Cambiare in parrocchia
La parrocchia, in genere e nel caso della nostra, è un’istituzione comunitaria: è scritto nel diritto canonico, che è il diritto della nostra Chiesa (canoni 515-572). In ciò la sua configurazione è stata cambiata con il nuovo Codice di diritto canonico, deliberato nel 1983, che ha sostituito il precedente, del 1917, per seguire i principi decisi nel corso del Concilio Vaticano 2º (1962-1965): ci vollero quasi vent’anni, indizio eclatante delle difficoltà che ci furono nell’applicarli. L’operazione non riuscì bene. Nella parrocchia istituzione comunitaria, infatti, la comunità non conta nulla: la parrocchia, dal punto di vista giuridico, è governata monarchicamente, in tutto, dal parroco, e gli altri, il clero e i laici che con lui collaborano, non sono nient’altro che esecutori o consulenti.
Naturalmente talvolta vi può essere un governo parrocchiale con elementi di reale compartecipazione, ma questo dipende solo dal parroco, che può anche revocarla accentrando nuovamente. L’arrivo di un nuovo parroco determina quindi l’inizio di una nuova era nella parrocchia. Così è stato nella nostra parrocchia, che nella sua storia ha avuto solo tre parroci, don Vincenzo Pezzella dalla fondazione, negli anni Cinquanta, al 1983, don Carlo Quieti, dal 1983 al 2015, don Remo Chiavarini dal 2015 a tutt’oggi. Questa situazione dovrebbe essere corretta e lo si può fare utilizzando innovativamente i limitatissimi spazi di compartecipazione consentiti dalle norme canoniche vigenti, per far emergere la comunità e una tradizione. Lo si è iniziato a fare in molte parrocchie italiane, con alterni e in genere non stabili risultati, per come mi pare di capire.
Non è necessario, è anzi fortemente sconsigliabile, pasticciare con la teologia: quella che c’è nei documenti del Concilio Vaticano 2^ basta e avanza. Riscosse un vastissimo consenso tra i padri conciliari e nel travagliato processo applicativo dei princìpi conciliari è stata anche in qualche modo inculturata nella gente, anche se la consapevolezza che in genere se ne ha non mi pare sufficiente.
Piuttosto, vanno fatti approfondimenti sulla storia recente dell’Europa, che è il contesto culturale in cui ci muoviamo (è una via improduttiva sognare di riprodurre epoche del passato, fosse anche quello delle origini), e acquisire un’informazione sintetica delle evoluzioni ecclesiali dei secoli precedenti. Questo è un lavoro che in genere non si fa, o, se si fa, è svolto più che altro con finalità apologetiche, che è un modo di definire una propaganda religiosa non di rado caratterizzata da una certa faziosità.
San Karol Wojtyla, nel suo ministero di Papa, in preparazione del Grande Giubileo dell’Anno 2000, ci guidò nel difficile impegno che definì di purificazione della memoria, che consiste nel fare memoria veritiera del nostro passato ecclesiale per non ripeterne gli orrori, cercando invece di prendere esempio dal bene che espresse. Ricordo che, in questo, fu duramente criticato dai teologi di corte, oltre che da tutti coloro che accettavano tutto quel passato come perdurante modello per i nostri tempi, resistendo ai cambiamenti.
Così non di rado, in genere inconsapevolmente però, si ripetono gli errori del passato, ed è solo perché viviamo in una democrazia che le cose non assumono una brutta piega. Ad esempio, mi è capitato di udire persone palesemente incolte in teologia scagliare anatemi accusando gli altri di eresia, perché in disaccordo con loro su certi modi di vedere. E, poveretti, nemmeno si rendevano conto che, cosi facendo, davano scandalo, allontanando gente dalla Chiesa, con ciò che ne consegue secondo il monito evangelico.
Spesso sento favoleggiare delle Chiese delle origini, su cui non sappiamo molto di affidabile e ciò che si sa non mi entusiasma molto: furono piuttosto bellicose, rigidissime nello scontrarsi per ragioni di definizioni teologiche, tanto che già l’apostolo delle Genti Paolo implorò i Galati almeno di non distruggersi a vicenda (Gal 5,15). Resici consapevoli di quel passato non dovremmo cercare di riprodurlo integralmente, anche in quegli atteggiamenti intolleranti che fecero tanto soffrire.
Come ci insegnò don Remo il giorno che iniziò il suo ministero tra noi, è molto importante volersi bene, nonostante le diversità di vedute su come vivere la fede. Ce ne vogliamo? Dico in concreto, non a parole. E spesso, come lamenta anche il Papa, sono proprio le parole lo strumento per farci del male, per ferire, allontanare, escludere, discriminare. Una piaga ricorrente in tutte le parrocchie che ho vissuto. I preti, purtroppo, ne sono le prime vittime.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli