Prospettive di riforma dal basso
La storia dell’attuazione dei principi innovativi del Concilio Vaticano 2^ (1962-1965) dimostra chiaramente che la nostra Chiesa non è attualmente riformabile né nelle sue strutture centrali né nei vertici del potere locale, vale a dire negli episcopati. Troppo intensa è ancora la sacralizzazione di queste strutture di governo, organizzata dalle teologie proprio al fine di renderle resistenti alle riforme. Per nostra buona sorte il loro potere politico è stato molto limitato dai processi democratici sviluppatisi nelle società europee e dunque, benché palesemente obsolete e declinanti, non vi è reale urgenza di impegnarsi in un contrasto frontale e radicale. Altra fu, ad esempio, la situazione dei rivoluzionari repubblicani che nel 1849 sentirono la necessità politica di abbattere il regno del Papato a Roma (anche in quel caso senza metterne in questione il Primato in ambito religioso).
Le innovazioni sono possibili solo a partire dal livello di base, in particolare da un’istituzione di prossimità territoriale come la parrocchia, nella quale si vive un certo pluralismo. Quest’ultimo è il principale problema con cui ci si deve confrontare.
Non sono un teologo, ma mi sono reso conto, da semplice lettore che cerca di essere colto, che la teologia può essere affascinante. In teologia si possono però progettare entusiasmanti riforme, che non avranno mai, tuttavia, la minima possibilità di essere attuate. Così assisto con una certa diffidenza al rifiorire di tanti studi su ciò che oggi viene definito “stile sinodale”, e quelli di cui sono consapevole sono certamente solo una piccola parte di quelli esistenti, perché abitualmente non mi accosto alla letteratura del ramo.
La teologia ha preparato il processo di riforma del Concilio Vaticano 2^, è stata la lingua principalmente parlata in quella assise e la cultura di riferimento della sua fase attuativa, che però dobbiamo riconoscere realisticamente essere abortita. Ha aperto delle prospettive, fin dove ha potuto, in particolare asseverando l’ortodossia del nuovo corso, ma ha anche creato ostacoli insuperabili nella fase di edificazione sociale, in particolare costruendoli sistematicamente e ideologicamente come insuperabili e poi attestandone l’insuperabilità. Qualcosa del genere accadde nella controversia sulla dottrina della cosiddetta giustificazione, che, quando le condizioni sociali per la pacificazione maturarono, fu composta rapidamente senza particolari insuperabili difficoltà teologiche nel 1999 ad Augsburg (Augusta) con le Chiese luterane, accordo a cui successivamente aderirono altre importanti Chiese protestanti. Il Pontificio Consiglio per l’unitá dei cristiani, dopo aver dichiarato incredibilmente che “non vi era stato alcun rinnegamento del passato”, ammise che quello che definì “comune passo in avanti” era stato “reso possibile dal clima di fiducia reciproca”. Ecco, questa è la vera straordinaria novità dei tempi nostri, rispetto ai secoli delle tremende stragi e persecuzioni fondate su diversità di vedute sulle relative definizioni teologiche, in realtà causate da controversie politiche. Il miracolo del “clima di fiducia reciproca” è stato prodotto dai valori delle democrazie europee, le quali, riducendo le sacralizzazioni dei poteri politici civili e religiosi ne ha creato le condizioni, superando l’oltranzismo teologico.
Se si afferma che il potere di una persona è voluto dal Cielo, e solo dal Cielo legittimato, e che è dunque obbligo religioso sottomettervicisi docilmente senza possibilità di discuterlo, perché qualsiasi critica ad esso distrugge l’armonia tra Cielo e Terra e dunque la società che su tale armonia si pensa fondata, per cui è peccato contro il Cielo, e in questo appunto consiste la sacralizzazione del potere sociale, allora la riforma è impossibile senza traumatiche divisioni e poi la guerra tra i monconi che ne derivano. Questa è stata sempre, in sintesi, la storia dei cristiani, e di ogni ideologia politica sacralizzata secondo cristianesimi. Quel clima di fiducia reciproca che ha consentito l’accordo di Ausburg del ’99, il prodigio dei nostri tempi, è il ripudio di un orrendo passato, del quale anche la teologia di corte degli autocrati che lo macchiarono di sangue e che trascinarono popoli interi in conflitti che smentirono ogni principio sociale cristiano porta gravi colpe. Ecco che l’istituzione dichiara però di non voler rinnegare quel passato e quindi, sostanzialmente, di sentirsene ancora legata in altre questioni, ad esempio, ipotizzo, quando si parla di riforma ecclesiale.
Di solito, nella teologia cattolica, ci si sente riformatori quando si auspica un’estensione della collegialità episcopale nei confronti dell’autocrazia papale (ne parlo in questi termini perché così è definita dal diritto canonico), ma questa visione appare oggi obsoleta: sono lo stesso episcopato monarchico e la gerarchia episcopale nel suo insieme a creare problemi organizzativi, in quanto poteri che si vuole mantenere autocratici anche al di lá delle funzioni di Magistero o di quelle liturgiche, ad esempio, addirittura, nella gestione di quel simulacro di stato che è la Città del Vaticano a Roma o di una complessa azienda come quelle espresse dalle organizzazioni di beni e personale di grandi Diocesi, con grandi patrimoni e flussi finanziari da amministrare. È in questione quello che fu al centro del Concilio Vaticano 2º, vale a dire il popolo di Dio, ma senza che siano indispensabili, per le riforme organizzative che servono, ulteriori diatribe teologiche e, in particolare, indagare per cercare in un lontano passato delle Chiese cristiane quello che oggi occorre, ciò in quanto in quel passato esso non c’è perché a quei tempi si volle creare politicamente, qui sulla Terra, quel “regno” che il Maestro aveva rifiutato, nascondendosi alla folla che voleva farlo re al modo in cui lo erano gli altri re della sua epoca, vale a dire l’origine di gran parte dei nostri attuali problemi ecclesiali
Date le condizioni attuali, la riforma della nostra Chiesa non deriverà verosimilmente da un concilio o da un sinodo di autocrati religiosi e loro consiglieri e invitati che approvi una qualche costituzione, ma da una prassi sociale che, nelle realtà di base, dalla gente di fede, consenta l’ampia e costante sperimentazione di un clima diffuso di amichevole compartecipazione e di fiducia reciproca, nel quadro di una maggiore consapevolezza religiosa, superando l’attuale deplorevole carenza formativa che è la vera causa della dispersione religiosa in Europa, in un popolo che si vorrebbe ancora tenere nello stato di gregge mentre è fatto di persone umane, con menti e cuori, non dunque costituito semplicemente solo per obbedire docilmente ad ogni dettato dei suoi gerarchi.
Vedo nella parrocchia l’istituzione che, nel giro di una generazione – l’inculturazione della riforma deve essere un processo graduale, ampio e progressivo, quindi lento, misurato sul passo di chi va più piano – potrebbe essere l’ambiente in cui suscitare un nuovo fecondo modo, secondo l’agápe evangelica, di vivere la Chiesa. Bisognerebbe partire da questo: creare progressivamente, ad ogni livello della vita parrocchiale, vere sedi di compartecipazione amichevole dove, senza tirare in ballo l’ecclesialese, l’urtante e confuso gergo a sfondo teologico parlato dai dirigenti ecclesiali che organizzano il laicato, si affermi il principio che proposta e critica sono sempre ammesse nella misura in cui chi propone e critica è realmente disposto a contribuire a un progetto comune con propri personali tempo, energie e affetto, e non condizioni la propria disponibilità all’accoglimento integrale delle proprie vedute (principi della solidarietà e del pluralismo).
Mario Ardigó – Azione Cattolica in San Clemente papa- Roma, Monte Sacro - Valli