Il piccolo nel grande
Tutti, i sapienti come gli ignoranti, siamo confinati in ambienti cognitivi molto limitati, che possiamo descrivere come il teatro delle nostre vite quotidiane. A partire da lì ci figuriamo la realtà, diciamo l’universo, per indicare tutto il resto che c’è. Non possiamo essere diversi, perché questo modo di capire dipende da come è fatta la nostra mente ed essa si è evoluta in milioni di anni. È più o meno la stessa negli ultimi duecentomila anni, ci insegnano le scienze biologiche.
Per evadere dai nostri ambienti cognitivi personali limitati ci aiutiamo gli uni gli altri e quindi formiamo società. L’evoluzione della nostra mente ci permette di crearne di immense mediante le culture, che sono rappresentazioni immaginifiche dell’universo secondo le quali ci orientiamo nelle relazioni di massa, vale a dire con gli individui che non arriveremo mai a conoscere veramente. Le culture sono possibili in base ai miti, che sono immagini semplificate della realtà caricate di elementi emotivi. Questo perché noi cerchiamo di capire per agire e agiamo in base alle emozioni. La parola “emozione” ci viene dal francese, nel quale a sua volta costituiva l’evoluzione di una parola latina che richiamava l’idea di mettere in moto, anche nel senso figurato di suscitare passioni.
Nelle religioni gli elementi culturali emotivi sono fondamentali. In un certo senso delle religioni ci si innamora prima di capirle e le si capisce da innamorati, altrimenti si ha la sensazione di esaminarle dall’esterno, come fanno gli antropologi.
Questo innamoramento religioso crea problemi quando si pensa la vita religiosa in grande, al di là di un piccolo gruppo di prossimità nel quale ci si riesce a conoscere intimamente tutti, come accade in una famiglia. E parlando di una parrocchia come la nostra si pensa in grande, anche se non è tra le societá piú grandi. Non sappiamo esattamente quanti fedeli contenga: nel suo territorio vivono circa quindicimila persone, delle quali circa l’80% fanno riferimento al soprannaturale e all’etica cristiani, circa il 30% vengono saltuariamente in chiesa e affidano i loro bambini per la prima formazione etica, e circa il 7% frequenta regolarmente la nostra chiesa parrocchiale, un migliaio di persone circa, quelle che dovremo cercare di coinvolgere nel processo sinodale che sta per iniziare. È chiaro che non possiamo pensare di conoscere da vicino, come un parente prossimo, ogni persona di quel migliaio. L’antropologia concorda che possiamo arrivare a conoscere in quel modo solo circa 150 persone, detto numero di Dunbar dal cognome dell’antropologo inglese Robin Dunbar che lo propose alla comunità scientifica in base alle sue ricerche. Dobbiamo servirci quindi di una cultura emotiva dell’incontro per mediare le nostre relazioni con quell’ambiente umano più vasto.
Il nostro problema è che quella cultura non c’è, va costruita, e senza di essa ciascuna persona rimane confinata nel proprio particolare o, addirittura, nella propria individualità. Di solito, infatti, in religione ci serviamo dei riti, che definiamo liturgie, parola che etimologicamente richiama un’azione di massa, ma non c’è ne sono per processi sinodali di base, perché da secoli il popolo, intendendo coloro che non appartengono al clero o ad ordini religiosi, ne sono stati emarginati. Questo perché si è ritenuto che dovessero semplicemente seguire dei pastori al modo di un gregge, temendone il pluralismo. Durante il Concilio Vaticano 2º, preso atto che la complessità delle società contemporanee richiedeva la loro partecipazione ai processi decisionali, si cercò di coinvolgerli maggiormente, ma, appena si iniziò a farlo, nel corso degli scorsi anni ’70, la nostra gerarchia temette di perdere il controllo del processo e tutto fu sospeso. Ragione per la quale, ancora ai tempi nostri si raccomanda ai laici la partecipazione ma non la si consente, non creandone una cultura adeguata. Questa umiliante condizione è all’origine dei problemi della nostra Chiesa, come di altre Chiese cristiane, perché si finisce per servirsi della religione più che altro nel suo aspetto rituale per celebrare con più solennità le feste della vita, in un contesto propiziatorio o consolatorio, altrimenti appare inutile e addirittura controproducente.
Quando le masse religiose vengono radunate per un grande evento religioso, vi partecipano solo come comparse chiamate a fare e a dire ciò che si dice loro, secondo un certo copione, nel quale il ruolo principale, nel quale si può veramente comunicare qualcosa, è riservato al celebrante, appartenente al clero.
In un processo sinodale parrocchiale dobbiamo cercare di organizzare occasioni di incontro nelle quali quel migliaio di persone che vorremmo coinvolgere emergano dall’anonimato e si facciano conoscere. L’unico metodo praticabile è convocarle per gruppi limitati che mantengano una certa capacità di relazione e dialogo con gli altri gruppi mediante elementi culturali adeguati. Ciò significa anche costruire una cornice istituzionale adeguata, una specifica ritualità, inserendovi elementi emotivi che di solito hanno origine artistica. Quanto a questi ultimi l’architettura ha storicamente svolto una funzione molto importante: le chiese cristiane come costruzioni architettoniche sono sotto questo punto di vista potenti macchine cognitive.
Negli anni ’90 la nuova chiesa parrocchiale venne progettata architettonicamente per rappresentare l’incontro secondo le concezioni che vi avevano preso piede nel decennio precedente. Da ultimo, con la costosa realizzazione del presbiterio e del grande altare centrale, si completò l’opera. Con tutta evidenza la nostra chiesa parrocchiale venne pensata per una neocomunità molto coesa e affiatata di dimensioni molto inferiori a quella che ora costituisce per noi l’obiettivo del processo sinodale. Una scelta che ora è impossibile correggere, perché non possiamo pensare di ricostruire la nostra chiesa parrocchiale, ma anche, in fondo, inutile, perché si deve comunque procedere per gruppi limitati, anche per radunare quel migliaio. Rimane il rimpianto di aver subito decisioni così importanti senza il minimo coinvolgimento della base dei fedeli della parrocchia, salvo che per chiedere loro un contributo economico.
Mario Ardigó – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli