Papa Francesco:
contro i seminatori d’odio, la via dell’empatia, della non violenza e della
tenerezza
Sintesi dal dialogo con giovani e anziani avuto dal Papa
alla presentazione del suo libro Sharing
The Wisdom Of Time / La Saggezza Del Tempo all’Istituto
Patristico Augustinianum, Martedì, 23 ottobre
2018
Sintesi a cura di Mario Ardigò -
Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
testo di base dal WEB
http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2018/october/documents/papa-francesco_20181023_giovani-anziani.htm
La cultura della
competizione, dell’arrivare, arrampicando, in ogni modo, ma sempre calpestando
teste: è la mano chiusa e produce scarti umani, non considera la fine, ma solo il suo fine
1. Come essere felici in questo mercato della competizione, in
questo mercato dell’apparenza? In questo mercato dell’ipocrisia; lo dico non in
senso morale, ma in senso psicologico-umano: apparire qualcosa che non c’è
dentro, si appare in un modo ma dentro c’è il vuoto, per esempio, o c’è
l’affanno per arrivare, non è vero?
Un gesto per spiegare
[e] il gesto è questo: la mano tesa e aperta. La mano della
competizione è chiusa e prende: sempre prendere, accumulare, tante volte a caro
prezzo, a costo di annientare gli altri, per esempio, a costo del disprezzo
altrui ma… questa è la competizione! Il gesto dell’anti-competizione è questo:
aprirsi. E aprirsi in cammino. La competizione generalmente è ferma: fa i suoi
calcoli, tante volte incoscientemente, ma è ferma, non si mette in gioco; fa
dei calcoli, ma non si mette in gioco. Invece, la maturazione della personalità
avviene sempre in cammino, si mette in gioco. Per dirlo con un’espressione
comune: si sporca le mani. Perché? Perché ha la mano tesa per salutare, per
abbracciare, per ricevere. E questo mi fa pensare a quello che dicono i santi,
anche Gesù: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere”. Contro questa cultura
che annienta i sentimenti, c’è il servizio, servire.
[Ma si ha] soltanto
l’illusione di accumulare per essere sicura. E’ una cultura dello scarto, ma
per coloro che non si sentono scartati è la cultura dell’assicurazione: avere
tutte le assicurazioni possibili per essere a posto. E mi viene in mente quella
parabola di Gesù: l’uomo ricco che aveva avuto un raccolto così grande che non
sapeva dove mettere il grano. E disse: “Farò dei magazzini più grandi e così
sarò sicuro”. L’assicurazione per tutta la vita. E Gesù dice che questa storia
finisce così: “Stolto: questa sera morirai” (cfr Lc 12,16-21).
La cultura della competizione non guarda mai la fine;
guarda il fine che si è proposto nel suo cuore: arrivare,
arrampicando, in ogni modo, ma sempre calpestando teste. Invece la cultura del
convivere, della fraternità è una cultura del servizio, una cultura che si apre
e si sporca le mani.
Trasmettere la fede
con il dialetto dell’amicizia, della vicinanza
2. La fede va trasmessa “in dialetto”. Sempre. Il dialetto familiare,
il dialetto… Pensate alla mamma di quei sette giovani di cui leggiamo nel Libro
dei Maccabei: per due volte il racconto biblico dice che la mamma li
incoraggiava “in dialetto”, nella lingua materna, perché la fede era stata
trasmessa così, la fede si trasmette a casa. [Si trasmette con] il dialetto
dell’amicizia, della vicinanza, ma sempre in dialetto. [Non si può] trasmettere
la fede con il Catechismo: “leggi il Catechismo e avrai la fede”. No. Perché la
fede non sono soltanto i contenuti, c’è il modo di vivere, di valutare, di
gioire, di rattristarsi, di piangere…: è tutta una vita che porta lì.
“Forse abbiamo fallito nella trasmissione della fede?”. No.
Non si può dire questo. La vita è così. All’inizio voi avete trasmesso la fede,
ma poi si vive, e il mondo fa delle proposte che entusiasmano i figli nella
loro crescita, e tanti si allontanano dalla fede perché fanno una scelta, non
sempre cattiva, ma tante volte inconsapevole, tra i valori, sentono delle
ideologie più moderne e si allontanano. Ho voluto soffermarmi su questa
descrizione della trasmissione della fede per dire il mio parere. La prima cosa
è non spaventarsi, non perdere la pace. La pace, sempre parlando con il
Signore: “Noi abbiamo trasmesso la fede e adesso…”. Tranquilli. Mai cercare di
convincere, perché la fede, come la Chiesa, non cresce per proselitismo, cresce
per attrazione – questa è una frase di Benedetto XVI –
cioè per testimonianza.
Se uno si domanda
quali sono le cause di questo allontanamento, c’è sempre una sola causa che
apre le porte alle ideologie: le testimonianze negative. Non sempre in
famiglia, no, la maggior parte sono le testimonianze negative di gente di
Chiesa: preti nevrotici, o gente che dice di essere cattolica e fa la doppia
vita, incoerenze, per il fatto di cercare dentro le comunità cristiane cose che
non sono valori cristiani… Sono sempre le testimonianze negative che
allontanano dalla vita [di fede]. E poi, le persone che ricevono questi esempi
negativi, accusano. Dicono: “Io ho perso la fede perché ho visto questo e
questo…”. E hanno ragione. E ci vuole soltanto un’altra testimonianza, quella
della bontà, della mitezza, della pazienza, la testimonianza che ha dato Gesù
nella sua passione, quando Lui soffriva ed era capace di toccare il cuore.
Difendere la
tradizione del sogno: dagli anziani ai giovani
3. “Che cosa direbbe Lei, da nonno, a giovani che vogliono
avere fiducia nella vita, che desiderano costruirsi un futuro all’altezza dei
loro sogni?” La risposta è: incomincia a sognare. Sognare così, sfacciatamente,
senza vergogna. Sognare. Sognare è la parola. E difendere i sogni come si
difendono i figli. Questo è difficile da capire ma è facile da sentire: quando
tu hai un sogno, una cosa che non sai come dirla, ma la custodisci e la difendi
perché l’abitudine quotidiana non te la tolga. Aprirsi a orizzonti che sono
contro le chiusure. Le chiusure non conoscono gli orizzonti, i sogni sì!
Sognare, e prendere i sogni dagli anziani. Portare su di sé gli anziani e i
loro sogni. Portare addosso questi anziani, i loro sogni; non ascoltarli,
registrarli, e poi dire “adesso andiamo a divertirci”. No. Portarli addosso. Il
sogno che noi riceviamo da un anziano è un peso, costa portarlo avanti. E’ una
responsabilità: dobbiamo portarli avanti. Tu non puoi portarti tutti gli
anziani addosso, ma i loro sogni sì, e questi portali avanti, portali, che ti
farà bene. Non solo ascoltarli, scriverli, no: prenderli e portarli avanti. E
questo ti cambia il cuore, questo ti fa crescere, questo ti fa maturare. E’ la
maturazione propria di un anziano.
Seminare odio e far
crescere l’odio, creare violenza e divisione è un cammino di distruzione, di
suicidio, di altre distruzioni.
4. I giovani non hanno l’esperienza delle due guerre. Io ho
imparato da mio nonno che ha fatto la prima, sul Piave, ho imparato tante cose,
dal suo racconto. Anche le canzoni un po’ ironiche contro il re e la regina,
tutto questo ho imparato. I dolori, i dolori della guerra… Cosa lascia una
guerra? Milioni di morti, nella grande strage. Poi è venuta la seconda, e
questa l’ho conosciuta a Buenos Aires con tanti migranti che sono arrivati:
tanti, tanti, tanti, dopo la Seconda Guerra Mondiale. Italiani, polacchi,
tedeschi… tanti, tanti. E ascoltando loro ho capito, tutti capivamo cos’era una
guerra, che da noi non si conosceva. Credo che sia importante che i giovani conoscano
gli effetti delle due guerre del secolo scorso: è un tesoro, negativo, ma un
tesoro per trasmettere, per creare delle coscienze. Un tesoro che ha fatto
anche crescere l’arte italiana: il cinema del dopoguerra è una scuola di
umanesimo. Che loro conoscano questo è importante, per non cadere nello stesso
errore. Che loro conoscano come cresce un populismo: per esempio, pensiamo al
’32-’33 di Hitler, quel giovanotto che aveva promesso lo sviluppo della
Germania dopo un governo che aveva fallito. Che sappiano come incominciano, i
populismi.
Non si può vivere
seminando odio. Noi, nell’esperienza religiosa della storia della religione,
pensiamo alla Riforma: abbiamo seminato odio, tanto, da ambedue le parti,
protestanti e cattolici. Questo l’ho detto esplicitamente a Lund [in Svezia,
nell’incontro ecumenico], e adesso da 50 anni lentamente ci siamo accorti che
non era quella la strada e stiamo cercando di seminare gesti di amicizia e non
di divisione. Seminare odio è facile, e non solo sulla scena internazionale,
anche nel quartiere. Uno va, sparla di una vicina, di un vicino, semina odio e
quando si semina odio c’è la divisione, c’è cattiveria, nella vita quotidiana.
Seminare odio con i commenti, con le chiacchiere… Dalla grande guerra scendo
alle chiacchiere, ma sono della stessa specie. Seminare odio anche con le
chiacchiere in famiglia, nel quartiere, è uccidere: uccidere la fama altrui,
uccidere la pace e la concordia in famiglia, nel quartiere, nel posto di
lavoro, far crescere le gelosie, le competizioni di cui parlava la prima
ragazza. Cosa faccio io – era la sua domanda – quando vedo che il Mediterraneo
è un cimitero? Io, Le dico la verità, soffro, prego, parlo. Non dobbiamo
accettare questa sofferenza. Non dire “ma, si soffre dappertutto, andiamo avanti…”.
No, questo non va. Oggi c’è la terza guerra mondiale a pezzetti: un pezzetto
qua, un pezzetto là, e là, e là… Guardate i luoghi di conflitto. Mancanza di
umanità, aggressione, odio fra culture, fra tribù, anche una deformazione della
religione per poter odiare meglio. Questa non è una strada: questa è la strada
del suicidio dell’umanità. Seminare odio, preparare la terza guerra mondiale,
che è in corso a pezzetti. E credo di non esagerare in questo. Mi viene in
mente – e questo va detto ai giovani – quella profezia di Einstein: “La quarta
guerra mondiale sarà fatta con le pietre e i bastoni”, perché la terza avrà
distrutto tutto. Seminare odio e far crescere l’odio, creare violenza e
divisione è un cammino di distruzione, di suicidio, di altre distruzioni.
Questo si può coprire [giustificare] con la libertà, si può coprire con tanti
motivi! Quel giovanotto del secolo scorso, negli anni ’30, lo copriva con la
purezza della razza; e qui, i migranti. Accogliere il migrante è un mandato
biblico, perché “tu stesso sei stato migrante in Egitto” (cfr Lv 19,34).
Poi pensiamo: l’Europa è stata fatta dai migranti, tante correnti migratorie
nei secoli hanno fatto l’Europa di oggi, le culture si sono mischiate. E
l’Europa sa bene che nei momenti brutti altri Paesi, dell’America, per esempio,
sia del Nord che del Sud, hanno accolto i migranti europei, sa cosa significa
questo. Noi dobbiamo riprendere, prima di esprimere un giudizio sul problema
delle migrazioni, riprendere la nostra storia europea. Io sono figlio di un
migrante che è andato in Argentina, e tanti, in America, tanti hanno un cognome
italiano, sono migranti. Accolti con il cuore e con le porte aperte. Ma la
chiusura è l’inizio del suicidio. E’ vero che si devono accogliere i migranti,
si devono accompagnare, ma soprattutto si devono integrare. Se noi accogliamo
“così” [come capita, senza un piano], non facciamo un bel servizio: c’è il
lavoro dell’integrazione. La Svezia è stata un esempio da più di 40 anni, in
questo. Io l’ho vissuto da vicino: quanti argentini e uruguayani, al tempo
delle nostre dittature militari, sono stati rifugiati in Svezia. E subito li
hanno integrati, subito. Scuola, lavoro… Integrati nella società. E quando
l’anno scorso sono stato a Lund, mi ha ricevuto all’aeroporto il Primo Ministro,
e poi, siccome non poteva venire lui a congedarsi, ha inviato una Ministro,
credo della cultura… In Svezia, dove sono tutti biondi, questa era un po’
bruna: una Ministra della cultura così… Poi ho saputo che era figlia di una
svedese e di un migrante dell’Africa. Così integrata che è arrivata a essere
Ministra del Paese. Così si integrano le cose. Invece, la tragedia che tutti
ricordiamo di Zaventem [in Belgio], non era stata fatta da stranieri: l’hanno
fatta giovani belgi! Ma giovani belgi che erano stati ghettizzati in un
quartiere. Sì, sono stati ricevuti ma non integrati. E questa non è la strada.
Un governo deve avere – questi sono i criteri – il cuore aperto per ricevere,
le strutture buone per fare la strada dell’integrazione e anche la prudenza di
dire: fino a questo punto, posso, oltre non posso. E per questo è importante
che tutta l’Europa si metta d’accordo su questo problema. Al contrario, il peso
più forte lo portano l’Italia, la Grecia, la Spagna, Cipro un po’, questi
tre-quattro Paesi… E’ importante.
Ma, per favore, non seminare odio. E oggi, io chiederei per
favore a tutti di guardare il nuovo cimitero europeo: si chiama Mediterraneo,
si chiama Egeo.
Dalle radici degli anziani, scorre la linfa di un popolo
5. Ho avuto un’esperienza di dialogo con
gli anziani, per caso, da ragazzo. Mi piaceva ascoltarli.
E’ stata una bella
esperienza, con gli anziani, non mi spaventavano. Stavo sempre con i giovani,
ma… E con queste esperienze ho capito la capacità di sognare che hanno gli
anziani, perché c’è sempre un consiglio: “Vai così, fai questo…, ti racconto
questo, non dimenticarti di questo…”. Un consiglio non imperativo, ma aperto, e
con tenerezza. E questi consigli mi davano un po’ il senso della storia e
dell’appartenenza. La nostra identità non è la carta d’identità che abbiamo: la
nostra identità ha delle radici, e ascoltando gli anziani noi troviamo le
nostre radici, come l’albero, che ha le proprie radici per crescere, fiorire,
dare frutto. Se tu tagli le radici all’albero, non crescerà, non darà dei
frutti, morirà, forse. C’è una poesia – l’ho detto tante volte – una poesia
argentina di uno dei nostri grandi poeti, Bernardez, che dice: “Quello che
l’albero ha di fiorito, viene da quello che ha di sotterrato”. Ma non un andare
alle radici per chiudersi lì, come un conservatore chiuso, no. E’ fare – e
questo l’ho sentito nell’Aula del Sinodo, uno di questi vescovi saggi lo ha
detto – è fare come il tartufo – è costoso, il tartufo! –: nasce vicino alla
radice, assimila tutto e poi, guarda che gioiello, il tartufo! E come fa male
alle tasche, per averne uno!
Prendere la linfa dalle radici, le storie, e questo ti dà
l’appartenenza a un popolo. E poi questa appartenenza è quello che ti dà
l’identità. Se mi dici: perché oggi ci sono tanti giovani “liquidi”?, in questa
liquidità culturale che è alla moda, che tu non sai se sono “liquidi” o
“gassosi”… Non è colpa loro! E’ colpa di questo staccarsi dalle radici della
storia. Ma non si tratta di essere come loro [gli anziani], ma di prendere il
succo, come il tartufo, e crescere e andare avanti con la storia. Identità,
appartenenza a un popolo.
E infine, la figura
biblica: quando Maria e Giuseppe portano il Bambino al Tempio, sono due anziani
a riceverli. Quell’uomo saggio [Simeone] che ha sognato tutta la vita di
incontrare, di vedere il Liberatore, il Salvatore. E canta quella liturgia,
inventa una liturgia di lode a Dio. E quell’anziana [Anna] che stava nel
Tempio, con la stessa speranza, e fa la chiacchierona e va dappertutto a dire:
“E’ questo, è questo…”, sa trasmettere quello che ha scoperto nell’incontro con
Gesù. Quell’immagine dei due vecchi. La Bibbia ripete che sono spinti dallo
Spirito. E dice che i giovani, Maria e Giuseppe, con Gesù, vogliono osservare
la Legge del Signore. E’ un’immagine molto bella del dialogo e della ricchezza
che si dà in questo, che è ricchezza di appartenenza e di identità.
la saggezza del
piangere, il dono del piangere: davanti a queste violenze, a questa crudeltà, a
questa distruzione della dignità umana, il pianto è umano e cristiano. La via
dell’empatia, della vicinanza, della nonviolenza, della mitezza, della
tenerezza
6. “Come, in che modo la fede di una giovane donna o di un
giovane uomo può sopravvivere a questo uragano? Come possiamo aiutare la Chiesa
in questo sforzo?”. E’ la domanda. E’ un uragano, davvero. Anche quando noi
eravamo bambini si manifestava un fenomeno che sempre c’è stato, ma non così
forte… Oggi si vede più chiaramente quello che la crudeltà può fare in un
bambino… Il problema della crudeltà: come si agisce rispetto alla crudeltà?
Crudeltà dappertutto. Crudeltà fredda nei calcoli per rovinare l’altro… E una
delle forme di crudeltà che mi colpisce, in questo mondo dei diritti umani, è
la tortura. In questo mondo, la tortura è pane quotidiano, e sembra normale, e
nessuno parla. La tortura è la distruzione della dignità umana
Come agire rispetto
alla crudeltà? La grande crudeltà – ho parlato della tortura – e la piccola
crudeltà che c’è tra noi? Come insegnare, come trasmettere ai giovani che la
crudeltà è una strada sbagliata, una strada che uccide, non solo la persona,
anche l’umanità, il senso di appartenenza, la comunità? E qui, c’è una parola
che dobbiamo dire: la saggezza del piangere, il dono del piangere. Davanti a
queste violenze, a questa crudeltà, a questa distruzione della dignità umana,
il pianto è umano e cristiano. Chiedere la grazia delle lacrime, perché il
pianto ammorbidisce il cuore, apre il cuore. E’ fonte di ispirazione, piangere.
Gesù, nei momenti più sentiti della sua vita, ha pianto. Nel momento in cui Lui
ha visto il fallimento del suo popolo, ha pianto su Gerusalemme. Piangere. Non
abbiate paura di piangere per queste cose: siamo umani.
Poi, condividere l’esperienza, e torno a parlare del
dialetto e dell’empatia. Condividere l’esperienza con empatia, con i giovani:
non si può avere una conversazione con un giovane senza empatia. Dove trovo
questa empatia? Non condannare i giovani, come i giovani non devono condannare
gli anziani, ma avere l’empatia: l’empatia umana. Io me ne vado perché sono
vecchio, ma tu rimarrai, e questa è l’empatia della trasmissione dei valori.
E poi, la vicinanza. La vicinanza fa miracoli. La
nonviolenza, la mitezza, la tenerezza: queste virtù umane che sembrano piccole
ma sono capaci di superare i conflitti più difficili, più brutti. Non avere paura. Vicinanza ai problemi. E
vicinanza tra giovani e anziani. Sono poche cose: mitezza, tenerezza,
vicinanza. E così si trasmette un’esperienza e si fa maturare. I giovani, noi
stessi e l’umanità.