La crisi politica della dottrina sociale del Papato
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La corona dei Papi, detta Triregno, dismessa sotto il pontificato di Paolo 6° |
1. E’ facile dimostrare che la dottrina sociale
diffusa dal Papato ha avuto forza fintanto che dietro di essa vi furono
interessi politici propri del Papato stesso, perché essi
portavano ad intendere la dimensione politica
dei problemi, in particolare dei
conflitti sociali. Questo è molto
evidente nel considerare la storia di quel tipo di magistero quando regnarono
papi italiani. Essi considerarono essenziale per il loro alto ministero
mantenere in Italia una posizione politica
dell’istituzione papale
corrispondente, quando a libertà, autonomia, indipendenza, a quella che per
circa mille anni il Papato aveva avuto. Questo li portò a mantenere,
trasformato, il ruolo di capi politici che tanto a lungo avevano avuto,
assumendo la direzione delle masse italiane nel confronto prima con la
democrazia liberale, poi con il regime fascista, poi con le formazioni che
animavano la guerra di Resistenza al fascismo e infine con la democrazia
popolare nelle sue varie fasi. Ma è particolarmente evidente anche nel lungo
regno di san Karol Wojtyla, sovrano religioso dal 1978 al 2005 con il nome di Giovanni Paolo 2°, nel quale, inaspettatamente, gli
intessi politici del Papato si allargarono dall’Italia
all’intera Europa, acquisendo nuovamente la dimensione imperiale che avevano avuto nel secondo millennio,
quando il Papato era stato coinvolto negli assetti politici continentali, fino
ad essere una delle potenze chiamate a partecipare al Congresso di Vienna dal 1814 al 1815, la conferenza tra gli stati vincitori del regime del sovrano francese Napoleone Bonaparte in cui furono
deliberate le convenzioni internazionali che decisero il nuovo ordine del continente.
Al tempo di san Wojtyla il Papato ritenne essenziale per la sua missione
religiosa la riunificazione politica del continente, che significava la caduta
dei regimi comunisti di scuola sovietica egemoni nell’Europa orientale. I tempi
erano maturi per eventi del genere, ma pochi ne avevano consapevolezza. Uno di
questi era proprio san Wojtyla, il quale, profondo conoscitore dei regimi
comunisti dell’Europa orientale, aveva compreso che ciò che appariva solido
agli osservatori occidentali era in realtà in veloce metamorfosi e che, data la
rigidità culturale e politica di quei regimi, il cambiamento si sarebbe risolto
in un crollo. Decise pertanto di assecondare e sostenere i moti politici
rivoluzionari democratici che erano
iniziati nella sua Polonia. Fu una strategia politica ad altissimo rischio. Il suo successo dipendeva dalla solidità del potere del presidente sovietico Gorbacev, riformatore del comunismo sovietico, rimasto al potere dal 1985 al 1991, il quale si era manifestato riluttante all'esercizio della violenza politica in Europa. Bisogna infatti ricordare che nel 1956 e nel 1968 l’alleanza militare tra i regimi comunisti dell’Europa orientale,
il Patto di Varsavia, era intervenuta
con sanguinose repressioni per contrastare l’evoluzione politica in senso
social-democratico in Ungheria e in Cecoslovacchia. All’epoca la Polonia
partecipava al Patto di Varsavia, concluso a Mosca, la capitale dell’Unione
Sovietica, nel 1955, ma così denominato perché gli uffici direttivi
dell’organizzazione internazionale da esso creata avevano sede a Varsavia, la
capitale polacca. Questo rende l’idea dell’importanza della Polonia nel quadro
di quell’organizzazione.
2. L’ultimo grande documento della dottrina
sociale della Chiesa prima dell’era di papa Francesco può essere considerato
l’enciclica Centesimus Annus - Il
Centenario, diffusa nel 1991 da san Karol
Wojtyla. La sua parte
fondamentale è quella in cui si
manifesta apprezzamento per la democrazia:
46. La Chiesa apprezza il
sistema della democrazia, in quanto assicura la partecipazione dei cittadini
alle scelte politiche e garantisce ai governati la possibilità sia di eleggere
e controllare i propri governanti, sia di sostituirli in modo pacifico, ove ciò
risulti opportuno. Essa, pertanto, non può favorire la formazione di
gruppi dirigenti ristretti, i quali per interessi particolari o per fini
ideologici usurpano il potere dello Stato.
Un'autentica democrazia è
possibile solo in uno Stato di diritto e sulla base di una retta concezione
della persona umana. Essa esige che si verifichino le condizioni necessarie per
la promozione sia delle singole persone mediante l'educazione e la formazione
ai veri ideali, sia della «soggettività» della società mediante la creazione di
strutture di partecipazione e di corresponsabilità. Oggi si tende ad affermare
che l'agnosticismo ed il relativismo scettico sono la filosofia e
l'atteggiamento fondamentale rispondenti alle forme politiche democratiche, e
che quanti son convinti di conoscere la verità ed aderiscono con fermezza ad
essa non sono affidabili dal punto di vista democratico, perché non accettano
che la verità sia determinata dalla maggioranza o sia variabile a seconda dei
diversi equilibri politici. A questo proposito, bisogna osservare che, se non
esiste nessuna verità ultima la quale guida ed orienta l'azione politica,
allora le idee e le convinzioni possono esser facilmente strumentalizzate per
fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un
totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia.
Fu una svolta epocale, tenendo
conto che, agli inizi della dottrina sociale, la democrazia venne considerata
sostanzialmente come eretica. Nel brano dell’enciclica che ho
citato il Papa dimostrò una profonda comprensione del senso dei processi
democratici in corso dal secondo dopoguerra e, in particolare, il profondo
legame tra democrazia e valori,
particolarmente evidente in Costituzioni come quella della Repubblica italiana.
La precedente critica ideologica del Papato alle democrazie liberali era
fondata sul loro preteso agnosticismo in materia di valori, che poteva portare
alla deliberazione a maggioranza di qualsiasi scelta, anche contraria alla
dignità degli esseri umani, il loro essere persone,
uno dei valori più importanti in senso religioso.
Dal 1991 il papa Wojtyla iniziò
a mostrare i sintomi di una patologia neurologica cronica, il morbo di
Parkinson, che si fece sempre più grave ed evidente negli anni successivi.
Riuscì ad accompagnare la Chiesa nel secondo millennio. Celebrò il Grande
Giubileo dell’Anno 2000, un complesso di liturgie in cui ve n’è inserita una
che si rivelò epocale dal punto di vista religioso, quella celebrata il 12
marzo 2000, e chiamata Giornata del
perdono, in cui san Wojtyla ci guidò nel franco riconoscimento di una lunga
serie di colpe storiche, formulando una serie di impegnativi “mai più”, in materia di
persecuzione religiosa, intolleranza verso le altre Chiese cristiane,
persecuzione degli ebrei e dell’ebraismo, persecuzione delle culture e
tradizioni religiose non cristiane, umiliazione delle donne, diritti dei
poveri, dei più deboli, degli emarginati, degli ultimi. Le immagini di
quell’anno ce lo mostrano ormai gravemente ammalato, incerto nell’incedere e,
in genere, nei movimenti, con evidenti difficoltà nel parlare. La malattia del
Papa spiega perché dopo l’enciclica Centesimus
annus - Il Centenario non intervenne
più su temi politici? In realtà dopo il
1991 diffuse altre cinque encicliche. E’ più verosimile che non ritenesse di
avere altro da dire nella nuova Europa che si andava formando, nel senso da lui
auspicato. Del resto, in un certo senso, un Papa, per quanto grande viaggiatore
come fu san Wojtyla, è come confinato nei palazzi vaticani. Le sue informazioni sul
mondo finiscono per risentirne e dipendono comunque dall’efficienza della sua
organizzazione. Non mi pare che egli abbia inteso l’evoluzione del mondo,
nell’era della globalizzazione che iniziò dagli anni ’90, con la stessa
perspicacia con cui, negli anni ’80, aveva interpretato la fragilità dei regimi
comunisti di scuola sovietica. Certamente negli ultimi anni del suo regno si
stavano manifestando con tutta evidenza i segni di quel mutamento epocale della politica mondiale da
cui originarono gran parte dei problemi dell’Europa, e dell’Italia in essa, di
oggi. In particolare il veloce e stratosferico accrescimento delle
diseguaglianze sociali e la svalutazione del lavoro a favore delle pretese di
ricchezza dei detentori dei capitali finanziari in grado di essere trasferiti a
livello globale, mondiale. Ma il Papa non dimostrò di averne sufficiente consapevolezza e, soprattutto, di intendere il
senso religioso dei problemi politici che la nuova situazione poneva. E’
verosimile che, progredendo la malattia del Papa, sempre più gli uffici di
Curia, che affiancano il pontefice nella sua missione, abbiano svolto ruolo di
supplenza. Tra questi ritengo che un ruolo molto importante lo abbia avuto
quello guidato da Joseph Ratzinger dal 1981, chiamato a quell’alto ufficio
proprio da san Wojtyla. Ratzinger nel
2005 gli successe nel pontificato.
3. Il nuovo Papa, regnante con il
nome di Benedetto 16°, conseguì una chiara consapevolezza dei problemi posti
nell’era della globalizzazione. Lo dimostra la sua enciclica Caritas in veritate - La carità nella verità,
diffusa nel 2009, a pochi mesi dall’inizio della fase di recessione
dell’economia globale che è ancora in atto.
Il nome dell’enciclica richiama solo una parte
del suo contenuto, ma evidentemente molto importante per il suo autore, e
precisamente quella in cui si correggono interpretazioni ritenute devianti
della grande enciclica sociale Populorum progressio - Lo sviluppo dei popoli,
diffusa nel 1967 dal papa Giovanni
Battista Montini, regnante in religione come Paolo 6° dal 1963 al 1978. Ecco il
passo centrale di quella parte
propriamente di disciplina teologica dell’enciclica del Ratzinger:
“[…] Sono consapevole degli sviamenti e degli
svuotamenti di senso a cui la carità è andata e va incontro, con il conseguente
rischio di fraintenderla, di estrometterla dal vissuto etico e, in ogni caso,
di impedirne la corretta valorizzazione. In ambito sociale, giuridico,
culturale, politico, economico, ossia nei contesti più esposti a tale pericolo,
ne viene dichiarata facilmente l'irrilevanza a interpretare e a dirigere le
responsabilità morali. Di qui il bisogno di coniugare la carità con la verità
non solo nella direzione, segnata da san Paolo, della « veritas
in caritate » (Ef 4,15)
[=verità nella carità, nota mia], ma
anche in quella, inversa e complementare, della « caritas in veritate
» [=carità nella verità,
nota mia]. La verità va cercata,
trovata ed espressa nell'« economia » della carità, ma la carità a sua volta va
compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità. In questo modo non
avremo solo reso un servizio alla carità, illuminata dalla verità, ma avremo
anche contribuito ad accreditare la verità, mostrandone il potere di
autenticazione e di persuasione nel concreto del vivere sociale. Cosa, questa,
di non poco conto oggi, in un contesto sociale e culturale che relativizza la
verità, diventando spesso di essa incurante e ad essa restio.
3. Per questo stretto collegamento con la
verità, la carità può essere riconosciuta come espressione autentica di umanità
e come elemento di fondamentale importanza nelle relazioni umane, anche di
natura pubblica. Solo nella
verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta. La
verità è luce che dà senso e valore alla carità.”
Il motivo dell’intervento è spiegato in
quest’altro passo dell’enciclica:
12. Il legame tra la Populorum progressio e il Concilio Vaticano II non rappresenta una cesura tra il
Magistero sociale di Paolo VI e
quello dei Pontefici suoi predecessori, dato che il Concilio costituisce un approfondimento di tale magistero
nella continuità della vita della Chiesa. In questo senso, non contribuiscono a
fare chiarezza certe astratte suddivisioni della dottrina sociale della Chiesa
che applicano all'insegnamento sociale pontificio categorie ad esso estranee.
Non ci sono due tipologie di dottrina sociale, una preconciliare e una
postconciliare, diverse tra loro, ma un unico
insegnamento, coerente e nello stesso tempo sempre nuovo. È giusto
rilevare le peculiarità dell'una o dell'altra Enciclica, dell'insegnamento
dell'uno o dell'altro Pontefice, mai però perdendo di vista la coerenza
dell'intero corpus dottrinale.
Coerenza non significa chiusura in un sistema, quanto piuttosto fedeltà dinamica a una luce ricevuta.
La dottrina sociale della Chiesa illumina con una luce che non muta i problemi
sempre nuovi che emergono. Ciò salvaguarda il carattere sia permanente che
storico di questo « patrimonio » dottrinale che, con le sue specifiche
caratteristiche, fa parte della Tradizione sempre vitale della Chiesa. La
dottrina sociale è costruita sopra il fondamento trasmesso dagli Apostoli ai
Padri della Chiesa e poi accolto e approfondito dai grandi Dottori
cristiani.
La tesi del Ratzinger è quella della continuità
del magistero religioso espresso nel Concilio Vaticano 2° e nell'enciclica Populorum Progressio - Lo sviluppo dei popoli con quello dei
Concili e Papi precedenti. Questa continuità è poco evidente nell’evoluzione
della dottrina sociale della Chiesa, ad esempio nei riguardi della democrazia,
considerata eretica agli inizi del Novecento e apprezzata un secolo dopo.
Ma per l’autore della Caritas in veritate
esiste anche in questo campo del
magistero e, comunque, ogni documento del magistero sociale va interpretato nel senso di fedeltà dinamica con quelli
precedenti: questo fu, come dire, un ordine,
non una opinione del Papa Ratzinger.
3.1 L’enciclica Caritas in veritate - Carità nella verità reca molto evidenti i segni di un lavoro
collettivo in varie discipline. In materia di encicliche sociali fu così fin
dalle origini, fin dall’enciclica Rerum novarum - Le novità, del 1891, la
prima della dottrina sociale, del papa Vincenzo Gioacchino Pecci, regnante in
religione come Leone 13° dal 1878 al 1903, gli anni in cui il Papato fu
considerato come una potenza sovversiva nel Regno d’Italia e in cui si venne
organizzando una forza politica di
cattolicesimo sociale rivoluzionario nei confronti dello stato democratico
liberale. La genesi collettiva
dell’encicliche è stata da ultimo espressamente riconosciuta da papa Francesco
con riferimento all’enciclica Laudato si’.
Nella Caritas in veritate, mentre le pronunce specificamente teologiche
appaiono riconducibili direttamente al Papa, illustre esponente e maestro
riconosciuto di quelle discipline, si avverte in particolare l’opera di
sociologi ed economisti. Quanto a questi ultimi, noto nell’enciclica l’ordine
di idee espresso dall’economista romagnolo
Stefano Zamagni, professore a Parma, Bologna e Milano.
Del resto nell'enciclica stessa si afferma
la necessità di collaborazione interdisciplinare:
30. […] il tema dello sviluppo umano
integrale assume una portata ancora più complessa: la correlazione tra i
molteplici suoi elementi richiede che ci si impegni per far interagire i diversi livelli del sapere
umano in vista della promozione di un vero sviluppo dei popoli.
Spesso si ritiene che lo sviluppo, o i provvedimenti socio-economici relativi,
richiedano solo di essere attuati quale frutto di un agire comune. Questo agire
comune, però, ha bisogno di essere orientato, perché « ogni azione sociale
implica una dottrina ». Considerata la complessità dei problemi, è ovvio che le
varie discipline debbano collaborare mediante una interdisciplinarità ordinata.
La carità non esclude il sapere, anzi lo richiede, lo promuove e lo anima
dall'interno.
Nell’enciclica Caritas in veritate
troviamo sintetizzati molto
realisticamente tutti i problemi del mondo globalizzato contemporaneo.
Di seguito riporto i passi a mio avviso più
significativi.
21 […] Va tuttavia riconosciuto che lo stesso
sviluppo economico è stato e continua ad essere gravato da distorsioni
e drammatici problemi, messi ancora più in risalto dall'attuale
situazione di crisi. Essa ci pone improrogabilmente di fronte a scelte che
riguardano sempre più il destino stesso dell'uomo, il quale peraltro non può
prescindere dalla sua natura. Le forze tecniche in campo, le interrelazioni
planetarie, gli effetti deleteri
sull'economia reale di un'attività finanziaria mal utilizzata e per lo più
speculativa, gli imponenti flussi
migratori, spesso solo provocati e non poi adeguatamente gestiti, lo sfruttamento sregolato delle risorse della
terra, ci inducono oggi a riflettere sulle misure necessarie per dare
soluzione a problemi non solo nuovi
rispetto a quelli affrontati dal Papa Paolo VI,
ma anche, e soprattutto, di impatto decisivo per il bene presente e futuro
dell'umanità
[…]
22. Oggi il quadro dello sviluppo è policentrico. Gli attori e le
cause sia del sottosviluppo sia dello sviluppo sono molteplici, le colpe e i
meriti sono differenziati. […] Cresce
la ricchezza mondiale in termini assoluti, ma aumentano le disparità.
Nei Paesi ricchi nuove categorie sociali si impoveriscono e nascono nuove
povertà. In aree più povere alcuni gruppi godono di una sorta di supersviluppo
dissipatore e consumistico che contrasta in modo inaccettabile con perduranti
situazioni di miseria disumanizzante. […] A non rispettare i diritti umani dei
lavoratori sono a volte grandi imprese transnazionali e anche gruppi di
produzione locale.
[…]
23. Dopo
il crollo dei sistemi economici e politici dei Paesi comunisti dell'Europa
orientale e la fine dei cosiddetti “blocchi contrapposti”, sarebbe stato
necessario un complessivo ripensamento dello sviluppo. Lo aveva
chiesto Giovanni Paolo II, il quale nel 1987 aveva indicato
l'esistenza di questi “blocchi” come una delle principali cause del
sottosviluppo, in quanto la politica sottraeva risorse all'economia e alla
cultura e l'ideologia inibiva la libertà. Nel 1991, dopo gli avvenimenti del
1989, egli chiese anche che, alla fine dei “blocchi”, corrispondesse una
riprogettazione globale dello sviluppo, non solo in quei Paesi, ma anche in
Occidente e in quelle parti del mondo che andavano evolvendosi. Questo è
avvenuto solo in parte e continua ad essere un reale dovere al quale occorre
dare soddisfazione, magari profittando proprio delle scelte necessarie a
superare gli attuali problemi economici.
[…]
24. […] la Populorum progressio assegnava
un compito centrale, anche se non esclusivo, ai « poteri pubblici ».
Nella nostra epoca, lo Stato
si trova nella situazione di dover far fronte alle limitazioni che alla sua
sovranità frappone il nuovo contesto economico-commerciale e finanziario
internazionale, contraddistinto anche da una crescente mobilità dei capitali
finanziari e dei mezzi di produzione materiali ed immateriali. Questo nuovo
contesto ha modificato il potere politico degli Stati.
Oggi, facendo anche tesoro
della lezione che ci viene dalla crisi economica in atto che vede i pubblici poteri dello
Stato impegnati direttamente a correggere errori e disfunzioni, sembra più
realistica una rinnovata
valutazione del loro ruolo e del loro potere, che vanno saggiamente
riconsiderati e rivalutati in modo che siano in grado, anche attraverso nuove
modalità di esercizio, di far fronte alle sfide del mondo odierno.
[…]
25.
[…] Il mercato diventato globale ha stimolato anzitutto, da parte di Paesi
ricchi, la ricerca di aree dove delocalizzare le produzioni di basso costo al
fine di ridurre i prezzi di molti beni, accrescere il potere di acquisto e
accelerare pertanto il tasso di sviluppo centrato su maggiori consumi per il
proprio mercato interno. Conseguentemente, il mercato ha stimolato forme nuove
di competizione tra Stati allo scopo di attirare centri produttivi di imprese
straniere, mediante vari strumenti, tra cui un fisco favorevole e la
deregolamentazione del mondo del lavoro. Questi processi hanno comportato
la riduzione delle reti di
sicurezza sociale in cambio della ricerca di maggiori vantaggi
competitivi nel mercato globale, con grave pericolo per i diritti dei
lavoratori, per i diritti fondamentali dell'uomo e per la solidarietà attuata
nelle tradizionali forme dello Stato sociale. […] L'insieme dei cambiamenti
sociali ed economici fa sì che le organizzazioni
sindacali sperimentino maggiori difficoltà a svolgere il loro
compito di rappresentanza degli interessi dei lavoratori, anche per il fatto
che i Governi, per ragioni di utilità economica, limitano spesso le libertà
sindacali o la capacità negoziale dei sindacati stessi. Le reti di solidarietà
tradizionali trovano così crescenti ostacoli da superare.
[…]
La mobilità
lavorativa, associata alla deregolamentazione generalizzata, è stata
un fenomeno importante, non privo di aspetti positivi perché capace di
stimolare la produzione di nuova ricchezza e lo scambio tra culture diverse.
Tuttavia, quando l'incertezza circa le condizioni di lavoro, in conseguenza dei
processi di mobilità e di deregolamentazione, diviene endemica, si creano forme
di instabilità psicologica, di difficoltà a costruire propri percorsi coerenti
nell'esistenza, compreso anche quello verso il matrimonio. Conseguenza di ciò è
il formarsi di situazioni di degrado umano, oltre che di spreco sociale.
Rispetto a quanto accadeva nella società industriale del passato, oggi la
disoccupazione provoca aspetti nuovi di irrilevanza economica e l'attuale crisi
può solo peggiorare tale situazione. L'estromissione dal lavoro per lungo
tempo, oppure la dipendenza prolungata dall'assistenza pubblica o privata,
minano la libertà e la creatività della persona e i suoi rapporti familiari e
sociali con forti sofferenze sul piano psicologico e spirituale.
[…]
32. È
sempre la scienza economica a dirci che una strutturale situazione di
insicurezza genera atteggiamenti antiproduttivi e di spreco di risorse umane,
in quanto il lavoratore tende ad adattarsi passivamente ai meccanismi automatici,
anziché liberare creatività. Anche su questo punto c'è una convergenza tra
scienza economica e valutazione morale. I costi
umani sono sempre anche costi economici e le disfunzioni economiche
comportano sempre anche costi umani.
Va
poi ricordato che l'appiattimento delle culture sulla dimensione tecnologica,
se nel breve periodo può favorire l'ottenimento di profitti, nel lungo periodo
ostacola l'arricchimento reciproco e le dinamiche collaborative. È importante
distinguere tra considerazioni economiche o sociologiche di breve e di lungo
termine. L'abbassamento del livello di tutela dei diritti dei lavoratori o la
rinuncia a meccanismi di ridistribuzione del reddito per far acquisire al Paese
maggiore competitività internazionale impediscono l'affermarsi di uno sviluppo
di lunga durata.
63. Nella considerazione dei problemi dello
sviluppo, non si può non mettere in evidenza il nesso diretto tra povertà e disoccupazione. I
poveri in molti casi sono il risultato della violazione della dignità del lavoro umano, sia perché ne
vengono limitate le possibilità (disoccupazione, sotto-occupazione), sia perché
vengono svalutati « i diritti che da esso scaturiscono, specialmente il diritto
al giusto salario, alla sicurezza della persona del lavoratore e della sua famiglia
».
64. Riflettendo sul tema del lavoro, è opportuno
anche un richiamo all'urgente esigenza che le organizzazioni sindacali dei lavoratori, da sempre
incoraggiate e sostenute dalla Chiesa, si aprano alle nuove prospettive che
emergono nell'ambito lavorativo. Superando le limitazioni proprie dei sindacati
di categoria, le organizzazioni sindacali sono chiamate a farsi carico dei
nuovi problemi delle nostre società: mi riferisco, ad esempio, a quell'insieme
di questioni che gli studiosi di scienze sociali identificano nel conflitto tra
persona-lavoratrice e persona-consumatrice. Senza dover necessariamente sposare
la tesi di un avvenuto passaggio dalla centralità del lavoratore alla
centralità del consumatore, sembra comunque che anche questo sia un terreno per
innovative esperienze sindacali. Il contesto globale in cui si svolge il lavoro
richiede anche che le organizzazioni sindacali nazionali, prevalentemente
chiuse nella difesa degli interessi dei propri iscritti, volgano lo sguardo
anche verso i non iscritti e, in particolare, verso i lavoratori dei Paesi in
via di sviluppo, dove i diritti sociali vengono spesso violati.
La
chiara consapevolezza dei problemi sociali ed economici che troviamo
nell’enciclica Caritas in veritate - La
carità nella verità non si
accompagna ad una analoga di quelli politici
e questo si riflette nelle proposte di soluzioni, che appaiono fare appello,
essenzialmente, alla lungimiranza e all'etica dei governanti, dei padroni del mondo, nella
linea della prima dottrina sociale. Il contributo offerto dalla dottrina
sociale appare essere anzitutto intellettuale:
31. […] le valutazioni morali e la ricerca
scientifica devono crescere insieme e che la carità deve animarle in un tutto
armonico interdisciplinare, fatto di unità e di distinzione. La dottrina
sociale della Chiesa, che ha « un'importante
dimensione interdisciplinare » , può svolgere, in questa
prospettiva, una funzione di straordinaria efficacia. Essa consente alla fede,
alla teologia, alla metafisica e alle scienze di trovare il loro posto entro
una collaborazione a servizio dell'uomo. È soprattutto qui che la dottrina
sociale della Chiesa attua la sua dimensione sapienziale.
Si coglie in questo una importante correzione di rotta
rispetto a tutta la precedente dottrina sociale, la quale, in
particolare ai suoi esordi, fu diretta in primo luogo all’agitazione sociale, in difesa degli interessi politici del Papato.
La giustizia sociale viene presentata
essenzialmente come un problema morale, più che politico.
Non risalta particolarmente il collegamento
tra le dinamiche di mercato e l’assetto
politico del mondo globalizzato e
quindi la natura politica dell’ingiustizia sociale, come risultato del
prevalere di determinati interessi e gruppi sociali.
Il mercato, anche nella sua dimensione globale contemporanea, è visto
come realtà positiva:
35. Il mercato,
se c'è fiducia reciproca e generalizzata, è l'istituzione economica che
permette l'incontro tra le persone, in quanto operatori economici che
utilizzano il contratto come regola dei loro rapporti e che scambiano beni e
servizi tra loro fungibili, per soddisfare i loro bisogni e desideri. Il
mercato è soggetto ai principi della cosiddetta giustizia commutativa, che regola appunto i rapporti del
dare e del ricevere tra soggetti paritetici. Ma la dottrina sociale della
Chiesa non ha mai smesso di porre in evidenza l'importanza della giustizia distributiva e
della giustizia sociale per
la stessa economia di mercato, non solo perché inserita nelle maglie di un
contesto sociale e politico più vasto, ma anche per la trama delle relazioni in
cui si realizza. Infatti il mercato, lasciato al solo principio
dell'equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella
coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare. Senza forme interne di solidarietà e
di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria
funzione economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare, e
la perdita della fiducia è una perdita grave.
Per cui si conclude
che, pur se “[…]il mercato non è, e non deve perciò
diventare, di per sé il luogo della sopraffazione del forte sul debole”, “la
società non deve proteggersi dal mercato, come se lo sviluppo di quest'ultimo
comportasse ipso facto la
morte dei rapporti autenticamente umani”, con grave sottovalutazione dei
problemi politici posti dalle attuali dinamiche di mercato. Queste ultime
corrispondono ad un assetto politico dato al mondo dalle potenze sopravvissute al
crollo dei regimi comunisti di scuola sovietica, che grazie alle dinamiche del nuovo mercato globalizzato hanno consolidato la loro
egemonia a livello mondiale. E’
ragionevole che possano riuscire volontariamente a riformarsi nel senso della
giustizia sociale? E quale dovrebbe essere l’agente politico di questa riforma?
E quali sono le conseguenze sul piano religioso di una mancata riforma?
La via indicata nell’enciclica è
fondamentalmente quella dell’etica, non della politica:
45.[…] L'economia
infatti ha bisogno dell'etica per il suo corretto funzionamento; non di un'etica
qualsiasi, bensì di un'etica amica della persona. Oggi si parla molto di etica
in campo economico, finanziario, aziendale.
Si coglie il ritorno di una certa sfiducia nei
processi democratici:
43.[…] Se, invece, i diritti dell'uomo trovano il
proprio fondamento solo nelle deliberazioni di un'assemblea di cittadini, essi
possono essere cambiati in ogni momento e, quindi, il dovere di rispettarli e
perseguirli si allenta nella coscienza comune.
come se democrazia e valori potessero essere separati, e fosse concepibile
una democrazia senza valori.
La correzione
degli effetti negativi delle dinamiche di mercato è affidata, oltre che al
senso etico dei governanti e degli imprenditori, vale a dire dei padroni del
mondo di oggi, ad un’autorità mondiale, nella linea della dottrina sociale
dagli anni ’60:
67. […] urge la presenza di una vera Autorità politica mondiale, quale è
stata già tratteggiata dal mio Predecessore, il Beato Giovanni XXIII.
che però ancora
non esiste: dovrebbe sorgere, si afferma, da una “riforma sia dell'Organizzazione
delle Nazioni Unite che dell'architettura economica e
finanziaria internazionale”.
La sensazione che si ha, leggendo l’enciclica, è di un mondo in cui, in
fondo, il Papato si trova bene, per cui ne consiglia alcuni correttivi di tipo sociale
ed economico, su base fondamentalmente etica, e di etica religiosa,
affidandoli a coloro che finora ne hanno diretto le dinamiche.
Del resto il suo autore, e per
certi versi redattore-coordinatore di un più ampio gruppo di lavoro, è un uomo
formatosi nella Germania occidentale, sistema politico ad orientamento
capitalistico che dagli anni ’90 ha
guidato, mediante partiti democratici ma
fondamentalmente conservatori, in particolare con ideologia politica
cristiano-conservatrice, i processi di integrazione europea e, in particolare,
quello di creazione dell’Unione Europea.
La dottrina sociale nacque e si
sviluppò, invece, in un mondo in cui il Papato non si trovava bene, per cui ne
voleva la riforma politica,
addirittura la rivoluzione, come
accadde in particolare nel primo ventennio
dalla prima enciclica sociale del 1891.
4. Gli eventi
accaduti nel 2013 nel Papato ancora non sono stati ben compresi. Occorrerà che
passi ancora molto tempo prima che possa esservi fatta luce. Sicuramente si
trattò di una fase drammatica, in cui maturò la rinuncia la papato da parte di
Joseph Ratzinger e l’elezione di papa Francesco, Jorge Mario Bergoglio, vescovo
argentino.
Il magistero di papa Francesco ha segnato una
potente ripresa dell’azione politica del Papato. Alcuni vedono la sua figura come
contrapposta a quella di san Wojtyla, il quale fu assai critico e severo nei
confronti della dottrina sociale espressa dal 1968 dai vescovi centro e sud-americani
riuniti nel CELAM, il Consiglio Episcopale Latino-Americano. Ciò che mi appare
avvicinare il magistero dei due Papi è la dimensione politica, espressa da san Wojtyla in particolare tra il 1978 e il
1991, prima degli anni della malattia. E’ possibile ipotizzare che la
nostalgia, da parte di cardinali per la gran parte creati da san Wojtyla, del
papato del primo Wojtyla abbia condotto alla elezione del cardinale argentino. Ed
è anche possibile ipotizzare, nella maggioranza degli elettori del Conclave,
una certa presa di distanza dal papato espresso dal Ratzinger, il quale
verosimilmente ebbe sempre più influenza nella politica papale già negli
ultimi anni del regno del suo predecessore, quelli della fase più grave della
malattia.
Il magistero di papa Francesco è quello di uno
che non si trova bene nel mondo di oggi. In ciò vedo una analogia con la prima
dottrina sociale, quella espressa da un Papato che si sentiva come prigioniero nei palazzi vaticani. Ma il suo magistero se ne differenzia
abbastanza in quanto non è espressione tanto di un disagio del Papato, come
istituzione di vertice della Chiesa a livello universale, ma di un mondo di
fede che, nell’ordinamento politico ed economico del mondo di oggi, si è
trovato nella condizione di chi sta peggio. In questo senso è un magistero popolare, come di espressione di una
realtà sociale di popolo, alla quale papa Francesco fa spesso riferimento nei
suoi discorsi. Nei confronti del Papato, come centro politico e ideologico
della nostra Chiesa, papa Francesco ha voluto esprimere un nuovo atteggiamento politico, in particolare nella rinuncia
ai segni della sovranità. Ha continuato infatti a vivere nell’albergo in
Vaticano dove era stato ospitato ai tempo del Conclave. Aveva cominciato Giovanni Battista Montini, in
religione Paolo 6°, rinunciando ad indossare, nelle cerimonie pubbliche, il Triregno, la pesante corona a tre strati
da imperatore religioso universale ricevuta dal Papato da una tradizione secolare.
L’oggetto fu venduto, per esprimere la sua completa desacralizzazione.
Al centro dell’azione sociale e politica del
Papato, secondo la concezione del Papa regnante, non è più, come alle origini, il
Papato stesso, con i suoi interessi di istituzione nella società politica del suo
tempo, ma lo sono i popoli di fede, che, nella linea dell’enciclica Populorum Progressio - Lo sviluppo dei
popoli (1967), vennero chiamati all’azione, e, oggi, con papa Francesco,
anche alla lotta. Questo è l’ordine di idee che troviamo nell’enciclica Laudato si’ del 2015.
E’ significativa questa citazione dell’enciclica
Populorum Progressio - Lo sviluppo dei
popoli che troviamo nella Laudato si’:
102. Conviene ricordare sempre che l’essere umano
è nello stesso tempo «capace di divenire lui stesso attore responsabile del suo
miglioramento materiale, del suo progresso morale, dello svolgimento pieno del
suo destino spirituale».
Parafrasando un’espressione di resistenti
cattolici italiani, è come se ci venisse
detto che non ci sono liberatori, ma
popoli che si liberano.
E’ inoltre significativo il gran numero di citazioni da
pronunce in materia di dottrina sociale di conferenze episcopali di tutto il
mondo. Si richiama un movimento di popolo a livello mondiale.
La riforma sociale a livello globale, mondiale, è presentata e
richiesta come necessaria innanzi tutto per la sopravvivenza dell’umanità, non
per permettere al Papato di continuare in modo libero la sua missione
religiosa.
Mentre nella prospettiva del Ratzinger,
regnante come Benedetto 16° dal 2005 al 2013, si presentavano come necessari
dei correttivi innanzi tutto nel campo dell’economia
mondializzata, in quella di Bergoglio, regnante come papa Francesco da 2013, è una vera e propria rivoluzione di popolo, di coloro che nell’attuale ordine
mondiale hanno avuto la peggio, che viene richiesta. Il problema è individuato
innanzi tutto nelle dinamiche di mercato, vale a dire in un ordinamento
politico internazionale, globalizzato, che permette un mercato in grado di
porre in pericolo la sopravvivenza dell’umanità, travolgendo spregiudicatamente
persone e ambiente naturale seguendo la legge del più forte, la legge della
giungla.
Con il suo magistero sociale, papa Francesco
si è messo in rotta di collisione con gli interessi nazionali della potenza
politica egemone nel continente americano, gli Stati Uniti d’America, in
particolare all’era della presidenza federale del repubblicano Donald Trump. In
questo sicuramente si differenzia molto dal contesto di riferimenti politici in
cui si situava il Papato di san Wojtyla, alleato con gli Stati Uniti del
presidente repubblicano Ronald Reagan negli anni della rivoluzione polacca. Ma è tutto l’ordine
politico mondiale di oggi che è messo politicamente
in questione. L’appello alla lotta di quelli che stanno peggio, invitati a farsi attori responsabili del loro miglioramento
materiale e morale, rende per certi
aspetti il magistero di papa Francesco sovversivo,
in quanto teso a cambiamenti radicali, e ciò nella linea del magistero sociale
delle origini. Tuttavia, a differenza di quest’ultimo, la sovversione non è
invocata contro gli sviluppi di processi democratici, ma contro una politica e
una economia contrastanti con i processi democratici. E’ veramente
spettacolare, in questo senso, il magistero
costituzionale espresso dal Papa in Italia, vale a dire come maestro della
democrazia piena di valori umani con i richiami alla nostra Costituzione. In
questo egli si raccorda con l’ultimo grande impegno del cattolicesimo
democratico italiano dagli anni ’90, quello in difesa dei valori costituzionali
repubblicani.
Possiamo concludere che, con il magistero di
papa Francesco, sia conclusa la lunga crisi della dottrina sociale?
Certamente si è avuta una ripresa di quella
dottrina, intesa come pronunce del magistero. Bisognerà vedere, però, l’efficacia
che essa avrà nel popolo di fede. In Italia, in particolare, si viene da un
lungo periodo di annichilimento del pensiero e dell’azione in società secondo i
valori della fede. In questo tempo ogni tipo di dissenso è stato sanzionato duramente
con l’emarginazione. L’ho potuto constatare molto da vicino, ad esempio, negli
ultimi anni di mio zio Achille, sociologo ed un tempo esponente piuttosto
considerato del laicato di fede italiano, che, avendo criticato pubblicamente
alcune prese di posizione del suo vescovo in materia di immigrazione, mi
apparve improvvisamente un po’ messo da parte, in una specie di dimenticatoio
religioso. Ne fecero menzione le sue sorelle, quando, dopo un certo tempo dalla
morte di mio zio, furono invitate in arcivescovato, mi pare quando il nuovo
arcivescovo decise di presenziare all’intitolazione a mio zio del Dipartimento
di sociologia dell’Università di Bologna.
Si è visto che, cambiato il papa, può
cambiare tutto. Allora la gente si mantiene prudente. Quello ora regnante è un Papa che ha molti e potenti nemici. Ed è
in rotta di collisione con gli interessi nazionali di una nazione, gli Stati
Uniti d’America, che non ha mai perdonato nessuno che le si sia opposto.
Il destino della dottrina sociale, la sua fine
o la sua vera ripresa, dipenderà dal contesto di popolo nel quale riuscirà di
nuovo a radicarsi. Questo richiede un lavoro che in Europa, e in particolare in
Italia, mi pare appena agli inizi.
ario Ardigò -
Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli