoro di formazione culturale e propriamente
politico, nel senso appunto di un atteggiamento intransigente verso il nuovo stato unitario italiano. Ma
l’intento principale era politico.
Scrive Arturo
Carlo Jemolo (1891-1981), professore di diritto ecclesiastico (che riguarda le
norme degli stati che regolano i rapporti con la Chiese) e storico, uno dei maggiori esponenti del
mondo cattolico italiano, in Chiesa e
Stato in Italia negli ultimi cento anni,
Einaudi, 1948 (1° ed.) - 1963 (ed. riveduta e ampliata) [richiede una
formazione di tipo universitario]:
[pag.13] «La prima metà del secolo era quasi consumata allorché, il 1 giugno 1846, si
spegneva Gregori XVI [16°]; già s’intravedevano le caratteristiche della storia
della Chiesa nell’Ottocento quali si sarebbero profilate allo storico futuro.
Non
grandi controversie teologiche, né aspri
dibattiti dottrinali, né contrapposizione di scuole a scuole; neppure lotte tra
Ordini religiosi, o tra clero secolare e clero regolare.
[…]
In nessuno di
questi campi la storia della Chiesa dell’Ottocento avrebbe presentato episodi
emozionanti, aspri contrasti, com’eransi dati in altri secoli, La Chiesa
avrebbe incontrato in vece le sue ore più difficili nei rapporti con gli Stati.
Di fronte alle ideologie politiche, ai partiti che le incarnano, alle leggi per
realizzarle, la Chiesa avrebbe dovuto prendere posizione; e qui avrebbe
affrontato battaglie, forse toccato dure sconfitti.
L’Ottocento
appariva ormai come il secolo contraddistinto
dal contrasto delle ideologie politiche. Due fondamentali di fronte.
Quella che era ancora la prosecuzione dell’enciclopedismo e dell’illuminismo, realizzatisi in struttura
politica nella Rivoluzione francese, e che, a ragione o a torto, […] si
considerava avesse avuto ad erede
l’impero napoleonico e, dopo la sua caduta, quanto ne serbavano rimpianto. E
l’ideologia che affermava i valori del cattolicesimo, quelli della tradizione,
anzitutto della tradizione monarchica; che nel re legittimo, alleato con la
Chiesa, scorgeva il caposaldo per
l’opera di ricostruzione, di cui appariva urgente il bisogno ai suoi fautori;
ricostruzione degl’istituti, delle leggi, delle grandi linee della struttura
politica, del sistema dei rapporti tra popoli, e soprattutto dell’uomo
interiore e di ciò che lo forma: scuola, metodi di educazione, stessa
disciplina familiare, ambiti tutti in cui occorreva rimediare all’opera
deleteria svoltasi a partire dal Settecento.”
Con la fine
del suo regno nell’Italia centrale il Papato si vide minacciato nella sua
missione religiosa, in Italia e nel mondo, e vide minacciata la stessa civiltà
degli italiani. Bisogna infatti ricordare che il nazionalismo italiano, di impostazione fondamentalmente
liberale, era divenuto piuttosto anticlericale nel contrapporsi alle pretese
politiche del Papato di mantenere quel regno. Quindi vennero incoraggiate
quelle aggregazioni laicali confluite nell’Opera dei Congressi, che presto
divennero l’equivalente di un potente partito politico, di impostazione politica intransigente verso le nuove istituzioni
unitarie e verso la politica nazionale che le sosteneva. Ad esse il Papato
diede uno straordinario manifesto ideologico, un documento di natura
programmatica che disegnava un progetto di riforma dell’intera società, avendo
di vista in particolare la situazione italiana: l’enciclica Rerum
Novarum - Le Novità diffusa nel 1891
dal papa Vicenzo Gioacchino Pecci, regnante ormai solo in religione con il nome
di Leone XIII (fino al papa Francesco, i papi continuarono l’uso di attribuirsi
un nome da monarchi capi di stato, con il numero ordinale a fianco: primo, secondo…). A questo punto i
cattolici italiani divennero una forza politica molto agguerrita, con una
struttura capillare sul territorio e una forte ideologia, divenuta obbligatoria, parte della dottrina, appunto una dottrina sociale, un vasto programma di riforma sociale a cui diedero il loro contributo, per svilupparlo,
ingegni di grande rilievo, come l’economista e sociologo beato Giuseppe Toniolo (1845-1918). Ma, passando gli
anni dalla conquista dello Stato pontificio, ci si rese conto che
l’atteggiamento intransigente, che comportava il divieto di partecipare alla
politica nazionale eleggendo e presentandosi come candidati, non consentiva di
cogliere le opportunità offerte dall’ordinamento democratico del Regno
d’Italia, un regno costituzionale, in cui l’indirizzo
politico dello stato era determinato anche da una camera elettiva, la Camera dei deputati, oltre che da un Senato integralmente di nomina regia e a vita. I
giovani soprattutto proposero di organizzare una partecipazione democratica alla vita politica nazionale, secondo principi
sociali orientati dalla fede,
in linea con la dottrina sociale. Ciò avrebbe richiesto maggiori spazi di
autonomia dei laici nelle cose della società. Quest’idea, della possibilità di
una democrazia cristiana, fu duramente
respinta dal Papato, con un’enciclica diffusa nel 1901 dallo stesso Papa della Rerum Novarum, il Pecci - Leone 13°, la Graves
de communi re - Le serie divergenze [sulle questioni sociali] [su
<vatican.va> solo nel testo inglese - traduzione italiana in
<http://www.totustuustools.net/magistero/l13grave.htm>]. Alle correnti democratiche cristiane si opposero duramente, nell’Opera dei
Congressi, quelle intransigenti. L’ideologia democratico
cristiana fu presto confusa e assimilata con il modernismo, il movimento essenzialmente culturale per un
rinnovamento della cultura religiosa nel cattolicesimo, in particolare
nell’interpretazione dei testi sacri, colpito radicalmente e senza tregua in
quella che fu l’ultima persecuzione religiosa attuata storicamente dal
Papato. Non ottenendosi una tacitazione
delle correnti democratiche cristiane, il Papato assunse l’iniziativa di
organizzare, in sostituzione dell’Opera dei Congressi che fu sciolta d’autorità
nel 1904, una nuova organizzazione, che comprese anche una sezione propriamente
politica, denominata Unione elettorale. L’iniziativa prese inizio con l’enciclica Fermo proposito, diffusa nel 1905 dal papa Giuseppe Sarto,
regnante in religione come Pio 10°, che potete leggere in
http://w2.vatican.va/content/pius-x/it/encyclicals/documents/hf_p-x_enc_11061905_il-fermo-proposito.html
nella quale è
scritto:
«Importa inoltre ben definire le opere intorno alle quali si devono spendere
con ogni energia e costanza le forze cattoliche. Quelle opere devono essere di
così evidente importanza, così rispondenti ai bisogni della società odierna,
così acconce agli interessi morali e materiali, soprattutto del popolo e delle
classi diseredate, che mentre infondono ogni migliore alacrità dei promotori
dell’azione cattolica pel grande e sicuro frutto che da sé medesime promettono,
siano insieme da tutti e facilmente comprese ed accolte volonterosamente.
Appunto perché i gravi problemi della vita odierna sociale esigono una
soluzione pronta e sicura, si desta in tutti il più vivo interesse di sapere e
conoscere i vari modi onde quelle soluzioni si propongono in pratica. Le
discussioni in un senso o nell’altro si moltiplicano ogni dì più e si propagano
facilmente per mezzo della stampa. È quindi supremamente necessario che
l’azione cattolica colga il momento opportuno, si faccia innanzi coraggiosa e
proponga anch’essa la soluzione sua e la faccia valere con propaganda ferma,
attiva, intelligente, disciplinata, tale che direttamente si opponga alla
propaganda avversaria. La bontà e giustizia dei principi cristiani, la retta
morale che professano i cattolici, il pieno disinteresse delle cose proprie non
altro apertamente e sinceramente bramando che il vero, il solo, il supremo bene
altrui, infine l’evidente loro capacità di promuovere meglio degli altri anche
i veri interessi economici del popolo, è impossibile non facciano breccia sulla
mente e sul cuore di quanti ascoltano e non ne aumentino le file, fino a
renderli un corpo forte e compatto, capace di resistere gagliardamente alla
contraria corrente e di tenere in rispetto gli avversari.
Tale supremo
bisogno avvertì pienamente il Nostro Antecessore di beata memoria Leone XIII,
additando soprattutto nella memoranda Enciclica Rerum Novarum” ed in altri
documenti posteriori, l’oggetto intorno al quale precipuamente doveva svolgersi
l’azione cattolica, cioè “la pratica soluzione a seconda dei principi cristiani
della questione sociale”. Noi pure, seguendo così sapienti norme, col Nostro
Motu proprio del 18 Dicembre 1903 abbiamo dato all’azione popolare cristiana,
che in sé comprende tutto il movimento cattolico sociale, un ordinamento
fondamentale che fosse quasi la regola pratica del lavoro comune ed il vincolo
della concordia e della carità. Qui dunque ed a questo scopo santissimo e
necessarissimo devono anzitutto aggrupparsi e solidarsi le opere cattoliche,
varie e molteplici nella forma, ma tutte egualmente intese a promuovere con
efficacia il medesimo bene sociale.
[…]
l’odierno
ordinamento degli Stati offre indistintamente a tutti la facoltà di influire
sulla pubblica cosa, ed i cattolici, salvo gli obblighi imposti dalla legge di
Dio e dalle prescrizioni della Chiesa, possono con sicura coscienza giovarsene,
per mostrarsi idonei al pari, anzi meglio degli altri, di cooperare al
benessere materiale civile del popolo ed acquistarsi così quell’autorità e quel
rispetto che rendano loro possibile eziandio di difendere e promuovere i beni
più alti, che sono quelli dell’anima.
Quei diritti civili sono
parecchi e di vario genere, fino a quello di partecipare direttamente alla vita
politica del paese rappresentando il popolo nelle aule legislative. Ragioni gravissime Ci dissuadono,
Venerabili Fratelli, dallo scostarsi da quella norma già decretata dal Nostro
Antecessore di s. m. Pio IX e seguita poi dall’altro Nostro Antecessore di s.
m.Leone XIII durante il diuturno suo
Pontificato, secondo la quale rimane in genere vietata in Italia la
partecipazione dei cattolici al potere legislativo. Sennonché altre ragioni
parimenti gravissime, tratte dal supremo bene della società, che ad ogni costo
deve salvarsi, possono richiedere che nei casi particolari si dispensi dalla
legge, specialmente quando voi, Venerabili Fratelli, ne riconosciate la stretta
necessità pel bene delle anime e dei supremi interessi delle vostre Chiese e ne
facciate dimanda.
Ora la possibilità di questa benigna concessione
Nostra induce il dovere nei cattolici tutti di prepararsi prudentemente e
seriamente alla vita politica, quando vi fossero chiamati. Onde importa assai, che quella stessa
attività, già lodevolmente spiegata dai cattolici per prepararsi con una buona
organizzazione elettorale alla vita amministrativa dei Comuni e dei Consigli
provinciali, si estenda altresì a prepararsi convenientemente e ad organizzarsi
per la vita politica, come fu opportunamente raccomandato con la circolare del 3
dicembre 1904 alla Presidenza generale delle Opere economiche in Italia.
Nello stesso tempo dovranno inculcarsi e seguirsi in pratica gli altri principi
che regolano la coscienza di ogni vero cattolico. Deve egli ricordarsi sopra
ogni cosa di essere in ogni circostanza e di apparire veramente cattolico,
accedendo agli offici pubblici ed esercitandoli col fermo e costante proposito
di promuovere a tutto potere il bene sociale ed economico della Patria e
particolarmente del popolo, secondo le massime della civiltà spiccatamente
cristiana e di difendere insieme gli interessi della Chiesa, che sono quelli
della Religione e della giustizia.
[…]
Ci resta a toccare, Venerabili Fratelli, di un
altro punto di somma importanza, ed è la relazione che tutte le opere dell’azione
cattolica devono avere rispetto all’Autorità ecclesiastica. Se bene si
considerano le dottrine che siamo andati svolgendo nella prima parte di queste
Nostre Lettere, si conchiuderà di leggieri, che tutte quelle opere che direttamente vengono in sussidio del
ministero spirituale pastorale della Chiesa e che si propongono un fine
religioso in bene diretto delle anime, devono in ogni menoma cosa essere
subordinate all’autorità dei Vescovi, posti dallo Spirito Santo a reggere la
Chiesa di Dio nelle diocesi loro assegnate. Ma anche le altre opere, che, come
abbiamo detto, sono precipuamente istituite a ristorare e promuovere in Cristo
la vera civiltà cristiana e che costituiscono nel senso spiegato l’azione
cattolica, non si possono per niun modo concepire indipendenti dal consiglio e
dall’alta direzione dell’Autorità ecclesiastica, specialmente poi in quanto
devono tutte informarsi ai principi della dottrina e della morale cristiana;
molto meno è possibile concepirle in opposizione più o meno aperta con la
medesima Autorità. Certo è che tali
opere, posta la natura loro, si debbono muovere con la conveniente ragionevole
libertà, ricadendo sopra di loro la responsabilità dell’azione, soprattutto poi
negli affari temporali ed economici ed in quelli della vita pubblica
amministrativa o politica, alieni dal ministero puramente spirituale. Ma poiché
i cattolici alzano sempre la bandiera di Cristo, per ciò stesso alzano la
bandiera della Chiesa, ed è quindi conveniente che la ricevano dalle mani della
Chiesa, che la Chiesa ne vigili l’onore immacolato e che a questa materna
vigilanza i cattolici si sottomettano, docili ed amorevoli figliuoli.»
Ho trascritto questa lunga citazione
dell’enciclica, mettendo a dura prova la pazienza dei miei lettori, perché i principi contenuti nei brani citati
sono state le norme che hanno regolato
l’azione civile e politica dei cattolici italiani fino al Concilio Vaticano 2° (1962-1965).
E’ sostanzialmente lo statuto di una potente organizzazione politica popolare
che non poteva dirsi propriamente partito politico solo perché mancava di vera autonomia laicale
ed era interamente soggetta alla supremazia di Papa e vescovi. Anticipo che la
situazione è molto cambiata, nel senso del realizzarsi di quella autonomia, con
il nuovo statuto dell’Azione Cattolica approvato nel 1969, per renderlo
conforme ai principi di azione sociale stabiliti nel Concilio Vaticano 2°. Ma anche ora
l’Azione Cattolica non è un
partito politico, perché non è
strumento di alcuna politica, non è partito del papa né partito dei cattolici, non sacralizza
alcun orientamento politico, ma è agente di formazione politica per
preparare le persone di fede a coniugare, in autonomia e libertà, sapienza e
dottrina, dialogando i società, nella pluralità delle opzioni possibili, azione
sociale e politica e carità in senso religioso, quindi per capire come riempire
politica e azione sociale dei valori di fede. Questo il senso della scelta religiosa fatta dall’associazione, con il consenso dei
vescovi italiani, con l’approvazione del nuovo statuto del 1969, sotto la
presidenza di Vittorio Bachelet (1926-1890).
Nel 1906,
l’anno seguente l’enciclica Fermo
proposito, furono approvati i nuovi
statuti dell’Azione Cattolica, costituita da quattro organizzazioni: l’Unione popolare, l’Unione economico sociale, l’Unione
elettorale e la Società
della gioventù cattolica. Il disegno
si completò nel 1908 con l’Unione donne
cattoliche italiane, che ebbe un
grandioso sviluppo dopo la Prima Guerra mondiale (1914-1918). E’ a questa epoca
che risale la nostra Azione Cattolica. Uno dei principali
architetti di questo disegno organizzativo fu il beato Giuseppe Toniolo. Questo
potente movimento sociale venne indirizzato alla riforma sociale secondo
principi di fede e organizzò una grandioso e capillare lavoro di formazione
politica popolare, di massa, che coinvolse anche le donne, in epoca in cui esse
non potevano ancora votare (in Italia poterono farlo per la prima volta solo
nel 1946). Sempre più passò in secondo piano la questione romana, le pretese
politiche del Papato ad un proprio regno in Italia
vennero infine risolte, in maniera ritenuta disonorevole da diverse grandi anime del cattolicesimo italiano, ma comunque
risolte, nel 1929, con i Patti lateranensi, accordi con il Regno d’Italia che
in quell’occasione fu rappresentato dal capo del governo di allora, Benito
Mussolini, fondatore del regime fascista storico, con la creazione di un
simulacro di stato in Vaticano, denominato Città
del Vaticano, dove tutt’oggi è arroccata la corte pontificia. In nessun
modo esso è il successore dello Stato pontificio. Dovrebbe servire solo a
rendere indipendente il Papato dalle pretesi degli stati del mondo. Ma il
Papato partecipa nella comunità internazionale, ad esempio mandando propri ambasciatori
(detti Nunzi) e ricevendo quelli
degli stati, non come sovrano della Città del Vaticano, ma proprio in quanto
Papato, e ciò per millenaria tradizione storica.
Nell’Azione
cattolica italiana maturò la lenta assimilazione culturale della politica
democratica da parte dei cattolici italiani.
Una prima tappa
fu l’organizzazione, nel 1919, di un
vero e proprio partito politico, distinto dall’Azione cattolica e dalla Chiesa
cattolica, con responsabilità propria dei propri aderenti, per un disegno di
riforma sociale nel senso indicato dalla dottrina sociale, il Partito popolare, sciolto d’autorità,
con altri partiti democratici, nel 1926 dal regime fascista.
Dal 1930, con
l’enciclica Quadragesimo anno - Il
quarantennale, diffusa nel 1931 dal
papa Achille Ratti, regnante come Pio 11°, documento che contiene anche la
formulazione dell’importantissimo principio
di sussidiarietà, sul quale, con la
collaborazione determinante di politici cattolici, fu fondata la nostra nuova
Europa, il Papato accreditò il regime fascista, al quale i cattolici italiani
furono spinti a collaborare. Il tirocinio democratico rimase proprio, in Azione
Cattolica, quasi solo di alcune organizzazioni ristrette, come la FUCI - gli
universitari cattolici - e i Laureati cattolici, in particolare sotto la cura
religiosa di Giovanni Battista Montini, il futuro papa Paolo 6°. Questo
orientamento mutò radicalmente di fronte alle catastrofi sociali provocate
dalla Seconda Guerra Mondiale.
Dagli anni ’30
le organizzazioni intellettuali dell’azione Cattolica, costituite nella storia
dell’associazione, progettarono il superamento del regime fascista, e, in
particolare una nuova costituzione e nuovi indirizzi politici. Cattolici
provenienti dall’Azione Cattolica furono protagonisti nella guerra civile
combattuta contro le ultime manifestazioni del regime fascista, dal 1945 al
1945 e della creazione della Repubblica democratica. Essi crearono il partito
politico, denominato Democrazia Cristiana, che, dal 1946 al 1994, resse le coalizioni di
governo, prima di orientamento centrista e poi di centrosinistra,
con la partecipazione di partiti
socialisti, attuando parte delle riforme sociali disegnate nella nuova
Costituzione repubblicana, scritta e approvata, con il contributo determinante
di cattolici provenienti dall’Azione Cattolica, negli anni 1946 e 1947 ed
entrata in vigore il 1 gennaio 1948. Il
successo di tale partito fu determinato dall’appoggio del Papato, che, con una
serie di radiomessaggi natalizi tra il 1941 e il 1944 del papa Eugenio Pacelli
- Pio 12° (tutti pubblicati sul sito <vatican.va>), in piena Seconda
guerra mondiale, defascistizzò
l’orientamento politico dei cattolici italiani, spingendoli a partecipare a una
riforma costituzionale e sociale democratica, realizzata con la nostra
Costituzione repubblicana, piena di principi desunti dalla dottrina sociale.
La svolta democratica dell’Azione Cattolica fu consolidata nel 1969
con il nuovo statuto, nel quale l’associazione è definita palestra di democrazia.
3. Mi sono
dilungato su riferimenti storici per far capire che l’Azione Cattolica italiana è
cosa molto diversa da come spesso la si pensa superficialmente, assimilandola
ad altre associazioni e movimenti a sfondo religioso.
Nella nostra
parrocchia è iniziato il lavoro dell'Azione Cattolica Ragazzi - ACR. Ci
sono altri ragazzi, poco più anziani di quelli dell’ACR, che faranno da
educatori. Si faranno delle domande sull’Azione Cattolica. I ragazzi dell’ACR
cresceranno presto e anche loro si faranno domande analoghe. Ecco, ho cercato
di spiegare che cos’è l’Azione Cattolica. Ma anche di
rendere un’idea del lavoro che c’è da fare in società. Perché a quello ci
chiamano, con particolare intensità oggi, il Papa e i vescovi.
La società vive tempi impegnativi: così
ho iniziato. Ci sono problemi sociali che creano dolore e difficoltà nelle vite
delle persone. Per pensare e realizzare
soluzioni serve gente preparata ed eticamente ben indirizzata. Quindi gente competente e buona,
capace di collaborare con l’altra gente competente
e buona che c’è, per cambiare sapientemente ciò che
non va, dialogando con gli altri, persuadendoli a seguire le vie buone e
coinvolgendoli in questo lavoro che è, ancora, riforma sociale. Formarla fin dai giovanissimi, educarla,
completarne la preparazione anche da adulta, cercando di suscitare e
diffondere, in un lavoro collettivo che è anche e principalmente di
auto-formazione, visioni realistiche, affidabili, di ciò che accade e progetti
di soluzione, è parte del lavoro di Azione Cattolica. In una prospettiva che,
ormai, non riguarda più solo l’Italia, o l’Europa, ma addirittura il mondo
interno, secondo le indicazioni che troviamo nell’enciclica Laudato si’, diffusa nel 2015 dal papa
Francesco.
Ho cercato
anch’io di fare la mia parte, negli anni passati.
Pubblico,
raccolte in un unico documento, mie riflessioni, svolte sul blog
<acvivearomavalli.blospot.it> dal settembre 2012 all'ottobre 2018,
che possono essere utili a quel lavoro
da fare in Azione Cattolica, in particolare in un gruppo locale di impegno collettivo che voglia avere una certa
consapevolezza storica.
Ne autorizzo
il libero utilizzo in qualunque forma, senza onere di indicarne l’autore. Come
ho scritto presentando un mio precedente lavoro, restituisco ciò che ho
ricevuto in un lungo periodo di formazione prima nella nostra parrocchia, poi
tra gli scout cattolici, in FUCI e infine del Movimento Ecclesiale di impegno
Culturale, l’attuale denominazione degli antichi Laureati cattolici.
Consiglio a
tutti di avere sotto mano il libro di storia dell’ultimo anno delle scuole
medie frequentata, inferiori o superiori. A quelli che non l’hanno più in casa,
consiglio di procurarsi l’ultima edizione del volume 3 del testo Nuovi Profili Storici - Con percorsi di
documenti e di critica storica di
Andrea Giardina, Giovanni Sabbatucci e Vittorio Vidotto, Editori Laterza, €40,50,
un testo per i licei.
Per
aggiornarsi rapidamente si possono utilizzare:
http://www.treccani.it/enciclopedia/
e
http://www.treccani.it/biografico/index.html
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1.1
Per
cominciare a capire
Nello statuto nazionale (articoli 1 e 2) dell’Azione
Cattolica è scritto che essa è fatta
di laici che si impegnano liberamente,
per impregnare dello spirito evangelico
le varie comunità e i vari ambienti. Più avanti (art.3) è scritto che gli
associati si impegnano in particolare anche ad informare dello spirito cristiano le scelte da loro compiute con
propria responsabilità personale, nell’ambito delle realtà temporali (cioè,
traducendo dal gergo teologico, nella società civile). E, ancora, (art.11) che quella in Azione Cattolica è
un’esperienza popolare e democratica. Essa poi è presentata come rivolta alla crescita della comunità
cristiana e si dice animata dalla tensione verso l’unità, da costruire partendo da diverse
esperienze e condizioni di vita. Nell’Atto
Normativo Diocesano della Diocesi di
Roma è scritto che l’esperienza in Azione
Cattolica è una palestra di democrazia e di responsabilità civile.
La storia.
Dalla fine del Settecento cominciano a diffondersi e ad essere attuati, a
partire dall’Europa, ideali democratici di organizzazione sociale. Si produce
una profonda e tragica frattura tra l’organizzazione di vertice della Chiesa
cattolica, espressa dal clero, e i movimenti democratici. Essa attraversa i
popoli evangelizzati. In Italia si complica per l’interferenza del potere
temporale dei Papi con la questione dell’unità nazionale. L’esperienza storica
dell’Azione Cattolica è stata la manifestazione di vari tentativi
di realizzare, senza rompere l’unità
ecclesiale, una partecipazione di popolo
alla missione della Chiesa attuata con maggiore responsabilità laicale e
secondo criteri di non esclusiva soggezione gerarchica, sia ideale e
programmatica che pratica, almeno nelle cose che riguardano l’organizzazione
della società civile. In ciò consiste appunto la sua tendenziale democraticità. L’impegno nel sociale è
venuto poi assumendo anche il
significato di un tentativo di comporre la plurisecolare diffidenza dei
vertici ecclesiali, e quindi anche della teologia ritenuta ortodossa
dall’autorità, verso le acquisizioni delle scienze contemporanee, sia naturali
che umane. Infine, dal punto di vista politico, quello di mediare per giungere
al superamento del risentimento storico del papato per la perdita del potere
temporale in Italia e della storica indifferenza dei vertici ecclesiali verso i
regimi politici democratici rispetto a quelli non democratici o addirittura
antidemocratici (venuta meno solo nel 1944 con il radiomessaggio natalizio del
Papa Pio XII, mentre ancora agli inizi del secolo il Papa allora regnante aveva
condannato l’idea di una democrazia cristiana).
Con ciò è chiaro che si è trattato di un’azione che ha riguardato non solo la
società civile, ma anche la stessa Chiesa. Essa si inquadra in un movimento
storico di pensiero e di azione i cui ideali hanno trovato ampia espressione
nei documenti del Concilio Vaticano II (svoltosi a Roma, nella Città del
Vaticano, dal 1962 al 1965). A partire
da tale evento l’Azione Cattolica,
sotto la presidenza di Vittorio Bachelet, ha fatto della piena attuazione,
nella Chiesa e nel mondo, dei principi stabiliti da Concilio Vaticano II uno dei suoi principali obiettivi.
Due sono i
campi in cui un gruppo di Azione Cattolica può dare un proprio caratteristico
contributo: l’approfondimento dei temi del Concilio Vaticano 2° e la pratica
della democrazia nella vita di fede. Questo può servire per fare spazio agli
altri, per aprirsi agli altri, per convivere serenamente con il pluralismo
della società del nostro tempo, che si riflette anche nelle nostre collettività
religiose. L’esperienza dell’Azione Cattolica nacque nell’Ottocento proprio con
queste finalità, scegliendo una strada diversa da quella dell’intransigentismo dell’epoca, della dura opposizione contro ogni
moto di progresso sociale: oggi si direbbe del fondamentalismo. Essa si propose di far uscire le collettività
religiose da una condizione di arretratezza culturale, sociale e politica e di
separatezza dal contesto nazionale. Un impegno che appare sempre attuale.
Infatti è sempre viva in religione la tentazione di bastare a se stessi, la
paura di perdersi in un contesto in cui ogni opzione di vita ha lo stesso
valore e vengono a mancare solide fondamenta. In realtà si tratta di
ricostruire pazientemente, di epoca in epoca, le città degli esseri umani, secondo l’auspicio di Giuseppe Lazzati,
dove essi possano vivere liberi e felici. Senza una visione di fede è arduo
riuscirci, anche se storicamente le religioni sono state anche fonte di
oppressione e di infelicità. Eppure l’era delle democrazie contemporanee si
apre, nel nord America di fine Settecento, con rivoluzionari che affermano
solennemente che tutti gli uomini sono “creati” uguali e per questo hanno diritto alla ricerca della
felicità: ecco la fede religiosa che libera. Lo ha ricordato papa Francesco nel
suo viaggio negli Stati Uniti d’America
del 2017.
1.2
Cercatori di
verità
(26-9-18)
1. Per orientarci in società in quello che facciamo, abbiamo bisogno di
convinzioni affidabili su come va il mondo, sul passato, su quello che si
prevede nel futuro e sul senso della vita. Quando queste convinzioni sono
condivise da gruppi sociali diventano verità in quei
gruppi. Sono ritenute socialmente affidabili le convinzioni
che funzionano in ciò che ci servono, innanzi tutto per essere accettati in
società, ma anche per difendersene, per farla funzionare, e per sopravvivere
negli ambienti naturali, pieni di rischi. Sono verità quelle che fanno
funzionare le nostre automobili e gli smartphone. Ne siamo convinti anche se
non arriviamo a comprenderle in dettaglio, perché funzionano. Può apparire
strano dirlo, ma anche per le verità religiose è un po’ così. Le verità,
di solito, vengono sottoposte a costante revisione: innanzi tutto per i
processi di apprendimento sociale che progrediscono (e talvolta regrediscono) e
poi perché, al variare delle società che le espressero, anch’esse devono
cambiare, altrimenti non servono più. Una verità, pertanto, è legata a un
gruppo sociale e a un’epoca. Tutte le verità compresenti in un gruppo sociale e
in un tempo sono tra loro collegate: quelle sul senso della vita, ad esempio,
dipendono anche dalla concezione di come va il mondo e di come è andata nel passato.
Oggi riteniamo inaffidabili molte verità degli antichi, ma i posteri,
probabilmente, faranno lo stesso con le nostre. Bisogna dire che, però, molte
delle verità oggi credute sono legate con quelle del passato: spesso ne
costituiscono più che altro un’evoluzione, un adattamento. Questo accade spesso
in religione. Non crediamo più negli antichi
dei, ma non crediamo in un modo molto diverso dagli antichi: gli antropologi,
anzi, riconoscono l’antica religiosità in diversi atteggiamenti di oggi. L’antichissima
narrazione biblica su Adamo ed Eva, che in parte ha analogie
con quelle di altre religioni degli antichi in merito ai primi esseri umani,
oggi non è più considerata verità in senso
storico, ma rimane verità in senso religioso.
Esistono verità assolute, vale
a dire resistenti al cambiamento dei corpi sociali nei quali sono diffuse? In
religione di solito si è convinti di sì, ma, quando si va nel particolare,
vediamo che molti rimaneggiamenti ci sono stati e, anche dove certe verità sono
espresse con parole antiche, oggi le comprendiamo in modo diverso dagli
antichi. Si spiega la cosa dicendo che, nel tempo e secondo le varie società,
esse si sono capite diversamente e, in genere, meglio, con più profondità. In
effetti c’è stata una loro diversa inculturazione. Sono penetrate
in culture diverse che le hanno intese in modi diversi. Ogni epoca vi ha
lasciato qualcosa. Ragionandoci sopra si possono individuare questi lasciti
culturali e anche tentarne un’opera di escissione per così dire chirurgica. Ma
poi sempre anche noi si lascerà in quelle antiche verità qualcosa di nuovo,
perché devono legarsi a società nuove e, se non vi riescono, non possono
permearle. Questo è appunto il lavoro della mediazione culturale.
Studiando i nostri testi
sacri possiamo renderci conto molto bene di queste caratteristiche delle verità
credute in società. E di come certe verità, che vengono ritenute ad un certo
momento non più o meno affidabili sotto certi punti di vista,
mantengono validità sotto altri, ad esempio quando si parla del senso della
vita.
Oggi in religione non si è
più obbligati a credere che gli esseri umani
furono creati esattamente come li vediamo adesso
(anche se c’è chi ancora lo crede). Ma è così che la Creazione viene
presentata nelle Scritture e a lungo, in religione, la si è pensata così. L’evoluzionismo,
la convinzione che i nostri organismi siano il risultato di lunghi processi
biologici di metamorfosi che ci accumunano agli altri mammiferi, è stato da
poco digerito dalla teologia, e non del tutto. E’
ritenuto una verità in ambito scientifico, vale a dire un’idea
affidabile ampiamente condivisa nelle comunità scientifiche che spiega come
siamo arrivati ad essere come siamo, e ciò naturalmente solo fino al
momento in cui essa sia provata come inaffidabile e sostituita con
un’altra che non sia ritenuta tale. I teologi ci hanno spiegato che, comunque,
l’evoluzionismo non mette in questione il senso religioso della vita e, in
particolare, l’idea diCreazione, che significa produrre vita e natura
dotate di senso, proprio come scritto nella Bibbia. Anche nell’evoluzione delle
specie viventi si può scorgere un senso religioso. I racconti biblici sulla
Creazione funzionano ancora come verità in quell’ambito, anche se non sono più
creduti come tali quali spiegazioni scientifiche degli eventi biologici
che portarono alle metamorfosi delle specie fino a noi.
Ci furono tempi in cui si diede
molta importanza al provare l’esistenza di Dio, impiegando
argomenti logici basati anche sull’osservazione dei fatti della natura e
della nostra psicologia. Poi ci si è convinti che è fatica
sprecata. Di fronte alle tante ragionevoli obiezioni poste dagli increduli, in
definitiva noi pur sempre amiamo Dio e perciò crediamo,
e tuttavia anche ragioniamo, ma quel nostro ragionare non è un provare,
bensì l’inquadrare armonicamente quelle religiose tra le altre nostre
convinzioni, quelle che ci servono in società. Si ricorda quel detto dello
scrittore russo Fëdor Dostoevskij secondo
il quale, se gli avessero dimostrato che Dio non esiste, egli avrebbe tuttavia
continuato ad amarlo. Quella su Dio non è una di quelle verità che abbia
bisogno di essere provata per essere ritenuta
affidabile. Per questo resiste ad ogni confutazione, ed anche a quella,
contenuta nelle stesse Scritture, secondo la quale “Dio, nessuno lo ha
mai visto”.
Nel
processo giudiziario vediamo bene esemplificato il dramma che riguarda le verità che
usiamo in società. Cerchiamo di convincerci in modo affidabile di come è andato
un certo fatto storico, che ipotizziamo come illecito e si vorrebbe come tale
sanzionare. Cerchiamo prove, le colleghiamo con dei ragionamenti: proponiamo
una certa ricostruzione. Ma è andata sicuramente così? Arriviamo a
convincercene, e dobbiamo farlo perché una decisione, in un senso o in un altro
va comunque presa. Arriva a diventare irrevocabile, non più confutabile
in sede giudiziaria con i mezzi ordinari. Ad essa il condannato è inchiodato,
come lo fu il nostro Maestro. “Che cosa è la verità?”, gli
aveva chiesto il suo giudice. Fatto sta che oggi non si è più convinti di
quella verità giudiziaria, che lo coinvolse così crudelmente. Accade anche nei
processi di oggi. Sono previste però possibilità di revisione delle
decisioni giudiziarie, quando vengano fuori prove decisive affidabili che ne
dimostrino l’ingiustizia. La verità giudiziaria, come quella scientifica, non
ha la pretesa di essere assoluta e definitiva.
La principale controindicazione alla pena di morte è che, dopo la morte del
condannato, la revisione giudiziaria diventa inutile: rimane solo il lavoro
degli storici, per i fatti di rilevante interesse sociale.
Abbiamo ancora bisogno
di verità? Certamente. La società, altrimenti, non potrebbe
esistere e funzionare, organizzarsi come tale. Abbiamo bisogno di convinzioni
sociali ritenute affidabili e ampiamente condivise. Prima dell’avvento dell’era
delle ferrovie non si sentiva la necessità di tecniche di misurazione del tempo
orario, ora per ora, con precisione al minuto, uniformi a livello
nazionale o addirittura internazionale, salvo che per fare il punto in
navigazione. Dopo fu diverso: anche se l’alba non arriva alla stessa ora in una
città rispetto ad un’altra e il giorno comincia quindi in orari diversi a
seconda dei posti, gli orari di partenza e di arrivo dei treni non dipendono da
quello e se un treno parte alle sette a Roma, arriva alle 10 e qualcosa a
Milano indipendentemente dall’orario dell’alba. Altrimenti come si farebbe a
programmare i viaggi in treno? L’orario ferroviario è unaverità nel
senso che ho precisato.
Abbiamo anche bisogno che alcune
di queste verità, quelle più importanti, non siano nelle mani dei potenti
del momento, e anzi arrivino a obbligare anche loro, come è, ad esempio, per i
valori costituzionali nel nostro regime democratico. Gran parte delle verità
religiose sono appunto del tipo che va maggiormente preservato. Quelle
tecnologiche o sulla natura possono mutare rapidamente, ma quelle sul senso
della vita, no. Nel senso della vita siamo infatti compresi noi stessi,
con la nostra dignità, la nostra felicità, il nostro destino sociale.
I teologi sanno riconoscere quel
nucleo di verità che è rimasto stabile, nelle nostre convinzioni religiose, dai
primi tempi, nonostante le molte varianti culturali, con i conseguenti apporti,
e nonostante che tante altre affermazioni, tanti altri racconti, non siano più
considerati verità in tutti i sensi in cui li si pensava
tali. Chiamano quel nucleo deposito di fede e ci dicono
che è molto importante non solo preservarlo, ma anche tramandarlo,
ciò che richiede necessariamente dimediarlo attraverso i
tempi e le società. Mediare non significa tradire,
ma interpretarlo (non solo tradurlo) in modo
che funzioni anche in epoche e società diverse da quelle originarie, mantenendo
il suo senso profondo, ciò che lo rende santo, che
appunto significa da preservare religiosamente, ma non per semplice puntiglio
dotto di eruditi, bensì per amore. Depositandolo in altre
culture, mediandolo, le comprendiamo in ciò che amiamo.
Oggi si preferisce dire che
siamo cercatori di verità, piuttosto chepossessori, volendo
intendere che siamo sempre impegnati ad approfondire quelle che permangono
stabili nel tempo, perché hanno a che fare con il senso della vita, e a capire
sempre meglio, in maniera sempre più affidabile, il contorno, le altre.
Della ricerca della verità fa parte anche la sua critica,
il vaglio per stabilirne la perdurante affidabilità. Come pure quel lavoro che
definiamo di mediazione culturale, che serve a tramandare e
trasferire le verità più importanti anche oltre le società e i tempi che le
originarono. Ad alcuni esso pare indebito perché la verità è la
verità, dicono, e non si accorgono che, così concludendo, fanno però sempre
riferimento ad una certa versione della verità, socialmente e temporalmente
collocata, ad esempio quella che si ricava dal catechismo del
1905 di san Giuseppe Sarto - Pio 10°. Alla fine restringendo la verità in
una specie di recinto culturale, oltre il quale non ce ne sarebbe più, la si
costringe in una prigione e non le si consente di fare il lavoro che serve in
società, innanzi tutto parlando alla sua gente in maniera tale che possa essere
capita. E’ un po’ l’obiezione che viene posta al Catechismo della Chiesa
cattolica, deliberato nel 1992 come documento normativo, limitativo della
ricerca teologica, non solo come strumento per la formazione dei fedeli.
Gli antichi dei e le antiche
religioni passarono: è un monito serio. Non è che gli antichi fossero
irreligiosi, come, sbagliando, a volte li riteniamo. Non avrebbero perso tempo,
in quel caso, a costruire quei grandi templi che ancora oggi ammiriamo. E’ che,
ad un certo punto, in un processo non istantaneo ma che richiese circa
settecento anni, da quando il greco Socrate cominciò a parlare dell’insufficienza
delle concezioni religiose del suo tempo a quando la nostra fede si affermò
nell’impero romano intorno al Mediterraneo, certe verità non furono più
suscettibili di mediazioni affidabili in società e vennero sostituite da altre
di cui ci si convinse. Potrebbe succedere anche alle nostre verità di fede?
Potrebbe, se abbandoniamo il lavoro di mediazione culturale e di
inculturazione.
Ai tempi nostri c’è una certa
libertà nel credere in certe verità, come quelle religiose o quelle
in materia medica. Questo non significa che si sia effettivamente più liberi,
in generale, in materia di verità. Oggi, ad esempio, si dà molta importanza ai
fatti economici, ed è come se ad ognuno sia assegnato un prezzo che ne
definisce il valore sociale. Si è liberi di dire di non credere in un dio, ma
se non si crede ai fatti economici si finisce in rovina,
e sempre meno ci si sente impegnati a soccorrere chi cade. Qualche volta la
cosa viene presentata come il conflitto tra il Dio della Bibbia e il
dio-denaro. Criticare quest’ultimo, mettendo in questione il sistema sociale
che lo esprime, può essere piuttosto pericoloso. Può costare la libertà e
addirittura la vita. E’ un sistema di valori che sta mutando. Cercare di
spiegarne, e innanzi tutto spiegarsene, le ragioni è una parte di
quel rendere ragione della propria fede, che è un obbligo
importante del fedele religioso. Non basta ripetere a memoria la dottrina
ricevuta, come una volta si faceva da bambini con i nostri vecchi catechismi a
domande e risposte per la Prima Comunione correnti ancora per tutti gli scorsi
anni Sessanta, fino al rinnovamento della catechesi del
decennio succesivo. Questo lavoro del rendere ragione, che è
confrontarsi con le verità del proprio tempo, e innanzi tutto sulla questione
della verità, è un parte importante del lavoro che ci si aspetta da un laico di
fede. Perché egli deve difendere e promuovere i valori di fede, le verità religiose,
nella società del suo tempo. Non si tratta di provare le
realtà soprannaturali, le quali in quanto tali non sono suscettibili di essere
provate, ormai lo abbiamo capito, ma di accreditare nella società del proprio
tempo il senso religioso della vita, quello basato sulla misericordia tra
gli umani che si irradia anche a tutta la natura intorno, perché quella società
cambi nel senso giusto, in questo trovando compagni ben oltre la cerchia di chi
è esplicitamente religioso.
2. Le verità, le convinzioni socialmente condivise, mutano con il
cambiare delle società in cui sono diffuse. Le società cambiano per successioni
delle generazioni o per commistioni con altre società. La formulazione delle
verità, in riti e ideologie, segue il loro affermarsi in società e, in
generale, le istituzioni che hanno il compito sociale di formalizzare le verità
resistono al cambiamento.
L’idea di un’umanità tutta
compresa in un’unica famiglia è molto antica nella nostra fede e corrisponde
alla situazione sociale in cui si affermò alle origini: quella di un grande
impero multinazionale. Tuttavia essa subì delle metamorfosi al variare della
situazione politica europea. La fede si venne nazionalizzando, venendo a
legarsi con società meno aperte, ad etnie e regni. Il processo seguì la
divisione sociale. La divisione comportava la guerra, ma quest’ultima era
considerata come un fatto naturale, come i terremoti e i cicloni atmosferici.
Ogni società si costruiva così il suo dio, ma la teologia non vedeva contraddizione
con una fede di impronta universalistica. Le conquiste europee in Africa,
America ed Asia crearono problemi più seri. In particolare, in Africa e in
America, si venne a contatto con culture molto distanti da quelle europee e
anche con culture primitive. La comune umanità, che era evidente, faticò ad
essere affermata culturalmente, anche in religione. Convissero varie
formulazioni teologiche, quelle universalistiche, quelle nazionalistiche,
quelle di impronta razzista basate su un primato etnico. Queste ultime furono
alla base della colonizzazione religiosa degli europei.
La nostra teologia si mostrò
piuttosto duttile alle esigenze sociali. Così, ciascun popolo, ciascuno stato,
poteva immaginare di avere un proprio dio e, a livello
mondiale, gli europei di avere un diritto di dominio di origine divina, come
strumento per l’evangelizzazione.
La situazione
cominciò a mutare a partire dalla fine del Settecento, con
l’affermarsi delle democrazie di popolo. Si compresero le origini sociali delle
sofferenze sociali, compresi i conflitti e, pertanto, anche delle guerre. Lo
sfruttamento sociale dei ceti più poveri e il razzismo cominciarono ad essere
intesi come peccati sociali, colpe da cui redimersi. A partire dalla Prima
Guerra Mondiale la riflessione coinvolse il problema della guerra e di un
ordine internazionale pacifico. Anche la guerra cominciò ad essere pensata come
un peccato collettivo, non più quindi come un fenomeno naturale, ma come un
prodotto sociale che, con giuste riforme, poteva essere evitato. Dopo la
Seconda Guerra Mondiale il medesimo orientamento coinvolse anche la valutazione
del colonialismo europeo. Il pensiero sociale cristiano in materia precedette,
e determinò, le pronunce del nostro Magistero, in particolare di quello dei
Papi. Riprese vigore, a partire dagli anni Sessanta, la teologia
universalistica delle origini, ma intesa secondo le esigenze sociali del
momento e il mondo nuovo che si era creato. La globalizzazione della
nostra fede precedette di molto quella dell’economia e, in un certo, senso la
prefigurò e sostenne. Questo orientamento si manifestò in maniera spettacolare
nel magistero di san Karol Wojtyla, il quale arrivò a proporre l’immagine
di radici cristiane dell’Europa che ne avrebbero imposto
la pacificazione in un nuovo ordine internazionale per preservare la pace.
Questa visione non aveva in realtà riscontri storici: la storia europea, fin
dall’affermarsi della nostra fede sul continente, dal Quarto secolo, era stata
un lungo seguito di conflitti, anche a sfondo religioso. La possiamo immaginare
come una retropia, l’immaginare un passato migliore, ma mai
esistito, a cui tornare. Un passato alternativo. Il fatto che, nel corso del
Novecento, si fosse affermata una frattura tra società in cui la fede religiosa
era tra le verità ammesse e altre in cui essa era vivamente contrastata e
ridotta al rango di credenza tollerata, quindi tra regimi di democrazia
capitalista e regimi comunisti, non poteva cambiare la realtà di un passato
aspramente conflittuale nel quale la comune fede religiosa non era stata mai un
deterrente sufficiente alle guerre e, anzi, spesso era stata all’origine di
esse.
La dottrina sociale ancora
corrente sulla pace iniziò a essere diffusa nel 1939, al manifestarsi della
minaccia di una nuova guerra mondiale, e da allora non ha mai cessato di
esserlo. Essa corrispondeva a una situazione sociale che considerava la pace un
valore importante. Ai tempi nostri la situazione sta cambiando. Sembra che
risorgano gli dei nazionali. Si sta proponendo una corrispondente teologia,
che, anch’essa, cerca in passati immaginari degli esempi sociali a cui tornare. L’epoca dei
sovrani assoluti, da essa mitizzata, non fu infatti propizia per l’affermazione
della nostra fede, perché fu caratterizzata da aspri conflitti religiosi e
quindi da valori e fatti contrastanti con quelli evangelici, che pure venivano
proclamati. Ma la si propone come più religiosa di
quella delle democrazie, basata sulla libertà di coscienza, disperando di
ottenere l’unità delle anime altro che con la forza, la coercizione. Questa è
la posizione di quei neo-fascismi di egoismo nazionale che vanno sotto il nome
di sovranismi, i quali hanno come slogan quello
antievangelico “Prima noi!”. Essi sono insofferenti
dell’attuale teologia universalistica e del suo principale esponente vivente,
il Papa regnante. Con fatti concludenti e con la battaglia delle idee cercano
di contrastarla e di ottenerne delle metamorfosi, innanzi tutto cercando da
sradicarla dai corpi sociali di riferimento. Utilizzano a questo fine la paura
ancestrale di un’invasione aliena. Cercano inoltre di modificare politicamente
la legislazione sociale e le istituzioni ispirate ai suoi principi umanitari.
Si tratta, in particolare, della Costituzione italiana vigente e dell’Unione
Europea, con la sua Carta dei diritti, nella cui realizzazione sono stati
fortemente impegnati quelli della nostra fede, sull’ispirazione della dottrina
sociale diffusa dagli anni ‘40 del secolo scorso. Avevano l’obiettivo di un
ordine internazionale pacifico, che in effetti si è prodotto a lungo.
1.3
Azione per il
cambiamento
(26-9-18)
«Si può dire che
oggi non viviamo un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca. Le
situazioni che viviamo oggi pongono dunque sfide nuove che per noi a volte sono
persino difficili da comprendere. Questo nostro tempo richiede di vivere i
problemi come sfide e non come ostacoli: il Signore è attivo e all’opera nel
mondo. Voi, dunque, uscite per le strade e andate ai crocicchi: tutti quelli
che troverete, chiamateli, nessuno escluso (cfr Mt 22,9).
Soprattutto accompagnate chi è rimasto al bordo della strada, «zoppi, storpi,
ciechi, sordi» (Mt 15,30). Dovunque voi siate, non costruite mai muri né
frontiere, ma piazze e ospedali da campo.»
Papa Francesco. Dal
discorso pronunciato il 10-11-15 nella Cattedrale di Santa Maria in Fiore a
Firenze, nel corso dell’incontro con in rappresentanti del 5° Convegno
nazionale della Chiesa Italiana, durante la visita pastorale a Prato e a
Firenze.
La nostra Chiesa
ha attraversato molti cambiamenti d’epoca nella sua
lunga storia. Tra un’epoca e l’altra ci sono stati tempi di cambiamento.
Se si è convinti che oggi non siamo in un’epoca di
cambiamento, ma che c’è stato un cambiamento d’epoca,
si vuol dire che il nuovo c’è già. Il tempo del cambiamento è stato molto
veloce? In realtà è durato più o meno una generazione, dall’inizio degli anni
’90 ad oggi. La nostra Chiesa, però, non si è allarmata più di tanto: tutto
sommato pensava al nuovo come ad un ambiente favorevole. Invece le cose stanno
prendendo una brutta piega. E’ con il regno di papa Francesco che ha iniziato a
manifestare di doversi ricredere. A lungo si è mirato, sostanzialmente, a
lasciare le cose come stavano. Ora è difficile reagire. La Chiesa appare
ancora, nel complesso, come la Bella Addormentata della favola,
preda di un incanto di inazione.
Reagire poteva
significare contrasti, lotte, divisioni. Si è preferito riuscire a
mantenere un’immagine di pace uniforme, a prezzo di quell’incantamento. Molte
energie, così, sono andate disperse. In particolare in periferia: le parrocchie
funzionano più che altro come scuola di morale per i più giovani, da dopolavoro
per gli adulti e da centro anziani per gli altri. Certe organizzazioni
religiose hanno assorbito le funzioni di club dei
maggiorenti che in passato vennero svolte da varie confraternite. La storia
nazionale ci avverte però che tra l’Ottocento e il Novecento il movimento
religioso italiano fu molto più di questo. Progettò la riforma sociale. Formulò
valori politici che poi seppe tradurre in realtà sociali. La nostra nuova
democrazia repubblicana è anche opera sua. In questo fu partecipe di un
moto che si sviluppò a livello europeo fin da metà Ottocento. Il Papa,
probabilmente, pensa a qualcosa di simile per affrontare l’epoca nuova in cui
siamo finiti. Ma manca la formazione necessaria e quindi la capacità. Chi, al
di fuori dell’Azione Cattolica, ha parlato più di certe cose alla gente?
Di solito le
analisi finiscono a questo punto: si disegna un quadro e si sta lì a rimirarlo.
Come cambiare, se si vuole farlo?
Cambiare è
sempre possibile, ma richiede impegno. Di questo si è meno capaci. Ci si
disamora facilmente. Magari le si sparano grosse, ma poi? Si frequenta e poi,
di punto in bianco, si sparisce, senza dare spiegazioni. Non parlo sulle
generali. Parlo proprio a te, che sei sparito. E che ne sarà di quelli che
contavano su di te?
Allora poi
quegli altri, quelli che si inquadrano in schemi paternalistici molto rigidi
per resistere, hanno buon gioco a criticare chi la pensa diversamente. Eppure,
onestamente dovranno riconoscere che capita anche tra i loro.
“Chi me lo fa
fare?”, ci si dice. Ecco, quelli della mia generazione più raramente la
pensano così.
Si partecipa
distrattamente: cerchiamo di fare più attenzione! Cerchiamo di fare programmi e
di rispettarli! Ne sappiamo troppo poco di tutto. Così, stiamo a ricasco dei
preti, che, ad un certo punto, si disamorano, non ce la fanno più. Non si
impara nulla! Da anziani imparare è più difficile. Ma da giovani?
Vogliamo decidere
di studiare con un po’ più di pervicacia il pensiero sociale ispirato alla
fede? Come si potrebbe, poi, uscirsene con certe avvilenti banalità xenofobe e
razziste? Si avrebbe qualcosa da dire in società, per rendere ragione,
per spiegare perché noi non siamo xenofobi e razzisti, non lo vogliamo
diventare, e facciamo blocco contro chi si propone di farci degradare in quel
modo.
Impegniamoci,
dai!, a ragionare su quello che il Papa ha detto ieri:
«Viviamo tempi in cui sembrano
riprendere vita e diffondersi sentimenti che a molti parevano superati.
Sentimenti di sospetto, di timore, di disprezzo e perfino di odio nei confronti
di individui o gruppi giudicati diversi in ragione della loro appartenenza
etnica, nazionale o religiosa e, in quanto tali, ritenuti non abbastanza degni
di partecipare pienamente alla vita della società.
Questi sentimenti, poi, troppo
spesso ispirano veri e propri atti di intolleranza, discriminazione o
esclusione, che ledono gravemente la dignità delle persone coinvolte e i loro
diritti fondamentali, incluso lo stesso diritto alla vita e all’integrità
fisica e morale. Purtroppo accade pure che nel mondo della politica si ceda
alla tentazione di strumentalizzare le paure o le oggettive difficoltà di
alcuni gruppi e di servirsi di promesse illusorie per miopi interessi
elettorali.
La gravità di questi fenomeni non
può lasciarci indifferenti. Siamo tutti chiamati, nei nostri rispettivi ruoli,
a coltivare e promuovere il rispetto della dignità intrinseca di ogni persona
umana, a cominciare dalla famiglia – luogo in cui si imparano fin dalla
tenerissima età i valori della condivisione, dell’accoglienza, della
fratellanza e della solidarietà – ma anche nei vari contesti sociali in cui
operiamo.
Penso, anzitutto, ai formatori e
agli educatori, ai quali è richiesto un rinnovato impegno affinché nella
scuola, nell’università e negli altri luoghi di formazione venga insegnato il
rispetto di ogni persona umana, pur nelle diversità fisiche e culturali che la
contraddistinguono, superando i pregiudizi.
In un mondo in cui l’accesso a
strumenti di informazione e di comunicazione è sempre più diffuso, una
responsabilità particolare incombe su coloro che operano nel mondo delle
comunicazioni sociali, i quali hanno il dovere di porsi al servizio della
verità e diffondere le informazioni avendo cura di favorire la cultura
dell’incontro e dell’apertura all’altro, nel reciproco rispetto delle
diversità.
Coloro, poi, che traggono
giovamento economico dal clima di sfiducia nello straniero, in cui
l’irregolarità o l’illegalità del soggiorno favorisce e nutre un sistema di
precariato e di sfruttamento – talora a un livello tale da dar vita a vere e
proprie forme di schiavitù – dovrebbero fare un profondo esame di coscienza,
nella consapevolezza che un giorno dovranno rendere conto davanti a Dio delle
scelte che hanno operato.
Di fronte al dilagare di nuove
forme di xenofobia e di razzismo, anche i leader di tutte le
religioni hanno un’importante missione: quella di diffondere tra i loro fedeli
i principi e i valori etici inscritti da Dio nel cuore dell’uomo, noti come la
legge morale naturale. Si tratta di compiere e ispirare gesti che
contribuiscano a costruire società fondate sul principio della sacralità della
vita umana e sul rispetto della dignità di ogni persona, sulla carità, sulla
fratellanza – che va ben oltre la tolleranza – e sulla solidarietà.
In particolare, possano le Chiese
cristiane farsi testimoni umili e operose dell’amore di Cristo. Per i
cristiani, infatti, le responsabilità morali sopra menzionate assumono un
significato ancora più profondo alla luce della fede.
La comune origine e il
legame singolare con il Creatore rendono tutte le persone membri di un’unica
famiglia, fratelli e sorelle, creati a immagine e somiglianza di Dio, come
insegna la Rivelazione biblica.
La dignità di tutti gli uomini,
l’unità fondamentale del genere umano e la chiamata a vivere da fratelli,
trovano conferma e si rafforzano ulteriormente nella misura in cui si accoglie
la Buona Notizia che tutti sono ugualmente salvati e riuniti da Cristo, al
punto che – come dice san Paolo – «non c’è giudeo né greco; non c’è schiavo né
libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti [… siamo] uno in Cristo Gesù»
(Gal 3,28).
In questa prospettiva, l’altro è non
solo un essere da rispettare in virtù della sua intrinseca dignità, ma
soprattutto un fratello o una sorella da amare. In Cristo, la tolleranza si
trasforma in amore fraterno, in tenerezza e solidarietà operativa. Ciò vale
soprattutto nei confronti dei più piccoli dei nostri fratelli, fra i quali
possiamo riconoscere il forestiero, lo straniero, con cui Gesù stesso si è
identificato. Nel giorno del giudizio universale, il Signore ci rammenterà:
«ero straniero e non mi avete accolto» (Mt25,43). Ma già oggi ci interpella:
“sono straniero, non mi riconoscete?”.
E quando Gesù diceva ai Dodici:
«Non così dovrà essere tra voi» (Mt 20,26), non si riferiva solamente al
dominio dei capi delle nazioni per quanto riguarda il potere politico, ma a
tutto l’essere cristiano. Essere cristiani, infatti, è una chiamata ad andare controcorrente,
a riconoscere, accogliere e servire Cristo stesso scartato nei fratelli.
Consapevole delle molteplici
espressioni di vicinanza, di accoglienza e di integrazione verso gli stranieri
già esistenti, mi auguro che dall’incontro appena concluso possano scaturire
tante altre iniziative di collaborazione, affinché possiamo costruire insieme
società più giuste e solidali.»
Ecco qua
la ragione teologica per cui non si può essere xenofobi e razzisti:
La comune origine e il
legame singolare con il Creatore rendono tutte le persone membri di un’unica
famiglia, fratelli e sorelle, creati a immagine e somiglianza di Dio, come
insegna la Rivelazione biblica.
La dignità di tutti gli uomini,
l’unità fondamentale del genere umano e la chiamata a vivere da fratelli,
trovano conferma e si rafforzano ulteriormente nella misura in cui si accoglie
la Buona Notizia che tutti sono ugualmente salvati e riuniti da Cristo, al
punto che – come dice san Paolo – «non c’è giudeo né greco; non c’è schiavo né
libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti [… siamo] uno in Cristo Gesù»
(Gal 3,28).
In questa prospettiva, l’altro è
non solo un essere da rispettare in virtù della sua intrinseca dignità, ma
soprattutto un fratello o una sorella da amare. In Cristo, la tolleranza si
trasforma in amore fraterno, in tenerezza e solidarietà operativa. Ciò vale
soprattutto nei confronti dei più piccoli dei nostri fratelli, fra i quali
possiamo riconoscere il forestiero, lo straniero, con cui Gesù stesso si è
identificato. Nel giorno del giudizio universale, il Signore ci rammenterà:
«ero straniero e non mi avete accolto» (Mt25,43). Ma già oggi ci interpella:
“sono straniero, non mi riconoscete?”.
Cerchiamo di tenerlo a mente.
«Essere cristiani,
infatti, è una chiamata ad andare controcorrente»: questo comporta lottare, non
facciamoci illusioni. Bisogna, ad esempio, sbarrare la strada alla xenofobia e al
razzismo, non dar loro tregua, fare barriera, culturale, ma anche
fisica, mettendosi di mezzo, innanzi tutto per proteggere chi è
minacciato e umiliato. Qualche volta si è tentati di mettersi in mezzo, sì, ma
nel senso di indifferenti, tra chi perseguita e chi è oltraggiato. Come
ci fosse un giusto mezzo tra giustizia e ingiustizia.
“Non esiste il centro tra giustizia e ingiustizia”, sosteneva il
democristiano cileno Rodomiro Tomic.
1.4
Riforma sociale come azione religiosa
(29-9-18)
Sembra
che poco della religione passi nella gente. Si dà la colpa alla
secolarizzazione, il modo di vivere che non ricorre più alla fede per spiegare come
va il mondo. Le ragioni che però se ne danno non mi convincono.
Essenzialmente le persone non trovano più utilità a comprendere la società
intorno: si limitano a lasciarsi trascinare e a fare come tutti. Si pensa di
essere in balia della sorte, della dea Fortuna, che qui
vicino a Roma aveva un suo grande santuario, a Preneste, l’attuale
Palestrina. Questo ha screditato l’idea di riforma sociale come
azione religiosa, che presuppone di sentire come doveroso in quanto possibile
il miglioramento sociale, e, prima di questo, di capire come va il mondo per
progettarne il cambiamento. E’ su queste basi che le persone della nostra fede
diedero un apporto decisivo alla costruzione di una grande realtà istituzionale
come l’Unione Europea, che ha garantito la pace europea dal 1945, un periodo
lunghissimo.
C’è sicuramente un problema
educativo. L’istruzione religiosa si ferma, di solito e per la maggior parte
delle persone, alla Cresima, che in Italia si all’età delle scuole medie
inferiori o poco più in là. Ma molti lasciano prima, dopo la Prima Comunione,
alle elementari. Quella scolastica per i più finisce verso i diciotto anni.
All’età di quarant’anni, quella in cui si ricoprono i ruoli più importanti
della propria vita, l’istruzione ricevuta è spesso un ricordo lontano di oltre
vent’anni. Si notano difficoltà anche nel comprendere testi semplici. I ricordi
religiosi, che dovrebbero rifarsi alla nostra complessa dottrina teologica,
appaiono molto approssimativi, come risulta, in particolare, dalle ricerche demoscopiche.
La società, si dice, non sostiene
più la vita religiosa, come un tempo; diciamo, in Italia, come fu fino agli
anni Sessanta. Ma come la sosteneva? Non se ne era per nulla soddisfatti. Per
questo si avviò la riforma progettata nel corso del Concilio Vaticano 2°
(1962-1965). Cominciò ad essere attuata negli anni 70, ma fu presto sospesa,
con l’inizio del regno religioso di Karol Wojtyla - Giovanni Paolo 2°
(1978-2005). Si temette la dispersione dei fedeli.
Quella riforma aveva
due aspetti importanti: l’idea di una comunità educante alla fede e la
concezione cristocentrica dei fatti religiosi. In
precedenza il clero, il cui potere religioso era
accreditato e sostenuto dalla politica di governo, impartiva al
popolo un’istruzione dottrinaria basata sull’idea di un potere esercitato
direttamente dal Cielo attraverso plenipotenziari terreni: i principi del
clero, e i Papi innanzi tutto. Un impero religioso che univa Cielo e
terra e che era stato organizzato a partire dall’Undicesimo secolo. Il potere
sul popolo era suddiviso consensualmente tra prìncipi religiosi e civili sulla
base di concordati. Si era organizzato una sorta di condominio. Il
compito del popolo era quello di obbedire ai prìncipi e, in quest’ottica, era
molto importante che ciascuno conoscesse il posto che gli competeva.
L’istruzione religiosa si riduceva sostanzialmente a questo. I risultati
nell’etica personale non erano certi migliori di quelli dei nostri tempi: tutti
i comandamenti erano in genere apertamente violati, in particolare da chi
dominava nella società, clero compreso, ma la coerenza del sistema era
assicurata dall’obbedienza che veniva prestata ai superiori. Ad un certo punto,
la misericordia del Cielo scendeva sulla gente, a coprire e perdonare i suoi
peccati. Questo sistema religioso aveva coperto conflitti crudeli e stragisti,
che avevano travagliato innanzi tutto l’Europa e poi il mondo, prodotti dai
processi di colonizzazione europea. L’idea di un’Europa eticamente migliore in
quanto sorretta e vivificata da radici cristiane è
solo una fantasia che non trova riscontri storici reali. Quello che in Europa
funzionò a lungo fu il sistema disacralizzazione del potere
politico, mediante un’alleanza tra prìncipi civili e religiosi, che consolidava
il potere di entrambi. Essa non escludeva la possibilità di catastrofici
conflitti tra stati e la repressione violenta di quelli civili: si trattava di
eventi considerati al pari di quelli naturali, sgradevoli ma impossibili da
evitare.
La riforma religiosa
progettata durante il Concilio Vaticano 2° prese le mosse dall’idea
di fare dell’umanità un’unica famiglia, combattendo le cause sociali che
avevano portato ai disastrosi conflitti mondiali scoppiati nel corso del
Novecento. Questo rese necessario esprimere una critica sociale e, pertanto,
desacralizzare il potere politico, rompere e rivedere gli antichi concordati.
La critica sociale doveva partire dal popolo e, quindi, in una prospettiva
ecclesiale, dai laici, che fino ad allora avevano avuto come unica prospettiva
quella dell’obbedienza. Essi si sarebbero dovuti formare e attivare in nuovi
tipi di comunità di fede, non più organizzati con struttura piramidale, in alto
il Cielo e alla base i fedeli, con al centro, su vari livelli, i
plenipotenziari religiosi, ma, al modo delle origini, come discepoli intorno al
Maestro. Quest’ultimo, innanzi tutto con i suoi esempi di vita ma anche con la
sua vita soprannaturale, era il vero tramite tra Cielo e terra, accessibile ad
ogni fedele attraverso un rapporto personale, che però andava costruito nella
formazione religiosa. Occorreva una nuova spiritualità. La teologia del laicato
fu al centro della riflessione dei saggi di quel Concilio. Si volle però
preservare la struttura gerarchica del clero, prevedendone riforme molto limitate,
innanzi tutto potenziando l’autonomia e la corresponsabilità dei vescovi, il
cui potere veniva però ancora configurato come quello di prìncipi religiosi.
Mentre il laicato veniva lanciato nella riforma sociale sfruttando i processi
democratici che si erano andati affermando a partire dalle società
di tipo europeo, nessuna vera democrazia veniva ammessa nell’organizzazione
ecclesiale, riservandone la riforma al clero. Questo portò a distinguere,
separando, clero e laicato. Un bel problema in una nazione come l’Italia dove
il clero, in particolare quello di base, aveva avuto un ruolo importantissimo
nello sviluppare processi di riforma sociale, compresi quelli democratici! Al
clero venne sostanzialmente assegnata, nei processi di riforma, la
formulazione dei principi dell’azione sociale, che però doveva
essere attuata dai laici. Tuttavia dal Concilio degli anni Sessanta uscì
l’immagine di un laicato che avrebbe dovuto operare con una certa autonomia nei
campi di sua competenza, e che quindi avrebbe dovuto avere la possibilità di
essere corresponsabile della formulazione di quei principi, come in
effetti avvenne. Nella pratica questo produsse una certa tensione. Mentre il
clero era ancora soggetto all’obbedienza canonica, nell’impero religioso nel
quale era inquadrato, non così fu per il laicato con la sua nuova autonomia.
Nel laicato, inevitabilmente, per l’affermarsi dei processi democratici, si
produssero varie correnti di pensiero e di azione, che cercarono di tirarsi
dietro il potere religioso. Quest’ultimo, ad un certo punto, sentì
di non riuscire più a controllare la situazione e bloccò tutto, sospendendo
l’azione di riforma, cercando di cristallizzare la situazione in uno stadio in
cui ancora era gestibile dal vertice religioso. Questo si riuscì a fare con il
nuovo stile del Papato sotto Karol Wojtyla, molto centrato sulla personalità
del Pontefice, come mai prima di allora. La nuova situazione influì sui
processi di formazione del laicato, al quale si chiedeva sostanzialmente, al
posto dell’antica obbedienza, una sorta di neo-papismo emotivo, un fidarsi
emotivamente nel Papato in un rapporto di simpatia personale. La riforma
sociale fu sospettata di socialismo, al quale il Wojtyla era fortemente
avverso, per l’esperienza che ne aveva fatto, nella versione di ispirazione
comunista sovietica, nella sua Polonia. Nei confronti del clero si produsse
invece una dura azione di repressione di ogni tipo di dissenso, che aveva il
precedente più prossimo nella persecuzione anti-modernista di inizio Novecento.
Una manifestazione di questa durezza gerarchica fu l’approvazione del
Catechismo della Chiesa Cattolica, nel 1992, come documento normativo e
pertanto da prendere come riferimento universale anche dalla più raffinata
ricerca teologica, pena la condanna. La riforma catechetica attuata in Italia
negli anni ’70 aveva concepito invece i catechismi come sussidi
all’azione formativa nel popolo di fede.
Tutto questo ci porta
alla situazione di oggi. Una teologia che è ancora fondamentalmente quella
riformata del Concilio Vaticano 2°, dell’umanità come un’unica famiglia umana,
ma che non ha più un attore sociale che la attui, e neppure in grado di
comprenderla veramente. Le comunità educanti alla fede, in Italia progettate a
partire dal Documento di base in materia di catechetica
del 1970, non hanno funzionato. Sono rimaste realtà artificiali, molto
confinate nell’azione catechetica e troppo dipendenti dal clero, senza vera
capacità di ragionare e agire in termini di riforma sociale. In definitiva,
appaiono inutili. Si pensa di lanciarle in società, per organizzare ospedali
da campo sociali, è l’idea del Papa regnante, ma è un lavoro che
non sanno fare: sono diventate essenzialmente collettività di auto-aiuto, per
la medicina dell’anima. Le si è tenute troppo a lungo separate perché possano
produrre qualcosa. Naturalmente, qualcosa per cambiare è sempre possibile fare.
Ma non è cosa da preti. Loro fanno già troppo. E a certe cose non sono stati
formati. Mi pare che nei seminari, per ciò che ho potuto constatare, si stia
troppo tra nuvole d’incenso e paramenti sacri, troppo lontani dal popolo, e
anche sospettosi verso di esso come possibile fonte di contaminazione
religiosa. Non avremo nuovi Murri, Sturzo, Dossetti. E’ il laicato, innanzi
tutto, che deve iniziare a pensare a certe cose.
Noi laici sappiamo troppo
poco di tutto. Questo ci rende facilmente manovrabili dalla politica
spregiudicata di oggi, che impiega raffinate tecniche di psicologia sociale per
dominare le masse. Questo pregiudica i nostri progetti di azione sociale
ispirata dalla fede. E’ necessario innanzi tutto,
allora, riunirsi per aiutarci reciprocamente a capire meglio come va
il mondo. Bisogna riprendere a studiare. Questo richiede tempo e buona volontà.
Non basta partecipare a gruppi di auto-coscienza in cui si dice la propria e si
vede gli altri che fanno. Un lavoro che Lorenzo Milani fece con i suoi alunni,
nella sua parrocchia di montagna, con tanti meno mezzi di quelli a nostra
disposizione oggi. Un impegno integrale: occorre recuperarlo. Un impegno per
certi versi anche rischioso: la società intorno è cambiata, stanno producendosi
a livello europeo processi neo-fascisti in cerca di legittimazione sacrale.
Essi fanno appello alla religiosità che negli Sessanta si volle riformare,
quella che non faceva conto di produrre conflitti e morti per sostenere
l’egoismo nazionale.
1.5
Un mondo da salvare
(4-10-18)
Il catechismo per i più giovani per molti rimane l’unico per tutta la
vita. Si vuole iniziare a spiegare il senso della nostra fede e a farne fare
l’esperienza e la pratica. Dalla metà degli scorsi anni ’70 è un po’ meno
strutturato come una lezione scolastica. Ma dovrebbe essere approfondito
crescendo. E’ qualcosa di più del semplice annuncio, ma per certe
nozioni si è troppo piccoli; occorre, in particolare, fare più esperienza di
vita per capirle. Un tempo la storia sacra veniva raccontata come una favoletta
e, alla fine, poteva essere scambiata per quella. Adesso ci si concentra di più
su alcuni episodi, ma si perde un po’ il senso generale della narrazione, la
continuità che si vorrebbe far vedere nei fatti raccontati. Il problema è che, quando
sarebbe il momento di iniziare ad approfondire, si lascia. La fede, però, non
si spegne subito, rimane come sottotraccia. E’ ancora possibile, per un po’,
suscitarla di nuovo. Questo si fa più difficile se perdura
l’allontanamento dalle consuetudini religiose. Di solito la religione non viene
sostituita da altro, ma da un tempo vuoto. Quindi, poi, ad una certa età se ne
sente la mancanza, ma da soli non si riesce più a tornare. Del resto non si
tratta nemmeno più di tornare. La fede da bimbi non serve più a
quel punto, va stretta. Serve riprendere un discorso, delle consuetudini, delle
amicizie.
La catechesi si dovrebbe
fare non in nome proprio, ma per conto della Chiesa, sotto la direzione del
Vescovo. Questo richiederebbe una formazione dei catechisti che non mi pare che
in genere si faccia. La catechetica è diventata una vera disciplina
scientifica, che si avvale di tante altre scienze, ad esempio della
psicologia e della pedagogia. Nelle parrocchie, però, si fa di necessità virtù.
Si cerca di fare con quelli che si mostrano disponibili, anche se non formati a
sufficienza, perché bisogna iniziare e i preti non bastano. Accade, però, che
poi ognuno tenda a metterci dentro i propri personali punti di riferimento, che
possono essere insufficienti o inadatti.
La cosa più difficile è la
mediazione tra fede e vita: far capire che la fede serve alla vita
e che quest’ultima interroga la fede e, in qualche modo, così la
orienta. Non è la stessa cosa vivere la fede in uno dei tanti inferni della
terra e nel nostro quartiere, dove ci sono tante situazioni di sofferenza, ma
che non è (ancora) un inferno. Quest’opera di mediazione è di solito l’aspetto
più critico della catechesi. Non si riesce più a convincere dell’utilità della
fede. Quest’ultima, ad un certo punto, viene proposta anche come
medicina dell’anima, come una specie di sostegno psicologico, ma a questo
scopo, non illudiamoci, serve a poco. Può solo funzionare, e questa è stata una
delle critiche più serie a certi tipi di religiosità, temporaneamente come
anestetico, ma nulla di più.
C’è però chi riesce a
trasferire la propria fede dall’età più giovane a quella adulta, facendo quegli
approfondimenti che servono, che comprendono anche una critica della fede
bambina. Quest’ultima, a volte, riesce ancora buona per i più anziani, per i
quali gli orizzonti si restringono. Chi conquista una fede adulta, che prima o
poi finisce per manifestarsi agli altri, si trova di fronte alla difficoltà di
renderne ragione con chi ha lasciato. Questi ultimi, di solito,
tengono a precisare che hanno lasciato, come a scansare tentativi di
proselitismo. C’è sempre il sospetto che chi ancora crede tenti di conquistare
gli altri alla religione, e certe volte è effettivamente così. Io, ad esempio,
non sono di quelli. A chi mi espone i motivi per cui non crede, rispondo che è
vero, ha ragione, e aggiungo che ce ne sono molti altri. La nostra fede, in
fondo, è inverosimile. E’ più o meno così per tutte le religioni
storiche. Ma, se da ragazzo, negli anni 70, mi avessero parlato degli
smartphone, li avrei considerati inverosimili. Eppure, eccoli nelle
nostre mani. Funzionano, ma non sappiamo come. C’è negli e tra gli esseri umani
più di ciò che appare. Uno però può ritenere di non aver bisogno di scoprire
altro oltre ciò che appare. Di solito però è la vita a proporre certi
interrogativi. Se ci si mette alla ricerca di una risposta, prima o poi si
incontra la fede. La grande riflessione biblica è tutta centrata su questo.
Ecco perché, ad esempio, Aldo Moro, quando era prigioniero nella piccola cella
allestita per lui dalle brigate rosse che lo tenevano in suo potere, chiese di
avere una Bibbia. Ma aveva avuto una lunga formazione per trarre beneficio dai
tesori nascosti in quel testo. Dico “nascosti”, perché a molti di quelli che lo
prendono in mano appare solo una raccolta di favole. Alla riflessione biblica
occorre infatti essere introdotti e guidati. C’è necessità di qualcuno che
spieghi. La prima figura che tenta di farlo è il prete, a Messa, e poi c’è il
catechista. Sembra strano, data l’importanza della liturgia, ma spesso a Messa
ci si distrae. Lo scrittore Bruce Marshall sosteneva che l’effetto di una buona
predica dura per non più di dieci minuti in chi la ascolta e circa due minuti
in chi la fa. Nella Messa per i più piccoli, allora, il celebrante cerca di
coinvolgere l’attenzione dei bambini usando il metodo interattivo, a domande e
risposte. Ma il catechista può fare di più.
All’adulto che ha lasciato faccio
osservare che c’è un mondo da salvare. Se condivide quest’idea, significa che
empatizza con chi soffre: è sulla buona strada. La nostra fede essenzialmente
è, infatti, compassione, o, altrimenti detto, misericordia. Ci sentiamo tutti
uniti: questo sentimento nel greco evangelico è detto agàpe, che
traduciamo di solito con amore, ma che è sostanzialmente misericordia,
compassione. E’ molto importante, perché nella fede crediamo che il
Fondamento sia agàpe, è scritto.
1.6
Catechesi civile
(7-10-18)
Nel 2016 l’Azione Cattolica Ragazzi
organizzò un movimento tra i suoi aderenti, dall’età di 3 anni a 14 anni, per
imparare e mettere in pratica la dottrina sociale, sostanzialmente progettando
azioni politiche, ad esempio la gestione di un Comune. All’incontro finale, qui
a Roma, venne invitata anche la Sindaca della nostra città, che però non poté
venire.
Si prese come riferimento
l’esortazione apostolica La gioia del Vangelo - Evangelii
Gaudium. Ecco come venne presentata l’iniziativa:
« La Chiesa italiana si è sempre
interrogata e si lascia ogni giorno interrogare molto dalle sfide dell’annuncio
di fede nel mondo, e la Dottrina Sociale della Chiesa è proprio il frutto di
una riflessione orientata a leggere il progetto di Dio nella società, nella cultura,
nell’economia, nelle nostre vite.
Gli ambienti quotidianamente
abitati, come la famiglia, l’educazione, la scuola, il creato, la città, il
lavoro, i poveri e gli emarginati, l’universo digitale e la rete, sono
diventati per tutti noi quelle “periferie esistenziali”
che s’impongono all’attenzione della Chiesa italiana quale priorità
in cui operare il discernimento e vivere la missione.
L’Azione Cattolica anche
oggi sceglie di fare sue le istanze e le intuizioni profetiche che coglie
camminando e stando con la gente alla luce del Vangelo e delle parole del
Magistero. È per questo che, in questo tempo così ricco ed entusiasmante, non
possiamo non accogliere nuovamente il rinnovato invito che Papa Francesco ha
rivolto alla Chiesa Italiana
durante il Convegno di Firenze . Il Santo Padre ci ha, infatti, detto che : «In
ogni comunità, in ogni parrocchia e istituzione, in ogni Diocesi e
circoscrizione, in ogni regione, cercate di avviare, in modo sinodale, un
approfondimento della Evangelii Gaudium, per trarre da essa criteri
pratici e per attuare le sue disposizioni, specialmente sulle tre o quattro
priorità che avrete individuato in questo convegno. Sono sicuro della vostra
capacità di mettervi in movimento creativo per concretizzare questo studio. Ne
sono sicuro perché siete una Chiesa adulta, antichissima nella fede, solida
nelle radici e ampia nei frutti. Perciò siate creativi nell’esprimere quel
genio che i vostri grandi, da Dante a Michelangelo, hanno espresso in maniera
ineguagliabile. Credete al genio del cristianesimo italiano, che non è
patrimonio né di singoli né di una élite, ma della comunità, del popolo di
questo straordinario Paese».
(PAPA FRANCESCO, Incontro con i
rappresentanti del V Convegno Nazionale
della Chiesa Italiana, Cattedrale di Santa
Maria del Fiore, Firenze,
Martedì 10 novembre 2015)
Abbiamo così pensato che
sarebbe stato bello e importante per la vita delle nostre comunità ecclesiali e
civili che anche i più piccoli, i bambini e i ragazzi dell’Acr potessero avere
spazi e luoghi per potersi lasciare interpellare “a loro misura” dalle
intuizioni che Papa Francesco ha scritto nell’Esortazione apostolica, e che
stanno tracciando il cammino delle nostre Chiese locali e della nostra
Associazione. Desideriamo infatti che anche loro possano, non solo guardare con
occhi grati le loro comunità e accoglierne bellezza, ma possano anche vivere e
fare esperienza della Chiesa che sognaPapa Francesco, una Chiesa sempre “in
uscita” che vive la sua missione con e per il suo popolo.
In questo percorso abbiamo
allora scelto di lasciarci accompagnare da 5 espressioni dell’Evangelli
Gaudium, che crediamo possano illuminare il cammino che i ragazzi vivranno in
questo anno. Desideriamo che in questi mesi, durante i quali si impegneranno a
sperimentare la grandezza della misericordia di Dio nel loro cammino ordinario,
possano comprendere come, a partire dalla famiglia, dalla cura del creato e
dalla partecipazione alla vita delle loro città, possano essere guidati
dall’orizzonte e dallo stile che questi verbi disegnano.
Prendere l’iniziativa,
coinvolgersi, accompagnare, fruttificare e festeggiare orientano così
l’itinerario che i bambini e i ragazzi dell’Acr vivranno e che li aiuterà ad
interrogarsi su come possono anche loro ogni giorno costruire una Chiesa bella
dove crescere sperimentando la bellezza di essere amati, e per questo lasciarsi
condurre dall’amore che non può non portare frutti di bene e di lode. Infatti,
come afferma Papa Francesco:
«La Chiesa “in uscita” è la comunità di
discepoli missionari cheprendono l’iniziativa, che si
coinvolgono, che accompagnano, chefruttificano e festeggiano.
“Primerear – prendere l’iniziativa”: vogliate scusarmi per questo neologismo.
La comunità evangelizzatrice sperimenta che il Signore ha preso l’iniziativa,
l’ha preceduta nell’amore (cfr. 1Gv 4,10), e per questo essa sa fare il primo
passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani
e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. Vive un
desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato
l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva.
Osiamo un po’ di più di
prendere l’iniziativa! Come conseguenza, la Chiesa sa “coinvolgersi”. Gesù ha
lavato i piedi ai suoi discepoli. Il Signore si coinvolge e coinvolge i suoi,
mettendosi in ginocchio davanti agli altri per lavarli. Ma subito dopo dice ai
discepoli: «Sarete beati se farete questo» (Gv 13,17). La
comunità evangelizzatrice si mette mediante opere e gesti nella vita
quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione
se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo
nel popolo.
Gli evangelizzatori
hanno così “odore di pecore” e queste ascoltano la loro voce.
Quindi, la comunità evangelizzatrice si dispone ad “accompagnare”. Accompagna
l’umanità in tutti i suoi processi, per quanto duri e prolungati possano
essere. Conosce le lunghe attese e la sopportazione apostolica.
L’evangelizzazione usa molta pazienza, ed evita di non tenere conto dei limiti.
Fedele al dono del Signore, sa anche “fruttificare”. La comunità
evangelizzatrice è sempre attenta ai frutti, perché il Signore la vuole
feconda. Si prende cura del grano e non perde la pace a causa della zizzania.
Il seminatore, quando vede spuntare la zizzania in mezzo al grano, non ha
reazioni lamentose né allarmiste. Trova il modo per far sì che la Parola si
incarni in una situazione concreta e dia frutti di vita nuova, benché
apparentemente siano imperfetti o incompiuti. Il discepolo sa offrire la vita
intera e giocarla fino al martirio come testimonianza di Gesù Cristo, però il
suo sogno non è riempirsi di nemici, ma piuttosto che la Parola venga accolta e
manifesti la sua potenza liberatrice e rinnovatrice. Infine, la comunità
evangelizzatrice gioiosa sa sempre “festeggiare”. Celebra e festeggia ogni
piccola vittoria, ogni passo avanti nell’evangelizzazione. L’evangelizzazione
gioiosa si fa bellezza nella Liturgia in mezzo all’esigenza quotidiana di far
progredire il bene. La Chiesa evangelizza e si evangelizza con la bellezza
della Liturgia, la quale è anche celebrazione dell’attività evangelizzatrice e
fonte di un rinnovato impulso a donarsi».
(PAPA FRANCESCO, Evangelii Gaudium, 24)»
Quella fu catechesi civile, quella
che molto raramente si fa nelle nostre parrocchie e che, invece, si dovrebbe
fare, pena l’inutilità della religione. Non ci si deve sorprendere, poi, se non
la si fa, che i ragazzi, avvicinandosi all’età adulta abbandonino la religione,
e, seguitando, con la religione, anche la fede, che della religione ha bisogno.
La catechesi che si fa per i
più giovani è, per ciò che ne so, di carattere piuttosto intimistico. La
religione, sostanzialmente, quando va bene, viene presentata come medicina
dell’anima, e per questo scopo serve veramente a poco, perché la fede,
quando le si dà via libera, è sommovimento dell’anima, cambia la
gente e la spinge alle cose più strane. Quando va male, la religione
viene presentata come una gabbia etica, in particolare come un rigido sistema
di divieti sessuali, contro il quale giustamente i giovani si ribellano.
Ad alcuni la catechesi
civile non sta bene perché, dicono, è fare politica, e hanno
perfettamente ragione. Infatti serve per imparare a fare politica, che
significa partecipare democraticamente al governo della società. E’ con la
politica, con l’associarsi per progettare una società migliore, che si cambia
il mondo. La politica è strumento del pensiero sociale ispirato ai valori della
fede, del quale fa parte anche la dottrina sociale, quella sua versione che
viene diffusa dal Magistero come prescrizione di doveri religiosi. Infatti la
dottrina sociale è teologia: spiega quindi qualcosa che è molto importante per
la fede. Non bastano i riti, le liturgie. Occorre l’azione sociale. E’ così che
la nostra fede ha cambiato il mondo. In meglio o in peggio? In genere siamo
stati poco portati all’autocritica. In nome della nostra fede si sono fatte
azioni sociali orrende. Si è iniziato a riconoscerlo francamente nel
2000, durante il Grande Giubileo che si celebrò quell’anno, sotto la guida di
san Karol Wojtyla, che regnava in religione come Giovanni Paolo 2°. Ma non
siamo andati più in là. Certe cose ce le diciamo sottovoce tra gente che
approfondisce, non le proclamiamo al popolo.
L’Azione Cattolica è stata
costituita, per decreto pontificio, proprio perfare politica.
Di solito si fissa la sua
nascita al 1867, quando il conte Mario Fani di Viterbo e Giovanni Acquaderni
fondarono a Bologna la Gioventù Cattolica italiana, il cui programma
fu diffuso in pubblico il 4 gennaio 1868.
Si era in epoca di durissimo
scontro politico tra il Papato, il cui regno territoriale nell’Italia
centrale era minacciato dai moti nazionalistici italiani, e il Regno d’Italia,
fondato nel 1861 sotto la monarchia cattolica dei Savoia, che di quei moti
aveva preso la guida.
In questo clima, nel 1866 a
Bologna era stato in precedenza fondato un gruppo denominato Associazione
Cattolica Italiana per la difesa della libertà della Chiesa
in Italia. La nascita dell’associazione venne consacrata da un breve del
Pontefice nel quale ne vennero fissati gli scopi. Era presieduta dall’avvocato
Giulio Cesare Fangarezzi e tra suoi fondatori aveva Giovanni Battista Casoni.
Presto si ebbe la reazione delle autorità di polizia italiane. Venne approvata,
relatore Francesco Crispi, una legge eccezionale che stabiliva il domicilio
coatto per i sovversivi politici. Fangarezzi dovette rifugiarsi in Svizzera e
il Casoni dovette fuggire da Bologna ed entrare in clandestinità, per sfuggire
all’arresto. L’associazione si sciolse. Giovanni Acquaderni era schedato come
“paolotto” (che all’epoca era sinonimo di bigotto) e “clericale reazionario”
dalla polizia italiana. Erano considerati sovversivi politici perché, prima
della fine del regno dei Papi a Roma, si opponevano al processo di unificazione
nazionale, nell’interesse politico del Papato, e successivamente avrebbero
voluto rompere l’unità nazionale restituendo al Papato il regno territoriale su
Roma. Un reato politico molto grave.
Tuttavia la nostra Azione
Cattolica non nacque né nel 1866, né nel 1868, né è l’erede dell’Opera dei
Congressi, che organizzò grandi incontri dell’associazionismo cattolico
tra il 1874 e il 1904. Anzi, per così dire, nacque dalle ceneri del precedente
associazionismo, in particolare dallo scioglimento dell’Opera dei Congressi per
volontà del Pontefice, irritato per le correnti democratico-cristiane che in
essa si manifestavano sempre più vivacemente, nonostante la condanna formulata
con l’enciclica Le gravi preoccupazioni sociali - Graves de Communi
re diffusa nel 1901 dal papa Vincenzo Gioacchino Pecci - Leone 13°, lo
stesso della prima enciclica della moderna dottrina sociale, la Le
Novità - Rerum Novarum, del 1891. La nostra Azione Cattolica fu prefigurata
nel 1905 dall’enciclica Il fermo proposito del papa
Giuseppe Sarto, regnante in religione come Pio 10°, proclamato santo nel 1954,
e costituita nel 1906 con l’approvazione dei suoi statuti da parte di quel
medesimo Papa. Si era nel periodo più buio della persecuzione antimodernista,
l’ultima guerra di religione intrapresa dalla Chiesa cattolica. Lo stesso
Romolo Murri, prete, tra gli ideatori di una ideologia democratico-cristiana,
ne fece le spese, venendo scomunicato nel 1909.
[Traggo le informazioni di cui sopra dal
libro di Gabriele De Rosa, Il movimento
cattolico in Italia. Dalla Restaurazione all’età giolittiana, Laterza,
1979, consultabile solo in biblioteca, in quanto non più in commercio].
La missione politica
dell’Azione Cattolica era chiaramente dimostrata dal fatto che la
nuova organizzazione comprendeva una Unione elettorale, in un’epoca
nella quale, per altro, ai cattolici era vietato di partecipare alle elezione
politiche nazionali, quindi alla vita democratica del Regno d’Italia. Nel 1913
il divieto fu superato, in concomitanza con l’allargamento del suffragio
elettorale (comunque limitato ai cittadini uomini). Nel 1919 venne fondato, da
cattolici democratici di ideologia democristiana, il Partito popolare italiano
e venne sciolta l’Unione elettorale.
L’Azione Cattolica venne
costituita come strumento politico del Papato, come partito di massa, per
contrastare con la forza del numero la politica nazionalista e liberale nel
Regno d’Italia e sostenere le pretese territoriali del Papato, che era stato
spodestato nel 1870 dal suo piccolo regno territoriale con capitale Roma.
Tuttavia venne profondamente trasformata, rispetto alla missione delle origini,
dall’azione autonoma dei suoi aderenti, a cominciare da persone come Giuseppe Toniolo
e Armida Barelli. Fu una delle principali agenzie culturali per la formazione
del popolo alla democrazia, donne comprese, che poterono votare solo dal 1946.
Questa azione venne progressivamente limitata negli anni ’30, ai tempi della
compromissione del Papato con il regime fascista, per stabilizzare la conciliazione contrattata
nel ‘29 con il Regno d’Italia, con i Patti Lateranensi, firmati
nel palazzo romano del Laterano da Benito Mussolini, per parte italiana quale
Presidente del Consiglio dei ministri, e dal cardinale Pietro Gasparri,
Segretario di Stato, in rappresentanza della Santa Sede. Da quegli accordi
venne a noi romani la Città del Vaticano, simulacro del potere territoriale del
Papato, con gli Svizzeri, i francobolli, le monete ecc. Tuttavia, anche in quel
triste decennio, il tirocinio alla democrazia continuò nelle
organizzazioni intellettuali dell’Azione Cattolica, in
particolare nella FUCI (gli universitari cattolici) e nei Laureati Cattolici,
ispirati da Giovanni Battista Montini, uno dei principali artefici della
democrazia italiana, in particolare quale co-autore della serie di
radiomessaggi pontifici in tema, tra il 1939 e il 1945.
L’evoluzione
dell’Azione Cattolica fu portata a termine, dopo il Concilio Vaticano 2°
(1962-1965), sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, con il nuovo
statuto del 1969, che staccò l’associazione dall’asservimento agli interessi
politici del Papato. Questo il vero significato della scelta religiosa.
La politica del Papato l’aveva incatenata al sostegno del partito
cristiano, la Democrazia Cristiana, della quale costituiva serbatoio di
voti e agente formativo. Ciò era avvenuto nel quadro del compromesso che,
regnante Eugenio Pacelli - Pio 12°, si era raggiunto con i democratici
cristiani di De Gasperi, Dossetti, Moro, La Pira e Fanfani. L’ideologia del
Concilio Vaticano 2° ampliò di molto la missione del laicato cattolico e questo
richiese quel processo di liberazione di energie. Ciò avrebbe richiesto
una laicizzazione del partito cristiano, che non si
riuscì ad ottenere, pur tentandola negli anni ’80. Questo ne innescò una sua
crisi terminale. Ma avrebbe richiesto anche la revisione dell’impegno politico
dell’Azione Cattolica, libera di sostenere l’evoluzione dei processi
democratici secondo la nuova era che si venne prefigurando nel corso degli anni
’80. Anche in questo si fallì. Non si riuscì a pensare ad un impegno politico
che sostituisse quello a sostegno di un partito cristiano. Emersero
correnti fondamentaliste e integraliste che trovarono credito presso Wojtyla,
profondamente sospettoso verso il socialismo che indubbiamente attraversava le
correnti democratico cristiane italiane per la loro lunga storia
insieme ad esso. Si arriva, in definitiva, all’attuale irrilevanza politica del
cattolicesimo sociale italiano, al quale nessuna formazione politica
rappresentata in parlamento si richiama più.
Tutto questo si sta
manifestando nel bel mezzo di una gravissima crisi della politica democratica
in Italia. La democrazia, il cui sostegno era stata la principale ragione per
cui i democratici cristiani avevano accettato il sostegno di un Papato uscito
piuttosto screditato dal compromesso con il fascismo, è posta seriamente in
questione. E si avverte una forte difficoltà della gente di ragionare di
politica in termini democratici. Ma, innanzi tutto, proprio di ragionare.
Eppure gli strumenti formativi non mancherebbero. All’esortazione
apostolica La gioia del Vangelo, si è aggiunta l’enciclica Laudato
si’, che contiene una realistica e informata spiegazione dell’origine dei
problemi sociali che ci travagliano. Si tratta di documenti che, purtroppo,
sono poco conosciuti, per quello che ho constatato, tra gli stessi formatori.
Negli anni passati siamo stati abituati ad un profluvio di letteratura pontificia,
a cui non si riusciva proprio a tener dietro. Ma a quei due
documenti bisognerebbe proprio fare attenzione.
Con fatica riusciamo a
portare i più piccoli alla Comunione e una minoranza di loro anche alla
Cresima. Questo non basta. Occorrerebbe formarli a costituire società animate
da spirito di fede, fin da piccoli. Questo sembra superare le nostre
capacità di immaginazione: eppure è appunto quello che l’Azione Cattolica
Ragazzi ha tentato nel 2016 e sta ancora facendo. Una catechesi civile.
1.7
La religione
come conquista culturale
(9-10-18)
La religione,
intesa come sistema di credenze nel
soprannaturale, riti e stili di vita con essi coerenti, è integralmente una
produzione sociale, vale a dire un fatto culturale,
studiato dall’antropologia, che osserva come vivono gli esseri umani, dalla
sociologia, che si occupa delle dinamiche delle società umane, e dalla
psicologia, che studia i processi della nostra mente. La fede, il confidare in
un soprannaturale, in ciò che va oltre quello che appare, è invece innata,
ma senza la religione non ha parole per
esprimersi.
La religione,
come fatto culturale, viene determinata dalle necessità sociali del momento. La
fede vi influisce, ma fino ad un certo punto. Le religioni primitive sono
quelle basate sull’osservazione della natura. Ci si trova in balia di essa e la
si personalizza, la si pensa opera di dei. Poi si sono le religioni che danno
molta importanza al caso, o altrimenti detto alla fortuna. Qui vicino a Roma,
nell’attuale Palestrina, c’era un grande e frequentato santuario dedicato alla Dea
Fortuna. Più avanti nella storia, le dinamiche sociali furono
immaginate come frutto di lotte tra dei. Ogni popolo costituito in nazione con
il suo dio. Tutte queste concezioni religiosi hanno una caratteristica comune:
sono facili da vivere, frutto di tradizioni molto radicate e quindi sentite un
po’ come istintive, e anche di un certo pessimismo in materia di storia umana.
Ci si pensa come totalmente nelle mani di capricciose potenze soprannaturali, e
soprannaturali in quanto non in nostro dominio. Occorre quindi accattivarsene i
favori con riti e sacrifici.
La nostra
religione è molto diversa e si affermò intorno al Mediterraneo, in un processo
dei primi tre secoli della nostra era, all’esito di un travaglio culturale
durato circa quattro secoli, gli ultimi
dell’era antica, in cui si avvertì l’insufficienza etica delle più antiche
religioni. Il veicolo culturale dell’affermazione della nostra fede fu
l’ellenismo, la cultura greca diffusa negli ambienti sociali conquistati da
Alessandro il grande e dai suoi successori dal
Quarto secolo dell’era antica.
La caratteristica principale della nostra religione è di pensare un’unione
molto stretta tra gli esseri umani, basata su una realtà soprannaturale unica,
benigna e molto vicina a ciascuno, tanto da annullare la differenza tra Cielo e
Terra. Non è una religioneistintiva, naturale, perché
costantemente smentita dalla realtà: pretende, ad esempio, la pace in un mondo
travagliato da continue guerre. E’ espressione di una certa insoddisfazione per
come vanno le cose nella natura e nella società: si vorrebbe porre
rimedio ai mali che manifestano. E’ il frutto, quindi, di una conquista
culturale, anche se corrisponde ad esigenze molto profonde degli esseri umani,
ad una loro fede indubbiamente piantata in loro. Richiede
quindi un impegno di approfondimento. Questo è, appunto, ciò che manca tra noi
di questi tempi.
La capacità di
raggiungere quella conquista culturale si ha al termine di un processo di
formazione che possiamo ritenere in qualche modo sufficiente alla fine delle
scuole superiori. E’ in quel momento che, ad esempio, si hanno le basi per
capire alcuni documenti religiosi molto importanti come le Costituzioni Luce per le genti e La
gioia e la speranza del Concilio Vaticano 2°, che, come diceva Giovanni
Battista Montini - papa Paolo 6°, sono il catechismo
del mondo moderno. I catechismi per le varie età diffusi dalla Conferenza
episcopale italiana e da altre istituzioni religiose ne sono versioni semplificate.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica è, invece, un documento normativo diretto
ai teologi, non uno strumento formativo popolare, e richiede un’istruzione a
livello universitario per essere capito.
Purtroppo il
nostro sistema di formazione permanente degli adulti alla religione è molto
carente, per vari motivi. Non ci sono le forze per reggerlo e, in genere, non
si ha nemmeno il tempo e la voglia di parteciparvi. Ci si contenta, così, di
una coscienza religiosa un po’ superficiale. La situazione si aggrava molto con
il trascorrere degli anni dall’uscita del percorso formativo. Già nei
quarantenni è piuttosto seria. I più anziani mantengono solo vari ricordi. Solo
chi per professione ha dovuto approfondire tematiche culturali, come gli
insegnanti, ne sanno di più.
Qual è il
compito dell’Azione Cattolica di oggi?, mi ha chiesto una signora del nostro
gruppo? E’ la realizzazione dei deliberati del Concilio Vaticano 2°, ho
risposto senza esitazioni. Una riforma religiosa, quella di quel Concilio, che comprendeva l’esigenza di una migliore
coscienza religiosa. Questo significa darsi, come associati, una disciplina
formativa, riprendendo certi testi e discutendone. Ma anche cercare di
spiegarli agli altri, dopo averli compresi.
Non è possibile una fede irriflessa, istintiva?
E’ un inizio, ma non basta. Soprattutto non basta per quel lavoro di cambiare
il mondo che è oggi richiesto dalla dottrina sociale come dovere per la persona
religiosa. Per produrre cambiamenti, occorre capire e capire in modo affidabile.
Questo fu compreso molto bene fin dagli inizi del nostro moderno
associazionismo. E’ la ragione per la quale, ad esempio, nel gruppo fondato
nell’Ottocento a Viterbo da Mario Fani si istituì una biblioteca popolare e si
faceva scuola. Così come la faceva un’altra grande anima della nostra
religione: Lorenzo Milani.
1.8
Religione
difficile
(17-10-18)
La
nostra religione ha avuto problemi negli ultimi cinquant’anni. Antropologi,
sociologi e teologi hanno cercato di capirne le cause. Sono coinvolte quelle
scienze perché esse riguardano i modi di vivere e di pensare, le
dinamiche della società e le concezioni sul soprannaturale che si sono diffuse.
I risultati di questa riflessione non convincono del tutto, ad esempio quando
mettono in risalto una certa maggiore incredulità rispetto al passato. I
problemi si apprezzano maggiormente nelle realtà di base che ai vertici del
potere religioso, dove, in definitiva, può immaginarsi, e non senza ragione,
che tutto stia andando un po’ come prima. I costumi curiali e gli ambienti
principeschi in cui talvolta si lavora possono favorire questo straniamento dal
popolo. Per questo è molto apprezzabile la scelta del Papa regnante di vivere
in un appartamento in albergo. Poteri civili e religiosi continuano,
come nei millenni passati, ad accreditarsi a vicenda, anche se in Europa è
venuta meno, nel processo di pacificazione europea iniziato dalla metà degli
scorsi anni ’40, al termine della Seconda guerra mondiale, la sacralizzazione del
potere civile, che legava molto più strettamente quest’ultimo al
potere religioso e, in genere, alla religione. E’ per quella via che gli
europei, nella loro crudele conquista del mondo, poterono pensare di avere il
Cielo dalla loro parte e di svolgere una missione religiosa mentre
sottomettevano, spesso annientandoli, altri popoli e altre culture.
Le antiche religioni non sono
finite dopo l’affermarsi della nostra, ma si sono trasformate inculturandola.
Le loro credenze sopravvivono in diversi modi nella nostra, ad esempio in molti
riti popolari. Questo è stato sfruttato dal potere religioso, in particolare
quando, in Europa, e in particolare in Italia, ha avuto problemi con quelli
civili e ha cercato di mobilitare le masse in suo soccorso. Si tratta di una
religiosità che funziona ancora molto bene e si esprime nella spiritualità di
massa dei santuari e delle apparizioni. Durante il Concilio Vaticano 2° si
cercò di correggerla. Si volle progettare una formazione religiosa più
accurata, più vicina a ciò che è il cardine della nostra fede: se ne parlò come
di svolta cristologica. In questo quadro si propose di
fare dell’umanità una sola famiglia come obiettivo religioso. Questo privò di
consistenza le ideologie politico-religiose di sacralizzazione che avevano base
nazionalistica, quelle che erano l’espressione moderna dell’antica concezione
di un popolo legato ad un dio. Tutto questo incise sulla religiosità degli
europei, molto basata sulla sacralizzazione dei poteri civili e sulla
sopravvivenza culturale di certi elementi delle antiche religioni della natura
e della storia a sostegno di essa, per cui si immaginava che venendo meno il
dominio degli europei sul mondo, le cose si sarebbero messe molto male.
All’origine della spaccatura verticale e durissima tra fazioni religiose in
Italia c’è appunto la contrapposizione frontale tra chi vorrebbe tornare
all’antico sistema, essenzialmente questa volta in funzione difensiva verso un
mondo che assedia l’Europa e chi vorrebbe proseguire sulla via indicata dal
Concilio Vaticano 2°.
I sociologi hanno
osservato che il processo di secolarizzazione, vale a dire il minor credito
sociale della religione, interessa sostanzialmente solo l’Europa, è un problema
essenzialmente europeo. E’ la coscienza degli europei ad essere implicata.
Nelle altre parti del mondo va molto diversamente. In un certo senso gli
europei non sanno più bene che pensare di se stessi. La religione ancora tra
loro prevalente li spinge a farsi interpreti e fautori di una civiltà
dell’amore, quella che vorrebbe fare dell’umanità una sola famiglia, ma non
capiscono più bene perché dovrebbero farlo, in un mondo in cui si va in
tutt’altra direzione e ognuno si fa gli affari propri e pretende di
fare bene così, anche dal punto di vista religioso. Così si avvicinano alla
religione se manifesta l’antica religiosità della natura e della storia, quella
che prometteva di ammansire le potenze soprannaturali nascoste nella natura o
di far prevalere un popolo sugli altri. Ma appena si iniziano a fare i discorsi
che i saggi del Concilio vollero che si facessero, in quel nuovo processo
formativo, non intendono più. I più anziani, poi, che sono sempre di più tra
noi e in particolare nelle realtà religiose di base, quel passaggio culturale,
in genere, non l’hanno mai neppure iniziato. Tutto è stato coperto dall’ingenuo
papismo introdotto da san Karol Wojtyla al termine degli anni ’70 e dell’ultimo
travagliato periodo di papato del suo predecessore, san Giovanni
Battista Montini, che aveva segnato il clamoroso insuccesso del nuovo processo
formativo, che, iniziato alla fine degli anni ’60, apparentemente
stava portando alla dispersione del gregge.
1.9
La democrazia come problema religioso per il cambiamento della società
(13/17-10-18)
1. Chi ha meno di sessant’anni
non ha vissuto consapevolmente i tempi di Giovanni Battista Montini, che regnò
in religione come papa Paolo 6° tra il 1963 e il 1978. E molti di quelli più
giovani non hanno avuto né il tempo né il desiderio di approfondire. E ancora
non li hanno. Vivranno quindi superficialmente le celebrazioni della
canonizzazione che si farà oggi e che non riguarderà solo Montini, ma anche
Oscar Romero, assassinato in una chiesa, durante la Messa, nel 1980, da
arcivescovo di San Salvador, nel piccolo stato centroamericano di El Salvador,
al tempo di una repressione fascista: egli seguiva e insegnava una delle
versioni della teologia della liberazione, filone di pensiero e
d’azione iniziato durante la conferenza del 1968 del
Consiglio Episcopale Latino Americano - CELAM - svoltasi a Medellin, in
Colombia, e inaugurata dal papa Paolo 6°. Si tratta di una teologia
sostanzialmente scomunicata da san Karol Wojtyla (il quale pure ne fece proprie
alcune istanze), che non fece proclamare la santità di Romero, invocata a gran
voce dal popolo latino americano. E’ stata riabilitata da Jorge Mario
Bergoglio, Papa attualmente regnante, il cui magistero ne va considerato uno
dei frutti.
La teologia della liberazione, che
si presenta come il più importante movimento di riforma in linea con gli
indirizzi del Concilio Vaticano 2° succeduto a quella grande assemblea di
vescovi con il Papa, tenutasi a Roma tra il 1962 e il 1965, partiva dalla
compassione per i poveri, coloro che vivevano situazioni economiche e sociali
di oppressione e di emarginazione, dal considerare questa, la
povertà reale, come un male anche dal punto di vista religioso
frutto di sistemi economici e sociali che potevano essere riformati, e dal
concepire l’impegno religioso innanzi tutto come solidarietà, protesta e azione
di riforma in favore dei poveri, mediante uno stile di vita personale e
comunitario di povertà spirituale, intesa come disponibilità alla volontà
divina. Farsi poveri, dunque, vale a dire disponibili a quella
volontà, per soccorrere i poveri, gli oppressi ed emarginati, riformando la
società, e questo come dovere religioso. Da qui il tema centrale della teologia
della liberazione: l’opzione preferenziale per i poveri. Non si tratta
però di qualcosa di facoltativo, osservò il teologo
Gustavo Gutiérrez nell’introduzione all’edizione del 1988
del suo libro del 1971 Teologia della liberazione(edito
in traduzione italiana da Queriniana), come se la si potesse fare o non fare
come credenti, perché non è facoltativo l’amore che dobbiamo ad ogni persona
senza eccezione. Si volle esprimere, con quell’espressione opzione
preferenziale per i poveri, il carattere libero e impegnativo della
decisione. Perché farsi poveri per aiutare i
poveri sconfiggendo le cause sociali della povertà? Il motivo
ultimo, scrisse Gutierrez nel testo che ho citato, non sta nell’analisi sociale
di cui facciamo uso, nella nostra compassione umana o nell’esperienza
diretta che possiamo avere della povertà: «[…] il
povero è preferito non perché sia necessariamente migliore degli altri dal
punto di vista morale e religioso, ma perché Dio è Dio, Colui per il quale “gli
ultimi sono i primi”. Questa affermazione perentoria si scontra con la nostra
frequente e angusta maniera di intendere la giustizia, ma è proprio questa
preferenza a ricordarci che le vie di Dio non sono le nostre vie (Isaia 55,8)».
Fu il Concilio Vaticano 2° a
indicare la via per un impegno religioso per cambiare il mondo, in
particolare deliberando la Costituzione pastorale La gioia e la
speranza - Gaudium et spes, per il motivo che in religione si
insegna autorevolmente che abbiamo un unico Padre e che quindi siamo una sola
famiglia, noi, tutta l’umanità, solidali e solleciti verso gli altri come si è
in famiglia, come descritto nella prima frase della Costituzione dogmatica di
quel concilio Luce per le genti - Lumen gentium:
«Le gioie e le
speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri
soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze,
le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente
umano che non trovi eco nel loro cuore», questa
la frase iniziale della Costituzione La gioia e la speranza.
In altre parole,
secondo quella teologia, per un credente è intollerabile l’esistenza di
situazioni di oppressione e di sfruttamento. La via dell’impegno per la riforma
sociale è quella di farsi poveri nel senso di disponibili
a seguire veramente la via religiosa, ripudiando ogni compromesso. Questa
prospettiva priva di fondamento teologico qualsiasi forma di conciliazione che
comporti l’accettazione dell’oppressione e dello sfruttamento e quindi i tanti
modelli di sacralizzazione dei poteri civili nei quali la
Chiesa storicamente si compromise, intendendola come male minore e
in vista di benefici materiali e sociali che la fecero ricca e potente in un
mondo di oppressi e sfruttati. E, nei suoi più recenti sviluppi, indica quella
della liberazione dall’oppressione e dallo sfruttamento come
una via di salvezza non solo per i poveri in senso
materiale, ma per tutti. L’ingiustizia sociale, se non corretta, farà affondare
le società intere, non solo la loro parte posta ai margini.
L’eco di quella concezione è
evidente in un documento come l’enciclica Laudato si’, diffusa
nel 2015 da papa Jorge Mario Bergoglio, gesuita latinoamericano, regnante come
Francesco in religione.
2. Ci si illudeva che le
idee del Concilio Vaticano 2° sarebbero state ben accolte dalle nostre comunità
religiose. Parte di esse erano però coinvolte nelle molte sacralizzazioni politiche
attuate nel mondo, in particolare nell’Occidente, tanto permeato dalla nostra
fede. Del resto, il dominio degli europei su quasi tutto il resto del mondo si
era compiuto secondo la più spettacolare di quelle sacralizzazioni, quella che
considerava le stragiste guerre di conquista degli europei come espressione di
una missione religiosa evangelizzatrice. Essa fu particolarmente evidente
nell’America Latina, caduta sotto il dominio delle monarchie cattoliche di
Spagna e Portogallo.
Il Concilio Vaticano 2° aprì
la via, nei successivi cinque anni a vivacissimi fermenti religiosi che, ad
esempio, condussero al nuovo statuto dalla nostra Azione Cattolica, approvato
nel 1969 sotto la Presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e, come sopra ho
ricordato, al movimento di riforma prima pensato nella linea della
nuova dottrina sociale di quel Concilio e poi deliberato come
parte del Magistero nel 1968 nel corso della conferenza di
Medellin del Consiglio Episcopale Latino Americano. Ma anche a veementi
polemiche all’interno della Chiesa tra le fazioni dei riformatori e dei reazionari,
che volevano tornare alla conciliazione tra religione e politica attuata sotto
il Papato di Eugenio Pacelli - regnante come Pio 12° dal 1938 al 1958. Si
temette che la Chiesa potesse sfasciarsi. Il nuovo, ad esempio le nuove
liturgie nelle lingue nazionali, era sorprendente, ma si stavano lasciando
tante sicurezze del passato: sembrò che mettere la religione nelle mani del
popolo, ad esempio facendogliene comprendere i riti, la mettesse in pericolo.
Parlare tanto di povertà sembrò che mettesse in pericolo
l’ordine sociale che garantiva la sopravvivenza stessa della Chiesa. Ecco
quindi che da subito, fin dall’anno in cui il Concilio si chiuse, si cercò di
porvi rimedio correggendo l’impostazione
conciliare e cercando di frenarne gli sviluppi. Nell’articolo di due giorni fa
su La Repubblica Alberto Melloni ha ricordato alcune
decisioni in quel senso del papa Paolo 6° e, in particolare, l’impulso alla
preparazione di una Legge fondamentale della Chiesa, una vera e
propria costituzione come si davano gli stati, che avrebbe corretto interpretazioni
ritenute eccessivamente riformiste della teologia conciliare (i lavori,
iniziati nel 1965, nel novembre che precedette la conclusione del
Concilio, e proseguiti negli anni ’70, non ebbero seguito), i
tentativi di normalizzazione dell’Ordine dei Gesuiti,
che staccandosi da una storia generalmente conservatrice e
addirittura reazionaria avevano iniziato a procedere velocemente nella via
indicato dal Concilio Vaticano 2°, la decisione di convincere l’arcivescovo di
Bologna, Giacomo Lercaro, uno dei protagonisti di quel Concilio, di lasciare la
sua carica, dopo un’omelia contro i bombardamenti statunitensi nella guerra in
Vietnam, nel 1968. Ma anche decisioni, e soprattutto azioni, in senso diverso.
Il papa Paolo
6° morì nel 1978 angosciato da quella situazione che ho cercato di
descrivere. Fu ad un uomo dell’Europa Orientale, rimasta sostanzialmente
indenne da quel travaglio perché caduta nel dominio del comunismo ateo di
scuola sovietica e dunque libera da certi sensi di colpa degli Occidentali, in
quanto immemore del suo passato ma tutta concentrata sul suo difficile
presente, che fu affidato il compito di moderare gli influssi riformistici
conciliari. A Paolo 6° successe Giovanni Paolo 2°. Il nuovo Papa, forte del suo
grande carisma personale, fece ciò che ci si aspettava da lui procedendo ad una
estesa opera di repressione teologica e clericale, tuttavia senza
raggiungere gli eccessi di inizio Novecento nella persecuzione del modernismo,
e commissionando e approvando il Catechismo della Chiesa
Cattolica, deliberato nel 1992 non solo come sussidio ma come
documento ideologico normativo. Da oggi saranno santi, quindi
proposti a modello per i credenti, i Papi del Concilio, Giovanni 23° e Paolo
6°, e il Papa che del movimento innescato dal Concilio volle essere moderatore
e censore, Giovanni Paolo 2°. Il primo diede l’impulso, l’ultimo cercò di
frenare: Paolo 6° espresse tendenze intermedie, desideroso ma anche timoroso
del nuovo. Ad un franco sguardo retrospettivo bisogna riconoscere che il
governo del papa Giovanni Paolo 2° spense gli aneliti conciliari, silenziandone
ma non sopendone del tutto le controversie, ostacolandone gli
sviluppi nel pensiero teologico, conducendo i cattolici italiani, che dal suo
influsso furono particolarmente plasmati, in una sorta di stato di incantamento
di stasi, che è la nostra condizione attuale, nell’Italia di oggi. Ma anche la
via percorsa da Paolo 6° appare insufficiente. Ciò che gli era in parte
riuscito durante il Concilio, tenere tutti insieme a prezzo di qualche
concessione al passato, non funzionò nella società: non si riuscì ad
organizzare dal vertice una via moderata al cambiamento, innanzi tutto cercando
di dilazionarlo nel tempo, in modo che fosse assunto a piccole dosi.
Oggi si celebra la
vita di persone proposte come esemplari in religione, ma è su che
cosa vogliamo essere, noi, oggi, che dovremmo riflettere. Perché il dilemma che
si presentò negli anni ’70, che tanto travagliarono la vita e il ministero del
Montini, riguarda anche noi. Andare avanti o tornare indietro? E a che velocità
andare avanti?
La Chiesa è spaccata
verticalmente come allora. Movimenti di impostazione sostanzialmente
neofascista reclamano una nuova sacralizzazione della loro
politica. Da soli, più che sventagliare qualche rosario qua e là, non riescono
a fare, non gli basta. Hanno bisogno di una teologia e di un magistero
compiacenti. Si è diffusa, in Europa, e anche da noi in Italia, una mentalità
da assediati. Chi sono gli assedianti? Sono i poveri che si voleva liberare e salvare secondo
gli auspici del Concilio Vaticano 2°, per liberare e salvare tutti,
anche quelli che avevano avuto la parte migliore: dall’ingiustizia e dal duro
destino che attende gli ingiusti, man mano che la loro ingiustizia si afferma
travolgendo le società da cui dipendono anche loro le vite di privilegiati. Si
è immemori della cause sociali della povertà, e si getta sui poveri la colpa
della povertà. La giustizia viene di nuovo concepita come il dare a
ciascuno il suo, ai ricchi la ricchezza, ai poveri il loro triste destino:
il problema della povertà, così, ridiventa questione di ordine pubblico, da
trattare per le spicce con metodi polizieschi, invece che questione
sociale.
Da che parte stare? Verso
dove muoversi?
La fabbrica dei santi non
aiuta, perché ha proposto come esemplari figure di capi religiosi che
indicavano vie diverse: Roncalli, Montini, Wojtyla e Romero.
Rimaniamo con il nostro
problema di coscienza. Farsi poveri o accettare quel
tanto di povertà o ingiustizia che ci rende possibile la nostra tranquillità di
europei, capitati in una delle società più sviluppate, e quindi più ricche, del
mondo? La via originaria del Concilio, espressa dal magistero di Roncalli e
Romero, quella attenuata di Montini, quella della stasi, del non più di
così, di Wojtyla. Quanto a quest’ultima, se ne possono vedere i
frutti nella Polonia di oggi, alla quale anche parte dell’Italia sembra
guardare di nuovo, come negli anni ’80, per trarre esempio.
La prima cosa da fare è
saperne di più, studiare, capire. La conoscenza dei fatti e ideologie della
religione è in genere piuttosto superficiale nei più, e questo nonostante
l’insegnamento religioso impartito nella scuola pubblica. E, per chi ha meno di
sessant’anni, non soccorre il vissuto personale. Le celebrazioni per una
canonizzazione non sono il tempo giusto per farlo, ma possono costituirne
l’incentivo. Oggi l’agiografia, la celebrazione dei nuovi santi, prevarrà. Al
popolo che assisterà sarà assegnato un posto e una parte nel rito, secondo
quando scritto nel libretto che sarà messo nelle mani dei presenti. Nulla di
più. Ma già attendendo l’inizio della celebrazione, e probabilmente l’attesa
sarà lunga, si potrà iniziare a confrontarsi sui temi che ho indicato. E poi
bisognerà proseguire dove si vive, innanzi tutto nelle parrocchie, con l’aiuto
dei libri giusti, perché certe cose bisogna impararle leggendo, non ci entrano
in testa semplicemente acclamando, come si dovrà fare oggi.
3. L’accusa più dura, e più dura perché più vera, alle
persone religiose è quella di essersi costruite una divinità, e quindi una
religione, a misura dei loro interessi, “un dio tutto loro”. Gran parte del
lavoro che si fa da persone religiose è quello di redimersene. E lo si fa
facendo spazio agli altri. Questo significa essere missionari.
Nel
lessico di papa Francesco se ne parla come di organizzare un ospedale
da campo, che significa farsi carico delle sofferenze altrui. Nello stesso
tempo egli tiene a precisare che non si è, in religione, una Onlus, un
ente benefico. Quel lavoro che si fa è molto più che filantropia e non basta
andare in soccorso di chi è caduto. Bisogna cambiare la macchina sociale che
produce i sofferenti. Che cos’è il cambiare il mondo, perché
proprio di questo si tratta, se non rivoluzione? E infatti questa
parola, che ancora fa tanta paura, ricorre negli scritti del Papa. Ma in un
senso molto più radicale da come di solito la si intende, vale a dire il
contrapporre violenza a violenza per rivoltare un certo
ordine sociale. Perché la nostra rivoluzione si fa seguendo il nostro Maestro e
comporta anche il ripudio della violenza sopraffattrice, di un mondo che si
regge sulla violenza. La storia ha dimostrato chiaramente, per chi abbia tempo
e modo di studiarla, che nessun ordine che dipenda dalla violenza per
instaurarsi e resistere è veramente rivoluzionario: prosegue solo
la desolante serie del passato. E’ per questo che il Papa, volendo rendere
l’idea di una rivoluzione secondo la nostra fede, ha abbandonato l’immagine
del soldato di Cristo, tanto utilizzata
nel passato, per ricorrere a quella dell’ospedale allestito in
emergenza sui campi di battaglia, l’ospedale da campo, appunto. Si evoca
con questo una società che si pensa pacifica, pacificata e
pacificatrice e invece è in guerra, molto violenta. Quella che produce gente
da buttar via, scarti nel lessico del Papa, e che respinge.
«Il dovere che
la Chiesa ha di chinarsi su tutte le ferite dell’umanità e di operare perché
nessuno possa risultare uno scarto non le deriva da qualche forma di neutrale
filantropia: è esigenza del Vangelo della misericordia, che è chiamata ad
annunciare.
Esso, proprio
perché è annuncio del cuore di Dio che si china sulle miserie -compreso il
peccato e ogni divisione degli uomini tra loro- non può essere
ridotto all’individuale rapporto del singolo con Dio o a qualcosa
che rimandi ad un aldilà che nulla avrebbe a che fare con l’aldiqua di una
vita, spesso misera degli uomini. Il Papa lo chiarifica mettendo in evidenza la
portata sociale dell’evangelizzazione, rilevando che il Vangelo implica il
regnare di Dio nel mondo, permettendo così che la vita sociale diventi “uno
spazio di fraternità, di giustizia, di pace, di dignità per tutti”»
[da: Roberto
Repole, Il sogno di una Chiesa evangelica. L’ecclesiologia di papa
Francesco, Libreria Editrice Vaticana, 2017, pag.87-88].
Quell’idea
di evangelizzazione, oggi come negli anni ’60 quando cominciò
a diffondersi, è ai tempi nostri duramente contestata da ogni tipo
di reazionari, quelli che vorrebbero che si tornasse come si era prima. Si
reclama a gran voce una religione che torni a sacralizzare le
società degli europei così come sono, violente e ingiuste come
sono, a ridar loro sovranità non solo
sui corpi ma anche sulle anime. C’è nostalgia, insomma, di quando c’era
un dio tutto nostro. Perché c’è stato, indubbiamente. E noi europei
ne abbiamo anche fatta evangelizzazione, lo abbiamo addirittura imposto con la
violenza, distruggendo le culture altrui per insediarlo al loro posto. Prima di
ricominciare, noi stessi, a rievangelizzarci alla sequela del vero Maestro.
4. L'apporto più importante del Montini
fu, credo, la sua azione per lo sviluppo della democrazia avanzata, piena di
grandi valori umanitari, da realizzarsi con un'intensa opera di formazione
popolare guidata da persone colte e competenti.
Un
intento che inizia a manifestarsi fin dal libretto Coscienza
universitaria, del 1930, durante il suo ministero di Assistente generale
della Fuci - l'organizzazione degli universitari cattolici, che all'epoca era
inquadrata nell'Azione Cattolica - nel quale si legge:
«[...] tocca a noi fare
dell'intelligenza un mezzo di unità sociale; tocca a noi rendere la verità
tramite della comunicazione tra gli uomini, tocca a noi diffondere
"l'unità di pensiero". [...] è una delle speranze del mondo moderno,
pur tanto traviato, questa tensione immensa verso la unificazione del
genere umano, e sarà forse è [...] l'opera buona [...] perché darà, come
l'unità del mondo romano lo diede al primo cristianesimo, il mezzo per riunire
tutti i figli della terra in un solo nome e in una sola famiglia.
Ma è pur vero che questo non è voluto e non è capito. Quelli stessi che adesso
parlano di "unità sociale" sono spesso tanto convinti che il pensiero
sia contro tale unità, che dicono di voler prescindere da ogni
ideologia; e credono di eliminare così l'ostacolo, altrimenti
insuperabile, per un'effettiva e concreta compaginazione collettiva di
coscienze e di opere. [...] Ciascuno deve avere una visione propria [...] si
pretende che ognuno [...] debba inventarsi una sua soluzione dei problemi fondamentali
del sapere [...[ Vale a dire che l'intelligenza è educata in modo da
dividere e differenziare gli uomini fra loro. [...] com'è facile
ascoltare discorsi pronunciati con la più inamidata solennità, press'a poco
così "E' questione di principi: ciascuno ha i suoi; ed è impossibile
andare d'accordo sui principi. Ciascuno conserva le sue idee. Piuttosto
possiamo essere d'accordo per via di fatto; non in teoria, ma in pratica;
nel campo degli affari. Questi sì, sono di tutti, perché non sono opinioni".
[...] E così che le forze, a cui è affidato il provvidenziale compito di
affratellare i popoli fra loro, non sono quelle redentrici e santificatrici
dello spirito, ma sono quelle economiche, quelle del progresso esteriore,
quelle immensamente pesanti della materia, che da un momento all'altro possono
trasformare in schiavitù spietata, o in ribellione violenta, la società che son
riuscite a creare tra gli uomini.
[...]
E' perché crediamo al fondamento
oggettivo della verità che abbiamo fiducia di incontrare in essa, come in un
unico punto di riferimento, le menti che vanno cercandola o che l'anno trovata.
[...] E' sui principi che avviene l'accordo. [...] E' così che avere un
pensiero, una dottrina, un'ideologia non è ostacolo alle formazioni collettive,
ma diventa una necessità, e costituisce allo stesso tempo la garanzia più
stabile degli organismi sociali e la semplificazione più benefica
liberatrice delle pesantezze burocratiche e autoritarie. [...] E' il regno
della carità umana. [...] E ciò che accresce l'ammirazione di tanto fenomeno si
è che tale coincidenza di pensiero non è ottenuta per via di contratto, di
rinuncia, o di compromesso con cui gli associati transigono fra di loro su una
porzione dei propri diritti spirituali e cercano con il tributo così estorto di
costituire un patrimonio comune di credenze e di pensiero, come capitale
indispensabile per realizzare una qualsiasi convivenza [...] Noi siamo
universitari. Noi siamo cristiani, Noi siamo cioè i ricercatori
dell'universalità e dell'unità. Noi siamo giovani, e perciò viviamo ciò
che pensiamo. Spetta a noi quindi nella scuola e nella vita preparare la
società delle intelligenze e della comunione dei santi».
Quindi poi: inculturare la politica con i valori fondamentali mediante lo strumento
della democrazia, e quindi creare, e prima di tutto pensare, una nuova
democrazia piena di quei valori. Da questo pensiero non è nata solo la nuova
democrazia italiana, ma anche la nostra nuova Europa. Un'opera epocale e,
purtroppo, ai tempi nostri misconosciuta, oltre che semplicemente ignorata. Ne
troviamo tracce importanti nei radiomessaggi diffusi tra il 1939 e il 1945
sotto l'autorità di Eugenio Pacelli - papa Pio 12°, ma scritti con l'importante
contributo del Montini, che ho pubblicato qualche giorno fa, e in
documenti come l'enciclica Lo sviluppo dei popoli - Populorum
progressio del 1967 e la lettera apostolica L'ottantesimo
anniversario [dalla pubblicazione dell'enclicica Le novità - Rerum
Novarum, del papa Vicenzo Gioacchino Pecci - Leone 13°] Octogesima
adveniens, del 1971.
Il papa Paolo 6° fu molto
avversato in vita, da reazionari e progressisti, e molto diffamato poi.
Da ragazzi, noi giovani di allora, lo sentimmo sempre più vicino mentre si
avvicinava per lui la fine, nei tristi anni '70, sorprendendoci con la sua
umanità. Ma io lo compresi veramente solo molti anni dopo, quando ebbi la
maturità sufficiente. Iniziai a capirlo, però, quando lo sentii pronunciare, a
San Giovanni in Laterano, la dolente preghiera alla Messa funebre per Aldo
Moro, il 13 maggio 1978:
«Ed ora le nostre labbra,
chiuse come da un enorme ostacolo, simile alla grossa pietra rotolata
all’ingresso del sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi per esprimere il «De
profundis», il grido cioè ed il pianto dell’ineffabile dolore con cui la
tragedia presente soffoca la nostra voce.
E chi può ascoltare il nostro
lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito
la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo Uomo buono, mite,
saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo
spirito immortale, segnato dalla Fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita.
Per lui, per lui.
Fa’, o Dio, Padre di
misericordia, che non sia interrotta la comunione che, pur nelle tenebre della
morte, ancora intercede tra i Defunti da questa esistenza temporale e noi
tuttora viventi in questa giornata di un sole che inesorabilmente tramonta. Non
è vano il programma del nostro essere di redenti: la nostra carne risorgerà, la
nostra vita sarà eterna ! Oh! che la nostra fede pareggi fin d’ora questa
promessa realtà. Aldo e tutti i viventi in Cristo, beati nell’infinito Iddio,
noi li rivedremo!
E intanto, o
Signore, fa’ che, placato dalla virtù della tua Croce, il nostro cuore sappia
perdonare l’oltraggio ingiusto e mortale inflitto a questo Uomo carissimo e a
quelli che hanno subito la medesima sorte crudele; fa’ che noi tutti raccogliamo
nel puro sudario della sua nobile memoria l’eredità superstite della sua
diritta coscienza, del suo esempio umano e cordiale, della sua dedizione alla
redenzione civile e spirituale della diletta Nazione italiana!».
Ecco, sintetizzata con le sue
stesse parole, la ragione della grandezza di Montini: aver suscitato, in tempi
bui, e contribuito in maniera determinante a realizzare, con i suoi amici, in
uno spettacolare lavoro collettivo, la redenzione civile e spirituale della Nazione italiana, da lui e dai suoi
amici "diletta" mediante l’azione democratica. Un'opera patriottica, quindi, a vera
chiusura della Questione romana, e nello stesso tempo europea e mondiale,
universalistica, perché espressione di un'ideologia con caratteristiche
universalistiche, tesa a fare di tutta l'umanità un'unica famiglia, a
superamento dello stragista sovranismo del fascismo storico.
La
democrazia come fattore di unità delle masse (non solo di ceti privilegiati)
sui valori, non quindi fonte di
divisione sociale secondo l’opinione dei reazionari di sempre, i quali
preferirebbero trascinare le masse al seguito di un capo indiscutibile. Un
mondo veramente nuovo, come mai c’era stato nel passato,
E mi risuonano sempre dentro le
sue accorate parole la mattina di Pasqua, rimandate da radio e
televisione: "Cristo è risorto! E' veramente risorto!". L'annuncio
che un mondo diverso è veramente possibile.
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2
Azione
Cattolica è azione nella società democratica
(26 settembre 2012)
Le associazioni e i
movimenti ecclesiali hanno sempre qualcosa che è comune a tutti e qualcos’altro
che è peculiare di ciascuno di essi. Qual è lo specifico dell’Azione Cattolica?
L’Azione Cattolica
nasce nel Novecento per confrontarsi con le democrazie popolari di massa da
persone di fede. Essa venne costituita dal papato, quindi dall’autorità
ecclesiale, sulla base di un vivace movimento sorto tra il laici cattolici
italiani nel corso dell’Ottocento. L’ “azione” che c’è nella sua denominazione
è dunque essenzialmente quella nella società.
Si tratta di
un’associazione di laici convinti della propria fede e persuasi che democrazia
ed esperienza religiosa non siano in antitesi. L’idea fondamentale alla base
dell’esperienza associativa è che i valori della fede possano plasmare la
società civile attraverso l’opera di laici che cooperano democraticamente con
le altre forze sociali, in un contesto istituzionale democratico. L’Azione
Cattolica non ha scopi puramente difensivi degli interessi della Chiesa come
istituzione, né è volta ad assoggettare la società civile al governo
dell’autorità ecclesiastica. Non mira a ritornare ai tempi passati, non è
quindi una forza reazionaria. E’ non è nemmeno una forza conservatrice, perché,
in particolare dopo il Concilio Vaticano 2°, è impegnata nella riforma sociale
secondo gli ideali evangelici: in questo senso è un movimento che punta a un
miglioramento, quindi a un progresso, della società civile.
Nell’esperienza di
Azione Cattolica è molto importante l’approfondimento delle verità di fede come
parte di una spiritualità che cerca un’adesione consapevole e informata alla
religione professata. E tuttavia quello in Azione Cattolica è un impegno che
presuppone una formazione catechistica precedente. Non è quindi caratterizzata
da un percorso di iniziazione religiosa. Si entra già persuasi della propria
fede.
Gli associati
nell’Azione Cattolica partecipano alle attività liturgiche e di formazione
della Chiesa, ma ciò che caratterizza veramente il loro impegno, quello che è
loro peculiare, è l’impegno collettivo e individuale nella società in cui
vivono da laici, con piena cittadinanza. L’Azione Cattolica non è quindi
un’aggregazione che vuole costituire un’alternativa a quel tipo di impegno, un
mondo chiuso in sé stesso dove sviluppare la propria socialità e la propria
personalità. I momenti di incontro che si hanno nell’associazione sono diretti
a migliorare l’azione nella società che c’è fuori, in cui gli aderenti vivono,
da laici, nella famiglia, nel lavoro, nella cultura, nella politica.
Detto ciò, è chiaro
che nei gruppi spesso si sperimenta una certa distanza tra gli ideali
associativi e la realtà particolare. Accade anche a noi, in San Clemente Papa?
L’età media del
nostro gruppo è piuttosto alta: in che cosa ci differenziamo da un “gruppo
anziani”?
Giovani e anziani
possiamo riscoprire di avere tra noi, nella nostra esperienza associativa, un
tesoro prezioso da preservare, che è quel modo di impegno nella società, da
gente di fede, di cui dicevo. Qualcosa che ci è proprio e che non ha
attualmente sostitutivi. Qualcosa che è ancora necessario alla Chiesa di oggi.
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3
Agire da
gente di fede nella società democratica di oggi
(29 settembre 2012)
In una società
ordinata democraticamente le moltitudini dei cittadini hanno la possibilità di
influire di più sul corso delle cose. E ci sono valori da definire, perché,
quando si comanda in molti, bisogna trovare un accordo per rispettarsi a
vicenda e poi su quello che deve essere fatto e su come farlo, e infine per
stabilire come si forma la volontà di tutti, che necessariamente deve, alla
fine, essere unitaria. In una monarchia assoluta, come ce ne sono state in
passato e come ce ne sono ancora (poche,
non so se si arriverebbe a cinque volendo fare l’inventario), è diverso. Decide uno solo, o meglio, spesso, decide la
famiglia reale o la corte che ruota intorno ad essa e gli altri devono attuare,
con una discrezionalità più o meno ampia. Come una volta si provvedeva a
istruire e formare i giovani rampolli delle famiglie regnanti, così ora questo
lavoro si fa su più larga scala, perché vanno formate all’esercizio della
sovranità le masse dei cittadini. Il sistema dell’istruzione pubblica serve
anche a questo.
L’avvento, dalla fine
del Settecento, delle democrazie, non è stato indolore per la Chiesa cattolica,
mentre non vi sono stati problemi per altre Chiese cristiane, come quelle che
sorressero fin dagli inizi le idealità del nuovo stato federale uscito dalla
rivoluzione nordamericana contro il Regno Unito (“In God we trust – Confidiamo in Dio” fu ed è uno dei suoi motti). Quale ne è stata
la ragione? Il problema è che la Chiesa cattolica era (ed è ancora) ordinata
come una monarchia assoluta. E una di quelle monarchie assolute contemporanee
di cui dicevo l’abbiamo proprio qui a Roma ed è la Città del Vaticano, che la
Santa Sede ha ordinato come un vero e proprio stato, con una propria
costituzione, propri uffici e servizi amministrativi e giudiziari, una propria
polizia e un piccolo (ma molto motivato) esercito.
Con l’avvento, in
Europa, delle democrazie, i cattolici, laici e clero, si posero il problema di
come e su che basi influire in esse. I Papi, nell’Ottocento e fino a metà del
Novecento, considerarono con preoccupazione la politica democratica. Una
pronuncia in questo senso la troviamo ancora agli inizi del Novecento,
rispondendo a che pretendeva di conciliare democrazia e valori esplicitamente
cristiani. Diciamo così i Papi che non si fidavano tanto dei nuovi “sovrani”,
delle masse elevate alla cittadinanza, anche se anche gli antichi monarchi
assoluti avevano dato problemi. In Italia le cose furono complicate dalle
caratteristiche specifiche del nostro processo di unificazione nazionale che,
per il fatto che il Papa era sovrano temporale nel Centro Italia, e soprattutto
possedeva Roma, si svolse anche “contro” la Santa Sede, il cui stato, ad un
certo punto, fu invaso militarmente, con
morti e feriti (Nella Chiesa di San Luigi dei Francesi una lapide li
commemora). La prima presa di posizione pubblica di un Papa che in cui fu
dichiarato che la democrazia il regime politico preferibile risale al 1944
(radiomessaggio natalizio del Papa Pio XII): la trovate sul WEB al seguente
indirizzo:
http://www.vatican.va/holy_father/pius_xii/speeches/1944/documents/hf_p-xii_spe_19441224_natale_it.html
La riflessione della Chiesa sui problemi
creati dall’avvento delle democrazie e sulle opportunità determinate
dall’elevazione di moltitudini alla sovranità, con piena cittadinanza, si è
espressa in quel vasto corpo di insegnamenti che va sotto il nome di “dottrina
sociale della Chiesa” e che si suole far partire dall’enciclica Rerum Novarum, del 1891, del Papa Leone
13°. La trovate sul WEB a questo indirizzo:
http://www.vatican.va/holy_father//leo_xiii/encyclicals/documents/hf_l-xiii_enc_15051891_rerum-novarum_it.html
Gli insegnamenti i questa materia vengono
promulgati con autorità dai pontefici e dai vescovi, ma hanno sempre avuto
l’ampia collaborazione dei laici nella loro ideazione e, più di recente, anche
nella loro formulazione. Infatti, quando si deve trattare del mondo fuori dei
templi, quello che nel gergo ecclesiale viene definito “il temporale”, gli
specialisti sono, in fondo, i laici. Questo è stato riconosciuto formalmente in
alcuni importanti documenti normativi del Concilio Vaticano 2°, ma era già una
realtà anche prima.
Oggi la dottrina sociale della Chiesa
cattolica comprende un corpo veramente molto esteso, tanto che se ne è fatto un
compendio, una sorta di testo unico, che sintetizza dichiarazioni solenni che
si sono avute in un arco temporale ormai più che centenario. Lo trovate sul WEB a questo indirizzo:
http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/justpeace/documents/rc_pc_justpeace_doc_20060526_compendio-dott-soc_it.html
Come risulta da quello che ho scritto prima,
il ruolo dei laici, per quanto riguarda l’azione nel sociale negli ordinamenti
democratici, è primario e comprende anche la fase ideativa. Non si tratta solo
di eseguire decisioni prese da altri. Il Papa e i vescovi ci chiedono
espressamente di collaborare con loro a capire i tempi in cui viviamo. Mi fece
molto impressione, quando il mio gruppo F.U.C.I. (gli universitari cattolici)
venne ricevuto dal cardinal Vicario Poletti), sentire che il mio vescovo
dichiarava che noi giovani eravamo i suoi occhi e le sue orecchie
nell’Università. Me ne sentii lusingato ma mi resi anche conto della mia
insufficienza. I tempi nuovi richiedono un impegno maggiore di noi laici: non
possiamo limitarci a farci trascinare da un clero eroico.
E il lavoro nella società richiede soprattutto
un impegno continuo. Le cose non possono essere pensate una volta per tutte. La
dottrina “sociale” della Chiesa, a differenza di quella “teologica”, è infatti soggetta necessariamente a continui
aggiornamenti, perché i nuovi problemi, in particolare nel mondo contemporaneo,
si producono continuamente. Ma su certe cose è necessario riflettere insieme.
Nessuno, come scrisse Hannah Arendt, da solo, senza compagni, arriva ad avere
una visione sufficientemente completa delle cose. Questa è appunto una delle ragioni per associarsi
nell’Azione Cattolica: dare continuità all’impegno di fede nella società civile
democratica e vedere le cose da più punti di vista.
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4
Libertà e
democrazia come esperienze collettive di elevazione delle moltitudini alla
piena cittadinanza. Esse contrastano con la nostra esperienza religiosa?
(30 settembre 2012)
Da Strada verso la libertà di Paolo
Giuntella, Paoline Editoriale Libri, 2004, a pag.36 (ancora disponibile in
commercio ad € 12,00) :
“…presentare una verità
che vi farà liberi come una religione repressiva è quanto di
meno evangelico si possa immaginare. I tarli dell’integralismo e della
mentalità normativa possono ridurre il Vangelo in polvere. No. Tutto al
contrario di quello che dicono i detrattori, il cristianesimo è una grande
esperienza di liberazione interiore. Le Beatitudini sono scritte in positivo,
indicano un modello, una strada: ‘Beati…’. Un’esclamazione di gioia, una
speranza. Il comandamento cardine del Nuovo Testamento, l’amore, indica la forza d’amare, non la forza di non fare. A me piace usare l’espressione
di Martin Luther King, la forza d’amare (che è poi una delle possibilità di tradurre
il vocabolo indiano non violenza;
l’altra è la forza della verità),
proprio perché c’è una proiezione dell’amore in fare, in azione, in forza,
appunto, e non in sdolcinatezza, in sentimentalismo. Dunque amore come energia
creativa, come forza della creatività, come costruire, tessere, unire: una
coppia di innamorati, un gruppo di persone (una comunità), un popolo, il genere
umano”.
Quando, in occasione di incontri religiosi, si affronta il
tema della libertà, molte volte si comincia con l'elencarne i danni, si
prosegue con il fissarne limiti precisi e si conclude che la vera libertà sta
nel decidere liberamente di obbedire. Non è così? Questa impostazione crea
qualche problema nel trattare dell’esperienza religiosa nelle società ordinate
come democrazie di popolo e, in particolare, per stabilire se democrazia e
religione possano andare d’accordo. Un argomento in contrario viene tratto dal
fatto che, pur se oggi riconosce che la democrazia è il regime politico
preferibile per la società civile, la nostra Chiesa al suo interno non è ordinata democraticamente e non vuole
esserlo.
La libertà di tutti, dei popoli interi, è uno
degli aneliti fondamentali delle democrazie moderne e, in particolare, delle
democrazie di popolo contemporanee, che si propongono di elevare alla piena cittadinanza
le masse, senza distinzione tra le persone che le compongono.
E’ scritto nell’art.3, 2° comma, della nostra Costituzione, legge fondamentale
della Repubblica italiana:
“E’
compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale,
che, limitando di fatto la libertà e
l’uguaglianza dei cittadini,
impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione
di tutti i lavoratori all’organizzazione
politica, economica e sociale del Paese”.
In questa norma è chiaramente espresso
l’impegno democratico, che in Italia è un obbligo di legge per tutti, di
elevazione delle moltitudini alla piena cittadinanza, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni
personali e sociali, che è come dire alla sovranità comune. Un bel rovesciamento di prospettiva rispetto, ad
esempio, alla condizione degli ultimi nelle monarchie feudali, nelle quali il
potere emanava dall’alto, e poi veniva, come dire, delegato in parte a persone
inserite in diverse posizioni decrescenti di una scala gerarchica in cui, più
in basso di tutti, c’erano moltitudini fatte di chi non contava nulla ed era
semplicemente dominato da quelli che stavano sopra!
In una preghiera di origine evangelica che
recitiamo ogni giorno nella liturgia delle Ore, ai Vespri, il Magnificat, c’è qualcosa che richiama
quell’idea. In greco fa kazèilen dinàsta
apò trònon/ kài ùpsosen tapinùs, che viene tradotto nella Bibbia CEI 2010
con ha rovesciato i potenti dai troni/ha
innalzato gli umili. La diversità di questa concezione rispetto a quella
democratica sta nel fatto che in quella biblica il risultato è soprannaturale mentre nell’altra è
prodotto da un’azione collettiva e consapevole, da una rivoluzione, dal basso. Rivoluzione ha significato spesso violenza
tra le persone e per questo motivo la Chiesa cattolica, tanto più in quanto
storicamente, fin dalla rivoluzione francese della fine del Settecento, ha
fatto le spese di simili moti, ha posto un’obiezione morale contro di essa. E
tuttavia in un ordinamento democratico contemporaneo certi cambiamenti, certe
riforme anche radicali, possono essere attuati senza violenza, anzi questa è
una delle caratteristica salienti dei regimi politici di questo tipo. Ciò
avviene perché, nella concezione contemporanea, la democrazia integra in sé
anche un sistema molto esteso di valori, che viene definito come quello dei diritti umani: non è fatta solo della
regola per la quale decide la
maggioranza. Molte cose sono infatti sottratte all’arbitrio delle maggioranze.
Ad esempio il principio supremo dell’uguaglianza tra le persone umane. Ed è
proprio per questo che ai tempi nostri l’azione democratica costituisce
un’opportunità importante anche per chi abbia una concezione religiosa della
vita e, in base ad essa, ritenga che le società umane di oggi possano essere
migliorate. Uno dei più importanti auspici che troviamo nella dottrina sociale
della Chiesa espressa dal Concilio Vaticano 2° in poi è quello che i laici
cattolici, cooperando con altre formazioni nella società civile, riescano a
introdurre nei principi fondamentali degli ordinamenti democratici valori tratti dalle idee religiose, mediati, quindi, come dire, tradotti in modo che possano essere
compresi e accolti anche al di fuori della Chiesa, con l’impiego del discorso
razionale e della cultura nel dialogo con le altre componenti della società.
Per riunire intorno ad essa le forze sociali, i popoli e, al limite, l’intero
genere umano, come scrisse Giuntella. Questo
lavoro è centrale in Azione Cattolica. Esso non è altro che
l’espressione della missione della Chiesa nel mondo, tra le genti.
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5
Fede
religiosa, uguaglianza e democrazia:
relazioni in veloce evoluzione
(1 ottobre 2012)
dal Catechismo della
Chiesa cattolica (1992) n.1934 e 1935 (nella Parte terza: La vita in Cristo; Sezione
seconda: La vocazione dell’uomo: la vita nello spirito; Capitolo secondo: La
comunità umana; articolo 3: La
giustizia sociale; paragrafo 2°: Uguaglianza e differenze tra gli uomini:
1934.
Tutti gli uomini, creati ad immagine dell’unico Dio e dotati di una medesima
anima razionale, hanno la stessa natura e la stessa origine. Redenti dal
sacrificio di Cristo, tutti sono chiamati a partecipare della medesima
beatitudine divina: tutti, quindi, godono di una eguale dignità.
1935.
L’uguaglianza tra gli uomini poggia essenzialmente sulla loro dignità personale
e si diritti che ne derivano:
“Ogni genere di discriminazione
nei diritti fondamentali della persona
[…] in ragione di sesso, della stirpe, del colore, della condizione
sociale, della lingua o della religione, deve essere superato ed eliminato,
come contrario al disegno di Dio” [dalla Costituzione pastorale Gaudium et spes del Concilio Vaticano 2°, 29],
Dunque il principio dell’uguaglianza
universale degli esseri umani, fondamento delle democrazie popolari
contemporanee, è oggi legge anche della Chiesa cattolica, in quanto sancito
dalla Costituzione pastorale Gaudium et
spes, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), e dal Catechismo della chiesa cattolica, il quale è molto di più di un
semplice sussidio per l’iniziazione religiosa, ma è anche un documento
normativo, promulgato dal papa Giovanni Paolo 2° con la Costituzione Apostolica
Fidei depositum, dell’11 ottobre 1992 (alcune modifiche furono
apportate in occasione della pubblicazione dell’edizione tipica latina, il 15
agosto 1997).
La formulazione di quell’ideale di uguaglianza
sociale che troviamo nella Gaudium et
spes è simile a quella che si legge
nell’art.3, comma 1° della nostra Costituzione (deliberata dall’Assemblea
costituente il 22 dicembre 1947 ed entrata in vigore il 1 gennaio 1948), la cui
elaborazione iniziò durante i lavori della prima sottocommissione della
Commissione per la Costituzione dell’Assemblea costituente (luglio 1946 –
gennaio 1948) in cui i cattolici erano ben rappresentati, in particolare dai
democristiani Umberto Tupini, che la presiedeva, Giorgio La Pira (al quale si
deve la formulazione dell’art.2 della Costituzione), Giuseppe Dossetti, Aldo
Moro e Camillo Corsanego. E sostanzialmente essa richiama l’analoga
formulazione che troviamo nell’art.2, 1° comma, della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo
(approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10-12-1948):
1. Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà
enunciati nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni
di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o
di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di
altra condizione.
Ora, vi propongo un lavoro comune, perché, in
tutta sincerità non ho la sapienza necessaria per fare asserzioni sicure sul
tema: cercate nella storia ormai bimillenaria della nostra Chiesa dichiarazioni
normative (atti dei papi, dei concili, dei vescovi) analoghe a quella che trascrivo nuovamente,
della Gaudium et spes, in
materia di
uguaglianza: “Ogni genere di
discriminazione nei diritti fondamentali della persona […] in ragione di sesso, della stirpe, del
colore, della condizione sociale, della lingua o della religione, deve essere
superato ed eliminato, come contrario al disegno di Dio”.
Vi sarò grato se mi farete conoscere il
risultato della vostra ricerca.
Intanto ricordo che il 12 marzo del 2000,
durante il Grande Giubileo dell’anno 2000,
il papa Giovanni Paolo 2° presiedette una solenne liturgia penitenziale
denominata Preghiera universale –
Confessione delle colpe e richiesta di perdono, che comprese la seguente
parte:
[…]
VI. CONFESSIONE DEI PECCATI CHE HANNO FERITO LA DIGNITÀ DELLA DONNA E
L'UNITÀ DEL GENERE UMANO
Un Rappresentante della Curia
Romana:
Preghiamo per tutti quelli che sono stati
offesi
nella loro dignità umana e i cui diritti sono stati conculcati;
preghiamo per le donne troppo spesso umiliate ed emarginate,
e riconosciamo le forme di acquiescenza
di cui anche cristiani si sono resi colpevoli.
Preghiera in silenzio.
II Santo Padre:
Signore Dio, nostro Padre,
tu hai creato l'essere umano, l'uomo e la donna,
a tua immagine e somiglianza
e hai voluto la diversità dei popoli
nell'unità della famiglia umana;
a volte, tuttavia, l'uguaglianza dei tuoi
figli non è stata riconosciuta,
ed i cristiani si sono resi colpevoli di atteggiamenti
di emarginazione e di esclusione,
acconsentendo a discriminazioni
a motivo della razza e dell'etnia diversa.
Perdonaci e accordaci la grazia di guarire le ferite
ancora presenti nella tua comunità a causa del peccato,
in modo che tutti ci sentiamo tuoi figli.
Per Cristo nostro Signore.
R. Amen.
R. Kyrie, eleison; Kyrie, eleison; Kyrie,
eleison.
Viene accesa una lampada davanti al
Crocifisso.
…
Orazione conclusiva
Il Santo Padre:
O Padre misericordioso,
tuo Figlio Gesù Cristo, giudice dei vivi e dei morti,
nell'umiltà della prima venuta
ha riscattato l'umanità dal peccato
e nel suo glorioso ritorno chiederà conto di ogni colpa:
ai nostri padri, ai nostri fratelli e a noi tuoi servi,
che mossi dallo Spirito Santo
ritorniamo a te pentiti con tutto il cuore,
concedi la tua misericordia e la remissione dei peccati.
Per Cristo nostro Signore.
R. Amen.
Il Santo Padre in segno di penitenza e di
venerazione abbraccia e bacia il Crocifisso.
BENEDIZIONE E INVIO
12 marzo 2000
Il Santo Padre:
Il Signore sia con voi.
E con il tuo spirito.
Vi benedica il Padre che ci ha generati
alla vita eterna.
Amen.
Vi benedica il Cristo che ci ha fatti suoi
fratelli.
Amen.
Vi benedica lo Spirito Santo che dimora
nel tempio dei nostri cuori.
Amen.
Vi benedica Dio onnipotente, Padre e
Figlio e Spirito Santo.
Amen.
Fratelli e sorelle,
questa liturgia che ha celebrato la misericordia del Signore
e ha voluto purificare la memoria
del cammino dei cristiani nei secoli
susciti in tutta la Chiesa e in ciascuno di noi
un impegno di fedeltà al messaggio perenne del Vangelo:
mai più contraddizioni alla carità
nel servizio della verità,
mai più gesti contro la comunione
della Chiesa,
mai più offese verso qualsiasi
popolo,
mai più ricorsi alla logica della
violenza,
mai più discriminazioni, esclusioni,
oppressioni,
disprezzo dei poveri e degli ultimi.
E il Signore con la sua grazia
porti a compimento il nostro proposito
e ci conduca tutti insieme alla vita eterna.
Amen.
La proclamazione dell’uguaglianza universale
degli esseri umani è oggi quindi parte della dottrina sociale della Chiesa, un
principio promulgato con la massima autorità: quella di un Concilio ecumenico e
di un papa. Il papa Giovanni Paolo 2°,
con le parole pronunciate nel 2000 al termine della preghiera universale
di confessione delle colpe e richiesta di perdono ha anche assegnato a tutti
noi fedeli, e in particolare a noi laici
che operiamo nel “temporale”, cioè al di fuori della sfera liturgica di
competenza canonica dell’autorità ecclesiastica e del clero, un compito molto chiaro, da svolgere con
determinazione e senza cedimenti o
arretramenti (“mai più…”), anche in
materia di realizzazione dell’uguaglianza sociale universale.
C’è ancora molto da fare, sia dal punto di
vista pratico che da quello teorico, ideativo. Ma molto indubbiamente è stato
fatto.
Considerate ad esempio quante volte nel Catechismo
della Chiesa cattolica (1992 – 1997) ricorre il tema dell’uguaglianza.
E’ una ricerca che possiamo fare agevolmente mediante l’indice tematico. Dunque
il termine ricorre cinque volte ai numeri:
n.369: riguarda l’uguaglianza tra uomo
e donna;
n.872:
non riguarda l’uguaglianza nella società civile, ma il contributo
all’edificazione del Corpo di Cristo, quindi alla missione della Chiesa;
n.1935 (sopra citato)
n.2273: se ne parla con riguardo ai
diritti del nascituro;
n.2377:
se ne parla con riferimento alle pratiche di inseminazione e fecondazione
artificiali omologhe.
In
sostanza il tema dell’uguaglianza è considerato nel senso a cui vi si riferiva
il citato brano della Gaudium et spes solo nel n.1935, poche righe.
Molto di più vi è nel Compendio della
dottrina sociale della Chiesa, pubblicato nel giugno 2004, che raccoglie
precedenti dichiarazioni del magistero dei pontefici e dei concili. Si tratta
di uno strumento molto utile per avere una visione d’insieme e coordinata dei
temi in esso trattati, tra i quali, appunto, quello dell’uguaglianza e
soprattutto per collegare certe importanti affermazioni alle fonti da dove
derivano.
1965 – 1992 – 1997 – 2000 – 2004: mi pare che
si possa rilevare una veloce (tenendo conto dei tempi occorrenti solitamente
nelle cose di religione) evoluzione della concezione delle relazioni della
nostra fede con i temi dell’uguaglianza sociale e, conseguentemente, della
democrazia che anche su di essa di fonda.
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6
La
libertà come opportunità religiosa in democrazia
(1 ottobre 2012)
Il nuovo
colosso
Non come lo sfacciato gigante di bronzo della gloria greca,
piantato a soggiogare la terra da un confine all’altro,
qui sulle rive della terra d’Occidente si ergerà
una donna potente con una torcia, la cui fiamma
racchiude il fulmine, e il suo nome è
Madre degli Esuli. Dal faro che ha in mano
lampeggia il benvenuto a genti di tutto il mondo;
gli occhi suoi dolci dominano il ponte sospeso
che unisce due quartieri della città.
“Tenetevi pure, terre
antiche, il vostro fasto leggendario!” ella grida
con labbra silenziose. “Datemi
chi tra voi è esausto e povero,
le vostre
masse che si accalcano nell’anelito di libertà,
i miseri rifiuti della vostre popolose terre.
Mandatemi quelli che non hanno più casa e gli
sventurati,
innalzando
la mia luce mostrerò loro la porta d’oro!”.
Emma Lazarus, 1883 (traduzione mia)
Avvicinandosi dal
mare e dal cielo alla città statunitense di New York, risalta la gigantesca
statua eretta a fino Ottocento alla foce del fiume Hudson per celebrare
l’indipendenza degli Stati Uniti
d’America, conosciuta come la Statua
della Libertà: raffigura una donna coronata che innalza una torcia con il
braccio destro e nell’altro tiene un libro sul quale è incisa la data
dell’indipendenza americana dal Regno Unito, il 4 luglio 1776; ai suoi piedi vi
sono catene infrante; è la raffigurazione della Libertà che illumina il mondo.
Sul suo piedistallo sono incisi gli ultimi versi della poesia Il nuovo colosso, della poetessa
americana Emma Lazarus, che sopra ho evidenziato in neretto (l’antico colosso
greco menzionato nel primo verso della lirica era quello, raffigurante il dio Sole – Helios, eretto nel porto della città di
Rodi nel terzo secolo dell’era antica). Comunemente quel monumento è ritenuto
un simbolo degli Stati Uniti d’America, ed è vero, ma rappresenta anche
qualcosa di molto più profondo: infatti ricorda che la guerra di indipendenza
delle colonie nordamericane combattuta nel Settecento contro i britannici fu
una vera e propria rivoluzione, motivata non solo dalla volontà dei coloni di
comandare a casa propria, ma anche da quella di creare un mondo nuovo, con
altri principi rispetto a quelli che dominavano la monarchia europea che
pretendeva di continuare a dominarli; quel proposito che nella poesia è
espresso con il voler aprire la “porta
d’oro” a quelli che oltremare erano considerati rifiuti umani. La Libertà
simboleggiata in quella statua è quindi quella che è associata alla giustizia
sociale ed è molto di più del solo conquistare il potere di decidere che cosa
fare di sé e delle proprie cose, liberandosi in questo dal giogo altrui; non è
solo la liberazione da una lontana monarchia,
è liberazione dal giogo della
diseguaglianza e della discriminazione sociale e anelito ad un nuovo ordine
sociale, ad una nuova condizione di cittadinanza, per dare a tutti
l’opportunità della ricerca della felicità, poiché
gli esseri umani sono stati dotati dal Creatore di certi inalienabili diritti
(così è scritto nella Dichiarazione d’indipendenza americana). La Statua
della Libertà e la dichiarazione di
indipendenza che essa celebra manifestano una caratteristica delle democrazie
moderne che spesso non è bene intesa: esse sono fondate sul desiderio della
libertà dall’ingiustizia sociale e sull’affermazione di diritti umani sottratti
all’arbitrio umano, sia esso quello di un monarca come anche quello di una
maggioranza. Essa ha quindi sostanzialmente carattere religioso perché non
dipende dall’osservazione e accettazione di come vanno le cose di solito, e
infatti di solito vanno diversamente, ma da principi proclamati, attuati e
difesi come assoluti: nella Dichiarazione d’Indipendenza statunitense ciò è
detto chiaramente, vi sono infatti menzionati esplicitamente Dio e altri ideali
religiosi.
Quando si dice che il
cristianesimo è all’origine di importanti valori della nostra civiltà questo è vero anche per quanto riguarda le
democrazie contemporanee, anche se non bisogna dimenticare che esse si sono
spesso imposte contro gli insegnamenti e i divieti delle autorità
ecclesiastiche e che ciò risalta particolarmente nel caso della Chiesa
cattolica. Una delle epoche più problematiche sotto questo profilo fu quella
del ventennio fascista italiano. Ma oggi siamo in un’era diversa, qui in Italia
e ce ne dobbiamo rallegrare. Possiamo parlare di democrazia e religione senza
dover superare divieti della autorità
civili e di quelle religiose. Ci può sembrare una cosa ovvia, ma non lo è. E’
stata una faticosa conquista, dalla quale non dobbiamo mai accettare di
recedere. Abbiamo quindi, ai tempi nostri, la possibilità, ma anche il compito
e il dovere, di approfondire il tema dell’influsso che come fedeli cattolici
possiamo esercitare per la crescita della società civile e in particolare per
la piena affermazione di quei diritti inalienabili, di quei valori, che sono all’origine delle
idealità democratiche. L’obiettivo, condivisibile anche con coloro che non
hanno le nostre convinzioni di fede, è quello di realizzare, mediante vite
buone, una società in cui sia veramente bello vivere, in libertà e giustizia.
Ciò è parte cruciale dell’impegno in Azione Cattolica.
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7
L’uguaglianza
come pari dignità sociale è alla base delle democrazie di popolo contemporanee
(3 ottobre 2012)
Nel Compendio della dottrina sociale della
Chiesa (2004) si legge una interessante citazione alla nota n.793, a
proposito dell’amicizia civile da
intendere come forma di fraternità alla base della pacifica convivenza sociale:
« “Libertà, uguaglianza, fraternità’” è stato il motto della Rivoluzione
francese. In fondo sono idee cristiane »
ha affermato Giovanni Paolo II, nel corso del suo primo viaggio in Francia: Omelia
a Le Bourget (1º giugno 1980).
Quelle parole di un papa colpiscono tenendo
conto del carattere marcatamente anticlericale della Rivoluzione francese del
Settecento (1789-1799). E certamente esse non vollero intendere una
giustificazione delle violenze politiche di massa che quei moti espressero o
delle misure restrittive e delle espropriazioni adottate contro la Chiesa
cattolica di allora o degli altri
provvedimenti contro il clero cattolico, ma riconoscere che alcune delle
principali idealità di convivenza sociale manifestate da quei rivoluzionari di
allora corrispondevano anche a principi religiosi cristiani. Naturalmente ai
nostri tempi ci siamo abituati ad una libertà
di espressione del pensiero che nel
Settecento ci sarebbe costata cara. All’epoca non si potevano dedurre liberamente dai principi religiosi certe
conseguenze quanto a riforme sociali.
Quindi dobbiamo capire che certe cose vengono dette talvolta con il senno del poi. E, certo, giudicando con
quel senno del poi, ci possiamo dispiacere che la Chiesa cattolica abbia
espresso non di rado nei secoli passati posizioni arretrate rispetto ad altre
della sua contemporaneità, e lo riconosciamo perché poi ha appunto dichiarato pubblicamente di pentirsene. La
situazione ai nostri giorni è piuttosto cambiata. Mi riferisco ad esempio alla bioetica in cui il pensiero cattolico,
stimolato dal magistero, è all’origine di un importante e fecondo filone
speculativo che ha portato ad approfondire il tema di quando cominci l’umano
che deve essere riconosciuto nella dignità sua propria, o all’etica
dell’economia e dello sviluppo, come quella espressa nell’enciclica pontificia Caritas in veritate (2009), in cui si è presa consapevolezza
dell’esigenza che dall’interdipendenza umana planetaria discenda la necessità
di un nuovo spirito di fraternità globale.
Soffermandoci sul principio di uguaglianza, è senz’altro vero che esso è
alle fondamenta della democrazie popolari contemporanee, per intenderci quelle
basate sul suffragio universale (alle
elezioni politiche votano tutti gli adulti, maschi e femmine, senza distinzione
di istruzione, reddito, condizione sociale o di stirpe) e sui quei principi
assoluti, proclamati solennemente dalla Nazioni Unite nel 1948 nella Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo, che si indicano come diritti
umani. Il principio di uguaglianza è uno di essi e viene così enunciato in
quella solenne Dichiarazione,
all’art.2:
1. Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati
nella presente Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione
politica o di altro genere, di origine
nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione.
2. Nessuna distinzione sarà inoltre
stabilita sulla base dello statuto politico, giuridico o internazionale del
Paese o del territorio cui una persona appartiene, sia che tale Paese o
territorio sia indipendente, o sottoposto ad amministrazione fiduciaria o non
autonomo, o soggetto a qualsiasi altra limitazione di sovranità.
Una delle principali eccezioni al principio di
uguaglianza universale è stata storicamente quella della condizione di
schiavitù, superata solo nel corso dell’Ottocento dagli stati europei ed
americani. Dai film western sappiamo,
ad esempio, che una delle motivazioni che furono alla base del sanguinoso
conflitto detto guerra di secessione
(1861-1865) nordamericana
fu la questione dello schiavismo in danno dei deportati dall’Africa. Lo
schiavismo fu istituzione molto antica ed era molto praticato anche ai tempi
delle primitive comunità cristiane, che non vi videro vero motivo di scandalo.
Così, in particolare, per la gran parte della storia della Chiesa cattolica le
autorità ecclesiastiche non vi videro veramente un problema da punto di vista
religioso se praticato da popoli cristiani (al contrario, ad esempio, di quello
praticato dai predoni saraceni che
comportava l’abbandono della pratica religiosa cristiana). Per quanto ho letto,
se ne cominciarono a occupare dal Cinquecento, di fronte alle morie di massa
dei nativi americani costretti in schiavitù dai colonizzatori europei.
Monarchie cattoliche come quella spagnola e portoghese consentirono la
deportazione di massa di schiavi dall’Africa e la riduzione in schiavitù di
masse di nativi americani. I cristiani europei non furono in genere
particolarmente sensibili al tema fino al Settecento, salvo che nel caso di
alcuni spiriti illuminati (anche del clero) e di alcuni filosofi. Lo schiavismo
attuato da cristiani influenzò profondamente il profilo demografico americano,
come si può constatare facilmente in particolare negli Stati Uniti d’America,
nei Caraibi e in Brasile.
L’uguaglianza tra gli esseri umani non è del resto un dato evidente (un dato è evidente
quando esso ci si impone senza che ci si debba ragionare molto su). La scienza
contemporanea ci dice che gli umani condividono tutto il profilo genetico,
tranne però una piccolissima parte che denota importanti caratteristiche
etniche, familiari e individuali. E certe comuni caratteristiche fisiche e
mentali degli umani erano già chiare ai popoli dell’antichità, come anche però
le differenze tra le persone e i popoli. E’ insomma da sempre esperienza comune
che ognuno di noi nasce e si sviluppa diverso dall’altro, benché simile agli altri. Si tratta di
differenze di stirpe, ma anche di altre
particolarità individuali nella costituzione fisica e di caratteristiche
psichiche, come quelle relative alla struttura e all’orientamento sessuali,
alle quali si aggiungono differenze derivate dalla storia individuale e sociale
della persona. In definitiva si può dire che l’uguaglianza non è in natura, questo sicuramente è evidente, mentre certamente gli umani si assomigliano
gli uni gli altri, anche questo è evidente,
e inoltre che gli umani sono viventi sociali che hanno bisogno gli uni degli altri e quindi si sono reciprocamente
complementari e cercano di organizzare le loro società in modo da sfruttare al
meglio questa loro qualità. Nel mondo di oggi, molto complesso e molto più
abitato da esseri umani che nelle epoche passate, riteniamo generalmente che a
questo fine si debba promuovere l’uguaglianza universale tra gli esseri umani per realizzare società in cui le
opportunità di cooperazione pacifica siano potenziate al massimo. Ci figuriamo
infatti che un conflitto su scala mondiale, data la profonda interdipendenza
della società umane e la potenza degli strumenti di distruzione a disposizione,
porterebbe a una catastrofe che metterebbe addirittura in pericolo la
sopravvivenza dell’intera specie umana sulla Terra.
Faccio un esempio tratto dalla vita quotidiana
di oggi: il mio IPAD è stato ideato negli Stati Uniti d’America, prodotto nella
Repubblica popolare di Cina (lo stato che domina nella Cina continentale) e
venduto in Italia: che succederebbe se scoppiasse un conflitto tra americani e
cinesi motivato dall’annosa rivendicazione di sovranità dei cinesi
sull’isola-stato di Taiwan? Naturalmente possiamo fare un esercizio simile di
previsione anche con riferimento ad altri prodotti di cui non potremmo fare
facilmente a meno, mentre tutto sommato all’IPAD si potrebbe rinunciare.
In che cosa quindi siamo uguali e, innanzi tutto, da
dove deriviamo questa pretesa di
uguaglianza?
In realtà quella all’uguaglianza tra gli
esseri umani è un’aspirazione e un obiettivo, non (ancora) una realtà, né in natura né nelle
società umane, e si fonda sull’idea che essi abbiano pari dignità, vale a dire
che a tutti loro vadano riconosciuti nella
stessa misura alcuni diritti umani
fondamentali. Questa idea, per quanto ho capito, è di origine
specificamente cristiana.
Si legge nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa, al n.144:
144 « Dio non fa preferenze
di persone » (At 10,34; cfr. Rm 2,11; Gal 2,6; Ef 6,9),
poiché tutti gli uomini hanno la stessa
dignità di creature a Sua immagine e somiglianza.
L'Incarnazione del Figlio di Dio manifesta
l'uguaglianza di tutte le persone quanto a dignità: « Non c'è più giudeo né
greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti
voi siete uno in Cristo Gesù » (Gal 3,28; cfr. Rm 10,12; 1 Cor
12,13; Col 3,11).
Poiché sul volto di ogni
uomo risplende qualcosa della gloria di Dio, la dignità di ogni uomo davanti a
Dio sta a fondamento della dignità dell'uomo davanti agli altri uomini. Questo è, inoltre, il
fondamento ultimo della radicale uguaglianza e fraternità fra gli uomini,
indipendentemente dalla loro razza, Nazione, sesso, origine, cultura, classe.
Quindi: in primo luogo viene in rilievo
l’essere stati tutti creati da Dio, che ci si è manifestato come Padre, e
in secondo luogo la fraternità comune in
Cristo. E, quanto alla condizione di creature, c’è un altro elemento
importante: la convinzione di essere stati creati da Dio a sua immagine, a sua somiglianza (Genesi 1,26).
Riconoscere la pari dignità degli
umani è quindi, nella concezione cristiana, materia di un dovere religioso,
anche se nella storia cristiana sono state riconosciute lecite molte
distinzioni ulteriori, ad esempio quella fra uomo e donna, che sono state poste
alla base di vere e proprie discriminazioni.
Quello che viene espresso nella terminologia biblica, può anche essere detto
così: tutti gli esseri umani devono essere considerati uguali nei
diritti fondamentali. In un caso come nell’altro, sia che la si esprima in
termini religiosi che con altri termini, a questa realtà si crede in modo
religioso, vale a dire a prescindere da quello che si ricava dall’osservazione
delle cose come vanno di solito e, in particolare, della natura, in cui, come ho detto,
l’uguaglianza non esiste e la regola fondamentale è pesce grosso mangia pesce piccolo e sopravvive il più adatto alla
condizioni ambientali e biologiche. Insomma per uno spirito religioso
cristiano l’affermazione della pari dignità creaturale degli esseri umani e
tutto ciò che se ne fa conseguire non è un problema, mentre chi vuol far
discendere quel principio dalla semplice natura,
vale a dire dal nostro essere viventi prodotto della natura, deve affrontare un’insufficienza nel fondamento di quella
pretesa.
Gli illuminati artefici della rivoluzione
nordamericana (1776) della fine del Settecento non trovarono infatti alcun
ostacolo nel proclamare:
We hold these
truths to be self-evident, that all men are created equal, that they
are endowed by their Creator with certain unalienable
Rights, that among these are Life, Liberty and the
pursuit of Happiness.
(trad.mia:
Crediamo fermamente nell’evidenza di queste verità: che tutti gli esseri
umani sono creati uguali,
provvisti dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, e tra essi il
diritto alla Vita, alla Libertà e alla ricerca della Felicità.)
La lotta contro le discriminazioni tra gli
esseri umani nei loro diritti umani è
alla base di molte delle costituzioni delle entità politiche contemporanee, in
particolare di quelle europee e americane e di quelle che a queste ultime si
sono ispirate. L’Unione Europea è tra quelle entità. Bisogna riconoscere che
questa è una materia in cui ci sono state alcune prese di posizione divergenti
tra le autorità civili e quelle religiose. A volte l’affermazione dei diritti
umani è stata considerata antireligiosa. In campo civile si è presa ad esempio
coscienza di forme di discriminazione che la dottrina religiosa non riconosce
come tali. Segnalo solo un problema che è, come si dice, di stringente
attualità. Una di quelle questioni è venuta in rilievo nell’ultima riunione del
nostro gruppo e riguarda la disciplina giuridica delle unioni delle persone
omosessuali. Su di essa ai laici cattolici è lasciata poca autonomia, perché
rientra in quelle riguardanti i valori
non negoziabili, sui quali l’autorità ecclesiastica, con vincolo di
obbedienza canonica, chiede che si segua la sua linea. Ma comunque bisogna
ragionarci su, perché come fedeli laici dobbiamo pur sempre rendere ragione al mondo della nostra
fede e a questo fine non è sufficiente l’argomento “ci è stato ordinato di pensare e di fare così”. Si tratta del resto
di problemi che rilevano ancor più in
materia di fede per la base in fondo religiosa del diritto umanitario.
Nel campo dei diritti umani, le tematiche religiose, e in particolare quelle
cristiane, stanno avendo, un po’ inaspettatamente, una particolare rilevanza
nello sviluppo dell’organizzazione delle società civili più avanzate, in
particolare in Europa. E’ un settore in cui sono chiamati a operare innanzitutto i fedeli laici,
impegnati a spendersi in quello che nel gergo ecclesiale è definita l’animazione del temporale. E’ questo, dall’inizio, uno degli ambiti
spazio in cui l’Azione Cattolica ha deciso di lavorare prioritariamente.
Infondere nelle società civili i valori,
che sono alla base del diritto umanitario, è infatti necessariamente un compito
collettivo, da affrontare insieme,
dopo essersi preparati insieme. Così
anche è da affrontare insieme il
dialogo con altre componenti della società per individuare nelle condizioni
contemporanee altri fattori, oltre a quelli storicamente già noti, che
ostacolino la piena espansione universale della dignità degli esseri umani.
Per molti versi tuttavia in molte realtà
locali il discorso di Azione Cattolica è da riavviare o anche solo da ravvivare, perché nei decenni passati ci si è spesso concentrati su altre tematiche
e altri modi di impegno religioso e si è quindi un po’ perso il senso del
nostro impegno nella Chiesa e nella società civile. Veniamo da lontano, ma
qualche volta appariamo alla gente come un’esperienza nuova, non esattamente in
linea con le altre esperienze di collettività presenti nella vita delle
parrocchie. Ad esempio può apparire che, dove altri mettono l’accento su una
disciplina individuale, noi puntiamo molto sulla libertà delle persone nelle
nostre dinamiche associative, in particolare su quella di pensiero e di
espressione. Eppure la nostra rimane una esperienza di carattere religioso, in
cui si vuole quindi rimanere legati alla fede comune, anche se effettivamente
si punta a scoprire/riscoprire/sperimentare la nostra fede anche come strada verso la libertà, secondo
l’espressione di Paolo Giuntella che ho citato nel post del 1 ottobre scorso.
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8
Un
appello per ripartire insieme
(4 ottobre 2012)
Negli ultimi giorni
ho pubblicato alcuni contenuti in cui ho parlato degli obiettivi peculiari
dell’Azione Cattolica nella società civile democratica di oggi. Può sembrare
una cosa un po’ troppo grande per una realtà parrocchiale come la nostra. E per
le nostre forze in concreto. Per certi versi noi dell’A.C. in San Clemente Papa
siamo un piccolo resto, se ci
paragoniamo a come era anni fa il nostro gruppo. Non abbiamo più una nostra
stanza in parrocchia, di volta in volta ce ne assegnano una. Il nostro
assistente ecclesiastico si trova a volte a parlare a poche persone e può
domandarsi se, in fondo, ne valga ancora la pena. Avere una grande storia non
potrà salvarci a lungo dall’estinzione se
il gruppo non si rivitalizzerà con l’ingresso di nuovi soci, in
particolare di soci più giovani. E’ paradossale che questo accada in un mondo
che ha tanto bisogno di ciò che la Chiesa si propone di dare e in un Chiesa che
vuole essere tanto presente nel mondo, in particolare confrontandosi con le
democrazie europee e l’Unione Europea sul terreno dei valori. Questo è appunto da sempre il campo specifico dell’Azione
Cattolica, l’azione nella società civile
per promuovere in essa i valori religiosi.
E’ possibile che non
si abbia ben chiaro, pensando ad un impegno in Azione Cattolica, che cosa si fa nei nostri gruppi e
soprattutto quali risultati si riescano effettivamente ad ottenere. Bene,
innanzi tutto occorre distaccarsi da una mentalità per così dire aziendalistica, per la quale si somma
nei risultati positivi solo tutto quello che si fa sotto il marchio associativo. Noi riuniamo gente che già opera nella società
nei vari ambiti in cui si può farlo: la famiglia, il lavoro, lo sport, la cultura
e via dicendo. Non dobbiamo inventarci cose nuove da fare lì come Azione
Cattolica. Però formandoci e riflettendo in Azione Cattolica, in un gruppo che
è federato in un’organizzazione che ne condivide le idealità, gli obiettivi e
il metodo, possiamo manifestare meglio nel posto che occupiamo nella società il
nostro essere cristiani e i nostri valori, dialogando con altri sui temi e
i problemi emergenti. Per questo occorre
una preparazione, sia spirituale che culturale, e una determinazione che scaturisce
da una adesione consapevole e convinta ai valori
di fede. Non è un lavoro che troviamo
già fatto, come se, per ogni situazione, la nostra Chiesa, il magistero in
particolare, potesse fornirci una sorta di manuale operativo o di catechismo, e
poi a noi spettasse solo di attuare cose decise da altri. Forse, al di fuori
del mondo ecclesiale, si pensa che tra noi cattolici vada così, che insomma si
faccia quello che in dettaglio viene stabilito più in alto nella scala
gerarchica, dal Papa in giù. E’ il pregiudizio che, da cattolico, dovette
superare John Kennedy assumendo la presidenza degli Stati Uniti d’America. In
realtà ognuno di noi porta effettivamente la personale e diretta responsabilità
della porzione di mondo che è sotto la sua sfera di influenza e le soluzioni
vanno ideate e sperimentate di volta in volta, dialogando nella Chiesa e nella
società. Se oggi si dispera di poter cambiare le cose che non vanno a partire
dal basso è perché è un po’ svanito il senso democratico, che comunque pervade
sempre la nostra società, per il quale si è capaci di individuare e capire la
dinamica dei grandi numeri, delle masse, dietro certi cambiamenti storici. Di
convincersi che in democrazia si cambiano effettivamente le cose a partire
dagli sforzi delle persone nella loro particolare, apparentemente umile e insignificante,
storia. Una parte del lavoro che si deve
fare in Azione Cattolica consiste proprio in questo: nel comprendere meglio
quello che l’azione collettiva democratica ha fatto, sta facendo e può ancora
fare per il bene di tutti, per cambiare il mondo. Democrazia è agire in una
collettività rispettando la personalità e i valori degli altri, con la fiducia
di poter cambiare in meglio la società: l’Azione Cattolica concepisce sé stessa
anche come una palestra di democrazia (Atto
normativo Diocesano di Roma). La fiducia nelle potenzialità dell’agire in
democrazia si acquista lavorando insieme ad altri, in un gruppo aperto alla
società, partecipando ad un’azione collettiva spinta da alte idealità, quali
sono quelle religiose.
La parrocchia è la casa di tutti e tutti
possono trovarvi la loro casa, il tipo di impegno adatto a loro. L’Azione
Cattolica è una stanza di quella casa di tutti, anch’essa quindi è di tutti e per tutti. E tuttavia il
lavoro in un gruppo di Azione Cattolica può non venire incontro alle esigenze
di tutti, perché in primo luogo esso non è volto tanto ad operare per coloro
che ne fanno parte, a risanarli e sorreggerli nella loro psicologia e nella
loro fede, ma per gli altri che non ne fanno
parte, la società intorno, e poi perché non è centrato tanto su ciò che si fa nel gruppo ma su ciò che si deve fare fuori di esso, non però come specifica
collettività religiosa, come ditta
ecclesiale, ma come parti della società civile. E l’azione che si cerca di
svolgere nella società è innanzi tutto diretta alla promozione di valori, la specifica forma di apostolato che compete ai laici, non
tanto a suscitare nuove adesioni al gruppo, all’espansione della nostra
particolare realtà associativa. La particolarità della nostra esperienza
associativa sta proprio nell’apertura
alla società civile, non in un modo particolare di vivere la nostra fede inteso
come spiritualità e disciplina individuale o di gruppo, dal momento che esso
non differisce da quello comune della parrocchia. Mi pare di aver capito quindi
che per associarsi in Azione Cattolica occorra: 1)aver già maturato una fede
salda; 2)avere già una formazione catechistica di base; 3) avere un interesse
alla vita della Chiesa, in particolare alla la missione che in essa e fuori di
essa specificamente compete ai laici;
4)avere interesse ad approfondire i temi proposti ai laici dal magistero, per
quella specifica missione dei laici; 5) avere interesse per le dinamiche
sociali contemporanee ed essere inseriti nella vita della società civile, negli
ambiti propri dei laici (famiglia, lavoro, cultura, sport ecc.), in posizioni
in cui si può concretamente influire su di essa. Per tutto ciò che non è di
interesse specifico di un gruppo di Azione Cattolica la parrocchia offre altre
forme di impegno sociale (ad esempio: catechesi per le varie età della vita,
azione caritativa, socialità per il tempo libero, sostegno alla fede e via
dicendo): l’associazione in Azione Cattolica non è
esclusiva e non è totalitaria.
Voglio concludere osservando
questo: per quanto riguarda le fasce d’età 30/50 anni il nostro gruppo deve
ripartire in pratica dall’inizio, si tratta di ripensarlo da capo. Ad esempio,
partecipare ad una riunione con inizio alle ore 17:00 può essere difficile per
persone di quell’età (io ho 55 anni e trovo difficoltà; la mia prole a
quell’ora è quasi sempre impegnata all’università). Ma si possono escogitare
alternative.
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9
Le
ragioni di un lavoro insieme
(5 ottobre 2012)
Nei giorni scorsi ho
scritto sull’esperienza associativa in gruppo di Azione Cattolica. E certo ci
si possono immaginare dei risultati. Ma non vorrei dare per scontato che si
abbia chiaro perché, in definitiva, ci si debba unire per ottenerli. Qual è il
movente interiore per fare questo? Non posso vivere la mia fede
nell’interiorità nella relazione che ho saputo costruire con il soprannaturale,
secondo la mia personale concezione? Anche così poi posso manifestare con la
mia vita la fede nell’ambiente in cui vivo e opero.
Da universitario ho
partecipato alle settimane di riflessione che la FUCI – l’organizzazione degli
universitari cattolici – svolgeva ogni anno a Camaldoli, sede di un celebre
monastero di monaci di una congregazione appartenente alla famiglia
benedettina. Lì c’erano alcuni monaci che conducevano vita eremitica da
decenni, vivevano da soli nelle loro casette in cima a un monte e si
ritrovavano insieme di quando in quando di giorno e nella notte solo per la
vita liturgica. Erano persone di fede, indubbiamente, e vivevano la loro
religiosità in quel modo. Bisogna dire però che si sentivano e volevano essere
in unione spirituale con la Chiesa e l’intera umanità. Il loro isolamento era
quindi solo esteriore.
La fede cristiana in
realtà ci spinge gli uni verso gli altri. Questo movimento emerge chiaramente
negli scritti del Nuovo Testamento. In un libretto di Giuseppe Dossetti che ho
utilizzato nelle vacanze per le mia meditazione personale (Giuseppe Dossetti, Eucarestia e città, Editrice A.V.E.,
2011, pagine 131, euro 8) ho trovato questa citazione da un’opera di San
Basilio, una preghiera:
…noi
tutti che partecipiamo all’unico pane e all’unico calice, unisci fra noi nella
comunione dell’unico Spirito Santo”.
Essa richiama le parole
di S. Paolo nella prima lettera ai Corinzi (1 Cor 10,17):
Vi è un
solo pane e quindi formiamo un solo corpo, anche se siamo molti, perché tutti
insieme mangiamo dell’unico pane (trad.interconfess. Elle Di Ci /
Alleanza Biblica interconfes. 1976).
In parrocchia, prima
della Comunione, recitiamo una preghiera formulata su quelle parole:
Poiché c’è un solo pane per noi tutti, uno
solo è il corpo formato da noi che partecipiamo
al pane unico.
Insomma, mi pare di
aver capito che questa spinta a stare insieme abbia un fondamento teologico e
non sia qualcosa di accidentale ed episodico. Essa ha coinvolto anche me, che
per temperamento non sono particolarmente socievole. Mi sono sempre sentito
arricchito dalle esperienze di fede vissute con gli altri.
In un libro dello
psicoterapeuta Bruno Bettelheim pubblicato nel 1967 ho letto questa
osservazione che ho sentito convalidare la mia esperienza di vita:
La vita
interiore, e con essa la personalità, non si sviluppa allo scopo di ottenere
una sempre maggiore ricchezza di sensazioni e di esperienze interne, ma
sostanzialmente per un’altra ragione: per entrare in rapporto con il mondo
esterno nella speranza di poter agire su di esso. Se la personalità non arriva
a questo, non vi è alcuna ragione di sviluppare le strutture interne.
Esattamente come il linguaggio si sviluppa solo se desideriamo comunicare con
qualcuno o comprendere quello che egli ci dice, così la personalità si
struttura solo se desideriamo fare qualcosa a un’altra persona o con essa o per essa.
[da Bruno Bettelheim, La
fortezza vuota, Garzanti editore spa, 1976, pag.64].
Gli studi scientifici
di Bettelheim, in particolare quelli sull’autismo, oggi sono generalmente
ritenuti superati da più recenti acquisizioni e scoperte, ma la sua esperienza
umana, prima di recluso in un campo di
concentramento nazista e poi di medico nel campo della terapia per i bambini
autistici, rimane importante e, per
molti aspetti della vita, illuminante. Tra ciò che si muove dentro di noi e ciò che si muove e che facciamo fuori di noi c’è un continuo e vitale
rimando.
Ma, come ho osservato
prima, non è detto che questo movimento verso gli altri si debba esprimere
necessariamente nell’aderire a un movimento, ad una associazione, ad una
fraternità. Esso può manifestarsi in altre forme, sebbene si ritenga che in
qualche modo debba essere presente, anche, ad esempio, in quelle spiritualità
eremitiche di cui ho detto.
Molte volte una fede
religiosa è produttiva e non si risolve solo nell’interiorità, quella cristiana
stimola poi alla generosità: ognuno sente quindi, ad un certo punto, di avere
qualcosa in sé che può essere non scambiato
ma dato gratuitamente ad altri.
A volte si
concepisce, un po’ superficialmente, la Chiesa come una dispensatrice di beni
spirituali, uno “ci entra” (nella Chiesa intesa come popolo) o “ci va” (nella chiesa intesa come edificio) e prende. A volte c’è anche l’idea di una sorta di
scambio: vado a Messa e deposito la mia offerta nell’apposito contenitore che
gira al tempo dell’Offertorio, poi partecipo alla mensa comune.
Ecco, riunendoci
insieme potremmo ad esempio riflettere se quell’impressione sia corretta e
completa. Non credete che ci sia ancora qualcosa da imparare?
Anticipo la mia
opinione. Nell’esperienza religiosa siamo tutti noi, gente di fede,
dispensatori, perché è come se quello
che ci arriva poi rifluisca intorno e verso gli altri, al modo di un
irraggiamento. Quindi nella Chiesa non
si va solo per ricevere, ma anche per dare, per portare qualcosa, che è
importante per gli altri e li conforta nella loro fede. Un teologo lo saprebbe
dire meglio. Chi vuole può approfondire o chiedere spiegazioni. In parrocchia
può farlo. Ci sono i sacerdoti e catechisti per ogni età della vita. Abbiamo
anche una biblioteca piuttosto fornita (aperta lunedì e mercoledì, ore 16-18).
Ne può discutere anche in Azione Cattolica, nel nostro gruppo, che è sostenuto
dal prezioso apporto dell’assistente ecclesiastico.
Nell’Azione
Cattolica, che è un’associazione che si propone
di diffondere e promuovere valori
cristiani nella società civile, è importante l’esperienza di vita degli
aderenti. E’ questo il materiale prezioso che chi ci viene porta. Non si
aderisce infatti per ricevere dall’alto le soluzioni ai vari problemi e
direttive su che cosa fare fuori, o peggio (solo) moniti e rimbrotti su ciò che
è male, come se ci fossero “istruzioni” precise per ogni situazione, ma per
riflettere insieme, alla luce della comune esperienza civile e religiosa, su ciò che accade e per illuminare vie
praticabili, che poi ognuno proverà a percorrere lì dove concretamente opera,
tornando a riferire ciò che gli è riuscito di fare e di scoprire. In una poesia
che ho trascritto in uno dei passati post,
padre David Turoldo scrisse:
Ancora un'alba sul mondo:
altra luce, un giorno
mai vissuto da nessuno,
Effettivamente il futuro è nostra
particolare e attuale responsabilità, ci avventuriamo in esso al modo di
esploratori.
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10
Azione
Cattolica: un’esperienza di Chiesa
(7 ottobre 2012)
10.1. Non sono
di quelli che, educati nella fede cattolica, poi l’hanno abbandonata o
addirittura rinnegata e vi si sono riavvicinati da adulti o, comunque,
crescendo. Con questo non voglio dire di essere stato una persona esemplare
secondo le esigenze etiche della mia religione. Del resto nessuno si è mai
aspettato nulla di simile da me, anche se sempre mi è stato additato
l’obiettivo della santità. Fin da molto piccolo mi è stato detto che il male
nella vita c’è e che ne sarei stato responsabile anch’io, per cui mi è stato
insegnato a individuarlo, a pentirmene e
a cercare sempre, pervicacemente, di cambiare.
E’ ciò che ho fatto, confidando nei preti che ho incontrato e nella
Chiesa come essi me la presentavano, convinta, sulla parola del suo primo
maestro, che il male nel mondo non avrebbe prevalso, quindi anche quello di cui
io ero stato artefice. Così la mia vita di fede in religione è stata improntata
a una certa serenità. E c’è una continuità, mai veramente interrotta, tra la
mia esperienza religiosa di bambino, degli inizi, e quella di oggi, di uomo di
mezz’età. Se riprendo in mano il libretto del catechismo della mia Prima
Comunione, che feci in quarta elementare qui nella nostra parrocchia di San
Clemente Papa, e lo leggo oggi da cinquantenne
posso concludere serenamente con un amen,
condivido ancora tutto quello che c’è scritto. Mi è sempre venuto naturale essere una persona
di fede, non vi ho trovato alcuna difficoltà, non mi è stato necessario fare
particolari sforzi. In questo penso che la mia vita si differenzi un po’ da
altre di cui ho saputo. Ci sono persone che sono molto più meritevoli di me
sotto questo profilo, per aver dovuto faticare e soffrire molto per giungere
dove io sono sempre tranquillamente rimasto. Quello che ho detto vale anche per
la mia esperienza di Chiesa. L’ho considerata sempre la mia casa, la mia
famiglia, dovunque sono stato. Anche nei periodi della mia vita in cui l’ho
frequentata di meno, essa rimaneva dentro di me, perché non ho mai avuto il
dubbio di non farne più parte. Sono stato scout, fucino, aderente ai Laureati
Cattolici – MEIC e all’Azione Cattolica (della quale FUCI e MEIC un tempo
facevano parte), ho partecipato a diversi gruppi di ispirazione religiosa,
parrocchiali e non, e mi è sempre parso di muovermi da una stanza
all’altra delle medesima casa. Ricordo che una volta, da scout (facevo le
medie), condussi la mia squadriglia a Sulmona, secondo la missione che avevo
ricevuto durante un campo estivo sui monti d’Abruzzo, e chiesi ospitalità al
parroco di una chiesa vicina al centro: lui ci fece dormire, con i nostri
sacchi a pelo, nel museo della parrocchia, che conteneva tante cose preziose;
mi diede la chiave e mi disse che sarebbe ripassato il giorno dopo. Io mi
meravigliai di quella fiducia, concessa a ragazzini che non aveva mai visto
prima, e, riflettendoci su nel corso di quella notte, conclusi che lo aveva
fatto perché noi lì eravamo di casa, eravamo infatti Chiesa, e le nostre divise
da scout glielo avevano confermato, è come se lo avessimo scritto in fronte,
come si legge nell’Apocalisse dei giusti.
Il lavoro che si fa
nella società come Azione Cattolica lo si fa come Chiesa. Non è inutile quindi
confrontarsi sulle nostre esperienze di Chiesa e su che cosa sappiamo della
fede comune su di essa.
Ricordo ancora
quando, da bambino, il parroco mi parlò della differenza che c’era tra “chiesa”
(edificio) e “Chiesa” (gente). Con il Battesimo ero entrato a far parte della Chiesa ed era per questo che
venivo in chiesa. Ne rimasi molto
colpito e per un certo tempo lo andai ripetendo in giro, ai miei coetanei. Poi,
crescendo, ho scoperto che il discorso sulla Chiesa è molto, molto più
complesso. Una volta, mentre ero alle Paoline in via della Conciliazione, notai
un libro di Battista Mondin sulle “ecclesiologie” (le concezioni sulla Chiesa),
lo comprai, lo lessi con una certa difficoltà e scoprii che in giro, sia nella
nostra Chiesa, sia nelle altre Chiese cristiane, c’erano tante idee di Chiesa.
A parte questo, ci sono le varie esperienze individuali e collettive che uno fa
della Chiesa durante la propria vita, che influiscono sul modo di condursi fuori della Chiesa.
Se, ad esempio, una
persona pensa di trovarsi in una sorta di fortezza assediata, con dentro pochi
eroici difensori, un po’ come accadde a Fort Alamo (1836) in cui un piccolo
presidio di secessionisti nordamericani tentò invano di resistere all’attacco
dell’esercito messicano mandato a reintegrare l’unità nazionale, allora sarà
portata a diffidare di tutto ciò che gli viene dall’esterno e a cercare di fare da sé in ogni cosa, utilizzando
solo quello che gli viene di dentro,
dal proprio gruppo, dal proprio ambiente abituale, costruendo in tal modo una sorta di città di Dio opposta alla città
del diavolo, quella di fuori. Ci
si muove un po’ in quest’ordine di idee nella poderosa opera De civitate dei (trad.Sulla città di Dio) di S. Agostino di
Ippona (5° secolo dell’era antica), scritta in un tempo in cui l’ordinamento
dell’Impero romano era travolto dalle invasioni di popolazioni del nord Europa.
Sulla dottrina della
fede in merito alla Chiesa ci sono diversi testi fondamentali del magistero
mediante i quali ci si può informare meglio. Ricordo la costituzione dogmatica Lumen Gentium del Concilio Vaticano 2°
(1962-1965), che potete leggere sul WEB a questo indirizzo:
http://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19641121_lumen-gentium_it.html
Avverto che, trattandosi di un documento normativo, esso è
scritto nel linguaggio e con il metodo della teologia, che potrebbe essere un
po’ ostico ai non iniziati.
Della Chiesa si tratta anche, in termini più
accessibili, nel Catechismo della Chiesa cattolica (Parte prima, Sezione
seconda, Capitolo terzo, art.9, numeri da 748 a 975). Lo trovate sul WEB a
questo indirizzo:
http://www.vatican.va/archive/ITA0014/_INDEX.HTM
Se ne tratta in modo più semplice nel
Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica (Parte prima, Sezione seconda,
capitolo terzo, numeri da 147 a 201). Lo trovate sul WEB all’indirizzo:
http://www.vatican.va/archive/compendium_ccc/documents/archive_2005_compendium-ccc_it.html
Leggendo le prime due opere, potrete
constatare che nella nostra Chiesa,
quando si ragiona sulla fede comune, si tiene ben presente tutta la storia
bimillenaria della nostra religione e i testi sacri, citando le fonti da cui si
ricavano certe idee, a cominciare da quelle bibliche. Non si parte mai da zero
e si cerca di tenere tutto insieme.
Nel Compendio, per il carattere sintetico dell’opera, queste citazioni sono di
meno, ma ci sono.
Storicamente
l’Azione Cattolica ha ritenuto di potersi confrontare positivamente con la
società in cui la Chiesa italiana vive: il suo moto fondamentale è stato
quindi, ed è ancora, quello dell’apertura, non dell’opposizione, e questo
naturalmente non significa accettare tutto ciò che gira nel mondo di fuori, ma pensare che certe idee
sulla società che hanno un fondamento religioso possono (ancora) essere diffuse
utilizzando il metodo e i principi della democrazia, sui quali l’ordinamento
della nostra società si basa, e che ciò che si agita nel mondo abbia anche un
significato religioso. Viene in Azione Cattolica chi non pensa di essere nella
condizione di Fort Alamo. L’Europa di oggi, che ha realizzato un lunghissimo
periodo di pace, dopo la serie storica interminabile dei conflitti armati tra i
suoi popoli, e mira ancora alla pace si
fonda su idee cristiane: il Papa e i nostri vescovi non cessano di
ricordarcelo. Spinti dal magistero, in
Azione Cattolica cerchiamo di agire
di conseguenza.
10.2
Costruire nella società per narrare il fondamento della nostra speranza
Continuo le mie
riflessioni sulla base del libretto di
Giuseppe Dossetti Eucaristia e
città, Editrica A.V.E., 2011, euro 8,00, pagine 131.
Non possiamo
ragionevolmente confidare del tutto sull’opera nostra, in particolare sugli
effetti che possiamo produrre nella società. La storia ci insegna che il
progredire dei tempi non significa sempre un miglioramento, un progresso
duraturo: è possibile che si torni indietro e si debba ripartire. E anche in
religione ci viene consigliato di prendere le cose in questo modo. Il
fondamento della nostra speranza non sta in noi stessi. Scrive Dossetti
(pag.112):
[…] si deve inculcare al cristiano che non
solo può, ma deve impegnarsi nella storia (secondo
la misura dei doni ricevuti e le
opportunità pratiche): ma insieme gli si deve inculcare
che questo
egli deve fare con il massimo distacco possibile: pena la perdita di tutta la credibilità come
testimone ed esploratore dell’invisibile.
In definitiva il nostro atteggiamento
fondamentale di fede nei riguardi delle cose del mondo dovrebbe essere più che
altro quello di una pervicace e
fiduciosa attesa, anche quando tutto ciò che accade e che ci circonda
sembrerebbe disilluderci. Non si rimane inoperosi, ma siamo convinti che non
siamo mai veramente noi che conduciamo la storia verso il suo compimento. Di
questo possiamo aver una conferma per così dire “sperimentale”: tutte le
potenze umane vanno incontro a un ciclo vitale e a processi evolutivi simili a
quelli degli organismi singoli. Nel complesso, tirate le somme, si scopre di
aver vissuto molto condizionati da fattori esterni a noi, la nostra sfera di
influenza, anche come collettività piuttosto numerose, rimane sempre piuttosto
limitata. E’ la sensazione che si ha, ad esempio, durante la crisi economica
globale che è attualmente in corso. E spiegare con precisione il corso delle
cose è sempre piuttosto difficile, quando si ragiona in termini di moltitudini
umane. Poi però, quando ci si bene su è possibile che si riesca a produrre una
interpretazione degli eventi compatibile con l’idea di un disegno
provvidenziale. Quest’ultimo, secondo Dossetti, più che argomentato,
quindi compreso con precisione, va piuttosto
narrato e testimoniato. Questo atteggiamento, secondo un pensiero del teologo
Jurgen Moltmann, citato da Dossetti,
[…] rende
buona la vita, perché in questa attesa l’uomo può accettare tutto il suo presente ed avere gioia non solo
nella gioia, ma anche nel dolore e trovare la felicità non solo nella felicità, ma anche nella
sofferenza […] La speranza procede attraverso la gioia e il dolore, perché può discernere nella promessa di
Dio un futuro anche per ciò che è transitorio, moribondo e morto.
La speranza religiosa vive nell’attesa dei
tempi ultimi e non si lascia quindi scoraggiare dagli insuccessi che si vivono
nella propria contemporaneità. E nei successi, che pure sa essere sempre minacciati e caduchi, si
rallegra perche vi vede un’anticipazione di quanto promesso alla fine della
storia.
Proporre alla gente intorno a noi e a noi
stessi una visione della cose improntata a speranza non è solo questione di ragionamenti e di
argomentazioni, ma anche un operare laboriosamente per produrre anticipazioni
di ciò che è promesso per i tempi ultimi, in tal modo dischiudendo a questo mondo l’orizzonte
del Cristo crocifisso mediante una testimonianza valida (così Moltmann, citato da
Dossetti). Questo un lavoro che si addice bene all’Azione Cattolica: la
caratteristica specifica dell’associazione è di puntare a svolgerlo
collaborando democraticamente con genti di altre mentalità e convinzioni. In
quest’ottica il profano, ciò che si
muove al di fuori delle azioni specificamente liturgiche, ha una valenza
religiosa piuttosto forte. In esso noi cerchiamo pazientemente di rintracciare
e capire quelli che sono stati definiti i
segni dei tempi.
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11
Noi
cattolici: cittadini o stranieri nella società in cui viviamo?
(8 ottobre 2012)
L’Azione Cattolica
non avrebbe senso in una società in cui non fosse consentita, in qualche forma,
la partecipazione della gente agli affari pubblici. E infatti, nel periodo più
buio della sua storia, quello che va del 1931 al 1938, essa, in fondo, diventò
un’altra cosa. Nel 1931 le sue sedi vennero attaccate dalle squadre che
costituivano il braccio operativo del fascismo trionfante, nel 1938 iniziò la
presa di distanza dei cattolici italiani dal regime, a causa dell’introduzione
della legislazione discriminatoria contro gli ebrei. Negli anni di mezzo essa
può essere considerata, lo dico un po’ schematicamente e certo vi furono
diverse eccezioni (ad esempio la FUCI e
Movimento Laureati di Azione Cattolica),
una delle organizzazioni popolari di massa che sostenevano il regime
fascista, il quale con i Patti Lateranensi del 1929 aveva raggiunto un
accomodamento con i vertici ecclesiali. Del resto, in quell’epoca, gli italiani
furono effettivamente, nella grande maggioranza, fascisti.
Riprendo a questo
punto alcune delle riflessioni esposte nel libretto di Giuseppe Dossetti Eucaristia
e città, A.V.E. editrice, 2012, euro 8 (che ripropone un intervento
pubblico di Dossetti del 1987).
Nella Bibbia c’è un
certa diffidenza per le città e per gli ordinamenti politici, specialmente
quelli che riunivano molti popoli diversi. La concezione ebraica di città era
molto distante da quella greca, che impronta gli ordinamenti politici
democratici contemporanei. Nella prima la città era essenzialmente un
insediamento chiuso, protetto da alte
mura, in funzione difensiva. Per i greci era principalmente il luogo in cui si
svolgeva la cittadinanza comune, la partecipazione al governo, quindi la politica (dal termine greco pòlis, che significa città). Per certi versi la città, nella
concezione ebraica, è vista anche come luogo di dissoluzione, di violenza e di
presunzione antireligiosa. Le antiche monarchie ebraiche ebbero vita
travagliate e divennero un modello negativo. La stessa Gerusalemme si mostrò
infedele e il suo mito poté essere mantenuto solo idealizzandolo molto (ne
abbiamo un esempio nell’Apocalisse neotestamentaria). In questa concezione lo
spirito religioso sembra svilupparsi meglio nei luoghi isolati, lontani dai
centri urbani, ad esempio nei deserti. Essa, in definitiva, viene confermata
nella prospettiva evangelica. Il regno a cui tendono i discepoli cristiani non è di
questo mondo ed essi nelle società umane in cui vivono si considerano
addirittura come stranieri. Sono
infatti portatori di una forte istanza critica nei confronti degli ordinamenti
sociali e politici che le dominano. Rendono ai potenti della Terra ciò che a
loro è dovuto (a Cesare quel che è di
Cesare), ma, benché sottomessi a loro, non è detto che debbano sempre
obbedire. Loro compito è di predicare a tutte le genti la conversione e il
perdono dei peccati. L’impero romano, in cui si formarono le prime comunità
cristiane, un ordinamento politico plurinazionale e plurietnico che presenta
qualche affinità, se non altro geografica, con l’attuale Unione Europea, venne concepito
come una potenza diabolica, a loro ostile, ebbra
del sangue dei santi e del sangue dei martiri di Gesù (Apocalisse 17,6 e
18,2).
Scrive Dossetti,
nell’opera citata (pag.45-46):
Per il regno di Dio e per la
città di Dio va ancora fatta una precisazione
a scanso di equivoci.
Il regno di Dio è Regno dei cieli: e quindi
viene dall’alto, per volontà e opera di Dio. Non
si realizza e neppure si prepara o si affretta per sinergia umana. E’ un fatto assolutamente sovrannaturale e miracoloso. Non
è un bene comune, architettonicamente
sommo, che si possa gradualmente predisporre per forze creaturali.
Il Regno giunge a noi senza di noi. Il
pensare che noi possiamo attirarcelo e appropriarcelo
è “stoltezza umana, presunzione farisaica, zelotismo raffinato”.
All’uomo compete solo la fedeltà alla Parola,
l’annunzio di essa, la pazienza longanime che
non spegne lo Spirito credendo di accelerarne le operazioni, la ferma fede che
il grano del Regno “cresce da solo” (in
greco: automàte) (Vangelo secondo Marco 4,26- 29).
Anche perché il Regno verrà,
per un decreto del Padre in un momento imprevedibile
“che il Padre ha riservato
alla sua potestà” (Atti degli apostoli 1,6-7).
E allora sarà non il coronamento della storia,
ma la rottura della storia, semplicemente il suo
troncamento, in “ictu oculi” (Prima lettera ai Corinzi 15,52).
Un famoso passo della Lettera a Diogneto, scritto cristiano che si fa risalire al 2° o 3°
secolo della nostra era, è questo:
[I cristiani] Abitano
ciascuno la propria patria, ma come residenti stranieri; a tutto partecipano attivamente come
cittadini e a tutto assistono passivamente come stranieri; ogni terra straniera è per loro
patria, e ogni patria è terra straniera.
[…
]
Passano
la vita sulla terra, ma sono cittadini del cielo.
Obbediscono
alle leggi stabilite, eppure con la loro vita superano le leggi.
Insomma, concluderei che in religione non
siamo autorizzati a farci troppe illusioni sui risultati delle nostre
costruzioni sociali e, quindi, della nostra azione come cittadini. Non sarà
dalle nostre mani che uscirà il compimento della storia e ogni traguardo che
riteniamo di aver raggiunto non è mai veramente stabile e può essere seguito da
un regresso.
Ma direi anche di più. Nella Bibbia c’è
sicuramente il fondamento del concetto di dignità
dell’uomo dal quale oggi ricaviamo la convinzione giuridica e politica in
certi diritti umani inalienabili, che sono la base delle
democrazie contemporanee, ma la
democrazia non c’è. Tanto è vero che la Chiesa cattolica non trova alcun
problema nell’aver mantenuto un ordinamento interno non democratico. E non ha
avuto alcun problema, come altre Chiese cristiane del resto, ad appoggiarsi,
nel passato, a regimi non democratici, come le monarchie assolute. Il discorso
naturalmente potrebbe essere più ampio, perché nei millenni passati è stata
elaborata anche una dottrina per insegnare che cosa dovesse fare un monarca che
volesse dirsi ed essere riconosciuto come cristiano e quindi anche che cosa si
dovesse fare, da cristiani, per servire quel monarca e via seguitando. Ma in
queste che sono delle specie di note
operative per la nostra situazione concreta di oggi quel discorso non serve.
Io sto prendendo coscienza di questo: la
situazione in cui ci troviamo nell’Europa democratica di oggi non ha precedenti
storici, è qualcosa di totalmente inedito. E bisogna dire che questa realtà
veramente nuova è stata costruita con l’apporto fondamentale del pensiero di
cristiani sulla democrazia e della loro azione politica, di governo delle società.
Noi, ad esempio, diamo per scontato che questo
lunghissimo periodo di pace, che in Europa si protrae ormai dal 1945, rientri
nella normalità. Ma non è così. Tanto che, quando frequentai le elementari,
nella scuola di piazza Capri, il nostro maestro era solito dirci che dopo
qualche anno saremmo diventati uomini, saremmo andati in guerra, e più o meno
la metà di noi vi sarebbe morta. Le cose, diceva, erano sempre andate così, una
guerra più o meno ogni quindici o vent’anni (e allora si era negli anni
’63-’67). Poi non andò così. L’ultima grande frontiera, edificata tra Est e
Ovest Europa dopo la Seconda guerra mondiale, è caduta nel 1991, senza la
catastrofe che per tanto tempo si era temuta.
Aver realizzato, in democrazia, una potenza di
pace sugli antichi, immensi, campi di battaglia ha un significato per la nostra
vita in religione?
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12
Europa,
pace, diritti umani. E noi? Abbiamo vinto il premio Nobel.
(13 ottobre 2012)
Non mi pare che
finora abbia fatto molta impressione il premio Nobel per la pace dato
all’Unione Europea, vale a dire anche a tutti noi italiani, cattolici compresi. La
nuova Europa è infatti innanzi tutto una realtà
di popolo, e di questo c’è veramente scarsa consapevolezza, perché è
fondata, più che su un sistema di relazioni intergovernative per lasciare
libero passo all’economia (questa fu sostanzialmente la caratteristica della
Comunità Economica Europea), sulla proclamazione di un sistema di diritti umani fondamentali (è
una delle caratteristiche fondamentali della nuova organizzazione creata dal Trattato di Lisbona del 2007, entrato in
vigore il 1 dicembre 2009). Essi non sono stati ideati dai vertici
dell’organizzazione europea, ma, prima di essere formulati in un testo normativo,
in quella Carta dei diritti fondamentale la
quale con l’entrata in vigore del Trattato
di Lisbona è divenuta legge europea, hanno corrisposto a un’esigenza forte
posta dai popoli ora federati nell’Unione Europea. Su di essa si è fondata la
duratura pace continentale e il processo straordinario di inclusione di nazioni
che per millenni si erano combattute che ha convinto la celebre istituzione
svedese a riconoscerne il merito non a questa
o a quella personalità, ma a tutti
noi. “Bravi!”, ci hanno detto, “avete fatto una cosa grande”. E noi? Noi siamo rimasti perplessi, come è
scritto che rimarranno i giusti, quando, alla fine dei tempi e presentatisi per
il giudizio su ciò che sono stati e su ciò che hanno fatto, verrà loro indicata
la porta del Regno beato. Che abbiamo
fatto per meritarci questo apprezzamento? Abbiamo fatto, abbiamo fatto…
Ad esempio noi
cattolici siamo divenuti più tolleranti verso le altre confessioni cristiane e
verso le altre religioni che sono professate nell’Europa di oggi. Non si tratta
di un impegno attuato solo dai capi delle nostre comunità, ma di una pratica
molto diffusa tra le nostre genti, forse anche al di là di una chiara
consapevolezza delle questioni implicate. In certi casi, come nei rapporti con
l’ebraismo, a rapporti di aspra conflittualità è subentrata una franca
amicizia. E’ uno sviluppo veramente importante, tenendo conto che la tremenda
storia europea è stata duramente travagliata da guerre e altre stragi a
fondamento religioso, in particolare nello scorso millennio. Abbiamo costruito
in tal modo una civiltà fortemente inclusiva, in cui questo e quello possono
trovare la loro patria indipendentemente dal loro rapporto con il
soprannaturale, e infatti il moto fondamentale che riguarda l’Unione Europea è
un afflusso di popoli dall’esterno verso l’interno, un moto centripeto, tanto
che addirittura gli eredi di un nemico storico come l’Impero Ottomano turco
bussano alle nostre porte nonostante tra loro prevalga di gran lunga la fede
islamica; è qualcosa che richiama l’immagine del libro biblico di Isaia, nel
brano in cui si profetizzano carovane di genti che da tutto il mondo vanno
verso una Gerusalemme molto idealizzata, manifestazione dell’unione tra divino
e umano, vale a dire di certi principi supremi e realtà di vita. Questa cosa non c’è mai stata nella storia dell’umanità: prendiamone coscienza.
Dispiace che non sia una cosa cattolica?
Oh, ma è anche una cosa cattolica.
Due giorni fa, con
una fiaccolata, qui a Roma abbiamo celebrato il cinquantenario dell’apertura
del Concilio Vaticano 2°. In quella
occasione, avanzando in processione verso piazza San Pietro ci siamo
manifestati come Chiesa che vuole essere luce
delle genti, secondo l’insegnamento di uno dei documenti conciliari
fondamentali, la costituzione dogmatica Lumen
Gentium (trad. dal latino: luce delle
genti). Ebbene, convinciamoci che negli anni passati lo siamo veramente
stati, tutti noi. Il papa Giovanni
Paolo 2° volle invitarci a rifletterci su durante il Grande Giubileo dell’Anno 2000. Considerate come siamo cambiati in
meglio, noi Chiesa, da quando su certe cose andavamo molto per le spicce, come
si suole dire. Ho cinquantacinque anni e non sono un nativo conciliare, vale a dire che ho avuto modo di vivere la
Chiesa di prima, anche se da molto piccolo. Chi è più grande ricorderà meglio.
E comunque ci si può informare sui libri di storia. Ai nativi conciliari, a quelli che sono nati e vissuti interamente
nella nuova era, coloro che si incaponiscono ancora a vivere come si era prima
sembrano un po’ strani. Non è così?
Ma ci sarà modo di approfondire di più in questo che è stato proclamato,
innanzi tutto come obiettivo del nostro impegno, Anno della fede.
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13
Insieme
per agire da gente di fede
(14 ottobre 2012)
Qualche anno fa
partecipai a una riunione del mio gruppo
del MEIC – Movimento ecclesiale di impegno culturale, alla Cappella
universitaria dell’Università La Sapienza, qui Roma, in cui un teologo ci parlò
dei vari modi di pensare una dimensione comunitaria della vita di fede e di
interventi nella storia dell’umanità motivati religiosamente e osservò che
spesso si erano scelte delle vie che poi avevano costretto a dire molti “si, però…”, vale a dire a cercare di
giustificare in qualche modo quelle che, con il senno del poi, venivano individuate come insufficienze in base
all’etica religiosa proclamata. Ad esempio, la cristianità medievale, in
cui indubbiamente affondano alcune di quelle che possiamo considerare come radici delle società europee di oggi e
che talvolta viene considerata un modello ancora attuale per la sua forte
integrazione culturale del cristianesimo, produsse anche l’Inquisizione e le
Crociate, modi di vivere la fede dai quali oggi
abbiamo preso le distanze dichiarando di impegnarci a non replicarli; ma, ciò
detto, siamo portati ad aggiungere si però … l’idea di una società civile fortemente ispirata alla
religione in fondo ci piace e cose simili. Non ci si poteva pensare un po’
meglio, prima, per non dover poi essere costretti a pentirsi? E’ un
problema che riguarda anche noi, che vogliamo ancora influire nella società in
cui viviamo per cercare, nella dinamiche democratiche, di determinare
collettivamente scelte ispirate a certi valori
che per noi hanno fondamento religioso. O forse sarebbe meglio non agire
affatto e limitarsi solo ad attendere
con pazienza che le cose cambino perché trascinate dal disegno provvidenziale,
mentre noi ci incoraggiamo e aiutiamo a vicenda edificandoci nelle nostre
comunità religiose con salmi, inni e canti spirituali, secondo le espressioni
di San Paolo (Lettera ai Colossesi 3, 16. 1 Lettera ai Tessalonicesi 5,11)?
Tenuto conto di quante sono le cose di cui abbiamo sentito il bisogno di
chiedere collettivamente perdono, da quando ci siamo consentiti un simile
esercizio, ci si potrebbe pensare seriamente.
Riprendo a questo
punto a seguire, in queste riflessioni, il libretto di Giuseppe Dossetti Eucaristia e città, Editrice A.V.E.,
collana Le Tessere e il Mosaico,
2011, euro 8,00, pagine 131, con prefazione di Giorgio Campanini.
Il mondo nuovo che
religiosamente attendiamo non uscirà dalle nostre mani. Non ne abbiamo quindi
la responsabilità. I nostri progetti non possono e non devono estendersi fino
ad esso. Né possiamo immaginare di poterlo effettivamente realizzare in una
società da noi edificata. Trascrivo di nuovo, di seguito, le parole di Dossetti
(pag.45-46):
Il Regno, giunge a noi, senza di noi.
[…]
,,,il Regno verrà, per un decreto del Pare in un momento imprevedibile
“che il Padre ha riservato alla sua potestà” (Atti degli apostoli 1, 6-7).
E allora sarà non il coronamento della storia,
ma la rottura della storia, semplicemente il suo troncamento, in ictu oculi [trad.:in un
batter d’occhio – greco: en ripè
oftalmù] ” (1 Lettera ai Corinzi 15,52).
Quest’ordine di idee
è un bel sollievo. Secondo le parole di Dossetti non saremo quindi giudicati
colpevoli di non aver saputo realizzare, nelle nostre faticose e lunghe
approssimazioni, il Regno, la società perfetta che non ha bisogno di lampade o
di sole, “perché il Signore Dio li
illuminerà”, secondo l’emozionante profezia che troviamo in Apocalisse, 22,3, e anche di non aver asciugato ogni lacrima dagli occhi dei sofferenti,
e di non aver sconfitto la morte, e di aver cancellato del tutto e definitivamente tra noi il lutto, il pianto e il
dolore. Fatemi sapere se condividete
questo discorso.
Ciò posto, se
guardiamo all’Unione Europea di oggi,
per la quale inaspettatamente l’altro giorno ci siamo presi il Nobel, e la Chiesa del dopo Concilio Vaticano 2°, nella quale
abbiamo voluto essere ed effettivamente siamo stati Luce delle genti, ce ne compiacciamo, pur pentendoci del male che
in esse non siamo riusciti ad evitare e sentendoci pur sempre impegnati a
migliorarci, perché non solo ad esse apparteniamo, ma anche esse ci
appartengono, nel senso che sono un nostro modo di essere e quindi riflettono
coralmente nel bene e nel male le nostre vite, e noi, lo sappiamo, non possiamo
dirci perfetti, anche se in qualche
modo desideriamo, e a volte anche cerchiamo
e addirittura ci sforziamo, di corrispondere al disegno che
religiosamente pensiamo che si abbia su di noi, dall’alto. E, in definitiva,
quei risultati, quella nuova Europa, quella Chiesa rinnova, non sono tati
accidentali, ma voluti, quindi desiderati e attuati. Ecco quindi che lo volevamo fare e l’abbiamo fatto. Sono
effettivamente opera nostra, collettiva, e infatti, al nostro sesto giorno (Genesi 1,31), le guardiamo
e vediamo in esse cose buone ma anche
cose da cambiare per migliorare, in quella, come dire?, commistione di grano e
zizzania, di Città secondo Dio e di Città
secondo l’avversario di Dio che non è in
fondo in nostro potere sciogliere del tutto.
Ha un significato,
per la nostra fede, l’aver agito e costruito? Dossetti ritiene di poter
concludere di sì. Per amore infatti
abbiamo agito. Scrive (pag.103-104):
Tutto nella via del cristiano agito dallo
Spirito Santo è azione […] non è il caso di insistere banalmente sulla
contrapposizione fra “contemplazione” e
“azione” […] “contemplazione” per il senso originario [che aveva nell’antica filosofica greca, in particolare in
Plotino (3° sec.) – nota mia] ,,, non [è]
propriamente un concetto cristiano e [continua]
a trascinare e a veicolare più di un equivoco nella storia della
spiritualità cristiana.
In senso propriamente cristiano tutto è
azione, e con diversi gradi di efficacia, peculiarmente là dove il concetto
abituale di azione ne saprebbe vedere di meno.
Azione è l’Eucaristia: prima di tutto azione
di Cristo, poi azione della Chiesa, azione della comunità che la celebra, del
cristiano che vi partecipa.
Ogni preghiera, se fatta come deve essere
fatta in Cristo, nello Spirito, è azione.
La lettura, e ancor più la “ruminatio” della
Parola di Dio , allo stesso modo, è azione.
La malattia che riduce immobile in un letto,
accettata nella fede, è azione […].
La
concentrazione dell’anima nel suo oggetto più proprio […] è azione”.
Per Dossetti, si
agisce come risposta d’amore all’amore trinitario, che ci viene dall’alto. C’è
una carità verticale, appunto
dall’alto, che è “generante e
condizionante rispetto ad ogni altro amore, sia pure il più santo e benefico”
(pag.117).
“L’amore rivolto ai fratelli ne sarà un segno necessario e precipuo: ma
derivato…”.
Dossetti segnala l’esistenza di un paradosso della carità eucaristica,
dell’agire insieme, nel nostro mondo, su fondamento
religioso:
“L’altissima risposta d’amore
trinitario sarà tanto più utile agli altri e al mondo intero, quanto meno si
preoccuperà e saprà di esserlo: cioè quanto più si ignorerà, si perderà, quanto
più sarà silenziosa e radicale follia, dimessa e impotente: allora raggiungerà
quel grado di sottigliezza, di agilità penetrante, di tersa inoffensività che
può pervadere gli spiriti degli uomini (Libro della Sapienza 7,22-24) senza che
se ne accorgano, riempirà la città stessa “con un effluvio genuino della gloria
dell’Onnipotente” [Libro della Sapienza 7,25].
Insomma: si agisce, si agisce insieme e si agisce per amore, ma amore di una specie
particolare, che è risposta ad un amore che viene dall’alto. Quando si agisce così,
non si fa conto del risultato, che poi si è convinti che verrà in un battito di ciglia a tempo debito e
non per opera nostra: lo scopo dell’azione è infatti solo quello di diffondere
nella società un “effluvio puro della
gloria dell’Onnipotente” (Sapienza 7, 25, trad.Edizioni San Paolo 1997).
Questo equivale, detto in termini profani, a infondere nella società intorno a
noi dei valori. Tutto ciò definisce
bene il compito di elezione dell’Azione Cattolica, per il quale in essa ci si
prepara, si ragiona, si fa pratica e, infine,
ci si organizza e si va in prima
linea, dove per quei valori si lotta,
e addirittura a volte molto oltre quella prima linea, in territorio avversario,
nel senso che in esso sono avversati quei valori.
Ma non necessariamente si combatte sotto bandiere crociate. Ci si può ritrovare, ad esempio, a lavorare con genti di
altre fedi, culture, etnie e nazionalità sotto la bandiera azzurra della pace,
con le dodici stelle d’oro in circolo, dell’Unione
Europea, nella quale uno spirito religioso può intravvedere due simboli
specificamente mariani, segno
dell’anelito a valori anche
specificamente nostri, di quelle radici
cristiane di cui spesso parlano i nostri vescovi, in particolare il
richiamo alla corona di dodici stelle della donna
vestita di sole dell’Apocalisse (12,1). Ed effettivamente, a pensarci bene,
l’Unione Europea di oggi ci appare
veramente un segno grandioso, anche
in senso specificamente religioso.
Ho parlato di amore e questo termine, con il quale
traduciamo tutti i termini del greco
neotestamentario con i quali specificamente si descrivono le relazioni tra i
fedeli e tra essi e il mondo, ma anche e innanzi tutto quelle tra gli esseri
umani e il fondamento soprannaturale,
suona equivoco, e anche un po’ stucchevole nell’italiano moderno. Nel
greco del Nuovo Testamento (per quello che ho letto – ma la mia in merito è
solo erudizione di liceale, neanche tanto studioso; non sono uno specialista)
si avevano agàpe, filìa e coinonìa. Il primo richiama l’idea di quando si sta insieme per
fare un bel pranzo; il secondo si riferisce all’amicizia, a un rapporto di
reciproca simpatia e di preferenza, il terzo richiama l’idea di quando si
partecipa ad un’opera comune. Nel mio Vocabolario
del greco del Nuovo Testamento non viene riportato il termine èros, che pure rientra nei significati
della nostra parola italiana amore, e
definisce la passione sessuale, quella che trascina emotivamente dalle viscere
e acceca. Penso quindi che questa
metafora non sia stata utilizzata nel Nuovo Testamento, anche se è presente
nell’Antico, mentre anche nel Nuovo viene utilizzata quella basata sull’amore coniugale, che però è qualcosa di
molto più complesso, perché è insieme èros
(come base emotiva della predilezione per una persona fisica), agàpe, filìa e coinonìa, oltre a
patto ed alleanza.
Poiché la qualità e
la direzione del nostro agire dipende molto dalle ragioni e del modo del
nostro stare insieme, è interessante ragionarci un po’ su. Mi piacerebbe
sapere a quali conclusioni siete giunti,
cari lettori; come vi regolate nelle vostre vite.
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14
Costruire
nella società per narrare il fondamento della nostra speranza
(12 ottobre 2012)
Continuo le mie
riflessioni sulla base del libretto di
Giuseppe Dossetti Eucaristia e
città, Editrica A.V.E., 2011, euro 8,00, pagine 131.
Non possiamo
ragionevolmente confidare del tutto sull’opera nostra, in particolare sugli
effetti che possiamo produrre nella società. La storia ci insegna che il
progredire dei tempi non significa sempre un miglioramento, un progresso
duraturo: è possibile che si torni indietro e si debba ripartire. E anche in
religione ci viene consigliato di prendere le cose in questo modo. Il fondamento
della nostra speranza non sta in noi stessi. Scrive Dossetti (pag.112):
[…] si deve inculcare al cristiano che non
solo può, ma deve impegnarsi nella storia (secondo
la misura dei doni ricevuti e le
opportunità pratiche): ma insieme gli si deve inculcare
che questo
egli deve fare con il massimo distacco possibile: pena la perdita di tutta la credibilità come
testimone ed esploratore dell’invisibile.
In definitiva il nostro atteggiamento
fondamentale di fede nei riguardi delle cose del mondo dovrebbe essere più che
altro quello di una pervicace e
fiduciosa attesa, anche quando tutto ciò che accade e che ci circonda
sembrerebbe disilluderci. Non si rimane inoperosi, ma siamo convinti che non
siamo mai veramente noi che conduciamo la storia verso il suo compimento. Di
questo possiamo aver una conferma per così dire “sperimentale”: tutte le
potenze umane vanno incontro a un ciclo vitale e a processi evolutivi simili a
quelli degli organismi singoli. Nel complesso, tirate le somme, si scopre di aver
vissuto molto condizionati da fattori esterni a noi, la nostra sfera di
influenza, anche come collettività piuttosto numerose, rimane sempre piuttosto
limitata. E’ la sensazione che si ha, ad esempio, durante la crisi economica
globale che è attualmente in corso. E spiegare con precisione il corso delle
cose è sempre piuttosto difficile, quando si ragiona in termini di moltitudini
umane. Poi però, quando ci si bene su è possibile che si riesca a produrre una
interpretazione degli eventi compatibile con l’idea di un disegno
provvidenziale. Quest’ultimo, secondo Dossetti, più che argomentato,
quindi compreso con precisione, va
piuttosto narrato e testimoniato. Questo atteggiamento, secondo un pensiero del
teologo Jurgen Moltmann, citato da Dossetti,
[…] rende
buona la vita, perché in questa attesa l’uomo può accettare tutto il suo presente ed avere gioia non solo
nella gioia, ma anche nel dolore e trovare la felicità non solo nella felicità, ma anche nella
sofferenza […] La speranza procede attraverso la gioia e il dolore, perché può discernere nella promessa di
Dio un futuro anche per ciò che è transitorio, moribondo e morto.
La speranza religiosa vive nell’attesa dei
tempi ultimi e non si lascia quindi scoraggiare dagli insuccessi che si vivono
nella propria contemporaneità. E nei successi, che pure sa essere sempre minacciati e caduchi, si
rallegra perche vi vede un’anticipazione di quanto promesso alla fine della
storia.
Proporre alla gente intorno a noi e a noi
stessi una visione della cose improntata a speranza non è solo questione di ragionamenti e di
argomentazioni, ma anche un operare laboriosamente per produrre anticipazioni
di ciò che è promesso per i tempi ultimi, in tal modo dischiudendo a questo mondo l’orizzonte
del Cristo crocifisso mediante una testimonianza valida (così Moltmann, citato da
Dossetti). Questo un lavoro che si addice bene all’Azione Cattolica: la
caratteristica specifica dell’associazione è di puntare a svolgerlo
collaborando democraticamente con genti di altre mentalità e convinzioni. In
quest’ottica il profano, ciò che si
muove al di fuori delle azioni specificamente liturgiche, ha una valenza
religiosa piuttosto forte. In esso noi cerchiamo pazientemente di rintracciare
e capire quelli che sono stati definiti i
segni dei tempi.
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15
Noi:
popolo di Dio
(15 ottobre 2012)
Nella riunione di
martedì 16 ottobre 2012 ci è stata presentata la costituzione dogmatica Lumen gentium, del Concilio Vaticano 2°.
Si tratta di un atto normativo, di una legge della nostra Chiesa. La Chiesa ha
bisogno di leggi? Come ogni società di esseri umani, sì. Ma quella costituzione
conciliare è molto più di una legge. E’ l’indicazione di una strada da
prendere. Con autorità siamo stati chiamati a percorrerla, tutti noi che siamo
stati persuasi dalla fede cristiana e quindi confidiamo in Gesù, il
Cristo, affidandoci a lui qui nella vita terrena e oltre, sperando in quella
eterna. Noi siamo convinti di costituire un popolo, il nuovo (rispetto all’antico popolo israelitico) popolo di Dio, non fuso in
unità sulla base di discendenza etnica (secondo
la carne), ma mediante la nostra fede (nello
Spirito).
Riconosciamo nostro
capo Cristo, che riteniamo regni glorioso
in cielo, quindi al di sopra di
tutto: il suo è un nome al di sopra di
ogni altro nome. Il nuovo popolo:
Ha
per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio [noi ci chiamiamo anche così],nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo
come in un Tempio [Lumen Gentium,
cap.2°, n.9],
Nella fede siamo stati come rigenerati dall’alto: La nostra legge
suprema è ora di amare come lo stesso
Cristo ci ha amati, secondo quanto espresso nel Vangelo di Giovanni 13,34 [Lumen Gentium, cap.3°,n.9]. Siamo così
popolo costituito per una comunione di
vita, di carità e di verità [Lumen
Gentium, cap.2°, n.9].
Riteniamo che ci sia stato affidato un
compito, in particolare di essere stati inviati
a tutte le genti del mondo, come strumento di redenzione, luce del mondo e sale della terra. [Lumen
Gentium, stesso numero sopra citato]. Dobbiamo estendere il nostro popolo, che deve però rimanere uno e unico, a tutto il mondo e a
tutti secoli, per fare ciò che Dio vuole, vale a dire per radunare insieme i suoi figli dispersi [Lumen Gentium, cap.2, n.13].
Bene, ma che cosa c’è di nuovo in questo rispetto alla fede della Tradizione, dei secoli
precedenti? Ci ragioneremo su, in questo Anno
della fede. Chi ha fatto esperienza
ravvicinata della Chiesa prima del Concilio Vaticano 2° sa bene
che qualcosa è effettivamente cambiato. Ma, nella nostra Chiesa, quando si
cambia si cerca comunque di tenere tutto
insieme, in particolare di collegarsi sempre alle esperienze delle origini,
dei primi tempi, specialmente quando si scrivono i documenti ufficiali. Così, leggendoli superficialmente,
si può in qualche modo rimanerne delusi. Anche perché, quando si parla del
Concilio Vaticano 2° al di fuori della nostra Chiesa, lo si presenta come una
sorta di svolta rivoluzionaria, che
non c’è stata. Non è vero che c’è ancora un Papa a Roma? E ll vescovo suo
vicario per la città di Roma? E un parroco nel nostro quartiere?
Vi voglio però indicare un segno. Pensateci su. In parrocchia,
davanti all’altare qualche volta ho visto esposta una grande menorah, il candelabro a sette braccia
che è uno dei simboli dell’ebraismo.
Oggi non ce ne stupiamo. Ancora nell’Ottocento ci sarebbe costato però molto
caro, saremmo stati trattati un po’ come eretici
e forse scomunicati, vale a dire
tenuti isolati nella nostra comunità (non significa sbattezzati). Oggi invece è cosa
del tutto lecita e, anzi, ci edifica.
Insomma, da sempre abbiamo saputo di essere
stati inviati alle genti, ma dopo il
Concilio Vaticano 2° abbiamo cominciato ad entrare in relazione con esse, come
collettività e come individui, in modi sicuramente più amichevoli del passato.
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16
Essere
popolo unito da una fede religiosa
(16 ottobre 2012)
Uno dei temi sui quali il Concilio Vaticano 2° (1962-1965)
ha riscoperto nella dottrina della tradizione potenzialità meno sviluppate
nella storia bimillenaria della Chiesa è quello dell’essere tutti i cristiani un popolo messianico, vale a dire genti unificate da una fede e da
una missione. E, in questo parlare di popolo,
hanno influito non poco concezioni moderne della politica, intesa come organizzazione della convivenza civile, così
come quando in passato si parlava dello stesso tema si faceva riferimento ad
altre concezioni in merito. Non dobbiamo meravigliarcene, perché la Chiesa è anche una organizzazione umana e in
quanto tale è anche opera nostra e
risente delle nostre visioni sul mondo e la storia. Questo che ho scritto da
ultimo è sempre stato ben presente nell’idea che, riflettendosi
sistematicamente sopra, si aveva della Chiesa, ma non lo era più tanto, e da
secoli, quando iniziò il Concilio Vaticano 2°, nella ideologia ecclesiale, vale a dire in quella visione semplificata delle dinamiche sociali che serve a tenere unita
la gente in una collettività organizzata. In quest’ottica, poiché si confidava
molto negli effetti che alla Chiesa derivavano dall’essere insieme realtà umana
e soprannaturale e corpo sociale sottomesso ai Pastori (il Papa – padre universale e vicario di Cristo, capo invisibile: viene dal
greco pàpas che significa papà- e i vescovi –dalla parola greca epìscopos,
che significa sorvegliante), si
pensava che essa potesse sicuramente essere ordinata in modo diverso nel tempo
e nei vari luoghi in cui viveva, ma che di volta in volta essa fosse il meglio
che c’era in un certo momento e in un determinato luogo, vale a dire che nella storia fosse stata e fosse sempre
una società perfetta. Ma vi è di più.
Una conseguenza che si traeva da quest’ordine di idee era che la Chiesa,
attraverso i propri Pastori, potesse,
non solo insegnare con autorità, ma anche avere l’ultima parola in merito a
tutte le altre organizzazioni sociali umane, che è come dire sulla politica delle società in cui viveva.
Fin da quando, nel quarto secolo della nostra era, la Chiesa uscì, come dire,
dalla clandestinità e cominciò ad influire con le proprie idee sulle società
politiche in cui era immersa, quest’ultima pretesa fu materia di contrasto con
i capi civili, i quali, al contrario, volevano spesso dire con autorità alla
Chiesa come essa doveva essere. L’idea di una certa divisione di ruoli, di
compiti e di materie da trattare tra le organizzazioni politiche civile e
l’organizzazione della Chiesa, ciò che oggi chiamiamo laicità dello stato, è moderna: risale alla fine del Settecento. La
troviamo attuata per la prima volta nella storia dell’umanità dopo la
rivoluzione nordamericana, nell’ordinamento costituzionale degli Stati Uniti
d’America (“nessuna professione di fede
religiosa sarà mai imposta come necessaria per ricoprire un ufficio o una
carica pubblica degli Stati Uniti”, art.6°, 3° comma, della Costituzione
federale), benché i rivoluzionari avessero espresso nella Dichiarazione di indipendenza forti idealità religiose cristiane.
Nella storia
dell’umanità dalla fine del Settecento ad oggi abbiamo assistito ad un
mutamento delle organizzazioni politiche da modelli monarchici, in cui il
potere supremo era attribuito a una persona fisica o ad essa e a suoi stretti
parenti, a modelli più partecipati da altri strati della società civile. Questo
moto è all’origine delle democrazie di popolo contemporanee, basate sull’uguaglianza – intesa come pari dignità
sociale – dei cittadini. In qualche modo esso si è espresso anche nella
concezione di Chiesa che è stata proclamata con autorità durante il Concilio
Vaticano 2°, anche se esso non ha avuto esiti propriamente rivoluzionari, né
nelle intenzioni, né nella volontà espressa, né soprattutto nella pratica
ecclesiale postconciliare. Bisogna però
osservare che ciò è dipeso anche dal fatto che la Chiesa ha rinunciato ad una
sovranità politica su società civili, come quello che storicamente era stato
attuato nello Stato pontificio, nell’Italia centrale, con capitale Roma. Sotto
questo profilo ebbero effetti propriamente rivoluzionari la Repubblica romana
napoleonica (1798), quella di Mazzini (1949) e la conquista e
soppressione dello Stato pontificio (1870), nel senso che l’ordinamento
politico instaurato dai Papi nell’Italia centrale venne in quelle occasioni sovvertito, nel primo caso il Papa regnante
fu preso prigioniero, nel secondo caso dovette fuggire da Roma e nel terzo
dichiarò di considerarsi prigioniero in Vaticano.
Possiamo misurare la
rapida evoluzione di certe concezioni dal confronto tra queste due pronunce
autorevoli, datate 1882 la prima e 1965 la seconda:
“[…]Presso i popoli italiani, che in ogni tempo si tennero fedeli e
costanti nella religione ereditata dagli avi, ristretta ora ovunque la libertà
della Chiesa, di giorno in giorno si tenta il più possibile di cancellare da
tutte le pubbliche istituzioni quella impronta e quel carattere cristiano in
forza dei quali fu sempre grande il popolo italiano. Soppressi gli Ordini
religiosi; confiscati i beni della Chiesa; considerati validi come matrimoni le
unioni contratte fuori del rito cattolico; esclusa l’autorità ecclesiastica
dall’insegnamento della gioventù: non ha fine, né tregua la crudele e luttuosa
guerra mossa contro la Sede Apostolica. Pertanto la Chiesa si trova oppressa
oltre ogni dire, e il Romano Pontefice è
stretto da gravissime difficoltà. Infatti, spogliato della sovranità temporale,
cadde necessariamente nel potere di altri.
E Roma, la più augusta città del
mondo cristiano, è divenuta campo aperto a tutti i nemici della Chiesa, e si
vede profanata da riprovevoli novità, con scuole e templi al servizio
dell’eresia. Anzi, pare che addirittura in questo stesso anno sia destinata ad
accogliere i rappresentanti e i capi della setta più ostile alla religione
cattolica, i quali vanno appunto pensando di radunarsi qui in congresso. È
abbastanza palese il motivo che li ha spinti a scegliere questo luogo: vogliono
con un’ingiuria sfrontata sfogare l’odio
che portano alla Chiesa, e lanciare da vicino funesti segnali di guerra al
Papato, sfidandolo nella sua stessa sede. Non è certamente da dubitare che
la Chiesa esca alla fine vittoriosa dagli empi assalti degli uomini: è tuttavia
certo e manifesto che essi con siffatte arti intendono colpire, insieme con il Capo, l’intero corpo della Chiesa, e
distruggere, se fosse possibile, la religione.[…]
[Dall’enciclica Etsi nos, del papa Leone 13°, del 1882.]
http://www.vatican.va/holy_father/leo_xiii/encyclicals/documents/hf_l-xiii_enc_15021882_etsi-nos_it.html
“76. La comunità politica e la Chiesa
È di grande importanza,
soprattutto in una società pluralista, che si abbia una giusta visione dei
rapporti tra la comunità politica e la Chiesa e che si faccia una chiara distinzione tra le azioni
che i fedeli, individualmente o in gruppo, compiono in proprio nome, come
cittadini, guidati dalla loro coscienza cristiana, e le azioni che essi
compiono in nome della Chiesa in comunione con i loro pastori.
La Chiesa che, in
ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si confonde
con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico, è insieme il segno e la salvaguardia del carattere
trascendente della persona umana.
La comunità politica e
la Chiesa sono indipendenti e autonome l'una dall'altra nel proprio campo. Ma tutte e due, anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e sociale
degli stessi uomini. Esse svolgeranno questo loro servizio a vantaggio di tutti
in maniera tanto più efficace, quanto più coltiveranno una sana collaborazione
tra di loro, secondo modalità adatte alle circostanze di luogo e di tempo.
L'uomo infatti non è limitato al solo orizzonte temporale, ma, vivendo nella
storia umana, conserva integralmente la sua vocazione eterna.
Quanto alla Chiesa, fondata nell'amore del Redentore,
essa contribuisce ad estendere il raggio d'azione della giustizia e dell'amore
all'interno di ciascuna nazione e tra le nazioni. Predicando la verità
evangelica e illuminando tutti i settori dell'attività umana con la sua
dottrina e con la testimonianza resa dai cristiani, rispetta e promuove anche
la libertà politica e la responsabilità dei cittadini.
Gli apostoli e i loro successori con i propri
collaboratori, essendo inviati ad annunziare agli uomini il Cristo Salvatore
del mondo, nell'esercizio del loro apostolato si appoggiano sulla potenza di
Dio, che molto spesso manifesta la forza del Vangelo nella debolezza dei
testimoni. Bisogna che tutti quelli che si dedicano al ministero della parola
di Dio, utilizzino le vie e i mezzi propri del Vangelo, i quali differiscono in
molti punti dai mezzi propri della città terrestre.
Certo, le cose terrene e quelle che, nella condizione
umana, superano questo mondo, sono strettamente unite, e la Chiesa stessa si
serve di strumenti temporali nella misura in cui la propria missione lo
richiede. Tuttavia essa non pone la sua speranza nei privilegi offertigli
dall'autorità civile. Anzi, essa rinunzierà all'esercizio di certi diritti
legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso può far dubitare
della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre
disposizioni. “
[Dalla costituzione
pastorale Gaudium et spes, sulla
Chiesa nel mondo contemporaneo – Concilio Vaticano 2°- 1965]
In sostanza il fattore unificante della Chiesa
intesa come popolo di Dio è stato visto, nella concezione dell’ultimo concilio
ecumenico, più nella fede e nella missione
comune, vale a dire di tutti, che
nell’essere soggetti alla sovranità
del Vicario di Cristo e, per quest’ultima, che ancora sussiste come legge della
Chiesa, è stato posto l’accento sulla
sua finalità di servizio della vocazione
personale e sociale delle persone umane.
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17
Unire le
genti per una vita buona
(17 ottobre 2012)
La prima e
fondamentale esperienza di una relazione con un’altra persona è quella che si
fa da molto piccoli e qualcuno, di solito la madre, si prende cura di noi. E’
una cosa che ho letto, ma che corrisponde anche a quello che è successo a me.
Da bambini piccoli non si potrebbe sopravvivere senza quelle cure di un altro.
Quel rapporto tra un adulto e una persona molto piccola d’età rimane molto
profondamente in noi. Spesso, anche da anziani, in certi momenti difficili, in
particolare approssimandosi la fine, la si ricorda e, allora, viene alle labbra
la parola mamma. L’ho sentita
pronunciare da diversi morenti. In qualche modo quel legame tra persone è all’origine di molte idealità comunitarie. Ne
sentiamo l’influsso in certe concezioni espresse nel culto mariano. O in alcune
tematiche dell’arte religiosa, come quella della scultura di Michelangelo detta
La Pietà, posta nella basilica di San
Pietro, qui a Roma. Esso viene anche utilizzato per rendere l’idea dell’amore-agàpe, di origine divina, che
pervade l’universo e noi stessi. Scrive Giuseppe Dossetti in Eucaristia e città, editrice A.V.E.,
2011, pagine 131, euro 8,00, che si tratta di un amore viscerale, ma di
viscere materne. Per questo ci viene incontro nonostante la nostra
cattiveria e non cede mai all’ira: è misericordioso.
Ci attraversa e, riflettendosi
in noi, torna all’origine. Genera quindi un atteggiamento di devozione filiale, che si ritiene esprimere bene l’atteggiamento
religioso del fedele verso l’alto. Ma ne deriva anche un sentimento fraterno
verso coloro che si trovano nella nostra stessa condizione di figli, insomma, secondo Dossetti, crea un’atmosfera di rispetto, di comprensione,
di fiducia, di valorizzazione degli esclusi, di amore-oblativo [=che offre
per venire incontro alle esigenze degli altri] indipendente da ogni condizione
esterna mutevole e che “non avrà mai fine” ( 1 Cor 13,8) [pag.121-122].
Spesso, quando ci accostiamo a una comunità religiosa, ad esempio come una
parrocchia, lo facciamo disposti alla devozione
filiale, ma aspettandoci di essere oggetto poi di un amore viscerale di tipo materno, e il più delle volte rimaniamo delusi.
Questo può accadere anche entrando in collettività che concepiscono sé stesse
come (utilizzo un termine di Dossetti) micro
modelli di comunità nuove e quindi si sentono particolarmente impegnate nel
realizzare una comunità di vita amorevole.
E’ un’esperienza piuttosto comune. Tanto è vero che i maestri dei novizi, che hanno il compito di istruire i nuovi
arrivati alle costumanze di un ordine o di una congregazione di vita religiosa,
si sentivano in dovere di disilludere subito in merito i giovani. Del resto
nelle disposizioni date da alcuni fondatori di collettività di frati e monaci
ci sono esplicite disposizioni che riguardavano questo aspetto. Non si entra in
una vita come quella per ottenere
soddisfazioni o appagamenti emotivi o sentimentali.
Più le dimensioni di
un agglomerato di persone che per varie ragioni devono vivere vicine crescono,
più i problemi aumentano. Ad un certo punto si arriva addirittura a un limite biologico dell’essere umano. Noi, pur
come individui sociali, siamo infatti capaci di poche decine di relazioni profonde.
Considerate ad
esempio la situazione che si crea quando in piazza S. Pietro il Papa si
affaccia, all’Angelus della domenica, e si rivolge alle migliaia di persone
convenute ad ascoltarlo, dabbasso. Per la folla che sta giù il Papa è oggetto
di una relazione profonda. Ciascuno/a
ha un posto per lui nel proprio cuore. Ma il Papa che cosa vede lì sotto? Un
cervello elettronico che guidasse un automa come se ne stanno cominciando a
costruire eseguirebbe probabilmente una scansione ad alta definizione di ogni
singolo individuo nella piazza, archiviando per ognuno una piccola biblioteca
di dati. Un essere umano non funziona così. Guarda in basso e vede una folla indistinta. Il Papa per la
folla è un fattore di unità. Ma il
Papa, essere umano, non è in grado biologicamente
di far entrare ciascuno di quelli che lo ascoltano nel proprio cuore.
Naturalmente le folle hanno sviluppato delle tecniche per rendersi presenti
alle loro figure di riferimento, e lo fanno appunto agendo come una sola persona, manifestando gli stessi pensieri, gridando in coro le stesse parole, cantando in coro gli stessi canti. Una grande
folla può effettivamente restare nel cuore di un Papa. Penso che questo sia
accaduto al papa Giovanni Paolo 2° nel corso del suo quinto viaggio apostolico, che nel 1979 fece
in Irlanda. Ci fu uno straordinario incontro con una folla di giovani, di
enorme impatto emotivo, per i canti, per l’atmosfera generale, per l’aspetto e
l’entusiasmo delle persone, tanti giovani che accoglievano un giovane Papa, e via dicendo, tanto che io, pur
avendolo visto solo in televisione, me lo ricordo ancora bene e mi ci commuovo.
Ora, la Chiesa
cattolica ha preso sempre molto sul serio l’impegno a radunare i figli di Dio dispersi, per estendere il suo popolo, mantenendolo però uno e unico, a tutto il mondo e a tutti i secoli, per
farne una comunione di vita, di carità e di verità (Costituzione dogmatica Lumen Gentium, cap.2° n.9 e 13, del
Concilio Vaticano 2° - passi riportati in estratto in un post dei giorni passati]. Quando però si passa da una comunità
delle origini di poche decine di discepoli a una di diverse centinaia di
milioni di persone (se ne stimano ottocento milioni, in crescita) occorre porre
molta attenzione agli elementi unificanti. Per quasi due millenni il principale
di essi, nella Chiesa cattolica, è stato costituito dai Papi, nei quali si
concentrava dal punto di vista normativo (e si concentra tuttora, nonostante
qualche importante temperamento) l’autorità nella Chiesa, non essendo mai
stata concepita altra autorità che,
all’interno della Chiesa, potesse effettivamente sovrastare quella del Papa
(altre questioni sono quelle dei problemi che sotto questo profilo i Papi
ebbero con certi imperatori cristiani e dell’ampia autonomia che, nel primo
millennio, ebbero alcuni patriarcati orientali). Il Papa inoltre, come persona
fisica, a volte con l’aggiunta di una certa idealizzazione, che in alcuni casi
confinò con una sorta di mitizzazione della sua persona (ne era espressione il
fasto che in certe epoche la circondava),
poteva agevolmente conquistare i cuori dei fedeli.
Fin dai primi secoli
sono stati importanti, al fine di promuovere e mantenere l’unità (ma sono stati
anche fonte di divisione) anche quelle definizioni sintetiche dei principali
argomenti di fede che sono detti simboli,
due dei quali sono il Credo di Nicea Costantinopoli e il Credo degli Apostoli che recitiamo
insieme nella liturgia della Messa. Queste solenni e autorevoli definizioni
sono state raccolte in un libro, il H.Denzinger – A. Schonmetzer, Enchiridion symbolorum, definitionum et
declarationum de rebus fidei et morum [Raccolta
di simboli, delle definizioni e delle dichiarazioni in materia di fede e morale],
molto utilizzato in teologia.
186. Fin dalle origini la Chiesa
apostolica ha espresso e trasmesso la propria fede in formule brevi e normative
per tutti. Ma molto presto la Chiesa ha anche voluto riunire l’essenziale della
sua fede in compendi organici e articolati, destinati in particolare ai candidati
del Battesimo.
Il simbolo della fede non fu composto secondo
le opinioni umane, ma consiste nella raccolta dei punti salienti, scelti da
tutta la Scrittura, così da dare una dottrina completa della fede. E come il
seme della senape racchiude in un granellino molti rami, così questo compendio
della fede racchiude tutta la conoscenza della vera pietà contenuta nell’Antico
e nel Nuovo Testamento.
187.Tali sintesi della fede
vengono chiamate “professioni di fede”, perché riassumono tutta la fede professata
dai cristiani. Vengono chiamate “Credo” a motivo di quella che normalmente ne è
la prima parola: “Io credo”. Sono anche dette “Simboli della fede”.
188.La parola greca “Sy’mbolon”
indicava la metà di un oggetto spezzato (per esempio un sigillo) che veniva
presentato come segno di riconoscimento.
Le parti venivano ricomposte per verificare l’identità di chi le portava. Il “Simbolo della fede” è quindi un segno
di riconoscimento e di comunione tra i credenti. “Sy’mbolon” passò poi a
significare raccolta, collezione o sommario. Il “Simbolo della fede” è la
raccolta delle principali verità della fede. Da qui deriva il fatto che esso
costituisce il primo e fondamentale punto di riferimento della catechesi.
[dal Catechismo della Chiesa Cattolica 1992-1997]
I Simboli della fede, alcuni dei quali
per la loro origine o per successivi atti di volontà dell’autorità sono leggi della Chiesa, agevolano la
comprensione legando affermazioni che
riguardano concezioni piuttosto complesse, riguardanti il soprannaturale, il
legame dell’umanità con esso e il destino nostro e dell’universo intero, ad un
gruppo di persone più limitato delle intere umane e celesti moltitudini: le
persone della Trinità, Gesù Cristo, Maria Vergine, che una persona umana può
facilmente tenere nel proprio cuore.
Non va infine
dimenticata l’importanza che storicamente ha avuto, come fattore unificante, la
liturgia, anch’essa regolata spesso
da leggi della Chiesa, quindi con
autorità.
Ora, per capire
l’importanza che il Concilio Vaticano 2° ha avuto per la Chiesa cattolica,
bisogna comprendere questo: esso ha in qualche modo inciso su tutti e
tre quei tradizionali fattori unificanti
e ciò anche se, da un punto di vista
teologico, si è accuratamente cercato, nella formulazione dei documenti conciliari,
di stabilire una continuità tra l’aggiornamento
realizzato e la precedente Tradizione, per cui, sotto questo profilo, una
cesura non c’è e non si avverte nemmeno. Questo non fu senza conseguenze. I
capi della Chiesa ebbero l’impressione, nel dopo concilio di un marcato sbandamento del corpo ecclesiale e se ne preoccuparono. La
biografia dell’attuale Papa ce ne parla.
Nel corso di quella
grande assemblea mondiali dei capi della Chiesa di allora, riuniti intorno al
Papa, ci fu però la riscoperta di un ulteriore fattore
unificante che alle origini c’era senz’altro e di cui si aveva avuto
sempre consapevolezza, ma sul quale nel corso della storia bimillenaria della
Chiesa non si era fatto molto affidamento, anche perché, in effetti, non poche
volte aveva deluso: l’essere Popolo di Dio.
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18
Un popolo
nuovo
(19 ottobre 2012)
E’ possibile che
alcuni dei lettori che entrano in questo blog
non abitino nel quartiere romano di Monte Sacro e in quella sua porzione che va
sotto il nome di Valli, perché le sue
strade portano il nome di diverse valli d’Italia: il posto in cui io vivo con
gli altri del mio gruppo di Azione Cattolica. Possono trovarsi anche molto
lontano, oltreoceano e addirittura agli antipodi. So ad esempio di famiglie di
Ardigò che discendono da genti che dalla provincia italiana di Cremona, homeland di tutti gli Ardigò del mondo,
emigrarono in Brasile e in Argentina, come mio nonno paterno. Ecco che allora
uno di quegli Ardigò, per trovare lontani parenti in Italia, potrebbe impostare
una ricerca sul WEB su uno dei tanti motori che servono a questo scopo ed
essere casualmente trasportato nella nostra piccola frazione di mondo. A
pensarci bene è una cosa straordinaria, fantascientifica al tempo della mia
infanzia e della mia adolescenza: essere connessi in una rete che collega potenzialmente miliardi di elaboratori elettronici
e, idealmente e di fatto, le persone che sono dietro a loro. Certo, questa è
poi solo una potenzialità, perché una
sola vita umana non basterebbe per entrare effettivamente
in relazione con tutta quella gente. Però è come quando si installa un
cartellone pubblicitario sull’autostrada: chi passa legge. E allora, coloro che
da lontano si mettono a leggere quello che in questi giorni sto scrivendo
possono chiedersi dove voglia andare a parare. Dovete allora capire, cari
lettori, che, certo, siamo lusingati del vostro interesse, ma qui ci si occupa
di una piccola comunità religiosa, dall’Azione Cattolica che è nella parrocchia
di San Clemente papa, in via Val Sillaro, Roma, Italia, Unione Europea: essa
quest’anno, prendendo lo spunto dall’indizione di un Anno della Fede, aperto per la Chiesa cattolica lo scorso 11
ottobre, ha iniziato a riflettere sul significato della sua esperienza associativa
e del suo ruolo nella Chiesa, anche per continuare a proporsi nella società che la circonda e
convocare in tal nuovi amici che
condividano i suoi ideali. Questo orientamento per così dire operativo si riflette nei temi trattati,
per cui argomenti più generali vengono condensati e sistemati sulla base dei
problemi che sono emersi nell’attività del gruppo.
Roma è, a confronto
con le maggiori metropoli del mondo, una piccola città, che, tutto sommato,
conserva ancora una dimensione umana forte. Alcuni giorni fa lo si è detto di
Firenze e i fiorentini se ne sono risentiti.
Ma non è una cosa negativa. Roma e Firenze sono città europee in cui si
vive meglio che in altre agglomerati urbani molto più grandi. Per rendere
l’idea, invito a portare l’attenzione su una grande conurbazione come San Paolo
del Brasile, che conta una trentina di milioni di abitanti. Il nostro
quartiere, poi, è, all’interno della città di Roma, una zona periferica del
nord est senza particolari problemi. E’ cresciuta nel dopoguerra vicina alla
riva destra dell’Aniene, uno dei principali affluenti del fiume Tevere, non
molto distante dalla confluenza tra i due corsi d’acqua. All’inizio venne
abitata da molti dipendenti pubblici, dello Stato, in particolare del Ministero
del Tesoro e di quello delle Finanze, ma anche da militari, e da dipendenti di altri enti pubblici, poi
da una popolazione più varia. I romani de Roma, quelli che discendono da
famiglie insediate a Roma da molte generazioni, non prevalgono: i primi
abitanti del quartiere arrivarono da varie parti d’Italia, dal Nord e dal Sud,
ma anche dall’Abruzzo, ad Est, ed erano piuttosto giovani. Poi la popolazione
si è fatta più anziana e solo negli ultimi anni sono cominciate ad arrivare
famiglie con bimbi piccoli. Si è aggiunta anche un’emigrazione dal continente
indiano, dalla Cina e dalla Romania. Nuovi poveri hanno ripreso ad abitare in
rifugi precari nelle vicinanze del fiume, dove nel primo e secondo dopoguerra e
fino agli scorsi anni ’70 c’erano i baraccati,
gli sfollati per la guerra mondiale e poi i nuovi giunti emigrati dal
Meridione.
Il nostro gruppo di
Azione Cattolica è composto in prevalenza di persone appartenenti alle famiglie
che per prime si insediarono nel quartiere: costituiscono il nostro nucleo storico. Come si sa, l’Azione Cattolica
dalla metà degli scorsi anni Settanta iniziò a perdere aderenti e ad avere
difficoltà ad attirarne di nuovi. Si possono individuare diverse ragioni di ciò
che è successo. I fattori negativi si sono succeduti e sommati. Complessivamente
si può dire che la fede religiosa, come fattore sociale aggregante, ha perduto
forza e questo, paradossalmente, proprio in anni in cui alcune convinzioni
tratte dall’esperienza religiosa, in particolare quelle che riguardavano i diritti umani e la dignità delle persone umane, venivano poste alla base dello
straordinario processo di unificazione continentale europea, una cosa mai accaduta nella storia
dell’umanità, e determinavano il
convergere di moltitudini verso l’Europa e quindi un’imponente espansione
politica per inclusione e non per
conquista e sottomissione di altre nazioni. Si è trattato di un successo
spettacolare, del quale di solito si è restii a rendersi conto. Basti pensare
che una frontiera caldissima, come quella che divideva il continente europeo
attraverso la Germania e lungo le frontiere orientali dell’Austria e
dell’Italia si è improvvisamente dissolta tra l’89 e il ’91 senza un conflitto
catastrofico. Questo enorme risultato non è attribuibile a questa o a quella
persona, ad esempio al cancelliere tedesco cristiano democratico Khol, al quale
pure si deve il processo di riunificazione politica, economica e sociale della
Germania e il ritiro pacifico dell’Armata rossa dalla Germania orientale, o del
nostro De Gasperi, democratico cristiano, o di altri, che si spesero in momenti cruciali. Si è infatti trattato
innanzi tutto di un’opera collettiva, corale, in cui sono stati protagonisti i
popoli europei. Per questo qualche giorno fa ci hanno dato il premio Nobel. Penso che si debba partire da
questa considerazione anche per riflettere sulle ragioni del nostro stare
ancora insieme in un gruppo di Azione Cattolica, impegnato, soprattutto dopo il
Concilio Vaticano 2°, a diffondere valori
nella società, in unione con tutte le altre persone di buona volontà.
Si osserva qualche
volta che il Concilio Vaticano 2° ebbe una visione ottimistica dei tempi.
Effettivamente, considerando quell’evento complessivamente, può essere
osservato che i capi ecclesiali i quali ne furono protagonisti nutrivano una
certa fiducia nella gente comune, in particolare in noi laici. E, visti i risultati, non direi che si siano ingannati.
Scrutarono, come scrissero, i segni dei
tempi e vi videro straordinarie
opportunità, determinate dal fatto che la gente, che in passato era stata in
genere succube dei propri capi politici, si era mostrata in grado di
influenzare positivamente il corso della storia.
I documenti
conciliari furono scritti da teologi cattolici. Il particolare metodo seguito
dalla teologia cattolica comporta che il
nuovo in genere non venga proposto
come trascinato dal futuro e verso di
esso in rottura con il passato, ma venga presentato come scaturente, e spinto
verso il futuro, da radici, in primo luogo in base alle scritture sacre e alla
tradizione, quindi da un passato gravido di futuro, senza cesure, senza
soluzioni di continuità. Questo anche quando ci si propone di attuare
cambiamenti molto significativi.
Ad un certo momento
diventò centrale, nei discorsi conciliari, l’idea di popolo animato da grandi ideali religiosi, che venne presentato
come nuovo (benché iniziato quasi
duemila anni prima e animato da una missione analoga di salvezza) rispetto
a quello antico costituito
dall’Israele storico, senza che però il
nuovo privasse di senso l’antico,
data l’irrevocabilità delle promesse dall’alto e il radicamento del
cristianesimo nell’ebraismo antico. Oggi questi discorsi non suscitano
generalmente problemi, ma ancora ai tempi del Concilio Vaticano 2° sì, e
di molto grossi, e questo sulla base di
una teologia molto antica, risalente ai primi scrittori autorevoli della
Chiesa, dalla quale si erano tratte (indebitamente come riconoscemmo)
conseguenze molto gravi dall’idea di un nuovo
che sostituiva l’antico. Ecco che, allora, questo ideale
di nuovo popolo (in senso prevalentemente storico e religioso) al quale ci si riferì durante il Concilio quando si parlava di popolo di Dio, iniziato con il
cristianesimo circa duemila anni prima, venne ad un certo punto ad assomigliare abbastanza, per come veniva
caratterizzato, a quello di popolo nuovo (in senso prevalentemente sociale:
nel senso di collettività organizzata con proprie istituzioni e principi) - in
italiano si coglie una differenza di significato anteponendo o posponendo
l’attributo nuovo - manifestatosi
solo dopo la Seconda guerra mondiale, dove nella prima espressione si aveva
riguardo essenzialmente alla formazione di un popolo unificato su basi
prevalentemente religiose rispetto a quello, che lo aveva preceduto
storicamente, costituito prevalentemente su basi etniche, mentre nella seconda
si faceva riferimento a un tipo di
società umana come non c’era mai stata prima, che si era organizzata
storicamente nelle Nazioni Unite e in
altre organizzazioni (tra le quali oggi vi è la nostra Unione Europea) caratterizzate dalle medesime idealità e in
particolare dall’affermazione dell’universalità
di certi diritti umani fondamentali e dell’obiettivo della pace perpetua globale. Un’umanità nuova in cui, ad esempio, appunto, i
cristiani, per quegli ideali umanitari
non (più) visti in contraddizione con quelli religiosi da loro professati, si
proponevano di non perseguitare più gli ebrei e quindi in cui coloro che consideravano sé stessi il nuovo non cercavano più di sopprimere
coloro che consideravano l’antico. In
questo si poté quindi cogliere una “novità” di tipo nuovo del popolo
di Dio, ma radicata nelle origini, per cui l’evidente cambiamento di rotta venne considerato, in definitiva, una correzione di rotta, insieme pentimento e conversione, teshuvà in ebraico, come poi, anni dopo,
venne detto esplicitamente, in particolare dal papa Giovanni Paolo 2°.
Ecco
quindi un compito che si può individuare per noi cattolici europei che viviamo
in una relativamente tranquilla periferia della
Roma di oggi: contribuire a consolidare come nuovo popolo (in senso religioso) il popolo nuovo (in senso sociale) che siamo diventati insieme a molti altri
i quali, anche se non sono come noi esplicitamente religiosi, condividono certe
nostre idealità che a ben considerare hanno fondamento religioso. Che è come
dire: consolidare nella società di oggi certi valori che hanno base religiosa, come non cessano di
ricordarci i nostri vescovi.
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19
Micro-Macro
e la ricerca della felicità
(20 ottobre 2012)
Riprendo la riflessione sul libretto Giuseppe Dossetti, Eucaristia e città, Editrice A.V.E.,
2011, pagine 129, euro 8,00, formato tascabile (cm 11,5x16,5), con introduzione
di Giorgio Campanini e un pezzo di Giuseppe Gervasio inserito come prefazione
alla precedente edizione del 1997 (si tratta del testo di un intervento che
Dossetti, ormai prete e monaco dopo essere stato molti anni prima professore
universitario e politico, fece il 1 ottobre 1987 durante il Congresso
eucaristico della diocesi di Bologna):
Come la Chiesa riunita dell’assemblea
eucaristica è l’epifania [=manifestazione.
Nota mia] anticipata del Regno, così la
Chiesa inviata dall’Eucaristia è un’epifania della “polis” [=città in senso
politico, come organizzazione sociale. Nota mia] salvata: “politicità” tutta “sui generis” [=in un senso
particolare, suo proprio. Nota mia], che
non governa e non ha potere, che non muove verso gli altri per quello che hanno
di appetibile, ma unicamente per quello che sono “in mysterio” [nel mistero
della loro realtà che rileva per fede religiosa. Nota mia] (anche se poveri, deformi, incoscienti, in tutto inappetibile): cioè
incontra l’uomo dall’esterno e in superficie, ma lo incontra nel suo “sé” più
intimo, più invisibile, più pneumatico [=spinto dallo spirito religioso.
Nota mia], creando e divulgando ovunque –
nel seno di ogni società grande o
piccola, soprattutto nei micro modelli di comunità nuove che alcuni
sociologi laici ora raccomandano – un’atmosfera
di rispetto, di comprensione, di fiducia, di valorizzazione degli esclusi, di
amore-oblativo [=che si impegna per venire incontro alle esigenze degli
altri, con spirito materno. Nota mia] indipendente da ogni condizione esterna e
mutevole che “non avrà mai fine” ( 1 Cor 13,8). [opera citata, pagine
121 e 122].
Queste parole di Dossetti ricordano quelle che
troviamo nella costituzione dogmatica Lumen
gentium, del Concilio Vaticano 2°, al capitolo 2°, n. 19:
[…] il
popolo messianico, pur non comprendendo effettivamente l’universalità degli uomini
e apparendo talora come un piccolo gregge, costituisce tuttavia per tutta
l’umanità il germe più forte di unità, di speranza e di salvezza. Costituito da
Cristo per una comunione di vita, di
carità e di verità, è pure da lui assunto ad essere strumento di redenzione
di tutti e, quale luce del mondo e sale della terra (si confronti Mt 5,13-16), è inviato a tutto il mondo.
Essere inviati
collettivamente al mondo per essere strumenti
di redenzione, vale a dire per influire
su di esso per salvarlo dal male che c’è in giro, denota una politicità della nostra esperienza
religiosa, che ha quindi molto a che fare con i fatti della nostra società e
che quindi non si limita alla spiritualità personale e al miglioramento
individuale del fedele. Essa tuttavia è di tipo particolare, specialmente
perché rifiuta di dominare gli altri
e si propone di incontrarli nel loro
intimo in un nuovo clima di umanità, includendoli in un nuovo stile di
relazioni personali. In un certo senso questo significa realizzare in concreto
un tipo di felicità, una società in
cui nessuno sia escluso, in cui tutti si sentano apprezzati e in cui si venga
incontro alle esigenze degli altri con trasporto di tipo materno e li si tratti con animo fraterno, riconoscendo loro quella particolare dignità che deriva loro dall’essere figli di un padre comune
(notate che certi concetti possono essere espressi bene solo con metafore
tratte dalla vita familiare, molto idealizzata).
Ora, naturalmente quest’ordine di idee
presenta già qualche problema se lo si applica a piccoli gruppi, i quali pure
vogliano impegnarsi effettivamente a realizzare quel tipo di comunità a cui si riferiva la Lumen gentium, ma certamente si scontra duramente con la realtà
sociale di collettività molto più vaste, composte da milioni, decine di
milioni, centinaia di milioni di individui. E infatti, ad esempio, gli
illuminati rivoluzionari che sottoscrissero la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America (1776) si limitarono prudentemente a riconoscere il
diritto fondamentale alla ricerca della felicità, senza impegnarsi direttamente a realizzarla come
collettività. E’ chiaro dunque che questo lavoro
nella società a cui siamo stati chiamati (infatti siamo convinti di essere
stati ad essa inviati), è
particolarmente difficile, supera senz’altro le possibilità di un singolo
individuo e richiede un’azione collettiva, un associarsi con altri che sono
ispirati dalle nostre stesse idealità. Esso parte dai principi religiosi, ma richiede anche una sapienza umana
che origina da ciò che ciascuno è, sa fare, sa capire, passa per la
comprensione dei tempi e del mondo in cui si vive, interagisce con quanto altri sono, fanno,
sanno capire, conoscono del mondo in cui vivono, e può produrre determinazioni comuni su ciò
che collettivamente si debba realizzare, propositi e progetti concreti. Ma c’è
di più: pur occupandosi di dimensioni sociali macroscopiche, come può essere ad
esempio l’organizzazione di una città o di un quartiere, deve mantenere
comunque vitali quelle dimensione
sociali molto più piccole, fatte di gruppi di dimensioni molto più limitate, a
partire da quelle a base parentale, nelle quali ciascuno trova sostegno,
orientamento e fondamentale appagamento. Questo appunto, a mio avviso,
significa non incontrare l’uomo dall’esterno
e in superficie, ma nel suo “sé” più
intimo, secondo l’espressione utilizzata da Dossetti: quindi tenere insieme
macro e micro. Questo lavoro di cui ho parlato è il campo operativo principale
dell’Azione Cattolica.
Per oggi concludo osservando, nella linea di
Dossetti, che in tutto questo agire collettivo ben ispirato si è indubbiamente
esposti a una tentazione piuttosto forte, che è quella di ritenere che l’opera
del nostro ingegno, le costruzioni sociali che riusciamo storicamente a
realizzare, corrispondano ad un certo punto a un modello di perfezione sotto il
profilo propriamente religioso, si tratti di famiglia naturale, di comunità religiosa, di organizzazione di una città, di uno stato nazionale, di un
ordinamento pubblico sovranazionale e, al limite, di un ordinamento globale di
tutti i popoli della Terra, come nelle intenzioni vorrebbe essere
l’organizzazione delle Nazioni Unite. Questa
identificazione tra soprannaturale e naturale, espressa storicamente dal motto Dio è con noi, non la possiamo però
legittimamente mai affermare, perché ci è stato detto che il Regno beato non è di questo mondo, con tutto ciò che da questo
consegue. Nella visione di Dossetti, per quanto (giustamente) ci si dedichi a
costruire comunità amorevoli e materne, ogni espressione della
socialità umana mantiene una certa ambiguità e ambivalenza e in essa elementi
positivi, rispetto alla concezione di fede, sono sempre mescolati a elementi
negativi e permane, quindi, in essa un certo contrasto tra ciò che si è riusciti storicamente ad attuare e
quello che definiamo come “il Regno”. E ciò si avverte con più forza a
misura che le collettività organizzate diventano più grandi, aggregando
moltitudini, fino a sfiorare la globalità, le dimensioni dell’umanità intera, e
a misura in cui esse incidono maggiormente nelle vite delle persone. Dossetti
precisa:
Il regno di Dio è Regno dei cieli: e quindi
viene dall’alto, per volontà e opera di Dio. Non si realizza e neppure si
prepara e si affretta per sinergia umana. E’ un fatto assolutamente
sovrannaturale e miracoloso. Non è un bene comune, architettonicamente sommo,
che si possa gradualmente predisporre per forze creaturali.
Rimane pertanto questo paradosso, che,
inviati verso gli altri per
migliorare sulla base dei nostri principi di fede le società in cui insieme ad
essi viviamo, in fondo rimaniamo sempre in quelle società degli estranei, degli
stranieri, dal punto di vista
religioso, anche quando collaboriamo alla loro edificazione. C’è sempre
infatti, alla fine, una certa insoddisfazione rispetto ai risultati ottenuti e
questo è vero non solo per le realtà profane, ma anche per quelle
specificamente religiose, in ciò che esse hanno di umano. Al nostro “sesto giorno” guardiamo l’opera
nostra comune e non riusciamo mai a concludere che è cosa molto buona, vi troviamo sempre qualcosa di migliorabile. E, rispetto ad ogni nostra città, in un certo qual modo ci troviamo
nello stato di chi è in procinto di andarsene di lì a poco; cerchiamo in genere
di mantenere un certo distacco. Questo che sembrerebbe un inconveniente non da
poco nell’ottica della nostra completa integrazione
civile, in realtà ci pone in una condizione di particolare libertà rispetto
alle cose umane, in particolare alle società in cui viviamo. E, benché il
nostro essere religiosi non ci ponga in una sorta di condizione di anarchia e
quindi, vivendo nella società, effettivamente ci sottomettiamo alle autorità
costituite, in particolare a quelle civili, dando ad esse ciò che a ciascuna di
loro compete, questo sottomettersi, scrive Dossetti (pag.42) non vuole dire necessariamente sempre
obbedire. In questo senso, come scrisse anni fa Paolo Giuntella nel libro
omonimo, il nostro cristianesimo può essere effettivamente una strada verso la libertà.
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