Piazza
Fontana e altre stragi
1. Un’amica di mia
figlia le ha chiesto di sollecitarmi a manifestare ciò che penso della strage
di piazza Fontana, a Milano, compiuta il 12 dicembre 1969. Non credo che da me voglia
sapere quello che tutti possono leggere
sui libri di storia e quello che è stato scritto in questi giorni sulla stampa
e sul WEB e detto in radio e
televisione, facendo memoria
dell’anniversario di quell’evento, ma di come vissi personalmente
quell’episodio tragico, anche se inevitabilmente occorrerà accennare ai risultati
della storiografia su quel fatto. A quell’epoca io c’ero già, ma avevo dodici
anni, facevo le medie e, devo precisarlo, non avevo ancora maturato una coscienza
politica da cittadino, senza la quale non si può andare molto in là nello
sforzo di capire il senso di ciò che allora accadde. Cominciai ad averla solo
molto più tardi, in particolare, credo, dall’ultimo anno delle superiori, quando, nel
1975, nel mio nuovo liceo, mi ci ero trasferito proprio quell’anno, con alcuni amici organizzammo una formazione
per presentarci alle prime elezioni per gli organi collegiali della scuola, nei
quali era prevista una componente studentesca. Il nostro gruppo si chiamava Partecipazione studentesca ed era una
coalizione tra giovani cattolici sociali e socialisti. Preciso che a
quell’epoca quelle non erano solo etichette,
ma in merito si aveva una consapevolezza ideologica molto più completa di
quella che vedo espressa dai ragazzi di oggi (e chiamo ragazzi le persone fino all’ultimo anno delle superiori, poi sono uomini e donne,
nonostante che oggi ci sia l’abitudine di dare del ragazzo anche a un trentenne).
Io mi ero formato tra i cattolici e avevo recepito le idee di riforma sociale
del Concilio Vaticano 2°, che mi erano giunte dai miei familiari. Da
quell’epoca non ho più cambiato idea, mi sono solo limitato ad approfondirla,
in particolare scoprendo le profonde relazioni che legavano il pensiero
cattolico sociale ad altre componenti culturali
e altri movimenti politici della società italiana.
Negli anni del liceo a scuola ci si riuniva
spesso, quasi ogni settimana se ben ricordo, in quelli che venivano chiamati collettivi, animati in genere da studenti
comunisti e socialisti. Lì sentii discutere dei problemi giudiziari e storici
relativi alla ricostruzione di fatti stragisti di quegli anni (la strage di
piazza Fontana fu la prima di altri attentati stragisti, fino a quello del 1984
su un treno in una galleria tra Toscana ed Emilia). Iniziai a sentire
l’espressione strategia della tensione
che significava questo: per favorire un governo autoritario contrario alle
riforme sociali in favore dei ceti meno ricchi della popolazione, sostenute dai
comunisti italiani e da altre forze socialiste, si facevano attentati in luoghi
affollati per generare una paura collettiva che portasse ad invocare l’uomo forte che riportasse ordine con
metodi spicci, al di fuori delle ordinarie procedure democratiche che
sembravano stessero portando al potere le Sinistre.
Alcuni temevano anche una vera e propria
rivoluzione comunista, fatta per rovesciare con la
violenza le classi che controllavano il governo e la società, e si dicevano
disposti a tutto pur di impedirla. In
Italia c’era anche chi in quegli anni considerò
possibile qualcosa di simile alle esperienze golpiste della Giunta militare
greca di Giorgios Papadopulos (1967) o di
quella cilena di Augusto Pinochet (1973): entrambe avevano rovesciato governi
democratici dichiarando di voler impedire un colpo di stato comunista. Insomma,
una strategia politica di Destra estrema
contro il pericolo di colpo di stato di Sinistra
estrema, in particolare di un colpo
di stato comunista: questa, sostanzialmente, la strategia
della tensione.
Ma, era
credibile, nell’Italia di quegli anni, il pericolo dell’imposizione di un regime
comunista per via rivoluzionaria o che si producesse un risultato analogo a
seguito di procedure democratiche, in particolare a seguito del risultato di
elezioni politiche nazionali? Per rispondere bisogna ricordare un dato storico
molto rilevante, che di solito non si trova nelle spiegazioni storiche di
quegli anni dedicate al grande pubblico.
Fino all’inizio degli anni, ’90 l’Europa
orientale, i tedeschi della Repubblica Democratica Tedesca - DDR, gli slavi, i
baltici, gli ungheresi, i bulgari, i romeni, gli altri popoli balcanici fino
alla frontiera greca, erano dominati da regimi comunisti di tipo
marxista-leninista, in una variante stalinista più o meno accentuata. In genere
consideriamo la loro esperienza politica e civile secondo l’orientamento
storiografico degli Europei Occidentali e dei Nord Americani, che mettono in
risalto una loro caratteristica molto importante e indubbiamente vera, vale a
dire il divieto assoluto e la repressione con gravi pene criminali della
critica sociale e politica al partito comunista, unico consentito o a volte
insieme ad altre formazioni minori di categoria comunque ad esso collegate, ai
suoi capi politici e agli esponenti di governo, quindi la mancanza della
libertà politica e civile secondo i costumi democratico-liberali scaturiti
dalle civiltà europee occidentali. Ma vi erano altri aspetti che, e a noi
sembra incredibile, li rendevano attraenti per le masse dei miseri delle
nazioni occidentali e di altre parti nel mondo, alle quali sembrava impossibile un reale riscatto dalle
loro difficili condizioni vigendo le condizioni dell’economia capitalista:
nelle società comuniste non vi era disoccupazione, che anzi era addirittura
vietata, non ci si doveva dannare per trovare un’abitazione che era assicurata
a tutti, le cure sanitarie erano gratuite per tutti così come l’istruzione di
base e quella delle scuole superiori, e anche la formazione universitaria per
coloro che vi erano ammessi era gratuita,
tutti disponevano di un minimo di risorse per i bisogni essenziali, si
era realizzata una reale eguaglianza tra la condizione maschile e femminile,
l’assistenza per la vecchiaia era garantita così come le opportunità di riposo
in ferie sufficientemente prolungate e retribuite, il risparmio privato non
speculativo era ammesso e veniva riconosciuto un interesse fisso non
condizionato dall’andamento dei mercati finanziari. Tutte queste prestazioni
rientrano in quelle di giustizia sociale, tese a riequilibrare le
diseguaglianze eccessive prodotte dal sistema politico - economico -
finanziario - giuridico, per garantire un benessere diffuso. Certo, le società
comuniste dell’epoca apparivano, oltre che oppresse da un’intransigenza
poliziesca, piuttosto povere rispetto a
quelle ad economia capitalista, ma in queste ultime la povertà estrema era
molto più accentuata, questo il loro paradosso tenendo conto che in esse vi
erano anche punte di ricchezza estrema. Nelle società comuniste, in definitiva, in genere non ci si doveva dannare per
sopravvivere, anche se si era soggetti all'arbitrio di una onnipresente polizia politica. I risultati di giustizia sociale ottenuti nei regimi comunisti
potevano essere ottenuti, e anzi migliorati, in un
ambiente di democrazia popolare ma liberale, caratterizzato da limiti
invalicabili ad ogni potere pubblico a garanzia dei diritti fondamentali di
libertà e da procedure politiche democratiche? In Italia, negli anni ’60 e ’70 si pensò che fosse possibile e, in
realtà, in quell’epoca la condizione della generalità degli italiani migliorò
sensibilmente per le politiche sociali attuate dai governi di allora,
certamente influenzate dai socialismi italiani. Importantissime furono le
riforme nel campo dei diritti dei lavoratori sul posto di lavoro e al posto di
lavoro, l’istituzione di un sistema di istruzione pubblica gratuita che
consentiva a tutti l’accesso ai più alti gradi di formazione, l’istituzione di
un sistema sanitario che garantiva a tutti i cittadini, e a certe condizioni
anche agli stranieri residenti, cure gratuite per la gran parte delle patologie,
in particolare per quelle più gravi, la legge detta dell’equo canone che mise al
riparo gli prendeva in affitto un’abitazione da eccessive pretese dei
proprietari. Le risorse per finanziare questo sistema di innovazioni sociali
furono raccolte mediante la riforma del sistema tributario, quindi delle tasse, che consentì un aumento del
gettito fiscale, e anche mediante il ricorso al debito pubblico e la manovra monetaria, all’epoca sotto il
controllo del Governo non di autorità indipendenti. Questo, anche a causa di gravi crisi economiche e finanziarie
prodottesi negli anni Settanta, in particolare per l’improvviso rialzo dei costi
del petrolio per ragioni politiche internazionali, ebbe tra gli effetti
controproducenti una forte inflazione, che finiva per colpire duramente,
falcidiandone il valore reale dei redditi e dei risparmi, soprattutto coloro, come i lavoratori
dipendenti, gli artigiani e i piccoli imprenditori, che non avevano modo di
trasformare le proprie risorse finanziarie in valuta straniera pregiata. Da
questo ci protegge ora il sistema della moneta unica europea. L’altro effetto
controproducente fu l’inasprirsi del conflitto tra classi sociali, che
politicamente si espresse in quello tra Destra
e Sinistra.
In
definitiva, la giustizia sociale nel senso indicato dai socialismi italiani, e
anche dal cattolicesimo sociale italiano secondo l’orientamento della dottrina
sociale cattolica, ma anche, per certi versi, dai comunismi dell’Europa
orientale, era realmente attraente per i ceti popolari italiani, i quali
avevano anche sperimentato che i governi democratici sensibili a quell’aspirazione
producevano politiche che portavano risultati in quel senso. Una versione democratica
di socialismo, instaurata con procedure democratiche e mantenuta nella democrazia,
era effettivamente realizzabile nell’Italia
degli anni ’70, e allora sarebbe stata l’unica versione democratica di
socialismo mai storicamente realizzata e avrebbe potuto costituire un modello
per altre nazioni. Alle elezioni regionali del 1975 il Partito Comunista
Italiano conseguì il suo miglior risultato storico e nel ‘78 un governo monocolore democristiano
ebbe il suo appoggio. Ma poi prevalse un altro socialismo democratico, quello
che guidato da Bettino Craxi, a lungo
Presidente del Consiglio del decennio seguente, confidò di coniugare riformismo
e capitalismo liberista producendo un modello di sviluppo del quale potessero
beneficiare anche i ceti meno ricchi, per sgocciolamento
dai più ricchi agli altri. L’Italia
di oggi è in gran parte il risultato di quell’ideologia. A voi il giudizio su
di essa.
Destra / Sinistra. Storicamente
in Italia coloro che si opponevano ad interventi sociali dello Stato in
favore dei ceti meno favoriti, quindi a tutto ciò che va sotto il nome di giustizia sociale e che significa fare leggi per correggere i
rapporti economici e sociali e per trasferire risorse verso chi sta peggio, si
sono collocati nella parte di destra dei banchi dell’aula parlamentare rispetto
alla Presidenza dell’assemblea, seguendo una consuetudine che risale alla
Francia rivoluzionaria di fine Settecento,
e quindi vengono definiti Destra.
In una concezione di Destra ognuno deve avere e mantenere il suo sulla
base di ciò che è stato capace di conseguire in società per quello che è ed ha
fatto. Si ritiene ingiusta una tassazione per togliergli qualcosa per darla ad
altre categorie sociali. Si ammettono tasse solo per la sicurezza pubblica,
guerra, polizia, vigili del fuoco, l’amministrazione della giustizia, tribunali e
penitenziari, i servizi pubblici di
base, come strade, illuminazione pubblica, pulizia delle città, costruzione di
edifici pubblici e di grandi infrastrutture pubbliche, l’istruzione primaria e
i servizi sanitari d’emergenza. Il resto ognuno se lo dovrebbe pagare da sé,
secondo ciò che possiede. All’opposto, comunisti e socialisti: la Sinistra. In una concezione di sinistra,
le diseguaglianze sociali dipendono dal fatto che alcuni ceti sono stati
ingiustamente favoriti dalle politiche pubbliche, che erano riusciti a
controllare. Secondo quest’ordine di
idee, occorre un’azione pubblica per impedire che esse, approfondendosi,
privino le persone dei beni essenziali per una vita dignitosa. Servono quindi
riforme per sviluppare queste politiche sociali: dal Secondo dopoguerra le Sinistre italiane progettarono di attuarle con metodi
democratici, valendosi delle opportunità offerte dalla nuova Costituzione
repubblicana, entrata in vigore il 1 gennaio 1948, fortemente riformista in quel senso perché formulata con il loro importante contributo. Un colpo di stato comunista non era quindi
seriamente prevedibile in Italia negli anni ’60
e ‘70, anche se vi fu chi pensò di riuscire a suscitarlo con azioni
violente e terroristiche: queste formazioni, che si definivano comuniste e che furono fortemente osteggiate dal Partito
Comunista Italiano, non ebbero però mai un consistente seguito nella
popolazione, anche tra quella operaia, pur arrivando a coinvolgere
complessivamente, si stima, alcune decine di migliaia di aderenti, solo una
minoranza dei quali furono realmente combattenti in clandestinità, quindi terroristi nel senso che all’epoca si
intendeva con questa parola e che non coincide con il senso che oggi le si dà. Va detto che anche la Destra con origini
anti-democratiche, quella scaturita e animata dai reduci del regime fascista
mussoliniano, nel corso della storia della repubblica democratica sempre più
assimilò il metodo democratico distaccandosi dal modello autoritario delle
origini e, in sostanza, dall’idea di poter
riproporre l’esperienza fascista sia pure adattata ai tempi nuovi, ad
esempio sul modello del Franchismo spagnolo. Negli anni ’70, però, per come mi fu
dato di constatare, vi erano in quella parte politica, ad esempio tra i miei
compagni di classe che aderivano ad un movimento giovanile di
quell’orientamento, molti estimatori del fascismo mussoliniano, del quale si
avevano informazioni molto precise dai reduci di quell’esperienza politica
ancora attivi nella società.
Vi furono, quindi, nell’Italia della
Repubblica democratica, formazioni di Destra
e di Sinistra democratiche,
rispettose dell’ordine costituzionale, e formazioni di Destra e di Sinistra eversive dell’ordine democratico, che
produssero negli anni ’70 e ’80 varie
forme di terrorismo politico. Le prime prevalsero sempre. L’eversione sedicente
comunista non raggiunse mai la forza politica e sociale per ambire seriamente
alla conquista del governo nazionale; questo privò l’eversione di Destra di ogni giustificazione a forzature
autoritarie come soluzioni di emergenza contro il pericolo di un colpo di stato
comunista, sugli esempi delle Giunte militari greche e cilene protagoniste di colpi
di stato con pretesti anticomunisti (per altro in nazioni nelle quali il pericolo comunista, a ben
considerare, rimase sempre un’immagine propagandista, non una realtà, perché i
militari insorsero contro regimi democratici).
Leggo nel libro di storia per le superiori di
Andrea Giardina, Giovanni Sabbatucci, Vittorio Vidotto, Nuovi profili storici - 3 - Dal 1900 ad oggi, Laterza, pag.709-710,
che consiglio a tutti coloro che vogliono approfondire la propria fede, la
quale come fatto sociale richiede di migliorare la propria conoscenza dei fatti
sociali:
«Nei primi anni ’70 la debolezza
dell’esecutivo di fronte alle tensioni della società apparve in tutta la sua evidenza non solo nelle frequenti crisi governative,
ma anche nel modo in cui fu affrontato il primo manifestarsi del terrorismo
politico. Il 12 dicembre 1969, in pieno “autunno caldo”, una bomba esplosa a
Milano, in piazza Fontana, nella sede della Banca dell’Agricoltura, provocò 17
morti e oltre 100 feriti. L’incapacità di risolvere il caso, di cui dettero
prova gli apparati dello Stato, fu messa sotto accusa dall’opinione pubblica e
dalla stampa di sinistra, che individuò nell’estrema destra fascista la matrice
politica dell’attentato e denunciò le pesanti responsabilità dei servizi di
sicurezza nel deviare le indagini verso un’improbabile «pista anarchica». Si
parò allora di una strategia della tensione messa in atto dalle forze di destra
per incrinare lo stato democratico e favorire soluzioni autoritarie.
[…]
Un fenomeno [quello del dilatarsi del terrorismo di destra e di
sinistra] che, nelle sue prime manifestazioni fu giudicato come un fatto
episodico e sostanzialmente estraneo al tessuto civile del paese, ma che doveva
restare invece per molti anni un elemento permanente e disgregante della vita
politica italiana.
Opposti nella loro matrice ideologica, i due terrorismi, quello nero e
quello rosso, erano diversi anche nel modo di operare. Il tratto
distintivo del terrorismo di destra fu
il ricorso ad attentati dinamitardi in
luoghi pubblici, che provocavano stragi indiscriminate, col probabile scopo, di
diffondere il panico nel paese e di favorire una svolta autoritaria. Dopo la
strage di piazza Fontana, vi furono le bombe in piazza della Loggia nel maggio
1974, Sei anni dopo l’attentato più terribile e per molti aspetti inspiegabile,
quello del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna, con oltre 80 morti. La
ragionevole convinzione di larga parte dell’opinione pubblica che attribuì le
stragi ad esponenti della destra eversiva, con la complicità dei servizi
segreti, pur confortata da molti riscontri investigativi, non trovò per la
maggior parte dei casi, la conferma della magistratura giudicante. Solo per
l’attentato di Bologna si giunse a una sentenza definitiva (ma da molti
criticata per la debolezza dell’impianto accusatorio) contro alcuni terroristi
di destra. Spettava comunque al potere
politico la responsabilità di non aver saputo indirizzare l’azione dei servizi
di sicurezza e di non aver posto rimedio alle loro inefficienze o alle loro
deviazioni dai compiti istituzionali.»
Questo è la sintesi del risultato
a cui è pervenuta quella che è accreditata come la miglior scienza storica
nazionale.
Quanto ai fatti del 12 dicembre 1969, va ricordato che quel giorno non
vi fu solo l’attentato a Milano, in piazza Fontana, ma vi furono anche due
attentati a Roma, alla Banca Nazionale di Roma
in via Veneto, e all’Altare della
Patria a piazza Venezia, con diversi feriti. La concatenazione evidente degli
attentati accredita l’idea di un programma
stragista e quindi di una strategia.
Personalmente, partecipando sempre più
consapevolmente alla vita politica e civile italiana nel corso degli anni ’70,
ne ricavai una decisa convinzione democratica e non fui mai tentato o attratto,
come invece alcuni coetanei che conobbi intorno a me, da ogni forma di violenza
politica o di adesione a concezioni politiche autoritarie o totalitarie, di
estrema Destra o di estrema Sinistra, qualsiasi pretesto si desse loro. Aggiungo che
fui fortemente disgustato della violenza diffusa che in quegli anni vedevo
intorno a me, a partire dalla mia
scuola, situata in un quartiere costruito dal fascismo mussoliniano e ancora abitato da molte famiglie borghesi che
a quell’epoca vi si erano insediate e che di quel regime politico si
manifestavano spesso sinceramente nostalgiche.
Per dire, nella mia classe del liceo, su una quindicina di maschi, sette
od otto aderivano al movimento giovanile del partito di Destra costituito da reduci
del fascismo mussoliniano e, parlando come me, si dicevano francamente fascisti.
2.
Degli anni delle
scuole medie, quando avvenne la strage a Milano, ricordo che sentivo quasi ogni
giorno gente urlare fuori scuola. Seppi
anche che si picchiavano. Quando andai al liceo assistetti anche a diverse
aggressioni per strada. Di solito andava così: giovani del movimento di Destra attaccavano giovani di Sinistra, da soli o mentre manifestavano. Volevano tenere la Sinistra fuori del quartiere e organizzavano squadre
per attaccare le manifestazioni degli avversari. Mi pareva che la prendessero
un po’ come un gioco, o anche come un’esercitazione per combattimenti futuri
più seri. Quelli dell’altra parte organizzavano dei servizi d’ordine per respingere quegli altri. Assistetti al
reclutamento di uno della mia classe. Fazioni di opposto schieramento si
picchiavano. Vicino a scuola mia assassinarono un giovane scambiato per un
altro, di Sinistra. Proprio davanti a scuola (ma io ero già all’università)
terroristi di destra, alcuni dei quali furono anche incolpati della strage alla
Stazione di Bologna, assassinarono un poliziotto. Una volta, all’università,
assistetti da vicino ad una brutale aggressione di un energumeno di Sinistra ad un piccoletto che poi seppi aderiva al movimento di Destra: gli arrivò da dietro e lo stese
con due colpi di bastone in testa e fuggì lontano. Il ferito cadde perdendo
coscienza, si accorse per soccorrerlo, fu chiamata un’ambulanza (il Policlinico
era a due passi), seppi poi che si era salvato, ma che era stato ricoverato in
ospedale. Accadde tutto molto velocemente, l’aggressore arrivò alle mie spalle,
colpì quell’altro che mi camminava poco più avanti e fuggi correndo veloce, e
non ebbi neanche modo di vederlo in faccia, lo ricordo come uno grosso, alto. Sulle
scale che quasi ogni giorno salivo e scendevo per andare a lezione, uccisero poi,
a colpi di pistola, il prof. Vittorio Bachelet, già presidente dell’Azione
Cattolica in anni di riforme ecclesiali molto importanti e all’epoca vice presidente del Consiglio
Superiore della Magistratura. Il giorno prima lì vicino un giovane mi aveva
dato un volantino che inneggiava alla lotta armata. Questa violenza era cosa di tutti i giorni e, come ho detto, mi disgustò
profondamente. Come anche mi disgustava il lessico violento di diversi
estremisti di destra e di sinistra di quei tempi; quelli di sinistra
immaginando di ripercorrere l’epopea partigiana della Resistenza storica. Io,
crescendo e maturando politicamente, rimasi invece molto coinvolto e persuaso dai
discorsi e dagli esempi degli esponenti democratici, in primo luogo di quelli
del cattolicesimo democratico in cui mi ero formato fin da ragazzo. Da lì, poi,
anche la decisione di orientare gli studi e la vita professionale nella direzione
che ho seguito per tutta la vita, fino ad oggi, nel servizio di stato, nella
Repubblica democratica.
Certo, quelli che dalla fine degli anni Sessanta cercavano di contrastare
anche con la violenza di piazza e la proposta di leggi eccezionali, ad esempio
come proposto dal capo del partito di Destra
proclamando lo stato di guerra
interno secondo norme del testo
unico delle leggi di pubblica sicurezza, i successi politici della Sinistra sarebbero molto
sorpresi, e senz’altro i sopravvissuti tra loro lo sono, dalla facilità con cui
ai tempi nostri il loro obiettivo di allora è stato raggiunto, senza dover ricorrere
alla violenza civile diffusa, senza necessità di contrapposizioni frontali di
piazza o di una legislazione di emergenza di sospensione dei diritti
costituzionali, ma solo evocando la paura
verso una esigua minoranza di persone in
difficoltà, in particolare gli immigrati africani, convincendo i cittadini
votanti che, se si cercasse di attuare reali politiche di integrazione nei loro
confronti, poi non ce ne sarebbe più per tutti, e nonostante
che quella italiana sia ancora l’ottava economia mondiale e noi si sia, un po’
tutti, ancora affascinati e coinvolti dalla mania consumistica per cui c’è
molto superfluo che va sprecato. In particolare i cittadini hanno accettato l’idea
che l’obiettivo della riduzione delle
tasse vada a vantaggio anche di quelli che stanno peggio, perché, senza
necessità di politiche sociali per compensare le diseguaglianze sociali,
riducendo le tasse ai ricchi poi si genererebbero investimenti di cui ne
beneficerebbero anche i meno ricchi. La teoria dello sgocciolamento verso il basso della ricchezza, appunto, che dal
socialismo craxiano è passata alle Destre
contemporanee. Una narrazione di Destra fin dall’origine, per la verità. Creduta dalla maggioranza, da noi, nonostante che gli economisti, sulla base dell’esperienza
storica, in genere disilludano su questa dinamica. Ad esempio osservando che,
da quando, dalla metà degli anni ’80 si è andata imponendo in Occidente quella
ideologia, di scuola statunitense, la condizione dei ceti medi e di quelli
poveri sia costantemente peggiorata, così come la qualità e l’estensione dei
servizi sociali, mentre si sono impennate le diseguaglianze sociali.
Violenza, certo, è stata e viene esercitata anche ai tempi nostri, come
negli anni ’70, ma ha riguardato e riguarda gente che consideriamo estranea al
nostro mondo, reietti, nel senso di persone in attesa di respingimento, e
questo anche se sono tra noi da un bel po’ e non c’è alcuna reale prospettiva
di riportarle da dove sono fuggite. Non ce ne sentiamo responsabili socialmente
e dunque non ce ne pentiamo, ce ne autoassolviamo, quelli soffrono ma ci manifestiamo spietati verso di
loro, e questa è una delle differenze
rispetto ai tempi delle stragi, in cui invece ci si manifestò solidali verso
coloro che furono colpiti. La pietà ad un certo punto prevalse. Questa fu poi
la base politica e civile per contrastare efficacemente quella violenza
stragista e in genere il terrorismo di qualsiasi colore, in particolare
riscoprendo l’unità civile intorno alla nostra democrazia, che non è solo la
legge della maggioranza, ma un complesso di valori largamente condivisi e
sottratti all’arbitrio di qualsiasi maggioranza. Questa, credo, è la lezione che dovremmo trarre da quei
tempi. Una lezione che ci serve anche oggi perché, deve essere chiaro, lo
attesto sulla base della mia esperienza di ragazzo degli anni ’70 che ne ha
viste tante, una volta tollerata la
violenza in società, anche solo, all’inizio, verso coloro nei confronti dei
quali si è incapaci di qualsiasi pietà,
quella poi tende fatalmente a degenerare
e a generalizzarsi, come accadde alla fine della Prima Guerra Mondiale, quando
gli italiani combattenti, assuefatti in massa
alla violenza in battaglia verso un nemico nei confronti del quale era vietata la
pietà, poi ne finirono preda nel contesto civile in cui vivevano,
trasformandolo da un situazione di pace ad una di guerra, costruendovi nemici
non degni di pietà. Così, dalle parole si passa poi ai fatti e da questi a
fatti sempre più gravi, fino a quando, come risvegliandosi da un incubo, si
riscopra l’orrore per il bagno di sangue, ci si riscatti e ci si converta nuovamente alla virtù civile,
come in Italia accadde nel corso della Seconda Guerra Mondiale, nel mezzo della
disfatta bellica e della dura occupazione da parte delle forze armate tedesche
controllate dai nazisti hitleriani, e come di nuovo accadde verso la fine degli
anni ‘70.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San
Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli