Comunità aperta
L’ambiente comunitario della nostra parrocchia
è ancora piuttosto debole.
Nella
riforma della catechesi progettata negli anni ’70 si riponevano troppe speranze
sulla capacità di educare alla fede per l’effetto dell’inserimento in una
comunità. Questo perché si diffidava abbastanza di quell’attività di
coinvolgimento e costruzione sociale che definiamo mediazione culturale.
In generale si pensava
alla cultura religiosa come un dato preesistente, completo e
immodificabile e la vita comunitaria come un semplice metterla in pratica in modo che le intense relazioni che
caratterizzano le comunità la sorreggessero e la veicolassero. Sottinteso vi
era anche il confidare nella possibilità di esclusione del membro di una
comunità educante qualora si
manifestasse deviante verso la cultura religiosa normativa. Non venne inteso il
significato di coartazione della libertà di coscienza che vi era insito,
dissonante con i principi deliberati nella Dichiarazione sulla libertà
religiosa “Della dignità umana – Dignitatis humanae” durante il Concilio
Vaticano 2°.
In realtà
quella concezione di cultura religiosa, che direi totalitaria, non corrisponde
alla realtà della fede delle persone, che reagisce con la loro vita, e quindi
con le loro esperienze sociali, e in definitiva è sempre in via di costruzione.
La storia delle nostre Chiese può convincerci che è sempre stato così. La
fede vissuta comunitariamente evolve
continuamente. L’unica fede che non
evolve è quella morta.
L’ossessione
dell’uniformità culturale intesa come ortodossia, che purtroppo ha
caratterizzato le nostre comunità fin dalle origini e ha causato gran parte del
male sociale che esse espressero, conduce inevitabilmente al ricatto
comunitario, secondo il quale chi non si conforma alla cultura ritenuta normativa
nella comunità di riferimento è minacciato di esclusione, ed effettivamente
escluso quando persiste. Bisogna dire che dai vertici ecclesiali è in genere
venuto un cattivo esempio in questo campo, ma non vi è per noi alcuna
possibilità di produrre una riforma a quel livello. In una realtà come quella
parrocchiale, invece, si può tentare.
Questo
è un aspetto molto importante di un processo di riforma parrocchiale volto a potenziare
l’elemento comunitario. Infatti, l’esigenza di ottenere dalle persone un conformismo
a certe prassi ritenute normative perché corrispondenti a un dato modello di
cultura religiosa conduce fatalmente alla chiusura verso tutto ciò che c’è intorno, anche nell’ambito
della stessa parrocchia, in qualche modo considerata una società carente e da
riformare, insomma, qualcosa assimilabile a ciò che nel gergo religioso viene
definito, in senso negativo, mondo.
La
chiusura si fa tagliando legami, impedendone di nuovi e saturando con quelli
all’interno della comunità di riferimento quelli di cui una persona è capace,
che non sono molti. Per chiudere con più efficacia si cerca di ridurre le
dimensioni delle comunità in cui una persona è inserita, operando una selezione,
per aumentare l’intensità della forza comunitaria centripeta. Le relazioni infatti
si fanno molto più intense nei piccoli gruppi e la psicologia ci parla
proprio di specifiche dinamiche dei piccoli gruppi che vengono utilizzate, ad
esempio, nelle procedure di riabilitazione dopo traumi. Se la persona vive la
fede prevalentemente o addirittura esclusivamente in piccoli gruppi totalitari
di quella natura certamente è coartata più efficacemente al conformismo
sociale, ma vive anche in una realtà sociale per così dire artificiale,
che assomiglia a una serra. La persona vi sta piantata lì e attende le cure di
chi si attribuisce le mansioni di agricoltore: è addirittura peggio della
metafora comunitaria del gregge, con il pastore che se ne prende cura. In
entrambi i casi si ha una disumanizzazione indotta dalla comunità, con persone spinte a
pensarsi piante o pecore.
La parrocchia concepita come comunità di comunità-serra è in
realtà un ambiente in cui ogni persona è estranea alla maggior parte
delle altre e, quindi, è comunità solo di nome: non può esistere
comunità quando si rimane estranei. E non basta quel poco di consuetudine
liturgica che si ha, perché in essa, per come di solito è svolta, la gente è
nelle condizioni di semplice comparsa in uno spettacolo in cui il copione è
scritto da altri e i protagonisti sono altri. Se le relazioni comunitarie si
riducono prevalentemente a quelle liturgiche esse sono ben poco come relazioni
e, in realtà, sono relazioni solo immaginate.
Come ho
scritto, però, coinvolgere anche solo quel 7% delle persone del quartiere che
viene regolarmente a messa la domenica richiede di organizzare incontri per
piccoli gruppi di approfondimento. Come evitare, allora, il totalitarismo comunitario
che ne può derivare? Innanzi tutto rifiutando il ricatto comunitario di cui ho scritto e poi, molto
semplicemente, facendo ruotare le persone tra i vari gruppi di approfondimento,
in modo che acquisiscano una consuetudine con molta più gente, e, innanzi tutto,
si abitui a non temere ciò che c’è fuori dai gruppi di persone con cui si è più
in sintonia.
Anche il
nostro gruppo di Azione Cattolica parrocchiale deve cominciare a praticare
quell’apertura, dando il buon esempio. Naturalmente occorre però dare una
cornice organizzativa e istituzionale, vale a dire progettare un nuovo ambiente
sociale destinato agli incontri che chiamerei sinodali, perché si sta
ragionando in preparazione del processo sinodale che si vorrebbe far partire dal
prossimo ottobre. La sede propria per questa
deliberazione è il Consiglio
pastorale parrocchiale, di cui in
genere i fedeli della parrocchia sanno poco, ad esempio, chi vi partecipa, che si
fa, che si è deciso.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente
papa – Roma, Monte Sacro, Valli