La questione sociale
1. Se scrivo “questione sociale”, sapete a che cosa mi riferisco?
Un parlamentare
dovrebbe conoscere l’argomento, perché è stato ed è ancora centrale nella
costruzione delle democrazie contemporanee.
Spesso se ne accenna
con un pressapochismo impressionante, eppure riguarda la vita della gran parte
della gente del mondo. In una nazione come l’Italia, lo fu fin da tempi
antichi, fin dalla prima repubblica che proprio a Roma venne organizzata, tra il
Sesto e il Primo secolo dell’era antica.
Questione nel senso che è un tema controverso, su cui ci si divide
e ci si scontra. E’ un problema, una difficoltà che si vorrebbe superare, ma
che è di difficile soluzione, proprio perché controversa: chi la vuole in un
modo, chi in un altro.
Sociale perché riguarda
l’organizzazione della società e, in particolare, la partecipazione di chi sta
peggio al benessere collettivo.
In primo luogo, chi
lavora alle dipendenze altrui vorrebbe migliorare le proprie condizioni. Per
chi organizza la produzione e il commercio, il lavoro altrui è un costo, qualcosa che serve e che,
dovendolo pagare, la parola esatta in questo campo è
retribuire, va a diminuire i profitti, vale a dire ciò che rimane di
quello che si ricava dalla produzione o dal commercio dedotti i costi
di produzione e ciò che si deve
dare, come tasse, alla società.
In secondo luogo si
vorrebbe che il carico dei doveri sociali e i vantaggi offerti alla società da
quei doveri fossero più equamente ripartiti. In genere chi domina una società
cerca di esimersi dai doveri e di attribuirsi una quota maggiore dei vantaggi
sociali. Questo crea situazioni di diseguaglianza
che nell’antichità furono enormi,
con le dinastie sovrane, le loro corti e i nobili con esse federati che facevano
una splendida vita, mentre il resto del popolo, il popolo come lo si
definiva più semplicemente per rendere l’idea della condizione comune a masse
di persone, viveva miseramente.
2.
Troviamo la questione sociale nelle nostre Scritture sacre e in tutta la
storia dell’Europa, fin dai tempi antichi. In particolare è la storia italiana
che ne è piena, fin dall’epoca della Roma antica. Abitiamo a Monte Sacro, luogo
utilizzato nell’antichità per liturgie religiose: nell’anno 494 dell’era
antica vi svolse un episodio di lotta
del popolo motivato dalla questione sociale, e più precisamente dalla richiesta
di maggiore equità nei doveri sociali. La plebe,
la parte della popolazione non
schiava dedita al lavoro nell’agricoltura, all’allevamento degli animali, al
commercio e all’artigianato, si asserragliò nella zona di Monte Sacro, che
all’epoca era molto fuori della città, rifiutando di proseguire il servizio
militare. Le si contrapponevano i patrizi,
le famiglie più antiche e potenti della città, che possedevano per averle
accumulate di generazione in generazione le quote più rilevanti delle ricchezze
sociali, in particolari terriere, e vivevano del lavoro altrui. Le loro
attività principali erano la guerra e la direzione della società politica.
L’organizzazione politica dell’antica repubblica romana fu basata su una
federazione tra queste due componenti sociali, patrizi e plebei, come indicato
dalla sigla che la riassume: S.P.Q.R.,
che significa il Senato (l’assemblea politica dei
patrizi) e il Popolo Romano. Rimasero sempre in tensione tra loro, ma trovarono un punto politico di equilibrio.
Più vicino a noi nel
tempo, la questione sociale è legata all’affermazione delle democrazie europee
contemporanee. Queste ultime comportarono il trasferimento di poteri politici da dinastie sovrane, e dai ceti di nobili ad esse federate, ad istituzioni che
rappresentavano, mediante l’elezione (scelta) di un ceto politico, gli
interessi e la volontà degli strati sociali che dirigevano i processi
produttivi, organizzati su scala industriale, quindi molto vasta e con molta
tecnologia dentro, dalla metà del Settecento. Le grandi fabbriche ebbero
bisogno di molta mano d’opera, di molti lavoratori, che furono richiamati nelle
città dalle campagne, con la prospettiva di migliori condizioni di vita (quelle
delle campagne, dominate dai grandi proprietari terrieri erano non di rado poco
distinguibili da quelle degli schiavi). La vita sociale nelle città comportò un
aumento dell’istruzione dei lavoratori, anche perché ciò era richiesto dai processi
industriali, e generò la consapevolezza nel popolo degli squilibri sociali a favore delle
classi dominanti. E anche del fatto che, partecipando in massa alla vita
democratica, le cose potevano migliorare per chi stava peggio. Il metodo democratico prevede infatti il dominio delle maggioranze. Il pensiero e
l’azione socialisti nacquero da questo. Iniziarono nella prima metà
dell’Ottocento come sindacalismo, per avere più forza nelle contrattazioni
sociali, e si svilupparono nella seconda metà di quel secolo come
organizzazioni politiche. Accadde così anche nell’azione sociale ispirata dalla
fede, in particolare in ambito cattolico. Prima si sviluppò l’azione sindacale
e poi quella politica. Quella sindacale comprese varie forme di previdenza
sociale volontaria, per il caso di infortuni e malattie: le mutue sociali. Ma anche forme di organizzazione del lavoro in
forma cooperativa: le cooperative
sociali. Lo sviluppo politico venne ostacolato, in Italia, dalle
controversie del Papato con il Regno d’Italia, che nel 1870 aveva soppresso,
conquistandolo militarmente, il piccolo regno del Papa nell’Italia centrale, lo
Stato Pontificio. Era quella che venne definita questione romana. In quella
situazione il Papato volle riservare a sé le iniziative politiche in Italia; a
lungo non concesse autonomia ai fedeli in questo campo. Con l’enciclica Rerum
Novarum - Le novità, diffusa nel 1891 dal papa Vincenzo Gioacchino Pecci,
regnante in religione dal 1879 al 1903 come Leone 13°, fornì ai cattolici, in
particolare a quelli italiani, un manifesto ideologico in materia di questione
sociale e di organizzazione dello stato. Al centro del documento vi fu la
critica del socialismo, ma per proporre una diversa soluzione alla questione
sociale, che veniva riconosciuta come reale, seria e tale da implicare l'etica religiosa: si esortava ad una collaborazione tra le classi sociali degli imprenditori e di lavoratori che portasse al riconoscimento delle esigenze di giustizia sociale proposte dai lavoratori.
Quel documento fu il primo di una lunga serie che, da ultimo, comprende anche l’enciclica Laudato si’, diffusa nel
2015 dal papa Jorge Mario Bergoglio, regnante in religione come Francesco dal 2013.
2.1
Riporto di seguito un
brano dell’enciclica Rerum Novarum - Le
novità che è utile per comprendere in quale direzione papa Pecci volesse
spingere la società, per la risoluzione della
questione sociale:
16. Innanzi tutto,
l'insegnamento cristiano, di cui è interprete e custode la Chiesa, è
potentissimo a conciliare e mettere in accordo fra loro i ricchi e i proletari,
ricordando agli uni e agli altri i mutui doveri incominciando da quello imposto
dalla giustizia. Obblighi di giustizia, quanto al proletario e all'operaio,
sono questi: prestare interamente e fedelmente l'opera che liberamente e
secondo equità fu pattuita; non recar danno alla roba, né offesa alla persona
dei padroni; nella difesa stessa dei propri diritti astenersi da atti violenti,
né mai trasformarla in ammutinamento; non mescolarsi con uomini malvagi,
promettitori di cose grandi, senza altro frutto che quello di inutili
pentimenti e di perdite rovinose. E questi sono i doveri dei capitalisti e dei
padroni: non tenere gli operai schiavi; rispettare in essi la dignità della
persona umana, nobilitata dal carattere cristiano. Agli occhi della ragione e
della fede il lavoro non degrada l'uomo, ma anzi lo nobilita col metterlo in
grado di vivere onestamente con l'opera propria. Quello che veramente è indegno
dell'uomo è di abusarne come di cosa a scopo di guadagno, né stimarlo più di
quello che valgono i suoi nervi e le sue forze. Viene similmente comandato che
nei proletari si deve aver riguardo alla religione e ai beni dell'anima. È
obbligo perciò dei padroni lasciare all'operaio comodità e tempo che bastino a
compiere i doveri religiosi; non esporlo a seduzioni corrompitrici e a pericoli
di scandalo; non alienarlo dallo spirito di famiglia e dall'amore del
risparmio; non imporgli lavori sproporzionati alle forze, o mal confacenti con
l'età e con il sesso.
17. Principalissimo poi tra
i loro doveri è dare a ciascuno la giusta mercede. Il determinarla secondo
giustizia dipende da molte considerazioni: ma in generale si ricordino i
capitalisti e i padroni che le umane leggi non permettono di opprimere per
utile proprio i bisognosi e gli infelici, e di trafficare sulla miseria del
prossimo. Defraudare poi la dovuta mercede è colpa così enorme che grida
vendetta al cospetto di Dio. Ecco,
la mercede degli operai... che fu defraudata da voi, grida; e questo grido ha
ferito le orecchie del Signore degli eserciti (Giacomo, lettera di,
5,4). Da ultimo è dovere dei ricchi non danneggiare i piccoli risparmi
dell'operaio né con violenza né con frodi né con usure manifeste o nascoste;
questo dovere è tanto più rigoroso, quanto più debole e mal difeso è l'operaio
e più sacrosanta la sua piccola sostanza. L'osservanza di questi precetti non
basterà essa sola a mitigare l'asprezza e a far cessare le cagioni del dissidio
?
L’organizzazione creata
appositamente dal Papato nel 1906 per l’azione
sociale e politica secondo quei principi fu l’Azione Cattolica. E’ un lavoro
che fu progettato con il contributo molto importante del beato Giuseppe Toniolo
(esponente dell’associazionismo cattolico, sociologo ed economista, vissuto tra
il 1845 e il 1918).
Gli stati democratici
europei organizzarono un sistema di istruzione pubblica di massa, in
particolare istituendo scuole di primo livello, le elementari. Migliorando il livello di istruzione sempre più ampie
fasce del popolo furono elevate alla
cittadinanza. Questo produsse la progressiva estensione del diritto di voto,
inizialmente riservato ai maschi con determinati livelli di reddito e di
istruzione. Le elezioni politiche del 1913 furono le prime, in Italia, in cui
poterono votare tutti i cittadini maschi del Regno. Dal 1906 i cattolici
italiani vi furono preparati proprio attraverso l’Azione Cattolica, in
particolare mediante la sua branca denominata Unione
nazionale tra gli elettori cattolici.
Tra i cattolici italiani di allora si era già
da tempo presa coscienza della connessione tra la questione sociale e l’organizzazione politica
della società, l'ingiustizia sociale derivando anche dalla politica e potendo esservi posto rimedio mediante gli strumenti della politica, e quindi sulla necessità di affiancare l’azione propriamente
sociale e sindacale a quella politica, ma quest’ultima era fortemente limitata
dagli orientamenti politici del Papato, concentrato nella risoluzione politica della questione romana. Questa consapevolezza
fu raggiunta anche dal Papato negli successivi, in particolare dopo che, nel 1929, con una serie di trattati, i Patti Lateranensi, furono appianate le controversie politiche con il Regno d'Italia: con l’enciclica Quadragesimo Anno - Il Quarantennale,
diffusa nel 1931 dal papa Achille Ratti, regnante in religione dal 1922 al 1939
come Pio 11°, i cattolici italiani furono spinti a collaborare con le nuove
istituzioni politico-sindacali organizzate dal regime fascista mussoliniano nel
sistema detto corporativo (un’istituzione
politica di quest’ultimo, la Camera dei
fasci e delle corporazioni, sostituì la Camera dei deputati dal 1939). Dal
1941 la politica del Papato mutò, sotto il regno di Eugenio Pacelli, in religione
sovrano come Pio 12° dal 1939 al 1958, indicando la via della riforma sociale, quindi della risoluzione della questione sociale, con gli strumenti della democrazia. La riforma dello stato ideata dai
cattolico-democratici italiani durante la Seconda Guerra Mondiale, su impulso
di una serie di radiomessaggi natalizi diffusi tra il 1941 e il 1944, prevedeva
la collaborazione di partiti e sindacati democratici, quindi ispirati ai grandi
valori della democrazia, tra i quali quelli fondamentali della persona e del
lavoro. In effetti, i tempi della repubblica democratica, dal 1946, furono un’epoca
di intense riforme sociali condotte dalle istituzioni politiche anche sulla
base delle istanze sindacali. Nel 1948 fu anche fondato un sindacato di ispirazione sociale cattolica, la Confederazione Italiana
Sindacati Lavoratori - CISL.
Di questo stretto collegamento tra azione
politica e sindacale non sempre vi è consapevolezza. Non è un sindacato
degenerato quello che fa politica, come non è politica degenerata quella che si occupa di risolvere la questione
sociale.
Parlando nel giugno del 2017 ai sindacalisti della
CISL papa Francesco ha detto:
«[…]Persona e lavoro
sono due parole che possono e devono stare insieme. Perché se pensiamo
e diciamo il lavoro senza la persona, il lavoro finisce per
diventare qualcosa di disumano, che dimenticando le persone dimentica e
smarrisce sé stesso. Ma se pensiamo la persona senza lavoro,
diciamo qualcosa di parziale, di incompleto, perché la persona si realizza in
pienezza quando diventa lavoratore, lavoratrice; perché l’individuo si fa persona quando
si apre agli altri, alla vita sociale, quando fiorisce nel lavoro.
[…]
Il sindacato è espressione del profilo
profetico della società. Il sindacato nasce e rinasce tutte le volte
che, come i profeti biblici, dà voce a chi non ce l’ha, denuncia il povero
“venduto per un paio di sandali” (cfr Amos 2,6), smaschera i
potenti che calpestano i diritti dei lavoratori più fragili, difende la causa
dello straniero, degli ultimi, degli “scarti”.
[…]
I profeti sono delle
sentinelle, che vigilano nel loro posto di vedetta. Anche il sindacato deve
vigilare sulle mura della città del lavoro, come sentinella che
guarda e protegge chi è dentro la città del lavoro, ma che guarda e
protegge anche chi è fuori delle mura. Il sindacato non svolge la sua
funzione essenziale di innovazione sociale se vigila soltanto su coloro che
sono dentro, se protegge solo i diritti di chi lavora già o
è in pensione. Questo va fatto, ma è metà del vostro lavoro. La vostra
vocazione è anche proteggere chi i diritti non li ha ancora, gli esclusi
dal lavoro che sono esclusi anche dai diritti e dalla democrazia.
Il capitalismo del nostro tempo non
comprende il valore del sindacato, perché ha dimenticato la natura
sociale dell’economia, dell’impresa. Questo è uno dei peccati più grossi.
Economia di mercato: no. Diciamo economia sociale di mercato,
come ci ha insegnato San Giovanni Paolo
II: economia sociale di mercato. L’economia ha dimenticato la natura
sociale che ha come vocazione, la natura sociale dell’impresa, della vita, dei
legami e dei patti. Ma forse la nostra società non capisce il sindacato anche
perché non lo vede abbastanza lottare nei luoghi dei “diritti del non
ancora”: nelle periferie esistenziali, tra gli scartati del lavoro.
Pensiamo al 40% dei giovani da 25 anni in giù, che non hanno lavoro. Qui. In
Italia. E voi dovete lottare lì! Sono periferie esistenziali.
[…]
Non c’è una buona
società senza un buon sindacato, e non c’è un sindacato buono che non rinasca
ogni giorno nelle periferie, che non trasformi le pietre scartate dell’economia
in pietre angolari. Sindacato è una bella parola che proviene dal greco “dike”,
cioè giustizia, e “syn”, insieme: syn-dike,“giustizia insieme”. Non
c’è giustizia insieme se non è insieme agli esclusi di oggi.»
Questa è stata la linea della dottrina
sociale fin dall’inizio, ma in particolare quando maturò l’assimilazione della
democrazia come sistema di valori, dal 1941.
In
particolare essa fu sviluppata in un importantissimo documento della dottrina
sociale, veramente epocale, l’enciclica Laborem
exercens - Mediante il lavoro, diffusa nel 1981 dal papa san Karol Wojtyla,
regnante in religione come Giovanni Paolo 2° dal 1978 al 2005:
«20. L'importanza dei sindacati
Sulla base di tutti questi diritti, insieme
con la necessità di assicurarli da parte degli stessi lavoratori, ne sorge
ancora un altro: vale a dire, il diritto di associarsi, cioè
di formare associazioni o unioni, che abbiano come scopo la difesa degli
interessi vitali degli uomini impiegati nelle varie professioni. Queste unioni
hanno il nome di sindacati. Gli interessi vitali degli uomini
del lavoro sono fino ad un certo punto comuni per tutti; nello stesso tempo,
però, ogni tipo di lavoro, ogni professione possiede una propria specificità,
che in queste organizzazioni dovrebbe trovare il suo proprio riflesso
particolare.
I sindacati trovano la propria ascendenza, in
un certo senso, già nelle corporazioni artigianali medioevali, in quanto queste
organizzazioni univano tra di loro uomini appartenenti allo stesso mestiere e,
quindi, in base al lavoro che effettuavano. Al tempo stesso,
però, i sindacati differiscono dalle corporazioni in questo punto essenziale: i
moderni sindacati sono cresciuti sulla base della lotta dei lavoratori, del
mondo del lavoro e, prima di tutto, dei lavoratori industriali, per la tutela
dei loro giusti diritti nei confronti degli imprenditori e dei
proprietari dei mezzi di produzione. La difesa degli interessi esistenziali dei
lavoratori in tutti i settori, nei quali entrano in causa i loro diritti,
costituisce il loro compito. L'esperienza storica insegna che le organizzazioni
di questo tipo sono un indispensabile elemento della vita
sociale, specialmente nelle moderne società industrializzate. Ciò,
evidentemente, non significa che soltanto i lavoratori dell'industria possano
istituire associazioni di questo tipo. I rappresentanti di ogni professione
possono servirsene per assicurare i loro rispettivi diritti. Esistono, quindi,
i sindacati degli agricoltori e dei lavoratori di concetto; esistono pure le
unioni dei datori di lavoro. Tutti, come già è stato detto, si dividono ancora
in successivi gruppi o sottogruppi, secondo le particolari specializzazioni
professionali.
La dottrina sociale cattolica non ritiene che
i sindacati costituiscano solamente il riflesso della struttura «di classe»
della società e che siano l'esponente della lotta di classe, che
inevitabilmente governa la vita sociale. Sì, essi sono un esponente
della lotta per la giustizia sociale, per i giusti diritti degli
uomini del lavoro a seconda delle singole professioni. Tuttavia, questa «lotta»
deve essere vista come un normale adoperarsi «per» il giusto bene: in questo
caso, per il bene che corrisponde alle necessità e ai meriti degli uomini del
lavoro, associati secondo le professioni; ma questa non è una lotta
«contro» gli altri. Se nelle questioni controverse essa assume anche
un carattere di opposizione agli altri, ciò avviene in considerazione del bene
della giustizia sociale, e non per «la lotta», oppure per eliminare
l'avversario. Il lavoro ha come sua caratteristica che, prima di tutto, esso
unisce gli uomini, ed in ciò consiste la sua forza sociale: la forza di
costruire una comunità. In definitiva, in questa comunità devono in qualche
modo unirsi tanto coloro che lavorano, quanto coloro che dispongono dei mezzi
di produzione, o che ne sono i proprietari. Alla luce di questa
fondamentale struttura di ogni lavoro - alla luce del fatto che, in
definitiva, in ogni sistema sociale il «lavoro» e il «capitale» sono le
indispensabili componenti del processo di produzione - l'unione degli uomini
per assicurarsi i diritti che loro spettano, nata dalle necessità del lavoro,
rimane un fattore costruttivo di ordine sociale e di solidarietà, da
cui non è possibile prescindere.
I giusti sforzi per assicurare i diritti dei
lavoratori, che sono uniti dalla stessa professione, devono sempre tener conto
delle limitazioni che impone la situazione economica generale del paese. Le
richieste sindacali non possono trasformarsi in una specie di «egoismo» di
gruppo o di classe, benché esse possano e debbano tendere pure a
correggere - per riguardo al bene comune di tutta la società - anche tutto ciò
che è difettoso nel sistema di proprietà dei mezzi di produzione o nel modo di
gestirli e di disporne. La vita sociale ed economico-sociale è certamente come
un sistema di «vasi comunicanti», ed a questo sistema deve pure adattarsi ogni
attività sociale, che ha come scopo quello di salvaguardare i diritti dei
gruppi particolari.
In
questo senso l'attività dei sindacati entra indubbiamente nel campo della «politica», intesa
questa come una prudente sollecitudine per il bene comune. Al
tempo stesso, però, il compito dei sindacati non è di «fare politica» nel senso
che comunemente si dà oggi a questa espressione. I sindacati non hanno il
carattere di «partiti politici» che lottano per il potere, e non dovrebbero
neppure essere sottoposti alle decisioni dei partiti politici o avere dei
legami troppo stretti con essi. Infatti, in una tale situazione essi perdono
facilmente il contatto con ciò che è il loro compito specifico, che è quello di
assicurare i giusti diritti degli uomini del lavoro nel quadro del bene comune
dell'intera società, e diventano, invece, uno strumento per altri
scopi.
Parlando della tutela
dei giusti diritti degli uomini del lavoro a seconda delle singole professioni,
occorre naturalmente aver sempre davanti agli occhi ciò che decide circa il carattere
soggettivo del lavoro in ogni professione, ma al tempo stesso, o prima di
tutto, ciò che condiziona la dignità propria del soggetto del lavoro. Qui si
dischiudono molteplici possibilità nell'operato delle organizzazioni sindacali,
e ciò anche nel loro impegno di carattere istruttivo, educativo e di
promozione dell'auto-educazione. Benemerita è l'opera delle scuole,
delle cosiddette «università operaie» e «popolari», dei programmi e corsi di
formazione, che hanno sviluppato e tuttora sviluppano proprio questo campo di
attività. Si deve sempre auspicare che, grazie all'opera dei suoi sindacati, il
lavoratore possa non soltanto «avere» di più, ma prima di tutto «essere» di
più: possa, cioè, realizzare più pienamente la sua umanità sotto ogni aspetto.
Adoperandosi per i
giusti diritti dei loro membri, i sindacati si servono anche del metodo
dello «sciopero», cioè del blocco del lavoro, come di una specie di
ultimatum indirizzato agli organi competenti e, soprattutto, ai datori di
lavoro. Questo è un metodo riconosciuto dalla dottrina sociale cattolica come
legittimo alle debite condizioni e nei giusti limiti. In relazione a ciò i
lavoratori dovrebbero avere assicurato il diritto allo sciopero, senza
subire personali sanzioni penali per la partecipazione ad esso. Ammettendo che
questo è un mezzo legittimo, si deve contemporaneamente sottolineare che lo
sciopero rimane, in un certo senso, un mezzo estremo. Non se ne può
abusare; non se ne può abusare specialmente per giochi «politici».
Inoltre, non si può mai dimenticare che, quando trattasi di servizi essenziali
alla convivenza civile, questi vanno, in ogni caso, assicurati mediante, se
necessario, apposite misure legali. L'abuso dello sciopero può condurre alla
paralisi di tutta la vita socio-economica, e ciò è contrario alle esigenze del
bene comune della società, che corrisponde anche alla natura rettamente intesa
del lavoro stesso.»
Quel documento può essere considerato il manifesto ideologico del sindacato - partito Solidarnosc che, costituito nel 1980, fu protagonista
della rivoluzione polacca del 1980 contro il regime comunista di scuola
sovietica all’epoca dominante. La Polonia ebbe un regime democratico di tipo
occidentale dal 1989 e dal 1990 al 1995, Lech Walesa, il principale esponente
di Solidarnosc, fu presidente dello
stato.
3.
La dottrina sociale ha una visione
realistica della questione sociale e del sindacato: la questione sociale come
contrasto tra masse di lavoratori e minoranze che controllano la produzione e
il commercio e il sindacato come organizzazione per dare più forza ai lavoratori
nella contrattazione sociale riguardante le condizioni di lavoro e le
retribuzioni. Nella sua concezione il bene
comune, quello della società nel suo complesso, deve però essere sempre
tenuto presente dalle parti sociali, anche dal sindacato. Questo comporta
raggiungere una consapevolezza politica degli interessi generali anche nella questione sociale e nelle
controversie sindacali.
L’ideologia politico-economica che ha
prevalso dagli anni ’80, e che trova origine nelle dottrine assecondate dalle
amministrazioni del presidente statunitense Ronald Reagan (in carica dal 1981
al 1989) e di Margaret Thatcher, primo ministro inglese dal 1979 al 1980,
ritiene l’azione sindacale contraria al bene
comune. Le sue parole d’ordine comprendono anche lo slogan “Meno
sindacato”. Secondo questa prospettiva l’economia deve essere lasciata alle
sue dinamiche, alla libera contrattazione delle parti sociali: in questo modo
troverà spontaneamente la via più razionale e meno costosa, migliorando l’efficienza
del sistema produttivo e diffondendo ricchezza. Di fatto, dagli anni ’90 i sindacati europei, e anche quelli italiani, hanno
avuto meno forza sociale, in particolare quelli che facevano politica, tenendo conto del bene comune, quindi non operando solo
con finalità corporative, vale a dire dirette solo ad accrescere i vantaggi e le risorse della categorie rappresentante. Le
condizioni di lavoro sono peggiorate: i rapporti di lavoro si sono fatti più
precari e le retribuzioni sono calate. Si parla, in proposito, di svalutazione del lavoro.
La diffusione dei robot nelle lavorazioni
industriali, ma anche nell’artigianato e nel commercio, fa prevedere che la
situazione peggiorerà di molto, in
mancanza di correttivi politici. Naturalmente questo non riguarderà la parte
della popolazione che controlla produzione e commercio, ma tutti gli altri. Questi
ultimi sono una gran massa di gente, ma si presentano nelle varie
contrattazioni sociali sempre più come singoli. In questo modo si hanno grandi
organizzazioni che contrattano con singoli, siano essi lavoratori o
consumatori. Le dinamiche di mercato sfavoriscono questi ultimi, perché la loro
legge, in mancanza di correttivi, è
quella della giungla o del mare: pesce grosso mangia pesce piccolo. Ma in futuro
potrebbe accadere che i pesci grossi non abbiano più nemmeno interesse a mangiare i pesci
piccoli, ma solo a spianarli, a schiacciarli, come ostacoli inutili
sulla strada della soddisfazioni degli interessi di chi domina l’economica.
Sono appunto quegli scarti del sistema economico e sociale ai quali si è riferito papa Francesco nel discorso ai sindacalisti della CISL.
L’insofferenza
verso il sindacalismo è un marcatore molto importante per capire che direzione
prenderà una certa politica che viene proposta, ad esempio sotto elezioni, che
è appunto il tempo che stiamo vivendo attualmente.
Se poi
chi la manifesta sostiene anche che non ci si deve preoccupare della gente che
perde il lavoro, questo è un altro segnale importante.
Il pensiero sociale ispirato dalla fede, e la
dottrina sociale in particolare, ritengono che la disoccupazione sia un
problema che non può essere lasciato alle dinamiche spontanee del mercato, che
sia un problema politico di cui la politica si deve occupare.
Per chi domina la produzione e il commercio l’azione
sindacale è un fattore di aumento dei
costi, sia perché mira a ottenere migliori condizioni di lavoro, ad esempio più
sicurezza sul lavoro e del lavoro, limitando i licenziamenti immotivati, sia perché mira a migliori retribuzioni. Sarà quindi
tentato di ridurre la forza del sindacato, ad esempio vietando lo sciopero, la principale arma sindacale, come si fece
durante il regime fascista mussoliniano, o comunque cercando di limitarlo il
più possibile, e cercando di indurre politiche economiche che facciano apparire
inutile l’azione sindacale. Cercherà di portare i pubblici poteri contro i sindacati dei lavoratori e dalla parte degli imprenditori. Sosterrà che è per il bene di tutti, in particolare
degli utenti e dei consumatori, i quali possono essere infastiditi dalle turbative
nei servizi provocate dall’azione sindacale.
Cercherà di aumentare il proprio consenso politico mettendo le varie categorie
di lavoratori e utenti in contrasto tra loro. E, infine, cercherà di diffamare
il sindacalismo presentando l’azione sindacale come volta solo a migliorare le
condizioni del ceto dei sindacalisti, facendo apparire questi ultimi come dei privilegiati.
Non sempre accade che i politici dicano quello che pensano e facciano quello
che dicono (parafraso una celebre battuta dell’attore Al Pacino nel film The Heat - La Sfida). Ma qualche volta
effettivamente accade. E’ più probabile che accada quando si limitano a seguire
la corrente ed è quindi più facile farlo. E ai tempi nostri la corrente va contro il sindacato e i lavoratori da esso rappresentati. Nel valutare
una politica è bene tenerne conto, perché la soluzione che si dà alla questione sociale determina poi il tipo
di società in cui si vivrà e, in particolare, chi ci guadagnerà e chi ci
perderà. Prima dell’avvento del sindacalismo europeo, in genere ci rimettevano
le masse lavoratrici.
Mario Ardigò - Azione
Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli