INFORMAZIONI UTILI SU QUESTO BLOG

  Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

  This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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  Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

  Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

  Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

  Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente due martedì e due sabati al mese, alle 17, e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

 Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

 La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

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martedì 31 ottobre 2017

Sotto gli occhi di tutti

Sotto gli occhi di tutti

  C’è la convinzione che le cose non vadano bene. Lo sento dire in giro alla gente in mezzo alla quale mi trovo. Che cos’è che non va?
   Molti hanno la sensazione di avere meno soldi. Se si perde il lavoro non lo si ritrova, specialmente quando si hanno più di cinquant’anni. I più giovani riescono a trovare lavoro con difficoltà e spesso è lavoro mal retribuito e precario. C’è più libertà di licenziare e i giudici non possono farci nulla.  Molti giovani cercano lavoro all’estero: oltre centomila italiani all’anno partono. Prendere soldi in prestito costa poco, mai così poco come ora. Ma se non si ha un lavoro stabile non è possibile ottenerli. Allora non si riesce a comprare casa e in affitto costano troppo. Una volta si costruivano case pubbliche che poi venivano date in affitto a prezzi moderati: oggi questo settore è praticamente fermo. Allora in questo campo è iniziata la legge della giungla: chi è più forte prende la casa pubblica assegnata a chi è più debole o muore. Se muore l’assegnatario, i parenti non restituiscono la casa pubblica da lui abitata, finché qualcuno sfonda la porta e se la prende. I servizi pubblici, sanità e trasporti in testa, ma anche l’acqua, pulizia delle strade e raccolta dei rifiuti, peggiorano e diventano più costosi. E questo mentre i più hanno meno soldi. Allora si inizia a non pagare le tariffe  e questo aggrava la situazione. Questa che ho descritto non è però la condizione di tutti. C’è una ristretta fascia della popolazione che in questi anni si è arricchita. E’ quella che controlla l’economia privata o che collabora con essa in posizioni forti. Mentre quello che i più ricavano dai propri risparmi è bassissimo, intorno al 2% annuo al massimo, i profitti di quest’altra parte della società sono spesso dieci volte tanto e anche di più. La crisi non colpisce tutti nello stesso modo. C’è ricchezza, non quella di piccoli risparmiatori,  che si è costruita il modo di sganciarsi da ogni crisi economica, lasciandosi dietro i rottami. Fluttua in un mercato mondiale che consente transazioni veloci e sicure. Riesce a  mettere in crisi stati interi. Impone le condizioni del lavoro, in particolare i salari, il livello delle retribuzioni. I profitti sembrano incomprimibili, i salari, le retribuzioni dei lavoratori dipendenti, sembrano poter essere compressi indefinitamente. I più ricchi non si accontentano mai, per loro le tasse sono sempre troppe; gli altri devono sempre accontentarsi e la quota di tasse che va a loro beneficio, ad esempio per i servizi sociali, si riduce, innanzi tutto perché va molto lo slogan “Meno tasse!”  e poi perché impiegare le tasse per far star meglio le masse sembra denaro buttato. Sembra più utile impiegarle per incentivare i più ricchi, quelli che controllano l’economia privata, a diventare ancora più ricchi, sperando che un po’ di ciò che ricavano in più vada anche agli altri.
  Se questa analisi è corretta, la causa dei problemi sociali è molto chiara: sta in un’economia sbilanciata in favore di ceti ristretti della popolazione, quelli che controllando l’economia sono i più ricchi. Chi dovrebbe riequilibrare la situazione? Da sola essa non cambia. Occorre agire d’autorità. E sono solo i poteri pubblici che ce l’hanno. Tuttavia i poteri degli stati di piccole e medie dimensioni non bastano, perché l’economia si è integrata in un sistema mondiale: quindi bisogna agire a questo livello, su questa scala, ci vogliono potenti istituzioni pubbliche, in grado di governare interi continenti. E’ quello che si sta tentando nella comunista Repubblica popolare di Cina. Essa ha abbandonato l’idea della  giustizia sociale, che caratterizzava il socialismo europeo. Punta a un  moderato benessere  delle masse. In Italia chi se lo proponesse avrebbe probabilmente molti sostenitori. La via del comunismo cinese è questa: consentire in certi settori economici diseguaglianze fortissime, come nei sistemi di capitalismo liberista, in modo da rendere competitive sui mercati mondiali le produzioni cinesi, ma, ad un certo punto, prelevare d’autorità una quota piuttosto rilevante dei profitti privati per investirli a favore dell’altra parte della società. Questo viene fatto secondo il metodo comunista nella versione leninista, senza tante discussioni. Chi non ci sta perde tutto. Le condizioni di lavoro dei cinesi impegnati nelle produzioni a regime capitalista sono peggiori di quelle degli europei, ma tendono lentamente a migliorare. Chi non trova impiego in questo settore, lo trova in quelli controllati dallo stato e anche lì le condizioni tendono lentamente a migliorare. In Europa, ora, manca questa parte. In Occidente, chi non riesce a impiegarsi nelle lavorazioni capitaliste rimane affidato più o meno a sé stesso e in quelle lavorazioni le condizioni peggiorano. E nel settore pubblico si assume poco. In Cina si è partiti da una condizione di povertà e rispetto ad essa si sta migliorando; in Europa accade il contrario. Davvero dobbiamo rinunciare al proposito di  giustizia sociale, vale a dire a condizioni di equo benessere, non solo di generale  moderato  benessere, limitando le diseguaglianze estreme, per le quali, ad esempio, come ci riferiscono gli statistici, poche decine di persone controllano una ricchezza equivalente a quella nelle mani di miliardi? Democrazia e giustizia sociale sono andate sempre di pari passo, nel senso che uno dei principali incentivi allo sviluppo democratico è stata l’idea di realizzare la giustizia sociale. La giustizia sociale è nell’interesse delle masse e in democrazia le maggioranze governano. Come accade però anche in democrazia si sia abbandonata l’idea di giustizia sociale? E’ essenzialmente un problema culturale, di convinzioni condivise in una certa società.
   I politologi ancora non se lo spiegano: nei sistemi democratici si finisce per non fare l’interesse delle masse di chi in società sta peggio ed è in maggioranza. Sembra che la gente si fidi di più di chi è più ricco, di chi in società sta meglio, che quindi prevale politicamente anche se è in minoranza. In genere è perché si pensa che chi si propone la giustizia sociale non sia capace di governare la società e che, dandogli retta, si finisca per stare peggio. C’è un eclatante esempio storico: quello della rivoluzione russa prodottasi a partire dal 1917. Solo negli anni ’70 le condizioni della gente caduta nel dominio dei comunisti sovietici cominciarono a migliorare, anche se la disoccupazione non esisteva, era addirittura vietata, tutti avevano un lavoro, la casa (anche se in coabitazione) e cure sanitarie gratuite. Fino agli anni ’60 la condizione delle masse sovietiche appariva, agli occhi degli Occidentali, piuttosto misera. Quando migliorò, si cominciò a pensare alla democrazia e tutto cambiò, in un processo che non fu istantaneo, ma che dura dal 1991 a tutt’oggi. Ora in Russia si sta seguendo una via che assomiglia in certe cose a quella cinese e per altre a quella statunitense. Come negli Stati Uniti d’America c’è ricchezza stratosferica per alcuni e tanta povertà.
 Un’altra ragione per la quale le masse hanno fiducia nei più ricchi è culturale: il sistema dell’informazione  è controllato da chi in società sta meglio. In genere quindi prevale l’idea che cambiando le cose nel senso della giustizia sociale si starebbe peggio. E si propone l’incubo sovietico come monito contro ogni riforma profonda della società. Ma vi sono state ere in cui, in Occidente, si è seguita la via della giustizia sociale riformando in meglio la società mantenendo il metodo e i valori democratici. Avvenne, ad esempio, negli Stati Uniti d’America, dopo lo scatenarsi della grave crisi recessiva dal 1929, sotto la presidenze di Franklin Delano Roosevelt. Ma accadde anche in Italia per circa un ventennio, negli anni Sessanta e Settanta, l’epoca in cui le condizioni di tanta gente migliorarono velocemente, per poi iniziare lentamente a peggiorare fino ad oggi. Si guarda al passato e ci si accorge che chi è oggi più giovane sta peggio di chi era giovane in quell’epoca.
 Ma, mi si potrebbe far osservare, in tutto ciò dove sono gli immigrati, che sono al centro del dibattito politico di oggi? Non ci sono. I guai della gran parte della gente, di quelli che in società stanno peggio, di quelli che lo scrittore Primo Levi chiamava  i sommersi, non sono causati da loro. Essi sono, in genere, parte di chi in società sta peggio, quando non appartengono al ceto sociale dominante, transnazionale, per il quale le frontiere non esistono. E come definire una politica che si concentra prevalentemente su un problema che c’è, ma è marginale, non occupandosi invece di quello che è all’origine vera della sofferenze di tanta gente? Di ciò che, in definitiva, è sotto gli occhi di tutti, o almeno di coloro che hanno ancora occhi per vedere.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli


lunedì 30 ottobre 2017

Non c’è più nulla di sacro?

Non c’è più nulla di sacro?

 E’ esperienza comune che tutto in noi e intorno a noi cambia più o meno velocemente. Lo sforzo di sempre delle culture umane è stato quello di sottrarre qualcosa o qualcuno al cambiamento. In filosofia c’è chi ha detto che è tempo perso e chi ha invece sostenuto che in questo sta l’umano. Le religioni in genere sono state di quest’ultima opinione, ma loro stesse sono cambiate a cambiano, come tutto ciò che è cultura, vale a dire consuetudini e convinzioni sociali.
  Ciò che viene sottratto al mutamento viene sacralizzato, che significa distinguerlo da ciò che cambia. Intorno ad esso si costruiscono dei divieti rituali, vale a dire non giustificati da altra esigenza che sottrarre quello che difendono dal cambiamento. Questo processo significa  santificare.
 Nelle religioni primitive si iniziò con il sacralizzare la natura. Fino al Seicento fu sacralizzata  la centralità della Terra, il nostro pianeta, nell’universo. L’era contemporanea iniziò quando si superò questa concezione, quando essa mutò e quindi venne  desacralizzata.
  Come spiegò molto efficacemente Umberto Eco in diversi articoli divulgativi, non è vero che nell’antichità si fosse convinti che la Terra fosse piatta. Ad esempio, nella medievale Divina Commedia  del fiorentino Dante Alighieri l’Inferno è rappresentato come un grande buco nella Terra: scendendo fino in fondo si sbuca dall’altra parte, opposta,  di un pianeta sferico, dove c’è il Purgatorio. Ma in ambiente cristiano ci si convinse che la Terra fosse al centro dell’universo. Fu difficile staccarsi da questa convinzione, che non resse all’osservazione scientifica del cosmo. Questo processo creò problemi religiosi, tanto che gli scienziati che sostenevano quella nuova idea vennero inquisiti come eretici. Più o meno nella stessa epoca in cui la centralità della Terra venne desacralizzata, iniziò anche la desacralizzazione della politica. Gli europei avevano sacralizzato la politica intorno alla nostra fede. Dall’anno Mille si era costruita una sacralizzazione del Papato romano.
  Desacralizzare  il Papato? Non significa negare il legame della sua missione con la religione, ma ammettere che la sua struttura istituzionale possa cambiare, possa essere riformata.
  Nelle civiltà espresse dagli europei contemporanei c’è una sola istituzione ancora sacralizzata ed è la moneta. Ma il processo di sacralizzazione della moneta è molto recente: risale alla metà degli scorsi anni Quaranta. Per quanto però si tentasse di sacralizzarla, fu sempre evidente che anche la moneta, in particolare il suo valore commerciale, cambiava continuamente. Anche il tentativo di agganciarla al valore di una merce molto pregiata come l’oro fallì, nel corso di crisi economiche negli scorsi anni ’70. Resistevano con una certa stabilità solo alcune monete emesse da sistemi politici molto potenti, sia economicamente che militarmente.
  La moneta è una merce particolare: serve solo per favorire gli scambi commerciali. Il suo valore dipende dalla credibilità delle istituzioni che la emettono. Solo istituzioni molto potenti possono limitarne le oscillazioni. Ma esse sono costantemente giudicate dagli operatori di mercato: il valore della moneta non è totalmente nelle mani delle istituzioni che la emettono, ma essenzialmente in quelle di chi compra e chi vende. E questo riguarda anche le monete più forti.
   Il processo di costruzione della nostra nuova Europa non è partito, dalla metà degli scorsi anni ’40, da un’unificazione politica di tipo rivoluzionario, come ad esempio era accaduto nella nascita degli Stati Uniti d’America, né da conquiste territoriali ad opera e a vantaggio del sistema politico più forte, come era avvenuto sempre nella storia (anche l’unità nazionale italiana si è fatta in questo modo). Si è iniziato con l'avvicinare le economie nazionali, consapevoli che l’economia è uno dei motori più importanti dell’evoluzione storica, anche se non il solo. Ad un certo punto questo ha consentito di pensare a una moneta comune, che avrebbe consentito di affrancare le economie europee dalla sfera economica degli Stati Uniti d’America e dalla loro moneta, il dollaro. Infatti la politica monetaria statunitense, con i suoi pesanti riflessi sull’economia, veniva fatta tenendo conto prevalentemente dell’interesse nazionale degli Stati Uniti d’America. Per rendere stabile la nuova moneta, la si sacralizzò, affidandola ad una sorta di classe sacerdotale, i banchieri centrali degli stati federati nel sistema della moneta unica, l’Euro, che non comprende tutti gli stati che aderiscono all’Unione Europea: essi ora cooperano alla gestione della moneta comune in un’istituzione europea centralizzata e autonoma dai poteri politici europei che è la Banca Centrale Europea.  La forza della moneta comune consiste appunto nell’essere  comune  e quindi sottratta ai cambiamenti legati alle stagioni politiche degli stati membri, i quali, considerati uno per uno, hanno economie minori rispetto alla più grandi economie mondiali.
  La stabilità di una moneta forte dipende anche da decisioni politiche, appunto di politica monetaria. Questo perché il valore della moneta dipende da come la si usa nel mercato e quindi bisogna fare in modo che ce ne sia sempre abbastanza in giro e mai troppa. A volte non ce n’è abbastanza perché, come di questi tempi, gli operatori non hanno fiducia nel futuro e non la spendono. Allora l’economia entra in crisi e storicamente uno dei rimedi che si sono trovati è quello di creare e mettere in circolazione  più  moneta, con vari strumenti.  Ma, se si vuole che la moneta rimanga stabile, essa deve poi  tornare  dove è stata creata, un po’ come accade nel ciclo dell’acqua, che dalla terra sale al cielo e poi vi ritorna. Quindi chi riceve moneta dalla Banca Centrale Europea la deve restituire pagando un prezzo a seconda del tempo che l'ha avuta a sua disposizione: questo prezzo è stabilito dalla banca centrale, è uno degli strumenti fondamentali della politica monetaria e si chiama tasso di sconto.  Certe crisi economiche hanno una componente monetaria che crea una sorta di  siccità  nel mercato. Allora il lavoro della banca centrale è un po' come quello di chi irriga i campi coltivati.
  Si vorrebbe che le decisioni di politica monetaria fossero essenzialmente tecniche, quindi basate sulle conoscenze scientifiche in materia di fatti economici. Si cerca per questo di mandare a dirigere le banche centrali degli stati, e  quella centrale europea, delle persone super-competenti. Il loro primo lavoro è quello di osservare realisticamente i fatti economici, di acquisire dati statistici affidabili e soprattutto di interpretarli correttamente. Possono farlo perché le dinamiche economiche sono espresse in termini monetari e i flussi della moneta sono gestiti dalle banche centrali. Di questo a volte i capi politici si manifestano insofferenti, perché può accadere che l’osservazione realistica della società, quale ad esempio emerge dalla relazione annuale del Governatore della Banca d’Italia (che di solito viene diffusa a maggio di ogni anno), non confermi le loro opinioni, le loro strategie e risultati che si vantano di aver raggiunto. La missione dei banchieri centrali non è quella di essere degli  yes-men,   vale a dire persone che dicono sempre  sì  a chi pretende di comandare in società. Ciò che dicono non dovrebbe essere propaganda. E’ una condizione che condividono con le magistrature.
 Ma alcune grandi decisioni di politica monetaria, vale a dire quelle che riguardano il governo della moneta, hanno sicuramente stretti legami con altri aspetti politici, quindi con il governo di altri settori della società, dei quali in particolare si occupano i Parlamenti e i Governi nazionali e regionali. Questo in particolare nelle fasi recessive dell’economia, quando si decide che cosa si debba tentare di salvare innanzi tutto, da dove cominciare.
  Innanzi tutto: è giusto sacralizzare  la moneta, nel senso di ritenere la sua stabilità uno dei principali valori sociali, da anteporre ad altri anche molto importanti?
  Una moneta stabile consente di conservare nel tempo il valore del risparmio. Nella mia adolescenza, ai tempi in cui ci fu un’inflazione (perdita di valore della moneta nazionale) altissima, il tempo mangiava i risparmi della gente, nel senso che rapidamente perdevano il loro valore di acquisto. Nel 1980, ad esempio, in un anno perdevano circa il 20% di questo valore. Ora che l’inflazione oscilla tra lo 0 e l’1% circa, si sostiene però che la stabilità della moneta ha costi sociali troppo forti, che le masse sono diventate più povere e che, in definitiva, la moneta forte serve a difendere i capitali, vale a  dire le risorse che i più ricchi investono nella produzione economica ricavandone profitti di gran lunga superiori alle rendite del risparmio. E’ vero? Come è accaduto?
  Il problema non è, sostengono alcuni, nella moneta come istituzione, ma nei rapporti di forza sociali, in particolare in quelli espressi nel mercato: si  è lasciato troppo spazio e libertà in società agli attori economici più forti e questo ha fatto crescere a livelli stratosferici le diseguaglianze sociali. La moneta si limita a misurare questa situazione. In passato si è ritenuto che il  liberismo  economico, vale a dire appunto lasciare campo libero agli attori più forti, facesse bene all’economia, facendo arricchire i più ricchi, ma anche tutti gli altri. Non è andata così. Lo ha osservato, ad esempio, il Papa, nella sua enciclica Laudato si’.
109. Il paradigma tecnocratico tende ad esercitare il proprio dominio anche sull’economia e sulla politica. L’economia assume ogni sviluppo tecnologico in funzione del profitto, senza prestare attenzione a eventuali conseguenze negative per l’essere umano. La finanza soffoca l’economia reale. Non si è imparata la lezione della crisi finanziaria mondiale e con molta lentezza si impara quella del deterioramento ambientale. In alcuni circoli si sostiene che l’economia attuale e la tecnologia risolveranno tutti i problemi ambientali, allo stesso modo in cui si afferma, con un linguaggio non accademico, che i problemi della fame e della miseria nel mondo si risolveranno semplicemente con la crescita del mercato. Non è una questione di teorie economiche, che forse nessuno oggi osa difendere, bensì del loro insediamento nello sviluppo fattuale dell’economia. Coloro che non lo affermano con le parole lo sostengono con i fatti, quando non sembrano preoccuparsi per un giusto livello della produzione, una migliore distribuzione della ricchezza, una cura responsabile dell’ambiente o i diritti delle generazioni future. Con il loro comportamento affermano che l’obiettivo della massimizzazione dei profitti è sufficiente. Il mercato da solo però non garantisce lo sviluppo umano integrale e l’inclusione sociale. Nel frattempo, abbiamo una «sorta di supersviluppo dissipatore e consumistico che contrasta in modo inaccettabile con perduranti situazioni di miseria disumanizzante»,[citazione dalla Esortazione apostolica  Evangelii Gaudium - La gioia del Vangelo, del 24-11-13] mentre non si mettono a punto con sufficiente celerità istituzioni economiche e programmi sociali che permettano ai più poveri di accedere in modo regolare alle risorse di base. Non ci si rende conto a sufficienza di quali sono le radici più profonde degli squilibri attuali, che hanno a che vedere con l’orientamento, i fini, il senso e il contesto sociale della crescita tecnologica ed economica.
  Nell’umanità contemporanea vi è un altro processo di sacralizzazione  che è quello dei  diritti umani fondamentali. Esso ha origine religiosa e, in particolare, nella nostra fede. Al centro, la persona, la sua vita e la sua dignità: in religione se ne ritiene il fondamento soprannaturale.
  Si dice, ad esempio:  il lavoro è sacro:
Lavorare – ripeto, in mille forme – è proprio della persona umana. Esprime la sua dignità di essere creata a immagine di Dio. Perciò si dice che il lavoro è sacro. E perciò la gestione dell’occupazione è una grande responsabilità umana e sociale, che non può essere lasciata nelle mani di pochi o scaricata su un “mercato” divinizzato. Causare una perdita di posti di lavoro significa causare un grave danno sociale. Io mi rattristo quando vedo che c’è gente senza lavoro, che non trova lavoro e non ha la dignità di portare il pane a casa. E mi rallegro tanto quando vedo che i governanti fanno tanti sforzi per trovare posti di lavoro e per cercare che tutti abbiano un lavoro. Il lavoro è sacro, il lavoro dà dignità a una famiglia. [Papa Francesco, discorso all’udienza generale 19-8-15, sul Web in
https://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2015/documents/papa-francesco_20150819_udienza-generale.html
  La grande importanza del lavoro c’è anche scritta nella nostra Costituzione, dove si pone il lavoro come  fondamento  della nostra Repubblica e si afferma che l’eguaglianza  tra gli esseri umani non è una condizione statica, ma un processo di liberazione che riguarda innanzi tutto i lavoratori  nella loro dignità di persone.
 Viene prima la dignità del lavoro, condizionata dai fatti economici, o la forza della moneta, che si vorrebbe salvare dalla mutevolezza dei fatti economici? La dignità del  lavoro deve essere sacrificata sull’altare della sacralizzazione della moneta o la moneta come istituzione sociale, come politica, come governo dei flussi delle risorse sociali,  deve anche servire a difendere la condizione della persona lavoratrice? Questa è appunto una delle grandi questioni politiche implicate nelle elezioni nazionali della prossima primavera.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli


domenica 29 ottobre 2017

Società costruite in aderenza

Società costruite in aderenza


Palazzi costruiti in aderenza in via della Giuliana, a Roma



Epigrafe sulla facciata di un palazzo in Largo Trionfale, in fondo a via della Giuliana 

  Il nostro quartiere è fatto di palazzoni separati l’uno dall’altro da strade e cortili. C’è però un altro modo di costruire ed è quello degli edifici  in aderenza,  come si è fatto in via della Giuliana, a Roma, vicino a dove lavoro. E’ architettura degli anni ’30. Nello slargo in fondo alla strada, all’incrocio con viale delle Milizie, una scritta  su un palazzo, una epigrafe, ce ne informa: “Dulce post laborem domi manere  - a. fund. ad MCMXXXII - XI E.F.”, che significa “E’ dolce stare a casa dopo la fatica del lavoro - Costruita nell’anno del Signore 1932, 11° dell’Era fascista [che si contava dal 28-10-22, giorno della Marcia su Roma]. Scritte così ce ne sono anche sui palazzi di piazza Sempione, che risalgono agli anni Venti. Dicono che è bello avere una famiglia, una casa, un lavoro. Il regime dell’epoca si vantava di darli alle masse.    In via della Giuliana, con le case costruite in aderenza, vale a dire con palazzi che sono addossati gli uni agli altri in modo da sorreggersi a vicenda, non si potrebbe abbatterne uno senza mettere in pericolo la stabilità degli altri. Così: persa la casa, la famiglia per strada, nessun posto dove riposarsi dopo il lavoro. Ebbene: anche la nostra società, quella da cui dipendono la nostra vita, il nostro benessere e la nostra sicurezza  è costruita in questo modo. Ci si illude se si pensa di poterne staccare una parte, come vorrebbero sovranisti  e  secessionisti. Ma anche l’Unione Europea è fatta nello stesso modo. In un mondo globalizzato  come quelli in cui ci troviamo, con l’economia fortemente integrata a livello mondiale, non possono si può più sopravvivere come piccole patrie.
  E’ appunto questo il vicolo cieco in cui si è cacciata la Catalogna, guidata da una classe politica sovranista  e  secessionista. L’idea che una regione fortemente integrata nell’economia europea e dipendente in tutto dalla politica europea, come quella catalana, possa sopravvivere staccandosi  dal contesto, come stato indipendente, nel senso di non legato da relazioni solidali con ciò che c’è intorno: è questo il senso dell’indipendenza rivendicata da secessionisti catalani. Fare da soli, nel senso di tenersi tutto ciò che la regione produce. L’idea ha avuto corso anche in Italia.
 Ora però la Catalogna è di fronte ad un imminente disastro politico ed economico. L’incertezza istituzionale già la danneggia. Una Catalogna indipendente significherebbe poi uno stato che dovrebbe affrontare un lungo percorso di adesione all’Unione Europea, che non potrebbe nemmeno iniziare senza il consenso del Regno di Spagna. Se andasse bene, se si riuscisse ad ottenere una separazione consensuale, sarebbero più o meno dieci / quindici anni di trattative con l’Unione Europea, durante i quali si dovrebbero prendere dure misure economiche per consentire al nuovo stato di integrarsi nel nuovo contesto istituzionale. Sarebbe dura senza la solidarietà degli spagnoli. Un piccolo stato finirebbe per subire le direttive dei colossi europei. Un percorso analogo a quello fatto dalla Slovenia e durato dal 1991 al 2004, ma in un ciclo economico non recessivo come l’attuale e con italiani e tedeschi, i più potenti vicini, favorevoli. E se le cose si mettessero male, vale a dire prendessero la piega del processo di secessione che negli anni ’90 si abbatté in Croazia e in Bosnia, con anni di crudeli guerre? O, comunque, anche senza arrivare a quegli estremi, se il nuovo corso fosse caratterizzato da violenze di piazza e da scontri con le forze armate spagnole? I processi rivoluzionari, come quello che è in corso in Catalogna, raramente si sono svolti pacificamente.
  L’esempio catalano è la dimostrazione di ciò che può accadere scegliendo una certa classe politica, come avviene alle elezioni nazionali  e come, in Catalogna, è avvenuto anche con elezioni regionali.
  Si parla una certa lingua di antica tradizione: basta per costruire uno stato separato? Ed è morale proporsi di farsi indipendenti per rompere secolari legami di solidarietà? E veramente questi legami, al dunque, sono solo una palla al piede? Il processo di unificazione europea si è dispiegato sulla base di principi esattamente opposti: genti con lingue, culture ed economie diverse hanno trovato vantaggioso legarsi molto strettamente, arrivando ad istituzioni comuni. Come potrebbe uno stato fattosi indipendente seguendo criteri contrastanti con quelli della nostra nuova Europa  pensare di portare a termine con successo l’adesione europea come entità autonoma? E senza adesione all'Unione Europea sarebbe la catastrofe economica per un piccolo stato come vorrebbe costruirlo i secessionisti catalani. Come potrebbe la nuova repubblica essere solidale con gli altri stati europei, compreso il Regno di Spagna, quindi su grande scale,   se si è già mostrato  insofferente ad esserlo in quello di origine, su scala minore?  E' una contraddizione su cui forse non si è fatta sufficiente attenzione. Ma accade anche in Italia.
  Una classe politica insufficiente potrebbe portare in Italia ad una crisi sociale ed economica molto più grave di quella vissuta negli anni passati e che non è ancora risolta. Se, ad esempio, si scegliesse di separare ciò che è costruito in aderenza, in Italia e nell’Unione Europea. Potrebbe crollare tutto.
  Si sente dire spesso, dai futuri candidati, che vogliono cambiare l’Europa. Ma avranno la cultura per farlo? Hanno intrattenuto in questi anni le relazioni giuste? A volta sono persone che non potrebbero affrontare una discussione tecnica in una delle lingue  di lavoro  correnti nell’amministrazione europea, l’inglese, il francese e il tedesco, e che mostrano poca dimestichezza con gli ambienti sovranazionali: come pensano di poter cambiare le cose in Europa? Non basta, per questo, battere un pugno sul tavolo e fare la voce grossa, minacciare e fare certe piazzate da comizio.
  Più ambizioso è l’obiettivo, più colta e capace deve essere la persona che si candida a guidare la società per raggiungerlo. E, se si punta veramente in grande, non basta più una persona, ma serve una squadra, perché nessuno, oggi, è in grado di fronteggiare tutti i temi coinvolti nelle grandi riforme. Ogni capo politico dovrebbe essere quindi in grado di spiegare non solo ciò che vorrebbe produrre con la sua azione, ma anche di indicare le persone che collaboreranno con lui in questo lavoro.
  La vicenda della Catalogna, per quanto molto dolorosa per la sua gente e per quella delle regioni intorno, vale a dire per i popoli che secondo gli insegnamenti della dottrina sociale dovrebbero comportarsi come un'unica famiglia, ci sarà utile come esempio. E’ infatti un laboratorio sociale e politico  dove si vedrà sperimentalmente che cosa accade quando si sceglie la via sovranista e secessionista, quella di liberarsi dai legami solidali. Se le cose andranno male, come probabilmente accadrà se non ci si uscirà dall’attuale vicolo cieco, si potranno trarre argomenti contro la proposta di percorrere la medesima via, anche in forme attenuate ma nella stessa linea, in Italia. E’ politica miope quella che pensa di salvare parti della società staccandone quelle più ricche: ci si salva solo tutti insieme o insieme si crolla. La nostra società è infatti costruita  in aderenza  come i palazzi in via della Giuliana.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli.


sabato 28 ottobre 2017

48ª Settimana Sociale “Il lavoro che vogliamo: libero, creativo, partecipativo, solidale” Cagliari, 26-29 ottobre 2017. Intervento di Sergio Gatti, Vicepresidente del Comitato Scientifico Cagliari, 26 ottobre 2017 .

Dal WEB:
http://www.settimanesociali.it/wp-content/uploads/2017/10/Gatti-26-ottobre.pdf

48ª Settimana Sociale “Il lavoro che vogliamo: libero, creativo, partecipativo, solidale” Cagliari, 26-29 ottobre 2017

 Intervento di Sergio Gatti, Vicepresidente del Comitato Scientifico
Cagliari, 26 ottobre 2017

Buon pomeriggio a tutti.
1. I luoghi e i volti.

I luoghi hanno un’anima e parlano.
  C’è un angolo su questo palco che raccoglie e ricorda gli strumenti di lavoro di ieri, di oggi e di domani. Alcuni tipici di questa terra misteriosa e affascinante che è la Sardegna. Terra di pastori, di pescatori, di agricoltori, di minatori, di operai, di imprenditori, di migranti “economici”, di ricercatori, di in-novatori.
  I volti sono legati ad un luogo, sono espressione di una famiglia, una comunità, un territorio dove vivono. I ritratti sono i protagonisti di questa Settimana Sociale. Il lavoro ha a che fare con le persone e con i luoghi, anche nell’era del lavoro digitale, del lavoro a distanza, del lavoro “agile”.
   Il lavoro in Sardegna è una questione molto complessa.
  In Italia anche. Ma è ancora più complessa, la questione lavoro, in quel continente che comincia a un’ora di volo da qui facendo rotta verso sud.
  La Sardegna è al centro delle due sponde Mediterranee, quella europea e quella africana.
  I volti, lo avete sentito da mons. Santoro, sono stati al centro della nostra riflessione. E’ stato il nostro approccio differente. I numeri, le tendenze, le analisi statistiche sono indispensabili, ma in questo caso vengono un momento dopo.
  Il primo dei 75 passi verso Cagliari che abbiamo proposto nell’Instrumentum Laboris ricorda come lavorare voglia dire “diventare più uomo e più donna”, voglia dire “partecipare alla creazione del mon-do”.
  Anche oggi e qui, allora ripetiamo l’esercizio. Cominciamo dai volti. Immagine e somiglianza del Creatore, il più grande fra i lavoratori…
  Non possiamo all’esordio di queste giornate, non dedicare un pensiero e una preghiera a coloro che a causa del lavoro hanno perso la vita, ai loro familiari, ai loro colleghi, ai loro amici. Sono stati 696 nei primi nove mesi di questo 2017.
  E non possiamo non ricordare e non pregare per almeno tre persone che hanno perduto la vita, per ma-no di altri uomini, perché col loro lavoro volevano riformare le regole del lavoro degli altri, rendere migliore il lavoro degli italiani.
  Indipendentemente dalla condivisione o meno delle loro idee e delle loro proposte, vogliamo ricordare Ezio Tarantelli, Massimo D’Antona, Marco Biagi.
2. La nostra Settimana Sociale
  La nostra Settimana Sociale è una Settimana 4x4.
  E’ stata chiamata ad arrampicarsi su piste impegnative. Ma con un motore pieno di energia, un carburante raro che è la fiducia tenace. La fiducia è quella risorsa contro-intuitiva, è scarsa ma più la usi più cresce. E non rovina l’ambiente, anzi lo tonifica.
  Nella storia ultra-centenaria delle Settimane Sociali, il lavoro era stato messo a tema solo altre due volte, nel 1946 e nel 1970. Ed erano anch’esse stagioni travagliate, passaggi d’epoca dove cambiavano paradigmi e la storia doveva scavalcare una faglia. Anche allora, erano strade in salita.
  Nel 1946, la Settimana Sociale accompagnò di fatto la scrittura della nostra Costituzione. La XX si tenne a Venezia anch’essa in ottobre ed era dedicata a I problemi del lavoro.
  Cinque mesi dopo, l’Assemblea costituente - era il pomeriggio del 24 marzo di 71 anni fa - approvò l’articolo 1 della Costituzione. Con quel voto si chiuse un dibattito che era durato mesi al quale contri-buirono La Pira, Dossetti, Togliatti, Tupini e tanti altri. I lavori della Settimana Sociale veneziana eb-bero il loro peso. Matrici culturali e politiche diverse giunsero ad una sintesi. Il testo della Costituzione è quello che conosciamo, “la Repubblica si fonda sul lavoro”. Pilastro laico di democrazia e libertà
  Nel 1970 la 40ma Settimana Sociale si tenne a Brescia e accompagnò la nascita dello Statuto dei lavo-ratori, una pietra miliare della storia sociale ed economica del nostro Paese.
  Nel 2017 questa nostra edizione guarda al lavoro come origine e, allo stesso tempo, al lavoro come de-stinazione della transizione più penetrante che stiamo vivendo, la transizione tecnologica. Il lavoro sta cambiando profondamente.
  In uno studio dell’Università di Oxford si rileva che il 47% dei lavori che conosciamo non ci sarà più da qui al 2037, vent’anni. “Ma a estinguersi saranno le professioni che possono essere sostituite dalla robotica e dall’intelligenza artificiale. Per il resto non ci sarà necessariamente un aumento della disoc-cupazione, bensì un cambiamento del mercato del lavoro”.
  Non è detto che a Oxford abbiano ragione sulle percentuali. Ma il fenomeno è reale, è in atto. Di qui la centralità della preparazione delle competenze. La digitalizzazione, l’automazione, la gestione dei dati delle persone, le nuove modalità di selezione e fruizione dei servizi-acquisto dei prodotti ci riguardano. Il governo dello sviluppo tecnologico ci pone responsabilità inedite.
  Come un’onda che cambia in silenzio eppure in profondità i nostri tratti antropologici: “the product is me”, il prodotto dell’economia digitale è ciascuno di noi.
  In questi mesi di lavoro come Comitato abbiamo annotato alcune cose sul nostro taccuino, tutte di sapore politico e culturale. Alcune:
• intervenire per diminuire le disuguaglianze e impostare una relazione positiva tra condizione di lavoro umano e innovazione tecnologica. È di questi giorni un saggio sulle nuove disuguaglianze, tra queste anche la divaricazione tra lavoratori a più alta qualifica (con maggiore occupabilità e migliori condizioni reddituali) e lavoratori con mansioni a basso tasso di conoscenza;
• coordinarsi a livello internazionale per evitare forme di dumping sociale;
• indirizzare il rafforzamento della capacità tecnologica verso modelli competitivi basati sull’innovazione e sulla qualità dei prodotti piuttosto che sulla compressione dei costi del lavoro;
• aggiornare in modo strutturale le competenze a fronte dei nuovi paradigmi produttivi che cam-biano il concetto di luogo e di tempo di lavoro. Nascono nuove figure professionali che richiedono competenze costantemente aggiornate;
• investire sul capitale delle conoscenze: istruzione, formazione professionale, sintonizzazione tra accumulazione di conoscenze e lavoro, nuovi profili manageriali;
• superare il gap infrastrutturale di alcune nostre regioni;
• affrontare l’emergere di nuove professioni e nuovi mercati caratterizzati dall’assenza di una re-golamentazione capace di garantire diritti e tutele adeguati e la giusta valorizzazione del lavoro.
• non dimenticare limiti preesistenti e cruciali per il lavoro e l’economia italiana, quali la denata-lità e la longevità della popolazione, la necessità di ridurre lo squilibrio di genere nel mercato del lavoro (in termini sia di maggiore occupazione femminile, sia di riduzione del differenziale retributivo e contributivo, sia di contrasto alla violenza fuori e dentro i luoghi di lavoro), l’economia illegale, le di-suguaglianze territoriali e la gestione sostenibile dei processi di internazionalizzazione delle relazioni economiche.
  Su tutti questi fronti abbiamo visto che chi ha responsabilità politiche è impegnato. Una stagione di riforme si è avviata. I numeri dell’occupazione sono in crescita, non ancora abbastanza. I giudizi e le valutazioni sono aperti e i più diversi. Le chiavi di lettura sono ormai diverse. Alcune norme hanno visto la luce. Altre non ancora e sono urgenti. Ne parleremo.
3. Perché una Settimana 4x4?
  Perché siamo partiti da quattro aggettivi.
  Abbiamo lavorato su quattro registri e utilizzato quattro linguaggi.
  Abbiamo poi organizzato le proposte attorno a quattro capitoli.
  E vorrei con voi provare a orientarmi attorno a quattro domande cardinali.
3.1. I quattro aggettivi.
Sono quelli che ci hanno accompagnato: “libero, creativo, partecipativo, solidale”. Li ha scritti di proprio pugno Papa Francesco quando era arcivescovo di Buenos Aires. Li ha poi ripresi e incisi nella sua Evangelii gaudium.
  Quattro aggettivi riferiti al lavoro che diventa quelle quattro cose lì solo ad una condizione. Se chi lavora, se i lavoratori sono liberi, creativi, partecipativi, solidali. Solo le persone possono portare nel lavoro libertà, creatività, partecipazione, solidarietà. Nessun decreto di per sé potrà renderlo quelle quat-tro cose lì, nessun contratto di lavoro è in se stesso sufficiente.
  Occorre quindi investire sulle persone, che hanno un volto, sulla crescita integrale di quei volti. Ognuno con una propria radice e con un proprio presente e un domani che si può costruire.
Il nostro fondatore, il fondatore delle Settimane Sociali, Giuseppe Toniolo, ebbe a scrivere che il cri-stiano che vuole incidere sull’economia deve avere due cose: competenza e visione.
  E che il capitale e le banche debbono essere al servizio del lavoro.
  Sono visioni semplici eppure lungimiranti, quasi rivoluzionarie. Possono trovare applicazione oggi in-tervenendo su approcci culturali e sulle regole.
(Ne avete trovato traccia nell’IL (=strumento di lavoro), ai punti 53, 54 ma anche la 73.)
3.2. Dopo gli aggettivi, i quattro registri.
  La denuncia, l’ascolto e il racconto, l’Atlante delle buone pratiche, le proposte responsabili e coraggio-e.
3.3. I quattro linguaggi.
  Le foto di volti e l’infografica: la mostra itinerante dedicata al lavoro che non vogliamo.
  Il cinema: il film-reportage su Il lavoro che vogliamo
 Le esperienze di vita – una ricerca e una selezione accurata, applicando una precisa metodologia - che narrano un’Italia poco raccontata.
  Infine le parole dette e scritte, la riflessione, il confronto, l’elaborazione, un pezzo teatrale.
  I quattro linguaggi hanno preso forma per la prima volta nella storia delle Settimane utilizzando strate-gicamente tutti i canali di comunicazione e di coinvolgimento: dalla app dedicata a ciascuno di voi ai social, al sito, oltre che giornali, tv, radio, i convegni, i seminari, i workshop.
3.4. Le quattro sfere delle proposte.
  Ne accenno solo i titoli.
  La centralità della formazione.
  Il nuovo lavoro.
  I nuovi modelli di vita.
  La strategicità dell’Europa.
3.5. Infine quattro domande-bussola alle quali rispondere insieme.
1. Dove eravamo rimasti?
  Annodiamo il filo delle Settimane Sociali. Sì, non possiamo non vedere dove eravamo rimasti nel 2013, a Torino, quando il tema della Settimana Sociale era la famiglia. Alcune proposte hanno trovato un seguito, vuoi sul piano culturale vuoi su quello normativo. La verifica ex post è un esercizio dove-roso.
2. Dove vogliamo approdare?
  Vogliamo provare a portare cambiamento.
  Con gli impegni che assumeremo, con le proposte che metteremo a punto, affinando alcune di quelle già scritte nell’IL e con quelle che emergeranno dai 99 tavoli, dalle visite ai luoghi di lavoro, dai tre panel paralleli.
3. Come vogliamo arrivarci?
  Sviluppando il metodo che abbiamo voluto sperimentare. Il metodo della partecipazione, dello studio, del capire per proporre.
  Ci siamo messi in ascolto, abbiamo cercato di leggere non solo i documenti e le statistiche, ma anche il mondo reale.
 Cerchiamo di influenzare gli esiti e orientare le soluzioni.
 Facendo tesoro di quanto scritto da associazioni, istituzioni, parti sociali, singoli, lavoratori e studenti, da quanto rilevato col metodo della ricerca-selezione-classificazione delle “buone pratiche”. Ma soprattutto con il confronto, la condivisione, la discussione anche vivace, l’elaborazione che emergerà in queste giornate cagliaritane.
4. Come vogliamo salutarci ripartendo da Cagliari?
  Partiremo da Cagliari ognuno più ricco e più capace di incidere nel proprio ambito. E potremmo ripar-tire da Cagliari ognuno con una sorta di “manifesto” di proposte chiare e di impegni responsabili. Un “manifesto” che potrà contenere almeno quattro ingredienti:
- l’Instrumentum Laboris: 75 passi verso Cagliari;
- un messaggio al Paese, a tutti gli italiani. Non solo ai Cattolici italiani che vivono dentro e fuori l’Italia; non solo ai cattolici in Italia, quelli non italiani che vivono e lavorano in Italia. Un messaggio sul senso del lavoro, sulla dimensione politica del lavoro, sulla necessità del lavoro che unge di dignità il pane quotidiano: perché lavorare a tutti gli italiani. Quelli che…
- gli impegni che si assume la comunità ecclesiale italiana;
- un pacchetto articolato di proposte concrete, alcune le consegneremo al Governo Italiano altre alle Istituzioni europee, in particolare all’unica Istituzione democraticamente eletta, ovvero il Parlamento europeo.
  Questo Manifesto dovrà ancora essere tenace e robusto come una quattro per quattro. Perché Cagliari è solo una tappa.
 Le proposte saranno di tre tipi: alcune immediatamente cantierabili, altre strutturali, altre ancora “profetiche”.
  Le proposte cantierabili, che cercheremo di rendere precise e tecnicamente solide, potrebbero anche trovare spazio tra le misure della Legge di stabilità per il 2018 che il presidente Gentiloni sabato pro-babilmente ci illustrerà nei suoi capitoli dedicati al lavoro.
  Le proposte strutturali potrebbero richiedere una maturazione politica e normativa di medio periodo.
  Le proposte profetiche sono quelle che richiedono anche un passaggio culturale, istituzionale, politico, infine normativo.
4. La Settimana Sociale, cos’è.
  La Settimana Sociale è il luogo che produce novità. Non c'è spazio per la sfiducia, per la paura. La Set-timana Sociale non è il luogo per quanti si lasciano prendere da qualche dose di cinismo e dalla tenta-zione di rinunciare. Le Settimane Sociali sono nate per affrontare e possibilmente risolvere problemi, non per studiarli e basta.
  Le Settimane Sociali sono una forma di “Chiesa in uscita”, di “Chiesa col grembiule”.
  Il nostro impegno individuale è indispensabile, ma quasi mai è sufficiente per costruire cambiamento, per cambiare in meglio il lavoro che non va, per contribuire a costruire quello che non c'è, a trasforma-re quello fuorilegge. La dottrina sociale ha portato cambiamento. Dalla Rerum novarum alla Populo-rum progressio, dalla Laborem Exercens alla Laudato Si’.
  Puntavano al cambiamento e lo hanno generato. In modi diversi. Anche ispirando politiche economiche.
  I nostri cercatori di lavoro hanno trovato molte storie, gli imprenditori, i lavoratori, i professionisti, i sindaci, gli amministratori, i legislatori, gli insegnanti, i sindacalisti, i pastori. Ne è nato una sorta di “movimento”. Il “movimento” ha preso piede, è in cammino. E Cagliari è una tappa.
  Lungo la pista per giungere a Cagliari abbiamo incontrato tutt'altro che indifferenza. Nelle nostre gior-nate abbiamo incontrato il dolore, la sofferenza, la disillusione. Ma hanno prevalso i loro contrari.
  Se è vero che oggi dobbiamo denunciare il lavoro che non vogliamo, è ancora più vero che vogliamo soprattutto raccontare un’Italia diversa, un’Italia che probabilmente è maggioranza.
  La responsabilità e il coraggio dell’intrapresa e non la pigrizia comoda dell'attesa. L'adrenalina e la de-terminazione della sfida da vincere e non l'apatia e la mollezza degli alibi che deresponsabilizzano.
5. Una stagione di riforme. Qualcosa si sta muovendo.
  La strada per costruire il lavoro che vogliamo si è nutrita di buone pratiche, bellissimi incontri, e ci sarà una ragione se l'Italia è seconda in Europa per manifattura e prima per produzione ed esportazione di prodotti agricoli. In forte crescita nel turismo. All’avanguardia nella robotica per la produzione e nella ricerca e produzione farmaceutica. E molto altro.
  Siamo ancora indietro, ma intanto 800 mila occupati negli ultimi tre anni sono stati registrati
  La strada è lunga, non mancano ostacoli e difficoltà.
  La forza per affrontarli verrà dall’importanza della sfida che abbiamo accolto. Dalla vitalità di ciò in cui crediamo.
  Valori cristiani e in quanto tali universali: la libertà, la solidarietà, la democrazia, la partecipazione, la creatività:
  Azioni concrete che traducono il credere operoso, lo sperare tenace, l'amare paziente.
  La forza viene anche dal pensiero evangelico, per definizione controcorrente.
Abbiamo di fronte il Discorso della montagna, dove i vinti di questa Terra sono dichiarati beati, e i vincitori un po' meno.
  Senza dimenticare che in quello stesso giorno del Discorso della montagna Gesù di Nazareth insegna-va per la prima volta il Padre nostro ai suoi discepoli. Che si può anche interpretare come Pane nostro. Dacci il nostro lavoro quotidiano per il pane materiale, quello spirituale, quello intellettuale.
  Il lavoro – che, ripeto, unge di dignità il pane quotidiano - percorre l’Antico e il Nuovo testamento. Prevale il pastore nell’Antico, più frequente il pescatore nel Nuovo. Abramo e Mosè conducono il gregge sulle alture, Gesù nasce tra i pastori e cresce in casa di falegnami, ma poi si dedica alla pesca, ai pescatori, al pesce che mangia e fa mangiare anche quando risorge.
  Dal Vangelo che nutre l’andare controcorrente, deriva anche a noi che siamo qui la forza per diminuire le disuguaglianze, per chiedere che la stabilità macroeconomica e quella finanziaria siano al servizio dello sviluppo durevole e inclusivo, che valorizza l’ambiente naturale e punta alla coesione sociale e al dinamismo delle generazioni. Con la consapevolezza dei vincoli che abbiamo.
Cinquant’anni fa, la Populorum Progressio ha dato frutti.
  Il lavoro è il motore della populorum progressio. Il cattivo lavoro e il non lavoro, possono essere la causa della populorum regressio. Guardiamo avanti.
  La Speranza è quella che Sant’Agostino descrive con due gambe, lo sdegno e il coraggio. Nei nostri giorni di Cagliari la denuncia e la proposta sono sdegno e sono coraggio.

Grazie e buon lavoro!

Provincialismo

Provincialismo


  Il provincialismo è il concentrarsi sugli immediati dintorni di casa propria quando si è lontani dal centro della cultura di riferimento in una certa epoca, intesa la cultura come sistema di costumi sociali e convinzioni condivise. Sotto questo profilo la politica italiana, compresa quella guidata dal pensiero sociale cattolico italiano, è provinciale. E’ essenzialmente un problema di cultura, intesa come formazione alla conoscenza del mondo contemporaneo, delle sue principali dinamiche sociali, dei suoi aspetti critici e potenzialmente pericolosi. Questo poi diminuisce la credibilità in campo internazionale e depriva la politica della capacità di stringere le relazioni che contano. Si va all’estero un po’ sempre come in gita, da turisti. E’ una realtà molto diversa dall’ambiente in cui si forma la dottrina sociale. Quest’ultima, partita a metà Ottocento da una situazione di provincialismo, per reagire al problema creato in Italia al piccolo regno dei Papi nell’Italia centrale dal nazionalismo italiano, si è allargata fino a comprendere una visione globale dello sviluppo umano ed è sorretta da relazioni sociali su scala mondiale, da quello che appare una specie di ONU religiosa. In questo quadro il pensiero sociale espresso dai cattolici italiani è sostanzialmente provinciale.
   La svolta si ebbe negli anni Sessanta. Due documenti, in particolare, la segnalarono: la Costituzione pastorale Gaudium et spes - La gioia e la speranza, deliberata durante il Concilio Vaticano 2° (1962-1965) e l’enciclica  Populorum progressio - Lo sviluppo dei popoli, diffusa nel 1967 dal papa Giovanni Battista Montini, Paolo 6° in religione.
  L’enciclica seguì il metodo della Costituzione nel partire da una realistica e sintetica considerazione dei problemi del mondo intero:
I. PER UNO SVILUPPO INTEGRALE DELL’UOMO
1. I DATI DEL PROBLEMA
Aspirazioni degli uomini
6. Essere affrancati dalla miseria, garantire in maniera più sicura la propria sussistenza, la salute, una occupazione stabile; una partecipazione più piena alle responsabilità, al di fuori da ogni oppressione, al riparo da situazioni che offendono la loro dignità di uomini; godere di una maggiore istruzione; in una parola, fare conoscere e avere di più, per essere di più: ecco l’aspirazione degli uomini di oggi, mentre un gran numero d’essi è condannato a vivere in condizioni che rendono illusorio tale legittimo desiderio. D’altra parte, i popoli da poco approdati all’indipendenza nazionale sperimentano la necessità di far seguire a questa libertà politica una crescita autonoma e degna, sociale non meno che economica, onde assicurare ai propri cittadini la loro piena espansione umana, e prendere il posto che loro spetta nel concerto delle nazioni.
Colonizzazione e colonialismo
7. Di fronte alla vastità e all’urgenza dell’opera da compiere, gli strumenti ereditati dal passato, per quanto inadeguati, non fanno tuttavia difetto. Bisogna certo riconoscere che le potenze colonizzatrici hanno spesso avuto di mira soltanto il loro interesse, la loro potenza o il loro prestigio, e che il loro ritiro ha lasciato talvolta una situazione economica vulnerabile, legata per esempio al rendimento di un’unica coltura, i cui corsi sono soggetti a brusche e ampie variazioni. Ma, pur riconoscendo i misfatti di un certo colonialismo e le sue conseguenze negative, bisogna nel contempo rendere omaggio alle qualità e alle realizzazioni dei colonizzatori che, in tante regioni abbandonate, hanno portato la loro scienza e la loro tecnica, lasciando testimonianze preziose della loro presenza. Per quanto incomplete, restano tuttavia in piedi certe strutture che hanno avuto una loro funzione, per esempio sul piano della lotta contro l’ignoranza e la malattia, su quello, non meno benefico, delle comunicazioni o del miglioramento delle condizioni di vita.
Squilibrio crescente
8. Fatto questo riconoscimento, resta fin troppo vero che tale attrezzatura è notoriamente insufficiente per affrontare la dura realtà dell’economia moderna. Lasciato a se stesso, il suo meccanismo è tale da portare il mondo verso un aggravamento, e non una attenuazione, della disparità dei livelli di vita: i popoli ricchi godono di una crescita rapida, mentre lento è il ritmo di sviluppo di quelli poveri. Aumenta lo squilibrio: certuni producono in eccedenza beni alimentari, di cui altri soffrono atrocemente la mancanza, e questi ultimi vedono rese incerte le loro esportazioni.
Aumentata presa di coscienza
9. Nello stesso tempo, i conflitti sociali si sono dilatati fino a raggiungere le dimensioni del mondo. La viva inquietudine, che si è impadronita delle classi povere nei paesi in fase di industrializzazione, raggiunge ora quelli che hanno una economia quasi esclusivamente agricola: i contadini prendono coscienza, anch’essi, della loro "miseria immeritata". A ciò s’aggiunga lo scandalo di disuguaglianze clamorose, non solo nel godimento dei beni, ma più ancora nell’esercizio del potere. Mentre una oligarchia gode, in certe regioni, di una civiltà raffinata, il resto della popolazione, povera e dispersa, è "privata pressoché di ogni possibilità di iniziativa personale e di responsabilità, e spesso anche costretta a condizioni di vita e di lavoro indegne della persona umana".
Urti di civiltà
10. Inoltre l’urto tra le civiltà tradizionali e le novità portate dalla civiltà industriale ha un effetto dirompente sulle strutture, che non si adattano alle nuove condizioni. Dentro l’ambito, spesso rigido, di tali strutture s’inquadrava la vita personale e familiare, che trovava in esse il suo indispensabile sostegno, e i vecchi vi rimangono attaccati, mentre i giovani tendono a liberarsene, come d’un ostacolo inutile, per volgersi evidentemente verso nuove forme di vita sociale. Accade così che il conflitto delle generazioni si carica di un tragico dilemma: o conservare istituzioni e credenze ancestrali, ma rinunciare al progresso, o aprirsi alle tecniche e ai modi di vita venuti da fuori, ma rigettare in una con le tradizioni del passato tutta la ricchezza di valori umani che contenevano. Di fatto, avviene troppo spesso che i sostegni morali, spirituali e religiosi del passato vengano meno, senza che l’inserzione nel mondo nuovo sia per altro assicurata.
11. In questo stato di marasma si fa più violenta la tentazione di lasciarsi pericolosamente trascinare verso messianismi carichi di promesse, ma fabbricatori di illusioni. Chi non vede i pericoli che ne derivano, di reazioni popolari violente, di agitazioni insurrezionali, e di scivolamenti verso le ideologie totalitarie? Questi sono i dati del problema, la cui gravità non può sfuggire a nessuno.
  Questa visione globale manca in genere alla politica italiana, che si presenta quindi piuttosto impoverita rispetto ad esempi del passato. Nei congressi dei partiti fino agli anni ’70, i principali esponenti politici iniziavano il loro discorso in assemblea con una lunga analisi della situazione mondiale, che poteva durare alcune ore. Non ci si aspettava nulla di meno da loro. Ai tempi nostri i politici si affidano qualche volta ad un libro per spiegare la loro visione del mondo, ma spesso non appare farina del loro sacco, come si dice, ma frutto di un lavoro collettivo dei loro collaboratori. Infatti poi non ne parlano in pubblico, come se nemmeno loro, che formalmente ne sono gli autori, ne avessero molta dimestichezza. Veramente pochi hanno la capacità di maneggiare il pensiero espresso dall’attuale dottrina sociale. A volte vi fanno rapidi riferimenti, ma essenzialmente rimandando all’autorità del Papa, che nessuno osa più contrastare apertamente in politica.
  Bisogna dire che pochi capi politici nel mondo intero appaiono capaci di una visione globale dello sviluppo umano. Ve ne sono nella nostra Unione Europea, che è ancora un lavoro collettivo di grande portata, che richiede visione globali. Alcuni italiani vi stanno facendo un grande tirocinio e  saranno, verosimilmente, quelle che vengono definite riserve della Repubblica, le persone destinate alle più alte responsabilità in futuro. Tra essi Mario Draghi, presidente della Banca Centrale Europea, Antonio Tajani, presidente del Parlamento Europeo  e prima membro della Commissione europea, e Federica Mogherini, membro e vice presidente della Commissione europea e Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Nessuno di loro si è formato nell’ambiente del cattolicesimo sociale italiano. L’ultimo con analoghe esperienze internazionali ad esserlo è stato Romano Prodi, già presidente della Commissione Europea.
 Sono spesso provinciali i politici italiani, ma in questo sono lo specchio di noi cittadini. La dottrina sociale ci spinge però ad esserlo meno. In certe condizioni, quando il provincialismo è manifestazione del disinteresse per le sofferenze altrui, ci insegna che esso è addirittura una colpa sociale, da cui redimerci. Ma per riuscirci occorre fare uno sforzo per recuperare dalla nostra cultura, che sicuramente abbiamo essendo una società molto scolarizzata, conoscenze e argomenti. Questo lavoro è molto importante, in particolare, quando si avvicinano elezioni politiche nazionali, in questi mesi, ad esempio, in cui i partiti stanno preparando i loro programmi elettorali. Annusano l’aria e cercano di capire le vie preferite dai loro elettori di riferimento. Se ci mostreremo provinciali, anche quei programmi lo saranno. Poiché però i problemi dell’Italia hanno dimensione globale, come insegna chiaramente la dottrina sociale, programmi dettati da provincialismo risulteranno inefficaci.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli


  

venerdì 27 ottobre 2017

48ª Settimana Sociale “Il lavoro che vogliamo: libero, creativo, partecipativo, solidale” Cagliari, 26-29 ottobre 2017 Riflessione Biblica a cura di Luigino Bruni

Dal WEB:
http://www.settimanesociali.it/materiali/27-ottobre-2017-riflessione-biblica-di-luigino-bruni/

48ª Settimana Sociale “Il lavoro che vogliamo: libero, creativo, partecipativo, solidale” Cagliari, 26-29 ottobre 2017
Riflessione Biblica  a cura di Luigino Bruni

Cagliari, 27 ottobre 2017
 “Ho osservato anche che ogni lavoro e ogni industria degli uomini non sono che invidia dell'uno verso l'altro. Anche questo è vanità, un correre dietro al vento. L’idiota incrocia le sue braccia e divora la sua carne. Meglio riempire un palmo di calma che due mancia-te di affanno e compagnia di vento” (Qohelet 4, 4-6). Qohelet continua la critica della sua società e alle sue vanità. Vede ‘sotto il sole’ uomini che si affannano nella concorrenza, in una competizione che per Qohelet non è l’anima dello sviluppo ma solo il risultato dell’invidia sociale. Ha visto uomini superarsi in un gioco dove tutti perdono, ‘gare posizionali’ senza traguardo. Lo ha visto nel suo mondo, e noi lo vediamo ancora di più nel nostro. E quindi torna forte il suo giudizio: hebel, vanità, fumo, rincorsa sciocca di vento. Al lato opposto di questa frenesia, Qohelet vede chi rinuncia alla gara, incrociando le braccia nell’inattività. Neanche questa è sapienza. È stolto almeno quanto la competizione invidiosa della prima scena.
 E poi ci indica una via saggia: lasciare libera una mano perché il suo palmo possa essere riempito dalla calma, dal riposo, dalla ‘consolazione’. Le due mani dell’uomo non de-vono essere impegnate nella stessa attività: se è stolto colui che le lascia entrambe inerti è altrettanto folle chi le occupa col solo lavoro frenetico. Il frutto del lavoro e dell’industria può essere goduto solo se lasciamo uno spazio libero di non-lavoro, se un palmo è vuoto e può accogliere il frutto conquistato dall’altro. È folle chi non lavora mai, più folle chi lavora sempre.
 La nostra civiltà si è costruita attorno alla condanna dell’ozio, e ha dato vita ad una cultura della vita buona fondata sul lavoro, istituendo un legame fondamentale tra dignità umana, democrazia e lavoro. Le braccia inattive perché non si vuole o non si può lavorare nell’età del lavoro, non sono braccia generatrici di benessere né di gioia. Nella corsa che la civiltà occidentale ha iniziato da alcuni decenni, però, ci siamo dimenticati la seconda follia-vanità del saggio Qohelet: la vita è fumo e fame di vento anche per il troppo lavoro. Il lavoro è buono solo nei suoi giusti ‘tempi’.
  In quella cultura antica era ancora molto viva l’esperienza dell’Egitto e di Babilonia, quando gli ebrei diventati schiavi lavoravano sempre, con entrambe le mani. Soltanto gli schiavi e coloro ridotti in schiavitù dall’invidia e dall’avidità si affannano sempre e solo per il lavoro. È difficile dire se oggi soffre di più il disoccupato che incrocia innocente le braccia o il manager superpagato che trascorre il Natale in ufficio perché il lavoro poco alla volta gli ha mangiato, come tutti gli idoli, anima e amici. Sofferenze diverse, entrambi molto gravi, ma la seconda non la vediamo come follia e vanitas, e la incentiviamo.
  È il rapporto tra l’uno e il due che è al centro di questa capitolo di Qohelet: “E tornai a considerare quest'altra vanità sotto il sole. C’è chi è solo [è uno, non due], non ha nes-suno, né figlio né fratello. Eppure senza fine si affatica, né il suo occhio è mai sazio di ricchezza: «Ma per chi è il mio penare, per chi mi privo di felicità?». Fumo anche que-sto, misera sorte” (4,7-8). Siamo di fronte ad una pagina stupenda, un vero e proprio  distillato di antropologia. Qohelet ci svela un rapporto profondo, radicale e tremendo tra solitudine e lavoro. Ci presenta un uomo solo, che lavora troppo, sempre (‘senza fine si affatica’), e la molta ricchezza che guadagna non lo sazia mai. Sta nella non sazietà la chiave di questo verso: la ricchezza che non può essere condivisa non sazia, non appaga il nostro cuore. Alimenta soltanto la fame di vento, e produce il grande auto-inganno
che la ricchezza in sé o l’aumento del patrimonio potranno domani saziare l’indigenza di oggi. E la giostra continua a girare, sempre più a vuoto.
  D’un tratto Qohelet ci fa entrare nell’anima di questa persona, mostrandoci un veloce ma intenso esame di coscienza: ‘ma perché tutta questa fatica per nulla? A chi e a che cosa serve questo folle lavoro che mi sta consumando la vita?’. Se potessimo leggere il diario dell’anima del nostro tempo, di simili esami di coscienza ne troveremmo milioni. La solitudine ‘distorce gli incentivi’ e fa lavorare troppo, perché la soddisfazione nel  lavoro diventa un sostituto della felicità al di fuori dal lavoro. Il lavoro che diventa poco a poco tutto distrugge le poche relazioni rimaste, e così si lavora ancora di più. Il tempo di lavoro cresce, torno a casa stanco, non ho voglia di uscire, il ‘costo’ delle relazioni extra-lavorative sale, domani uscirò meno, e lavorerò di più … Poi un giorno può arrivare puntuale la domanda: ‘ma perché e per chi?’. Una domanda che è drammatica quando ce la poniamo per la prima volta a ridosso della pensione, ma che può essere li-beratoria se siamo ancora in tempo. Finché siamo abbastanza vivi per porci questa domanda, possiamo ancora sperare: il giorno veramente triste è quello quando rinunciamo a soffrire per la nostra infelicità e ci adattiamo ad essa. Ci convinciamo di star bene nella trappola nella quale siamo caduti, e non chiediamo più nulla, per non morire.
   “Meglio due di uno solo, perché se cadranno l’uno farà rialzare il suo compagno. Ma chi è solo, guai a lui, chi lo rialza se cade? Due che dormono insieme si possono scaldare. Ma se uno dorme solo, quale calore? Se uno è aggredito, l’altro con lui fa fronte. Una corda a tre fili non si rompe facilmente” (4, 10-12).
 Questa non è una lode dell’amicizia né della spiritualità della comunità. Il suo discorso è più radicale. La vita non funziona se si è soli. Quando restiamo soli siamo fragili, vulnerabili, miseri. Dopo oltre due millenni da queste antiche parole, abbiamo costruito contratti, assicurazioni e coperte termiche per poter fare a meno dell’altro. E così ab-biamo dato vita alla più grande illusione collettiva della storia umana: credere di poterci rialzare, proteggere e scaldare da soli. Ma abbiamo anche imparato che non basta essere in due nello stesso letto per sentire calore: non ci sono letti più gelidi di quelli dove si dorme in due, ciascuno immerso nella propria solitudine senza più parole. Non basta essere in due per sfuggire al ‘guai a chi è solo’. Ci sono molte solitudini disperate rivestite di compagnia, e molte compagnie vere nascoste dietro a ciò che ci appare come solitudine.
  “Meglio due di uno solo, perché c’è un salario buono per la loro fatica” (4,9). Il salario buono è quello che può essere condiviso. Il senso vero della fatica del lavoro è avere qualcuno che attende il nostro salario. Il salario senza un orizzonte più grande dell’io è un sale senza massa da insaporire. È quello di casa il tempo giusto del buon salario. L’accumulare ricchezza senza che ci sia qualcuno che con questa ricchezza deve crescere, abitare, studiare, essere curato, è fame di vento, è cibo che non sazia, anche quando consumato nei ristoranti a cinque stelle.
 Il nostro tempo sta perdendo il giusto tempo del lavoro anche perché ha spezzato il legame tra lavoro e famiglia. Quando i figli non ci sono, quando l’orizzonte del lavoro è troppo corto, è difficile trovare una risposta per la nuda domanda di Qohelet. Ma la no-stra società post-capitalistica ha un crescente bisogno di persone senza legami forti di appartenenza, e quindi senza limiti di orario, di spostamento, senza il ritmo dei ‘tempi’ diversi.
 Sono questi i dirigenti ideali delle grandi multinazionali. Qualche volta qualcuno si chiede: “perché tanto lavoro, per chi”? Una domanda che può essere l’inizio di una vita nuova. L’offerta di nuovi beni e servizi per accompagnare le solitudini sta diventando ampia e sofisticata con la vendita di beni pseudo-relazionali. Produciamo persone sempre più sole e produciamo sempre più merci per saziare solitudini insaziabili. E il PIL cresce, indicatore delle nostre infelicità, e insieme cresce la domanda insoddisfatta di gratuità.
 Ma che cosa accadrà quando questa domanda di Qohelet diventerà collettiva? Quali nuove risposte riusciremo a dare insieme? Ci sarà ancora del sale buono nelle dispense delle nostre imprese, delle città? E se cercando bene negli angoli più nascosti ne trove-remo ancora qualche manciata, sarà sufficiente per insaporire le masse? E quel sale avrà ancora sapore?
  “Se vedi il povero oppresso e il diritto e la giustizia calpestati, non ti meravigliare di questo. Ogni guardiano ne ha sopra un altro, e c’è uno più alto che li domina. Ma anche il re per il suo profitto è servo della terra” (Qohelet 5,7-8).
 Giunto a metà del suo discorso, Qohelet ci conduce dentro le dinamiche del potere e delle società burocratiche e gerarchiche. Il suo primo dato è il ‘povero oppresso’, ma in-vece di pronunciare una condanna morale, ‘ama’ quel povero con la verità, svelandoci una realtà non evidente. Ci dice che coloro che sembrano forti e dominatori in realtà sono vittime di un sistema malato e corrotto.  L’occhio smascheratore di Qohelet riesce a vedere al di sopra il povero un’alta piramide di oppressioni, di sfruttamenti, di ingiustizie. Sopra un aguzzino ce n’è un altro che lo opprime, e così via, fino ad arrivare all’ultimo capo, il re, che Qohelet vede ancora ‘servo della terra’. Nemmeno l’uomo più grande e ricco può affrancarsi dalla dipendenza dai ritmi della natura, dalle carestie e dalle calamità, dal tornare polvere e terra come tutti gli Adam: “Dal ventre di sua madre è uscito nudo, e così come è venuto se ne andrà.” (5,14).
I n questa descrizione dell’ingiustizia come una piramide sociale di soprusi, ci possiamo leggere molte cose. Innanzitutto Qohelet ci offre la possibilità di avere uno sguardo mo-rale meno severo sull’ultimo aguzzino che opprime il povero, perché quel suo ultimo atto ingiusto di sopruso spesso è originato da altri soprusi di cui egli è vittima a sua volta. Non c’è nessuna giustificazione morale del suo comportamento, ma solo un invito a leggere meglio lo sfruttamento. Quelli che ci appaiono rapporti ‘vittima-carnefice’ sono spesso rapporti ‘vittima-vittima’. Il mondo è popolato di hevel, tutto è un infinito Abele, la terra è piena di vittime: ci aveva detto Qohelet aprendo il suo libro. Ora ci fa vedere vittime anche dove vediamo soltanto carnefici. Da qui derivano tre note importanti: l’aumento delle gerarchie fa crescere il numero di vittime sotto il cielo; sull’ultimo povero oppresso si riversa il peso dell’intera piramide; se vogliamo salvare i poveri dall’oppressione vanno abbattute le piramidi generatrici di vittime. Ieri, e oggi.
  Quando oggi vediamo alcune imprese capitalistiche o altre istituzioni gerarchiche, il sopruso o lo sfruttamento non ci appaiono come la loro prima natura. L’ideologia neo-manageriale sta poi sostituendo i rapporti gerarchici con gli incentivi, che ci vengono spacciati come relazioni orizzontali, contratti liberamente scelti da tutte le parti. In realtà, se ci facciamo guidare da quella antica sapienza e cerchiamo di guardare oltre le apparenze ideologiche, scopriamo che dietro un prodotto finanziario scellerato somministrato da un funzionario ad un pensionato, c’è un funzionario di ordine superiore che mette pressione e opprime quel primo funzionario per il raggiungimento di obiettivi dai quali dipendono redditi e carriera di entrambi. E così via, salendo su per i gradini della piramide, fino a trovare in cima uno o più capi ‘servi’ delle oscillazioni di borsa, della  geopolitica, dei fenomeni naturali. In quel prodotto-sopruso finale pesa tutta la catena di rapporti sbagliati.
 La Bibbia ci invita a sognare una terra nuova, un diritto e una giustizia che non ci sono ancora. Ci dice che il povero resterà ‘oppresso’ e le vittime si moltiplicheranno finché non impareremo a tradurre il principio di fraternità nella governance di imprese e istituzioni.
 Dopo questa descrizione della morfologia del potere e della gerarchia, Qohelet torna su uno dei suoi temi forti: la vanità della ricerca della ricchezza, il fumo dell’avarizia: “Chi cerca il denaro il denaro lo affamerà, chi pretende abbondanza trova penuria. Fumo, hevel, è anche questo” (5,9). Una frase che dovremmo porre all’ingresso di tutte le business school, imprese, banche. Quando il denaro da mezzo diventa fine, si trasforma in uno strumento creatore di infelicità infinita, perché lo scopo principale e presto unico della vita diventa il suo accumulo; e l’accumulo, per sua stessa natura, non ha mai fine, è un idolo che vuole sempre mangiare. Non c’è povero più infelice dell’avaro, perché l’aumento del denaro aumenta la sua fame. E poi continua: “Più c’è roba più c’è mangioni e parassiti. E al suo padrone, che cosa resta? Goderne appena con gli occhi.
  Dolce è il sonno di chi lavora, poco o molto che mangi; ma a un riccone arcisazio è impedito dormire”. (5,10-11). Quanta saggezza!
 Qui Qohelet ci conduce all’interno di un palazzo mediorientale della sua epoca. Ci mo-stra un ricco, attorno a lui una pletora di cortigiani e di parassiti che mangiano la sua ricchezza. Tutta e solo infelicità, dei parassiti e del ricco, cui vengono mangiati ricchezza e sonno. Fuori dal palazzo c’è invece un lavoratore, un contadino o un artigiano, che vive del suo lavoro, e fa sogni dolci. Ritroviamo in queste poche parole l’antico ed eterno conflitto tra rendite e lavoro, tra chi vive consumando pane di ieri o di altri e chi vive del poco pane del suo lavoro.
 Non è mai stato il lavoro a generare le grandi ricchezze. Queste sono quasi sempre pro-dotte dalle rendite, cioè da redditi che nascono da qualche forma di privilegio, di sopruso, di vantaggio. E le rendite generano parassiti, consumo improduttivo, da cui non nasce né lavoro né felicità per nessuno.
 La ‘sindrome parassitaria’ appare puntuale nei tempi di decadenza morale, quando imprenditori, lavoratori, intere categorie sociali smettono di generare oggi lavoro e flussi di reddito nuovo e investono energie per proteggere i guadagni e i privilegi di ieri. Il parassitismo è una malattia che non ritroviamo solo nella sfera economica. Cadono in questa sindrome, ad esempio, quelle comunità o movimenti che divenuti grandi e belli grazie al lavoro dei fondatori e della prima generazione, invece di sviluppare il patrimonio ereditato con nuovo lavoro, rischio, creatività, iniziano a vivere di rendita, sazi del passato, incapaci di generare ‘figli’ e futuro. La sindrome parassitaria è ancora la principale causa di morte di imprese e di comunità.
  Qohelet sta chiaramente dalla parte del lavoro, di chi fatica sotto il sole per guadagnarsi il pane. Ce lo aveva detto (3,12-13), e ora ce lo ripete con più poesia e forza: “Ecco quanto io vedo di buono e bello per l'uomo: la bella felicità di mangiare e bere. … Que-sto è il suo destino” (5,17). Non c’è altra felicità di quella che possiamo intravvedere nella quotidianità del nostro lavoro, godendone i frutti. Qohelet continua, coerente, la sua polemica contro la religione retributiva ed economica. La benedizione di Dio non sta nella ricchezza e nei beni. Ma, sorprendendoci, ci dice che è possibile che anche il ricco, per una concessione speciale di Dio, possa condividere una ‘parte’ di questa buona felicità: “All’uomo, al quale Elohim concede ricchezze e beni, egli dà facoltà di mangiarne, prendere la sua parte e godere della sua fatica: anche questo è dono di Elohim” (5,18). È raro, ma non è impossibile: anche il ricco può essere felice, se lavora e riesce a godere della sua fatica.
 Ci sono milioni di persone, ricche e povere, imprenditori e casalinghe, che riescono a dare sostanza e felicità alla propria vita semplicemente lavorando. Che vincono ogni giorno la morte e la vanitas riordinando una stanza, preparando un pranzo, riparando un’auto, facendo una lezione. Ci sono certamente felicità più alte di queste nella nostra vita, ma non siamo capaci di raggiungerle se non impariamo a trovare la semplice felicità nella fatica ordinaria di ogni giorno. Ci salviamo solo lavorando. Non per una gioia sentimentale o auto-consolatoria che abbonda nelle penne dei non lavoratori - Qohelet non ci perdonerebbe mai – ma quella che fiorisce dentro la fatica e anche dalle lacrime. Ma Qohelet ci dice qualcosa di ancora più bello: “Egli non penserà troppo ai giorni della sua vita, perché l’Elohim è risposta nell’allegria del suo cuore” (5,19).
 Il lavoro è generatore di gioia perché occupandoci in una attività non-vana distoglie il cuore dal ‘pensare troppo’ e male alle vanità pur reali della nostra vita; e perché è lì che ci attende Elohim con la sua allegria. Questa gioia umile non è l’oppio dei popoli, è semplicemente il nostro bel destino.
Se la presenza di Elohim nel cuore è una ‘risposta’ alla buona fatica, se è il primo salario del lavoratore, allora quella gioia che ogni tanto ci sorprende proprio mentre lavo-riamo, può essere nientemeno che la presenza del divino sulla terra. Questa, amico Qohelet, è davvero una bella notizia.
  Dov’è allora il tuo tanto conclamato pessimismo? Sotto il sole, la gioia non vana è possibile.