Stesso sentire
L’unità che cerchiamo secondo la nostra fede è descritta anche come un medesimo sentire. Come interpretare questa espressione che ci giunge dai tempi antichi ed è anche cruciale per cercare di vivere uno “Spirito sinodale”?
In una società pluralistica come la nostra, può significare “pensarla tutti allo stesso modo”?
Riflettete: quando mai è veramente successo nella storia delle nostre Chiese? Per ciò che ricordo, non è successo neppure, vivente tra noi il Maestro, nel gruppo dei primi apostoli.
Ma proprio questo quello che ci richiese il Maestro, esortandoci ad essere una cosa sola?
Un teologo saprebbe rispondere con la competenza propria della sua scienza e leggendo o ascoltando gli interventi del Magistero si può avere un insegnamento autorevole in merito. Ma la costruzione sociale non è solo ufficio loro, bensì di ciascuno di noi,
Per quanto mi riguarda, osservo che pensare di proporci una metà che quasi mai è stata raggiunta tra noi e, quando lo è stata, ancor più raramente lo è stata in modo stabile, è irrealistico.
Se, ad esempio, prendiamo in esame le discussioni che prepararono le deliberazioni dei documenti del Concilio Vaticano 2º, svoltosi a Roma tra il 1962 e il 1965, capiamo bene che anche nella larga maggioranza che poi li approvò si continuò a pensarla diversamente su alcune importanti questioni, per cui i testi approvati furono frutto di un compromesso, in quanto decidere fu ritenuto più importante che non farlo, anche se ciò che fu deciso non rispecchiava esattamente la convinzione di molti. La stessa minoranza di chi votò contro accettò comunque la deliberazione collettiva, che non riguardava solo la questione intellettuale della definizione di una questione dottrinale, come può accadere in un simposio scientifico, ma ciò che possiamo considerare come leggi della nostra Chiesa, capaci di modificarne il volto, come effettivamente avvenne. In questo caso è ancora più eclatante che “medesimo sentire” non significò identità di vedute e convinzioni sul da farsi.
Un atteggiamento fondamentalista avrebbe invece condotto alla rottura, non tollerando l’accoglimento di proposte contrarie al proprio orientamenti, considerati come irrinunciabili. La frattura sarebbe anche stata suggerita da posizioni integraliste, determinate da quel fondamentalismo, ritenendo intollerabile anche solo stare insieme a chi la pensava diversamente, considerato fonte di impurità sociale. Posizione che fu molto comune nelle nostre Chiese delle origini, quando mi pare che ci si scambiarono più anatemi, quindi deliberazioni di esclusione, che lettere di comunione, e comunque i primi ebbero gli effetti più clamorosi.
Nella Costituzione dogmatica sulla divina rivelazione Dei verbum – la Parola di Dio, che a molti appare incompiuta, possiamo cogliere, per quella sua incompiutezza, indizi che si andò molto vicini alla frattura. Nonostante questo, chi partecipò ai lavori del Concilio ne riferì come di un’esperienza straordinariamente positiva, i cui effetti per diverso tempo entusiasmarono tutti, anche chi votò contro alcuni e decisioni e a prescindere da questo, aprendo un’epoca di effervescenza ecclesiale della quale oggi chi non visse consapevolmente quei tempi fatica a farsi un’idea.
In effetti si può considerare che la grande importanza che nella storia della nostra Chiesa si finì per attribuire a identitá di vedute su definizioni è prassi non trova convincenti riscontri in ciò che il Maestro ci comandò.
Egli, mi pare di aver capito, non fondò ad esempio una sua scuola, come era già usanza nella prassi rabbinica nel giudaismo del suo tempo. Nessuno di coloro che gli furono vicini fu accreditato come membro di una scuola, nel senso di mirare a raggiungere un’autorevolezza pari alla sua e distinta dalla sua, come accadde, ad esempio, nel caso dell’antico filosofo greco Platone rispetto al suo maestro Socrate. I suoi discepoli, e in particolare quelli tra loro che svolsero le funzioni di apostoli, presentarono invece la loro missione come quella di chi ha ricevuto il comando di insegnare esattamente e solo il vangelo del suo Maestro e, in particolare, l’esportazione all’agápe, intesa come convivenza benevola misericordiosa, aiutandosi e sorreggendosi amichevolmente gli uni gli altri, prendendo esempio da lui.
Del resto tra i più stretti suoi primi seguaci non troviamo uomini di cultura del suo tempo, ad esempio uno scriba.
Com’è allora che molto presto si diede tanta importanza alle definizioni e com’è che gli scritti che definiamo neotetamentari ci sono giunti in greco, che non era certamente stata la lingua del Maestro e della prima cerchia dei suoi seguaci?
È evidente che sulle tradizioni delle memorie della vita e dei detti del Maestro e su quelle delle prime comunità riunite nel suo nome dopo la sua morte e Resurrezione si lavorò molto e, in particolare, da persone che sapevano scriver nel greco antico.
L’incidenza della cultura ellenistica, che appunto si esprimeva in greco, nella tradizione e formalizzazione di quelle memorie può spiegare quell’accanimento puntiglioso sulle definizioni, che storicamente generò anche efferate violenze. C’è ora chi di quell’influsso è divenuto insofferente e ne vorrebbe depurare la tradizione cristiana, ma, a prescindere dalle questioni filologiche implicate nell’analisi dei testi sacri, che richiedono una raffinata competenza specialistica per cercare di individuare parti di tradizioni corrispondenti a un deposito antecedente all’ellenizzazione delle memorie evangeliche, considerando semplicemente la storia delle nostre comunità delle origini, credo che questo sforzo si potrebbe rivelare inutile, e ciò per il grande rilievo che ebbero, fin dalle origini, i gruppi di fedeli formatisi in ambiente ellenistico. Ad esempio ad Antiochia di Siria, che è ricordato come il primo luogo nel quale i cristiani furono definiti tali.
Molto presto, insomma,si cominciò a ragionare di fede, comunità, societá, natura, quindi sul mondo, con categorie filosofiche e politiche correnti nell’ellenismo del Primo secolo, da cui poi derivò gran parte della nostra dogmatica, delle definizioni ritenute fondamentali per essere riconosciuti come cristiani, nonostante che quello non corrispondesse esattamente al modo di insegnare argomentando del Maestro.
E, come ho osservato, un sentire comune in materia di definizioni, nel senso di unanimità, fu assai raro e in fondo questa è anche la situazione attuale, e non solo tra teologi e clero, ma anche tra tutti noi, anche in un ambiente di prossimità come la nostra parrocchia.
Però se considerassimo che il Maestro ci esortò all’unitá intesa come agápe, quindi non tanto sulle definizioni, sulle quali i colti avversari del suo tempo tentarono di coglierlo in fallo, ma come pratica di amicizia, compassione e solidarietà alla portata di tutti coloro che rimanevano coinvolti nel suo vangelo, allora sarebbe differente. Si potrebbe essere uniti nonostante certe diversità e questa unità verrebbe prima delle distinzioni concettuali anche se frutto di culture sofisticate. Come nella parabola del Samaritano misericordioso, di recente posta al centro dell’enciclica Fratelli tutti di papa Francesco.
Mario Ardigó- Azione Cattolica in San Clemente papa- Roma, Monte Sacro, Valli