INFORMAZIONI UTILI SU QUESTO BLOG

  Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

  This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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  Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

  Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

  Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

  Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente due martedì e due sabati al mese, alle 17, e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

 Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

 La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

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mercoledì 31 ottobre 2018

Religioni


Religioni

  La religione  è un fatto sociale. Contiene un visione semplificata della realtà naturale e sociale che non richiede approfondimenti sulla sua verità, per vedere se è come si dice. Si ritiene che seguendola secondo certi riti e altre regole di condotte sociali e personali le cose si possano mettere bene. Questo perché dipendono da una volontà superiore che non  è insensibile verso gli esseri umani, una potenza che, in quanto le domina, è sopra di loro, è soprannaturale. E lo è talmente tanto, si pensa, che non solo è inutile indagarla come si fa per cercare la spiegazione dei fatti naturali e sociali, ma è anche sconveniente, perché lede la sua maestà, e comunque non necessario, perché ciò che conta è assicurarsene il beneplacito e questo si può fare in modo più semplice e spedito. L’essere soprannaturale  pone quella volontà al riparo degli appetiti umani, che possono solo seguirla o non seguirla, ma che non seguendola rischiano molto se non riescono ad ottenere un’altra protezione soprannaturale. Le religioni primitive in questo modo spiegavano i fatti naturali, personificandone la potenza nelle figure degli dei, ma anche quelli sociali, attribuendo in particolare a certe personalità, per natura loro propria o per discendenza di stirpe, potenza miracolosa e miracolante. Il miracolo è la manifestazione pubblica di una potenza soprannaturale: nel suo contesto le cose vanno come non ci si aspetta. Certi risultati della medicina contemporanea sarebbero apparsi miracolosi solo pochi decenni addietro, ma la scienza, al contrario ad esempio della magia,  rifiuta per statuto l’attributo di soprannaturalità. In altri campi va molto diversamente.
  Le nostre società, nonostante la diffusa professione di ateismo o di indifferenza religiosa, sono profondamente permeate da fenomeni religiosi. La religione che mi appare più diffusa è quella del destino, che corrisponde a quella molto antica del  fato. Essa si esprime anche in molte consuetudini religiose della nostra fede, in particolare nei culti del prodigioso. Altre religioni si fondano sul culto di personalità miracolose e miracolanti, come si ritennero che fossero i capi dei vari fascismi storici europei degli anni Venti e Trenta del Novecento  e come ancora sono ritenuti vari capi politici di oggi. Questi culti sono legati a quello del popolo, concepito non più come moltitudini di persone in complesse relazioni sociali tra loro, ma come entità soprannaturale, il cui principale attributo prodigioso sarebbe l’infallibilità. Tutte queste religioni hanno preso piede in Europa da quando, alla fine del Settecento, è stato rapidamente smantellato il sistema di polizia ideologica organizzato dalle Chiese cristiane. Il più esteso ed efficiente fu quello della nostra confessione, che ancora in realtà è in piedi, anche se con competenza specializzata sul clero e i religiosi e con poteri sanzionatori molto più limitati.
  Una religione molto importante perché ha corso legale, è ancora obbligatoria in molte parti del mondo, è quella dei  diritti fondamentali. Secondo questa visione non si può fare quello che si vuole degli esseri umani, nell’organizzarne le società, nel sanzionarne le condotte indesiderate, nel distribuire lavoro e ricchezze. E’ una concezione religiosa perché rifiuta di accettare certe dinamiche naturali, come quelle secondo le quali il pesce grosso mangia il pesce piccolo. E’ quindi soprannaturale.  Pensata originariamente per gli esseri umani, sta venendo applicata anche agli animali, contro ogni evidenza naturale che parla di relazioni tra i viventi sempre conflittuali in cui la sopravvivenza e l’espansione  si fanno sempre a spese di altri. L’animalismo e il veganismo ne sono espressione.
  Tutte le religioni hanno un elemento comune: vengono seguite socialmente se  funzionano. Naturalmente su questo si possono prendere degli abbagli. C’è, ad esempio, la religione delle lotterie, in cui è evidente che la gran parte perde, ma siccome i pochissimi che vincono guadagnano tanto che la loro vita cambia radicalmente, mentre chi gioca in genere perde una quota limitata, allora si pensa che funzioni. Tutte le religioni del miracolo si fondano su un ragionamento simile. I miracolati sono pochissimi, ma lo sono in maniera così intensa da far pensare che quella religione funzioni. Storicamente le religioni sono state funzionali a sistemi sociali molto potenti, garantendone la coesione. Così, ogni potenza della terra si è portata dietro la propria religione e ha cercato di imporla a quelli che riusciva a conquistare e dominare, facendone uno strumento di dominio. Questo è il meccanismo sociale della sacralizzazione, che ha avuto esempi spettacolari tra gli europei.
  Quando una religione non funziona più, viene abbandonata. Noi europei abbiamo vissuto un processo del genere nei primi quattro secoli della nostra era, quando le antiche religioni del fato e degli dei  vennero inglobate nel Cristianesimo. E’ possibile che qualcosa di simile stia accadendo a quest’ultimo. Il processo di secolarizzazione, che è l’inverso della sacralizzazione, ne è un sintomo sociale. Tuttavia esso è molto meno diffuso di quello che si pensa, soprattutto nei nostri ambienti religiosi. Sembra invece in corso una metamorfosi, un cambiamento, nei processi di sacralizzazione. Ancora si è alla ricerca dei favori del fato e della personalità miracolante. L’ascesa di capi politici molto potenti, ma tutto sommato di modesto spessore umano e intellettuale, si spiega essenzialmente con dinamiche religiose. Si vede in essi più di ciò che appare, se ne ha una visione soprannaturale. Essi capiscono l’opportunità che loro si offre e cercano di liberarsi dei limiti che la democrazia pone ad ogni potere proponendo aspettative religiose. Perché uno che sa poco di tutto, e al più ha avuto successo in un campo limitato come gli affari o lo spettacolo, o addirittura da nessun’altra parte al di fuori dell’agitazione sociale, dovrebbe saper condurre la società molto complessa del nostro tempo meglio di chi cerca di conoscerne realisticamente le dinamiche? Ci dice quello che vorremmo sentirci dire e prospetta rapidi e radicali miglioramenti con soluzioni drastiche che, però, presuppongono che la realtà sia diversa da come appare. Ad esempio, l’idea di poter creare ricchezza sociale solo deliberandola, senza riequilibrare le situazioni sociali ma semplicemente  espandendo, ha natura religiosa, perché si basa su aspettative soprannaturali. Com’è che, poi, il popolo o una sua qualche personificazione riuscirebbe sempre  ad avere ragione? Negli anni Trenta del secolo scorso mio padre, a scuola, chiese al maestro com’è che il Duce aveva sempre ragione, come si leggeva nelle scritte che all’epoca veniva tracciate per strada sugli edifici. Non ricevette spiegazione, ma una punizione. Quella era un’affermazione indiscutibile. Ma fu la realtà della guerra voluta dal quel Duce a ricondurre il popolo a pensieri più ragionevoli, ad una consapevolezza affidabile della realtà che dovrebbe essere continuamente riconquistata di generazione in generazione come lavoro essenziale della democrazia. Non averlo fatto a sufficienza e bene ci sta creando ora qualche problema.
  La catastrofe delle due guerre mondiali del Novecento, partite dagli europei, non poterono essere impedite dalle religioni cristiane dell’epoca. Si capì che la guerra, vista da millenni come fattore di potenza nazionale e sovranazionale, era diventata un rischio per la sopravvivenza dell’umanità. Era decisa da pochi, che poi si trascinavano dietro i più. Occorreva impedire gli sviluppi conflittuali creando un sistema di limiti fondati innanzi tutto su valori. La pace doveva essere inculturata come fattore di sviluppo. Non più quindi, come da sempre nelle società umane, un’alternanza di brevi e intensi periodi di guerra seguiti da più lunghi periodi di pace nei quali i vincitori imponevano ai vinti le loro condizioni. Ma una pace fondata sulla giustizia, sul rispetto dei diritti fondamentali, e una giustizia che inglobava anche l’esigenza della pace. Questo il senso della grandi organizzazioni sovranazionali che dal secondo dopoguerra furono costruite, tra le quali la nostra Unione Europea. Fin tanto che si mantenne la memoria sociale  dei disastri bellici, l’ideologia della pace ebbe fondamento razionale. Nel tempo ne acquistò uno religioso, assecondato dalla nostra dottrina religiosa, che dell’ideologia della pace fu potentemente permeata. Il proposito di fare dell’intera umanità  una comunità pacificata, pacifica e pacificante, una  famiglia, ne è espressione. Tuttavia la sola religione non basta, occorre anche diffondere una cultura della pace su basi razionali, spiegando come avviene che la pace convenga e che proponendosi il “Prima noi!”, si va alla guerra, quando anche gli altri hanno propositi simili. Di fatto, rispetto alla religione della pace, si vanno diffondendo, non tanto ideologie empie vale a dire semplicemente irreligiose, ma eretiche, nel senso di varianti non ammissibili,  spesso riprese dal passato, quelle ad esempio che avvaloravano la funzione religiosa del predominio mondiale degli europei o di una loro nazione. Ne è qualche volta possibile, per noi, una critica specificamente religiosa, interna,  sulla coerenza  dei propositi con gli enunciati di fede, se mantengono un collegamento con la religione comune, il Cristianesimo. Altrimenti non è possibile. La critica di una religione, di una concezione basata sul soprannaturale, proprio per le  sue grandi capacità di adattamento sociale e dottrinale non limitata da vincoli naturali (si immagina quello che si vuole),  è possibile veramente solo sulla base dei suoi effetti sociali, e in particolare dei danni sociali che produce. Ad esempio se ammazza, su che scala, in che modo  e con quali pretesti. Dagli anni Trenta tra noi la si fa anche con un metodo diverso dal passato, in cui l’ortodossia si otteneva con la violenza poliziesca o la pressione dell'ambiente sociale e il conseguente discredito degli increduli o dei fedeli di altri culti. Vorremmo essere lievito  sociale, quindi stabilire certe positive relazioni di prossimità con le persone per indurle a cambiare in meglio, riscoprendo la bellezza della pace sociale, tutti insieme, non lottando tra noi. Una certa aria di famiglia si avverte certamente tra noi, ma questo non è mai bastato storicamente a fermare i conflitti. La natura ha in genere preso il sopravvento. Discendiamo biologicamente da belve. Ma, quando abbiamo deciso di cessare di comportarci come animali, abbiamo costruito società molto evolute, in cui si può vivere bene in molti: sono di questo tipo le società europee contemporanee, nonostante i molti mali sociali che ancora le travagliano. La dottrina sociale ci incoraggia ad essere ancora lievito  sociale perseguendo la via della pace. E’ indubbiamente una via religiosa, perché va contro le cose come di solito vanno in natura, ma, perseguita su vasta scala e con costanza funziona e ha anche un fondamento razionale, perché è nei tempi di pace che si sono avverati certi prodigi sociali e questo perché collaborando in molti si diviene più potenti e sapienti. Uno di questi prodigi sociali è il lungo periodo di pace che si è vissuto in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, e questo in un continente dal quale erano originate le guerre più disastrose degli ultimi secoli.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli

martedì 30 ottobre 2018

Animazione cristiana come lievito del mondo - Il pensiero di Giuseppe Lazzati


«Il Cristianesimo è missionario nel tempo nel senso che va verso tutti, non solo per portare il dono suo proprio, ma anche per arricchirsi degli apporti di tutti, al fine di fare compiuto il mistero dell’Incarnazione. Probabilmente non abbiamo abbastanza meditato sul fatto che non solo il mondo ha bisogno di Cristo, ma che Cristo ha bisogno del mondo».
Giuseppe Lazzati, Tecnica cristiana per la conquista del mondo, in «Cronache sociali» 2 (1948).
  «Il lievito  è una piccola cosa che, posta nella farina, si disperde dentro e la fermenta tutta. Ecco l’idea. Voi vedete subito che l’idea di  animazione del mondo, di lievitazione no è un’idea di dominio del mondo. Qualche volta  per la nostra testa  passa forse l’idea che la Chiesa sia fatta per  dominare il mondo. Voi non trovate questa parola nel Vangelo […]. L’azione della Chiesa deve perciò essere una azione che penetra con l’amore che rispetta la libertà ed ottiene il suo successo non con la forza, ma con la carità che è la vera forza. […] Ecco in qual senso si può parlare di “ora dei laici”, delle grandi  responsabilità dei laici. Vi ripeto che questa animazione cristiana o la facciamo noi o non la fa nessuno.»
Giuseppe Lazzati, La nostra vita nella Chiesa, in Chiesa e laici ed impegno storico, pp.257-258, Vita e pensiero, Milano, 1987.

 Citazioni da Fulvio De Giorgi, Paolo VI il papa del moderno, Morcelliana, edizione riveduta e ampliata 2018, pp. 37-38

lunedì 29 ottobre 2018

Papa Francesco - DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI PARTECIPANTI AL XV CAPITOLO GENERALE DELLA CONGREGAZIONE DEI MISSIONARI DI SAN CARLO (SCALABRINIANI) Sala del Concistoro Lunedì, 29 ottobre 2018


DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI AL XV CAPITOLO GENERALE
DELLA CONGREGAZIONE DEI MISSIONARI DI SAN CARLO (SCALABRINIANI)
Sala del Concistoro
Lunedì, 29 ottobre 2018

Cari fratelli,
sono lieto di incontrarvi in occasione del vostro Capitolo Generale e di rivolgere a ciascuno il mio cordiale saluto, ad iniziare dal nuovo Superiore Generale, che ringrazio per le sue parole e al quale auguro ogni bene per il suo ministero.
Al centro della vostra riflessione di questi giorni avete posto il tema Incontro e cammino. «Gesù camminava con loro» (cfr Lc 24,15). Il riferimento è al racconto dei discepoli di Emmaus, che incontrano Gesù risorto lungo la strada. Egli si avvicina per camminare con loro e per spiegare ad essi le Scritture. Il Capitolo rappresenta un momento privilegiato di grazia per la vostra Famiglia religiosa, chiamata ad assumere questo duplice atteggiamento del divino Maestro nei confronti di quanti sono oggetto delle vostre cure pastorali: annunciare loro la Parola e camminare con loro. Si tratta di trovare strade sempre nuove di evangelizzazione e di prossimità, al fine di realizzare con fedeltà dinamica il vostro carisma, che vi pone al servizio dei migranti.
Di fronte all’odierno fenomeno migratorio, molto vasto e complesso, la vostra Congregazione attinge le risorse spirituali necessarie dalla testimonianza profetica del Fondatore, quanto mai attuale, e dall’esperienza di tanti confratelli che hanno operato con grande generosità dalle origini, 131 anni fa, fino a oggi. Oggi come ieri, la vostra missione si svolge in contesti difficili, a volte caratterizzati da atteggiamenti di sospetto e di pregiudizio, se non addirittura di rifiuto verso la persona straniera. Ciò vi sprona ancora di più a un coraggioso e perseverante entusiasmo apostolico, per portare l’amore di Cristo a quanti, lontani dalla patria e dalla famiglia, rischiano di sentirsi lontani anche da Dio.
L’icona biblica dei discepoli di Emmaus fa vedere che Gesù spiega le Scritture mentre cammina con loro. L’evangelizzazione si fa camminando con la gente. Prima di tutto bisogna ascoltare le persone, ascoltare la storia delle comunità; soprattutto le speranze deluse, le attese dei cuori, le prove della fede… Prima di tutto ascoltare, e farlo in atteggiamento di con-passione, di vicinanza sincera. Quante storie ci sono nei cuori dei migranti! Storie belle e brutte. Il pericolo è che vengano rimosse: quelle brutte, è ovvio; ma anche quelle belle, perché ricordarle fa soffrire. E così il rischio è che il migrante diventi una persona sradicata, senza volto, senza identità. Ma questa è una perdita gravissima, che si può evitare con l’ascolto, camminando accanto alle persone e alle comunità migranti. Poterlo fare è una grazia, ed è anche una risorsa per la Chiesa e per il mondo.
Dopo aver ascoltato, come Gesù, bisogna dare la Parola e il segno del Pane spezzato. E’ affascinante far conoscere Gesù attraverso le Scritture a persone di diverse culture; raccontare loro il suo mistero di Amore: incarnazione, passione, morte e risurrezione. Condividere con i migranti lo stupore di una salvezza che è storica, è situata, eppure è universale, è per tutti! Gustare insieme la gioia di leggere la Bibbia, di accogliere in essa la Parola di Dio per noi oggi; scoprire che attraverso le Scritture Dio vuole donare a questi uomini e queste donne concreti la sua Parola di salvezza, di speranza, di liberazione, di pace. E poi, invitare alla Mensa dell’Eucaristia, dove le parole vengono meno e rimane il Segno del Pane spezzato: Sacramento in cui tutto si riassume, in cui il Figlio di Dio offre il suo Corpo e il suo Sangue per la vita di quei viandanti, di quegli uomini e quelle donne che rischiano di perdere la speranza e per non soffrire preferiscono cancellare il passato.
Cristo Risorto manda anche voi, oggi, nella Chiesa, a camminare insieme a tanti fratelli e sorelle che percorrono come migranti la loro strada da Gerusalemme a Emmaus. Missione antica e sempre nuova; faticosa, e a volte dolorosa, ma capace anche di far piangere di gioia. Vi incoraggio a portarla avanti col vostro proprio stile, maturato nell’incontro fecondo tra il carisma del beato Scalabrini e le circostanze storiche. Di questo stile fa parte l’attenzione che voi ponete alla dignità della persona umana, specialmente là dove essa è maggiormente ferita e minacciata. Ne fanno parte l’impegno educativo con le nuove generazioni, la catechesi e la pastorale familiare.
Cari fratelli, non dimentichiamo che la condizione di ogni missione nella Chiesa è che siamo uniti a Cristo Risorto come i tralci alla vite (cfr Gv 15,1-9). Altrimenti facciamo attivismo sociale. Per questo ripeto anche a voi l’esortazione a rimanere in Lui. Noi per primi abbiamo bisogno di lasciarci rinnovare nella fede e nella speranza da Gesù vivo nella Parola e nell’Eucaristia, ma anche nel Perdono sacramentale. Abbiamo bisogno di stare con Lui nell’adorazione silenziosa, nella lectio divina, nel Rosario della Vergine Maria.
E abbiamo bisogno di una sana vita comunitaria, semplice ma non banale, non mediocre. Ho apprezzato quando il Superiore Generale ha detto che lo Spirito vi chiama a vivere tra di voi la comunione nella diversità. Sì, come testimonianza ma prima di tutto come gioia per voi, come ricchezza umana e cristiana, ecclesiale. Vi incoraggio anche a proseguire il cammino di condivisione con i laici, affrontando insieme le sfide dell’oggi; come pure a curare gli itinerari di formazione permanente.
Fratelli, vi ringrazio per questo incontro. Prego per il vostro Capitolo, che porti tanti buoni frutti! Lo chiediamo per intercessione di Maria nostra Madre, di San Carlo Borromeo e del Beato Giovanni Battista Scalabrini. Benedico di cuore voi e tutti i Missionari Scalabriniani. E anche voi, per favore, non dimenticatevi di pregare per me.


domenica 28 ottobre 2018

Radicati in un sogno buono


Radicati in un sogno buono


[Papa Francesco: dal dialogo con giovani e anziani avuto dal Papa alla presentazione del suo libro Sharing The Wisdom Of Time / La Saggezza Del Tempo all’Istituto Patristico Augustinianum, Martedì, 23 ottobre 2018]


Difendere la tradizione del sogno: dagli anziani ai giovani. Dalle radici dei sogni degli anziani, scorre la linfa di un popolo


  “Che cosa direbbe Lei, da nonno, a giovani che vogliono avere fiducia nella vita, che desiderano costruirsi un futuro all’altezza dei loro sogni?” La risposta è: incomincia a sognare. Sognare così, sfacciatamente, senza vergogna. Sognare. Sognare è la parola. E difendere i sogni come si difendono i figli. Questo è difficile da capire ma è facile da sentire: quando tu hai un sogno, una cosa che non sai come dirla, ma la custodisci e la difendi perché l’abitudine quotidiana non te la tolga. Aprirsi a orizzonti che sono contro le chiusure. Le chiusure non conoscono gli orizzonti, i sogni sì! Sognare, e prendere i sogni dagli anziani. Portare su di sé gli anziani e i loro sogni. Portare addosso questi anziani, i loro sogni; non ascoltarli, registrarli, e poi dire “adesso andiamo a divertirci”. No. Portarli addosso. Il sogno che noi riceviamo da un anziano è un peso, costa portarlo avanti. E’ una responsabilità: dobbiamo portarli avanti. Tu non puoi portarti tutti gli anziani addosso, ma i loro sogni sì, e questi portali avanti, portali, che ti farà bene. Non solo ascoltarli, scriverli, no: prenderli e portarli avanti. E questo ti cambia il cuore, questo ti fa crescere, questo ti fa maturare. E’ la maturazione propria di un anziano.
[…]
  E’ stata una bella esperienza, con gli anziani, non mi spaventavano. Stavo sempre con i giovani, ma… E con queste esperienze ho capito la capacità di sognare che hanno gli anziani, perché c’è sempre un consiglio: “Vai così, fai questo…, ti racconto questo, non dimenticarti di questo…”. Un consiglio non imperativo, ma aperto, e con tenerezza. E questi consigli mi davano un po’ il senso della storia e dell’appartenenza. La nostra identità non è la carta d’identità che abbiamo: la nostra identità ha delle radici, e ascoltando gli anziani noi troviamo le nostre radici, come l’albero, che ha le proprie radici per crescere, fiorire, dare frutto. Se tu tagli le radici all’albero, non crescerà, non darà dei frutti, morirà, forse. C’è una poesia – l’ho detto tante volte – una poesia argentina di uno dei nostri grandi poeti, Bernardez, che dice: “Quello che l’albero ha di fiorito, viene da quello che ha di sotterrato”. Ma non un andare alle radici per chiudersi lì, come un conservatore chiuso, no.



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1.  Maurizio Bettini  ha scritto contestando la verità dell’immagine di radici  degli esseri umani. Ricordo un suo articolo sul periodico mensile Il margine  del 2001, intitolato Contro le radici - tradizione, identità, memoria,  e, più di recente, del 2012, un libro con il medesimo titolo, in cui ha ampliato e sviluppato il ragionamento dell’articolo, ancora in commercio edito da Il Mulino solo in ebook.  Di seguito mi rifaccio anche alle sue argomentazioni
  Gli esseri umani non hanno radici. Non nascono dalla terra come i pomodori, né ad essa sono vincolati per sopravvivere. Legati ad un posto finiscono per sentirsene prigionieri. E’ una realtà che è evidente a tutti. Quella delle  radici  è solo un’immagine per significare altro. Nella sua irrealtà è anche, in fondo, un sogno.
  Dal punto di vista naturalistico, nessun europeo è spuntato  dalla terra del continente europeo. Tracce molto  antiche della nostra  specie, che l’antropologia definisce Sapiens sapiens, l’unica del genere Homo, nell’ordine dei Primati, nel quale scientificamente sono classificate anche le scimmie, sono state rinvenute in Africa e la paleontologia ha individuato lunghe migrazioni dei nostri progenitori da laggiù verso Oriente e poi verso Settentrione. La mente che si è sviluppata biologicamente in noi in milioni di anni ci ha poi permesso di avere particolari relazioni tra noi che sono state la base delle nostre culture, in particolare mediante i linguaggi dai quali poi sono derivate le varie forme di scrittura.
 Che cos'è una cultura?
Secondo la definizione di Edward Burnett Taylor in "Primitive Culture" (=la cultura dei primitivi), Murray, Londra, 1871):
        Cultura o civiltà è un insieme complesso che include la conoscenza, le          credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e          abitudine acquisita dall'uomo come membro della società»
 Un’altra definizione di  cultura  molto precisa  si trova al n.53 della costituzione  La gioia e la speranza - Gaudium et spes, del Concilio Vaticano 2°:
«Con il termine generico di “cultura”  si vogliono indicare tutti quei mezzi con i quali l'uomo affina e sviluppa le molteplici capacità della sua anima e del suo corpo; procura di ridurre in suo potere il cosmo stesso con la conoscenza e il lavoro; rende più umana la vita sociale, sia nella famiglia che in tutta la società civile, mediante il progresso del costume e delle istituzioni; infine, con l'andar del tempo, esprime, comunica e conserva nelle sue opere le grandi esperienze e aspirazioni spirituali, affinché possano servire al progresso di molti, anzi di tutto il genere umano.
Di conseguenza la cultura presenta necessariamente un aspetto storico e sociale e la voce “cultura” assume        un significato sociologico ed etnologico. In questo senso si parla di pluralità delle culture. Infatti dal diverso           di far uso delle cose, di lavorare, di esprimersi, di praticare la religione e di formare i costumi, di fare le leggi e creare gli istituti giuridici, di sviluppare le scienze e le arti e di coltivare il bello, hanno origine i diversi stili di vita e le diverse scale di valori. Cosi dalle usanze tradizionali si forma il patrimonio proprio di ciascun gruppo umano. Così pure si costituisce l'ambiente storicamente definito in cui ogni uomo, di qualsiasi stirpe ed epoca, si inserisce, e da cui attinge i beni che gli consentono di promuovere la civiltà.»
  Nasciamo immersi in quella fitta rete di relazioni sociali che costituisce le  culture umane e che è frutto di una  storia, vale a dire di narrazioni, regole e comportamenti appresi: questa è la tradizione, che andrebbe definita con più precisione come  tradizione culturale. Ne fanno parte anche le  religioni, che sono tradizioni culturali di convinzioni e manifestazioni individuali e collettive di una fede  nel soprannaturale. «[…] la cultura presenta necessariamente un aspetto storico e sociale e la voce “cultura” assume       un significato sociologico ed etnologico.», scrissero i saggi del Concilio: bisogna sempre tenere bene a mente queste parole. Ciò che si afferma della cultura  si può integralmente dire anche delle religioni, perché le religioni sono culture umane. Nascono  delle società umane, sono frutto di tradizioni  sociali ed etniche (quel tipo di relazioni sociali che originano  tra genitori e figli, tra generazioni),  sono modellate dalle conoscenze e consuetudini umane. Anche l’epica  di un popolo, vale a dire il racconto della sua grandezza tra gli altri popoli, si basa su questo.
  Quando parliamo di  radici  umane è al radicamento  culturale che ci riferiamo. Significa che abbiamo difficoltà a pensarci e a sapere che fare al di fuori di una certa cultura e in questo senso  ci pensiamo  come  radicati in essa.
 Il radicamento culturale  più forte, quello a cui pensiamo maggiormente quando parliamo delle nostre  radici, è quello linguistico, perché si realizza da molto piccoli, tanto che, a proposito della nostra prima lingua  si parla di lingua materna. Ci è molto difficile parlare in un'altra lingua, per successivi radicamenti culturali, senza che si percepisca un accento. Eppure anche la lingua materna la apprendiamo, è frutto di relazioni culturali, non è come l'atto dei succhiare, che si pensa esserci trasmesso per via genetica e può pensarsi come effettivamente radicato, non però ad una terra, ma alla nostra struttura biologica.
  La realtà così com’è, tuttavia, spesso non ci appaga e non ci serve. Non ci serve, innanzi tutto, da un punto di vista sociale, per realizzare ciò che occorre in società. Il passato, in particolare, ad una considerazione realistica, delude. Così ci rappresentiamo la realtà e la sua storia con una certa libertà, dal punto di vista culturale: è qui che inizia il sogno. Quando diamo particolare importanza a questi sogni, per costruire le nostre società, essi assumono le caratteristiche di  miti, e diventano indiscutibili. Si perde consapevolezza sociale delle loro origini, si rammenta solo di averli ricevuti da una  tradizione che si perde nei tempi. Assumono connotati etnici e quindi vengono rafforzati dal naturale senso di rispetto per gli avi. Elementi mitici si trovano in ogni religione, ad esempio nelle nostre Scritture,  e in ogni ideologia politica, vale a dire di governo sociale. Il loro corso e la loro struttura dipendono da chi comanda in religione e in politica in un certo momento, e come tale dirige  la società e la sua produzione culturale: quindi, di solito, lo favoriscono. Questo spiega perché il sogno delle radici  e i miti  hanno di solito valenza politica di conservazione o addirittura di reazione, vale a dire che servono a frenare i cambiamenti. Quando, però, i cambiamenti servono, come in genere servono sempre nelle società umane le quali sono di solito in rapida evoluzione, occorre sottoporli a critica, in particolare  demitizzando  e desacralizzando  ciò che era stato mitizzato e sacralizzato: questo significa recuperare consapevolezza della natura storica di certe convinzioni e di certi costumi per autorizzarne il cambiamento. Una spettacolare occasione in cui si  è fatto quel lavoro è stata quella del Concilio Vaticano 2° (1962-1965). In un certo senso ai tempi nostri si sta tornando indietro, si vorrebbero recuperare certi miti che erano stati decostruiti negli ultimi decenni del Novecento, in particolare i miti della nazione  a cui si vorrebbero incorporare, al fine di dar loro più consistenza, antichi miti religiosi. Ecco che si ripropone, dunque, il discorso delle  radici. I mali sociali di oggi sarebbero stati causati dall’essersene distaccati. L’immagine dell’albero sradicato serve  a rendere l’idea di un corpo sociale al quale non giunge più la linfa che lo faceva vivere. Ma le culture dalle quali si pensa di essere stati staccati sono in genere rappresentante molto liberamente, con molta fantasia, il loro ricordo è sogno, delineano un passato alternativo, come si vorrebbe, si sogna, che fosse stato, una  retropia, vale a dire un’utopia nel passato, un passato che non c’è mai stato per fondare un futuro alternativo. E’ di questo tipo la mitizzazione che in religione ancora qualche volta si fa del Medioevo europeo, il lungo travaglio sociale e culturale dal Quinto al Quindicesimo secolo dal cui faticoso tramonto sono scaturite le nostre attuali culture europee, in particolare con un intenso lavoro di demitizzazione e di de-/ri-sacralizzazione, vale a dire di rimaneggiamento religioso.
2.  Nelle parole del Papa che ho  sopra citato si ritrova l’immagine dello sradicamento come male sociale:
«La nostra identità non è la carta d’identità che abbiamo: la nostra identità ha delle radici, e ascoltando gli anziani noi troviamo le nostre radici, come l’albero, che ha le proprie radici per crescere, fiorire, dare frutto. Se tu tagli le radici all’albero, non crescerà, non darà dei frutti, morirà, forse.»
   Ma il radicamento proposto dal Papa non è riferito tanto alle culture del passato, secondo la classica impostazione reazionaria, ma ai sogni degli anziani,  che è cosa molto diversa. Questa è una grande novità.
  I sogni degli anziani sono in genere fortemente critici con la cultura nella quale sono stati immersi. Sono anziano e lo so bene. L’anziano, in particolare il genitore,  sogna  per la discendenza un futuro migliore del suo passato, e questo anche se tenda a mitizzare  quel passato. La cultura dell’anziano è tendenzialmente conservatrice, perché, andando avanti con gli anni, si moltiplicano le nostre paure e si teme che cambiando si vada in peggio, ma il sogno  dell’anziano non lo è, perché riguarda il futuro della sua discendenza, che l’anziano  sogna  più forte e migliore di lui.  
«Il sogno che noi riceviamo da un anziano è un peso, costa portarlo avanti. E’ una responsabilità: dobbiamo portarli avanti. Tu non puoi portarti tutti gli anziani addosso, ma i loro sogni sì, e questi portali avanti, portali, che ti farà bene», ha detto il Papa. Ma tutti i sogni degli anziani meritano questo impegno?
  Il papa Giovanni Paolo 2°, avvicinandosi il Grande Giubileo dell’Anno 2000, e sono passati ormai 18 anni da allora,   i giovani non hanno idea di come inizi a correre il tempo da una certa età della vita in poi!, ci guidò nel lavoro di purificazione della memoria,  che significa distinguere, alla luce dei valori di fede, i sogni che meritano di essere proseguiti e quelli che non lo meritano, in un certo senso criticando  le radici, quelle retropie  di un passato immaginato che vengono utilizzate per indirizzare il futuro in un certa direzione. Sotto questo punto di vista, e riprendendo l’immagini delle radici  e del radicamento, è addirittura doveroso  sradicarsi  da certe culture del passato, o da alcuni loro aspetti, come ad esempio quelle dei nazionalismi europei di Ottocento e Novecento, dunque anche dal nostro  nazionalismo, perché hanno prodotto gli orrori di cui la storia degli europei  è piena. Ma, ancor prima, fu un sogno malvagio che costruì la cultura dell'invasione europea delle Americhe, che si attuò attraverso il genocidio di nativi, vale a dire di quelli che erano giunti in quei posti nel corso di più antiche migrazioni (neanche loro erano spuntati  da quelle terre), e delle loro culture. Se noi, sognando  certe culture del passato, immaginandovi  di doverci di nuovo radicare in esse  come la soluzione giusta per l’oggi sulla base di una loro immaginifica e irreale rappresentazione storica, le replicassimo nel nostro oggi, ne conseguirebbero gli orrori del passato, ma molto aggravati da progresso che abbiamo conseguito negli strumenti di distruzione. Per dirne una: rispettiamo la figura di Giuseppe Garibaldi, patriota nazionalista italiano, ma sarebbe disastroso replicare, oggi, la sua sanguinosa cultura guerresca. E ancora, nella stessa linea di pensiero: pur comprendendo le ragioni storiche e culturali, e anche certi aneliti religiosi, delle Crociate volte a recuperare alla cristianità una presunta Terra Santa, come se la santità spuntasse dal suolo o vi rimanesse incorporata al passaggio del Santo, sarebbe folle, avendo il senno del poi, di come  è andata, delle sciagure stragiste e dei danni di lunga durata che hanno prodotto, replicarle in un qualsiasi modo.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli

venerdì 26 ottobre 2018

Papa Francesco: contro i seminatori d’odio, la via dell’empatia, della non violenza e della tenerezza


Papa Francesco: contro i seminatori d’odio, la via dell’empatia, della non violenza e della tenerezza

Sintesi dal dialogo con giovani e anziani avuto dal Papa alla presentazione del suo libro Sharing The Wisdom Of Time / La Saggezza Del Tempo all’Istituto Patristico Augustinianum, Martedì, 23 ottobre 2018



Sintesi a cura di Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
testo di base dal WEB
http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2018/october/documents/papa-francesco_20181023_giovani-anziani.htm

La cultura della competizione, dell’arrivare, arrampicando, in ogni modo, ma sempre calpestando teste: è la mano chiusa e produce scarti umani, non considera la fine, ma solo il suo fine

1. Come essere felici in questo mercato della competizione, in questo mercato dell’apparenza? In questo mercato dell’ipocrisia; lo dico non in senso morale, ma in senso psicologico-umano: apparire qualcosa che non c’è dentro, si appare in un modo ma dentro c’è il vuoto, per esempio, o c’è l’affanno per arrivare, non è vero?
 Un gesto per spiegare [e] il gesto è questo: la mano tesa e aperta. La mano della competizione è chiusa e prende: sempre prendere, accumulare, tante volte a caro prezzo, a costo di annientare gli altri, per esempio, a costo del disprezzo altrui ma… questa è la competizione! Il gesto dell’anti-competizione è questo: aprirsi. E aprirsi in cammino. La competizione generalmente è ferma: fa i suoi calcoli, tante volte incoscientemente, ma è ferma, non si mette in gioco; fa dei calcoli, ma non si mette in gioco. Invece, la maturazione della personalità avviene sempre in cammino, si mette in gioco. Per dirlo con un’espressione comune: si sporca le mani. Perché? Perché ha la mano tesa per salutare, per abbracciare, per ricevere. E questo mi fa pensare a quello che dicono i santi, anche Gesù: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere”. Contro questa cultura che annienta i sentimenti, c’è il servizio, servire.
 [Ma si ha] soltanto l’illusione di accumulare per essere sicura. E’ una cultura dello scarto, ma per coloro che non si sentono scartati è la cultura dell’assicurazione: avere tutte le assicurazioni possibili per essere a posto. E mi viene in mente quella parabola di Gesù: l’uomo ricco che aveva avuto un raccolto così grande che non sapeva dove mettere il grano. E disse: “Farò dei magazzini più grandi e così sarò sicuro”. L’assicurazione per tutta la vita. E Gesù dice che questa storia finisce così: “Stolto: questa sera morirai” (cfr Lc 12,16-21). La cultura della competizione non guarda mai la fine; guarda il fine che si è proposto nel suo cuore: arrivare, arrampicando, in ogni modo, ma sempre calpestando teste. Invece la cultura del convivere, della fraternità è una cultura del servizio, una cultura che si apre e si sporca le mani.

Trasmettere la fede con il dialetto  dell’amicizia, della vicinanza
2.  La fede va trasmessa “in dialetto”. Sempre. Il dialetto familiare, il dialetto… Pensate alla mamma di quei sette giovani di cui leggiamo nel Libro dei Maccabei: per due volte il racconto biblico dice che la mamma li incoraggiava “in dialetto”, nella lingua materna, perché la fede era stata trasmessa così, la fede si trasmette a casa. [Si trasmette con] il dialetto dell’amicizia, della vicinanza, ma sempre in dialetto. [Non si può] trasmettere la fede con il Catechismo: “leggi il Catechismo e avrai la fede”. No. Perché la fede non sono soltanto i contenuti, c’è il modo di vivere, di valutare, di gioire, di rattristarsi, di piangere…: è tutta una vita che porta lì.
“Forse abbiamo fallito nella trasmissione della fede?”. No. Non si può dire questo. La vita è così. All’inizio voi avete trasmesso la fede, ma poi si vive, e il mondo fa delle proposte che entusiasmano i figli nella loro crescita, e tanti si allontanano dalla fede perché fanno una scelta, non sempre cattiva, ma tante volte inconsapevole, tra i valori, sentono delle ideologie più moderne e si allontanano. Ho voluto soffermarmi su questa descrizione della trasmissione della fede per dire il mio parere. La prima cosa è non spaventarsi, non perdere la pace. La pace, sempre parlando con il Signore: “Noi abbiamo trasmesso la fede e adesso…”. Tranquilli. Mai cercare di convincere, perché la fede, come la Chiesa, non cresce per proselitismo, cresce per attrazione – questa è una frase di Benedetto XVI – cioè per testimonianza.
   Se uno si domanda quali sono le cause di questo allontanamento, c’è sempre una sola causa che apre le porte alle ideologie: le testimonianze negative. Non sempre in famiglia, no, la maggior parte sono le testimonianze negative di gente di Chiesa: preti nevrotici, o gente che dice di essere cattolica e fa la doppia vita, incoerenze, per il fatto di cercare dentro le comunità cristiane cose che non sono valori cristiani… Sono sempre le testimonianze negative che allontanano dalla vita [di fede]. E poi, le persone che ricevono questi esempi negativi, accusano. Dicono: “Io ho perso la fede perché ho visto questo e questo…”. E hanno ragione. E ci vuole soltanto un’altra testimonianza, quella della bontà, della mitezza, della pazienza, la testimonianza che ha dato Gesù nella sua passione, quando Lui soffriva ed era capace di toccare il cuore.

Difendere la tradizione del sogno: dagli anziani ai giovani 
3. “Che cosa direbbe Lei, da nonno, a giovani che vogliono avere fiducia nella vita, che desiderano costruirsi un futuro all’altezza dei loro sogni?” La risposta è: incomincia a sognare. Sognare così, sfacciatamente, senza vergogna. Sognare. Sognare è la parola. E difendere i sogni come si difendono i figli. Questo è difficile da capire ma è facile da sentire: quando tu hai un sogno, una cosa che non sai come dirla, ma la custodisci e la difendi perché l’abitudine quotidiana non te la tolga. Aprirsi a orizzonti che sono contro le chiusure. Le chiusure non conoscono gli orizzonti, i sogni sì! Sognare, e prendere i sogni dagli anziani. Portare su di sé gli anziani e i loro sogni. Portare addosso questi anziani, i loro sogni; non ascoltarli, registrarli, e poi dire “adesso andiamo a divertirci”. No. Portarli addosso. Il sogno che noi riceviamo da un anziano è un peso, costa portarlo avanti. E’ una responsabilità: dobbiamo portarli avanti. Tu non puoi portarti tutti gli anziani addosso, ma i loro sogni sì, e questi portali avanti, portali, che ti farà bene. Non solo ascoltarli, scriverli, no: prenderli e portarli avanti. E questo ti cambia il cuore, questo ti fa crescere, questo ti fa maturare. E’ la maturazione propria di un anziano.



Seminare odio e far crescere l’odio, creare violenza e divisione è un cammino di distruzione, di suicidio, di altre distruzioni.
4. I giovani non hanno l’esperienza delle due guerre. Io ho imparato da mio nonno che ha fatto la prima, sul Piave, ho imparato tante cose, dal suo racconto. Anche le canzoni un po’ ironiche contro il re e la regina, tutto questo ho imparato. I dolori, i dolori della guerra… Cosa lascia una guerra? Milioni di morti, nella grande strage. Poi è venuta la seconda, e questa l’ho conosciuta a Buenos Aires con tanti migranti che sono arrivati: tanti, tanti, tanti, dopo la Seconda Guerra Mondiale. Italiani, polacchi, tedeschi… tanti, tanti. E ascoltando loro ho capito, tutti capivamo cos’era una guerra, che da noi non si conosceva. Credo che sia importante che i giovani conoscano gli effetti delle due guerre del secolo scorso: è un tesoro, negativo, ma un tesoro per trasmettere, per creare delle coscienze. Un tesoro che ha fatto anche crescere l’arte italiana: il cinema del dopoguerra è una scuola di umanesimo. Che loro conoscano questo è importante, per non cadere nello stesso errore. Che loro conoscano come cresce un populismo: per esempio, pensiamo al ’32-’33 di Hitler, quel giovanotto che aveva promesso lo sviluppo della Germania dopo un governo che aveva fallito. Che sappiano come incominciano, i populismi.
  Non si può vivere seminando odio. Noi, nell’esperienza religiosa della storia della religione, pensiamo alla Riforma: abbiamo seminato odio, tanto, da ambedue le parti, protestanti e cattolici. Questo l’ho detto esplicitamente a Lund [in Svezia, nell’incontro ecumenico], e adesso da 50 anni lentamente ci siamo accorti che non era quella la strada e stiamo cercando di seminare gesti di amicizia e non di divisione. Seminare odio è facile, e non solo sulla scena internazionale, anche nel quartiere. Uno va, sparla di una vicina, di un vicino, semina odio e quando si semina odio c’è la divisione, c’è cattiveria, nella vita quotidiana. Seminare odio con i commenti, con le chiacchiere… Dalla grande guerra scendo alle chiacchiere, ma sono della stessa specie. Seminare odio anche con le chiacchiere in famiglia, nel quartiere, è uccidere: uccidere la fama altrui, uccidere la pace e la concordia in famiglia, nel quartiere, nel posto di lavoro, far crescere le gelosie, le competizioni di cui parlava la prima ragazza. Cosa faccio io – era la sua domanda – quando vedo che il Mediterraneo è un cimitero? Io, Le dico la verità, soffro, prego, parlo. Non dobbiamo accettare questa sofferenza. Non dire “ma, si soffre dappertutto, andiamo avanti…”. No, questo non va. Oggi c’è la terza guerra mondiale a pezzetti: un pezzetto qua, un pezzetto là, e là, e là… Guardate i luoghi di conflitto. Mancanza di umanità, aggressione, odio fra culture, fra tribù, anche una deformazione della religione per poter odiare meglio. Questa non è una strada: questa è la strada del suicidio dell’umanità. Seminare odio, preparare la terza guerra mondiale, che è in corso a pezzetti. E credo di non esagerare in questo. Mi viene in mente – e questo va detto ai giovani – quella profezia di Einstein: “La quarta guerra mondiale sarà fatta con le pietre e i bastoni”, perché la terza avrà distrutto tutto. Seminare odio e far crescere l’odio, creare violenza e divisione è un cammino di distruzione, di suicidio, di altre distruzioni. Questo si può coprire [giustificare] con la libertà, si può coprire con tanti motivi! Quel giovanotto del secolo scorso, negli anni ’30, lo copriva con la purezza della razza; e qui, i migranti. Accogliere il migrante è un mandato biblico, perché “tu stesso sei stato migrante in Egitto” (cfr Lv 19,34). Poi pensiamo: l’Europa è stata fatta dai migranti, tante correnti migratorie nei secoli hanno fatto l’Europa di oggi, le culture si sono mischiate. E l’Europa sa bene che nei momenti brutti altri Paesi, dell’America, per esempio, sia del Nord che del Sud, hanno accolto i migranti europei, sa cosa significa questo. Noi dobbiamo riprendere, prima di esprimere un giudizio sul problema delle migrazioni, riprendere la nostra storia europea. Io sono figlio di un migrante che è andato in Argentina, e tanti, in America, tanti hanno un cognome italiano, sono migranti. Accolti con il cuore e con le porte aperte. Ma la chiusura è l’inizio del suicidio. E’ vero che si devono accogliere i migranti, si devono accompagnare, ma soprattutto si devono integrare. Se noi accogliamo “così” [come capita, senza un piano], non facciamo un bel servizio: c’è il lavoro dell’integrazione. La Svezia è stata un esempio da più di 40 anni, in questo. Io l’ho vissuto da vicino: quanti argentini e uruguayani, al tempo delle nostre dittature militari, sono stati rifugiati in Svezia. E subito li hanno integrati, subito. Scuola, lavoro… Integrati nella società. E quando l’anno scorso sono stato a Lund, mi ha ricevuto all’aeroporto il Primo Ministro, e poi, siccome non poteva venire lui a congedarsi, ha inviato una Ministro, credo della cultura… In Svezia, dove sono tutti biondi, questa era un po’ bruna: una Ministra della cultura così… Poi ho saputo che era figlia di una svedese e di un migrante dell’Africa. Così integrata che è arrivata a essere Ministra del Paese. Così si integrano le cose. Invece, la tragedia che tutti ricordiamo di Zaventem [in Belgio], non era stata fatta da stranieri: l’hanno fatta giovani belgi! Ma giovani belgi che erano stati ghettizzati in un quartiere. Sì, sono stati ricevuti ma non integrati. E questa non è la strada. Un governo deve avere – questi sono i criteri – il cuore aperto per ricevere, le strutture buone per fare la strada dell’integrazione e anche la prudenza di dire: fino a questo punto, posso, oltre non posso. E per questo è importante che tutta l’Europa si metta d’accordo su questo problema. Al contrario, il peso più forte lo portano l’Italia, la Grecia, la Spagna, Cipro un po’, questi tre-quattro Paesi… E’ importante.
Ma, per favore, non seminare odio. E oggi, io chiederei per favore a tutti di guardare il nuovo cimitero europeo: si chiama Mediterraneo, si chiama Egeo.

Dalle radici degli anziani, scorre la linfa di un popolo
5. Ho avuto un’esperienza di dialogo con gli anziani, per caso, da ragazzo. Mi piaceva ascoltarli.
 E’ stata una bella esperienza, con gli anziani, non mi spaventavano. Stavo sempre con i giovani, ma… E con queste esperienze ho capito la capacità di sognare che hanno gli anziani, perché c’è sempre un consiglio: “Vai così, fai questo…, ti racconto questo, non dimenticarti di questo…”. Un consiglio non imperativo, ma aperto, e con tenerezza. E questi consigli mi davano un po’ il senso della storia e dell’appartenenza. La nostra identità non è la carta d’identità che abbiamo: la nostra identità ha delle radici, e ascoltando gli anziani noi troviamo le nostre radici, come l’albero, che ha le proprie radici per crescere, fiorire, dare frutto. Se tu tagli le radici all’albero, non crescerà, non darà dei frutti, morirà, forse. C’è una poesia – l’ho detto tante volte – una poesia argentina di uno dei nostri grandi poeti, Bernardez, che dice: “Quello che l’albero ha di fiorito, viene da quello che ha di sotterrato”. Ma non un andare alle radici per chiudersi lì, come un conservatore chiuso, no. E’ fare – e questo l’ho sentito nell’Aula del Sinodo, uno di questi vescovi saggi lo ha detto – è fare come il tartufo – è costoso, il tartufo! –: nasce vicino alla radice, assimila tutto e poi, guarda che gioiello, il tartufo! E come fa male alle tasche, per averne uno!
Prendere la linfa dalle radici, le storie, e questo ti dà l’appartenenza a un popolo. E poi questa appartenenza è quello che ti dà l’identità. Se mi dici: perché oggi ci sono tanti giovani “liquidi”?, in questa liquidità culturale che è alla moda, che tu non sai se sono “liquidi” o “gassosi”… Non è colpa loro! E’ colpa di questo staccarsi dalle radici della storia. Ma non si tratta di essere come loro [gli anziani], ma di prendere il succo, come il tartufo, e crescere e andare avanti con la storia. Identità, appartenenza a un popolo.
  E infine, la figura biblica: quando Maria e Giuseppe portano il Bambino al Tempio, sono due anziani a riceverli. Quell’uomo saggio [Simeone] che ha sognato tutta la vita di incontrare, di vedere il Liberatore, il Salvatore. E canta quella liturgia, inventa una liturgia di lode a Dio. E quell’anziana [Anna] che stava nel Tempio, con la stessa speranza, e fa la chiacchierona e va dappertutto a dire: “E’ questo, è questo…”, sa trasmettere quello che ha scoperto nell’incontro con Gesù. Quell’immagine dei due vecchi. La Bibbia ripete che sono spinti dallo Spirito. E dice che i giovani, Maria e Giuseppe, con Gesù, vogliono osservare la Legge del Signore. E’ un’immagine molto bella del dialogo e della ricchezza che si dà in questo, che è ricchezza di appartenenza e di identità.

la saggezza del piangere, il dono del piangere: davanti a queste violenze, a questa crudeltà, a questa distruzione della dignità umana, il pianto è umano e cristiano. La via dell’empatia, della vicinanza, della nonviolenza, della mitezza, della tenerezza
6. “Come, in che modo la fede di una giovane donna o di un giovane uomo può sopravvivere a questo uragano? Come possiamo aiutare la Chiesa in questo sforzo?”. E’ la domanda. E’ un uragano, davvero. Anche quando noi eravamo bambini si manifestava un fenomeno che sempre c’è stato, ma non così forte… Oggi si vede più chiaramente quello che la crudeltà può fare in un bambino… Il problema della crudeltà: come si agisce rispetto alla crudeltà? Crudeltà dappertutto. Crudeltà fredda nei calcoli per rovinare l’altro… E una delle forme di crudeltà che mi colpisce, in questo mondo dei diritti umani, è la tortura. In questo mondo, la tortura è pane quotidiano, e sembra normale, e nessuno parla. La tortura è la distruzione della dignità umana
  Come agire rispetto alla crudeltà? La grande crudeltà – ho parlato della tortura – e la piccola crudeltà che c’è tra noi? Come insegnare, come trasmettere ai giovani che la crudeltà è una strada sbagliata, una strada che uccide, non solo la persona, anche l’umanità, il senso di appartenenza, la comunità? E qui, c’è una parola che dobbiamo dire: la saggezza del piangere, il dono del piangere. Davanti a queste violenze, a questa crudeltà, a questa distruzione della dignità umana, il pianto è umano e cristiano. Chiedere la grazia delle lacrime, perché il pianto ammorbidisce il cuore, apre il cuore. E’ fonte di ispirazione, piangere. Gesù, nei momenti più sentiti della sua vita, ha pianto. Nel momento in cui Lui ha visto il fallimento del suo popolo, ha pianto su Gerusalemme. Piangere. Non abbiate paura di piangere per queste cose: siamo umani.
Poi, condividere l’esperienza, e torno a parlare del dialetto e dell’empatia. Condividere l’esperienza con empatia, con i giovani: non si può avere una conversazione con un giovane senza empatia. Dove trovo questa empatia? Non condannare i giovani, come i giovani non devono condannare gli anziani, ma avere l’empatia: l’empatia umana. Io me ne vado perché sono vecchio, ma tu rimarrai, e questa è l’empatia della trasmissione dei valori.
E poi, la vicinanza. La vicinanza fa miracoli. La nonviolenza, la mitezza, la tenerezza: queste virtù umane che sembrano piccole ma sono capaci di superare i conflitti più difficili, più brutti.  Non avere paura. Vicinanza ai problemi. E vicinanza tra giovani e anziani. Sono poche cose: mitezza, tenerezza, vicinanza. E così si trasmette un’esperienza e si fa maturare. I giovani, noi stessi e l’umanità.



giovedì 25 ottobre 2018

SHARING THE WISDOM OF TIME / LA SAGGEZZA DEL TEMPO - DIALOGO DEL SANTO PADRE FRANCESCO CON GIOVANI E ANZIANI - Istituto Patristico Augustinianum - Martedì, 23 ottobre 2018


SHARING THE WISDOM OF TIME / LA SAGGEZZA DEL TEMPO
DIALOGO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
CON GIOVANI E ANZIANI

Istituto Patristico Augustinianum
Martedì, 23 ottobre 2018

dal WEB
http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2018/october/documents/papa-francesco_20181023_giovani-anziani.htm

Federica Ancona — Italia, 26 anni
Papa Francesco, oggi noi giovani siamo sempre esposti a modelli di vita che esprimono una visione “usa e getta”, quella che Lei chiama “cultura dello scarto”.  Mi sembra che la società oggi ci spinge a vivere una forma di individualismo che poi finisce nella competizione. Non mi chiedono di dare il meglio di me, ma di essere sempre migliore degli altri. Ma ho l’impressione che chi cade in questo meccanismo alla fine finisce per sentirsi un fallito.  Qual è invece la strada per la felicità? Come faccio a vivere una vita felice? Come possiamo noi giovani guardarci dentro e capire che cosa è davvero importante? Come possiamo noi giovani creare rapporti veri e autentici quando tutto attorno a noi sembra finto, di plastica? Grazie, Santo Padre.
Papa Francesco:
“Finto e di plastica”: è la cultura del trucco, quello che conta sono le apparenze; quello che conta è il successo personale anche a prezzo di calpestare la testa altrui, andare avanti con questa competizione che tu dici – io ho qui le domande scritte, per non perdermi. E la tua domanda è: come essere felici in questo mercato della competizione, in questo mercato dell’apparenza? Tu non hai detto la parola ma mi permetto di dirla io: in questo mercato dell’ipocrisia; lo dico non in senso morale, ma in senso psicologico-umano: apparire qualcosa che non c’è dentro, si appare in un modo ma dentro c’è il vuoto, per esempio, o c’è l’affanno per arrivare, non è vero?
Su questo mi viene di dirti un gesto, un gesto per spiegare quello che voglio dirti con la mia risposta. Il gesto è questo: la mano tesa e aperta. La mano della competizione è chiusa e prende: sempre prendere, accumulare, tante volte a caro prezzo, a costo di annientare gli altri, per esempio, a costo del disprezzo altrui ma… questa è la competizione! Il gesto dell’anti-competizione è questo: aprirsi. E aprirsi in cammino. La competizione generalmente è ferma: fa i suoi calcoli, tante volte incoscientemente, ma è ferma, non si mette in gioco; fa dei calcoli, ma non si mette in gioco. Invece, la maturazione della personalità avviene sempre in cammino, si mette in gioco. Per dirlo con un’espressione comune: si sporca le mani. Perché? Perché ha la mano tesa per salutare, per abbracciare, per ricevere. E questo mi fa pensare a quello che dicono i santi, anche Gesù: “C’è più gioia nel dare che nel ricevere”. Contro questa cultura che annienta i sentimenti, c’è il servizio, servire. E tu vedrai che la gente più matura, i giovani più maturi – maturi nel senso di sviluppati, sicuri di sé stessi, sorridenti, con senso dell’umorismo – sono quelli con le mani aperte, in cammino, con il servizio. E l’altra parola: che rischiano. Se tu nella vita non rischi, mai, mai sarai matura, mai dirai una profezia, avrai soltanto l’illusione di accumulare per essere sicura. E’ una cultura dello scarto, ma per coloro che non si sentono scartati è la cultura dell’assicurazione: avere tutte le assicurazioni possibili per essere a posto. E mi viene in mente quella parabola di Gesù: l’uomo ricco che aveva avuto un raccolto così grande che non sapeva dove mettere il grano. E disse: “Farò dei magazzini più grandi e così sarò sicuro”. L’assicurazione per tutta la vita. E Gesù dice che questa storia finisce così: “Stolto: questa sera morirai” (cfr Lc 12,16-21). La cultura della competizione non guarda mai la fine; guarda il fine che si è proposto nel suo cuore: arrivare, arrampicando, in ogni modo, ma sempre calpestando teste. Invece la cultura del convivere, della fraternità è una cultura del servizio, una cultura che si apre e si sporca le mani.
Questo è il gesto. Non so, non voglio ripetermi ma credo che questa sia la risposta essenziale alla tua domanda. Vuoi salvarti da questa cultura che ti fa sentire una fallita, dalla cultura della competizione, dalla cultura dello scarto, vivere una vita felice? Apri: il gesto della mano sempre tesa così, il sorriso, in cammino, mai seduta, in cammino sempre, sporcati le mani. E sarai felice. Non so, mi viene di dirti questo. 
Delia Gallagher:
La prossima domanda, Santo Padre, viene da Malta. E’ una coppia – Tony e Grace Naudi, sono nonni e sono sposati da 43 anni.
Tony and Grace Naudi — Malta, 71 e 65 anni
[in inglese] Santo Padre, mi chiamo Tony. Mia moglie Grace ed io abbiamo cresciuto una famiglia di quattro figli, un figlio e tre figlie, e abbiamo cinque nipoti e un altro in arrivo.  Come molte famiglie, abbiamo dato ai nostri figli un’educazione cattolica, e abbiamo fatto di tutto per aiutarli a vivere la parola di Dio nella loro vita quotidiana. Eppure, nonostante i nostri sforzi come genitori di trasmettere la fede, i figli qualche volta sono molto critici, ci contestano, sembrano respingere la loro educazione cattolica. Che cosa dobbiamo dire loro? Per noi la fede è importante. È doloroso per noi vedere i nostri figli e i nostri nipoti lontani dalla fede o molto presi dalle cose più mondane o superficiali. Ci dia una parola di incoraggiamento e di aiuto. Che cosa possiamo fare come genitori e nonni per condividere la fede con i nostri figli e i nostri nipoti?
Papa Francesco:
C’è una cosa che ho detto una volta, perché mi è venuta spontanea, sulla trasmissione della fede: la fede va trasmessa “in dialetto”. Sempre. Il dialetto familiare, il dialetto… Pensate alla mamma di quei sette giovani di cui leggiamo nel Libro dei Maccabei: per due volte il racconto biblico dice che la mamma li incoraggiava “in dialetto”, nella lingua materna, perché la fede era stata trasmessa così, la fede si trasmette a casa. Sempre. Sono proprio i nonni, nei momenti più difficili della storia, coloro che hanno trasmesso la fede. Pensiamo alle persecuzioni religiose del secolo scorso, nelle dittature genocide che tutti abbiamo conosciuto: erano i nonni che di nascosto insegnavano ai nipotini a pregare, la fede, e anche di nascosto li portavano al battesimo. Perché non i genitori? Perché i genitori erano coinvolti nella filosofia del partito, di ambedue i partiti [nazista e comunista] e, se si fosse saputo che facevano battezzare i figli, avrebbero perso il lavoro, per esempio, o sarebbero diventati vittime di persecuzioni. Mi raccontava una maestra, una insegnante di uno di questi Paesi, che il lunedì dopo Pasqua dovevano domandare ai bambini: “Cosa avete mangiato ieri a casa?”, semplicemente, e di quelli che dicevano “uova, uova”, passare l’informazione per punire i genitori. Così loro [i genitori] non potevano fare la trasmissione della fede: erano i nonni a farla. E hanno avuto, in questi momenti di persecuzione, una grande responsabilità per questo, assunta da loro stessi, e la portavano avanti, di nascosto, con i metodi più elementari.
Riprendo: la fede va trasmessa sempre in dialetto: il dialetto di casa. E anche il dialetto dell’amicizia, della vicinanza, ma sempre in dialetto. Lei non può trasmettere la fede con il Catechismo: “leggi il Catechismo e avrai la fede”. No. Perché la fede non sono soltanto i contenuti, c’è il modo di vivere, di valutare, di gioire, di rattristarsi, di piangere…: è tutta una vita che porta lì. E la Sua domanda è un po’ – mi permetto –, sembra un po’ esprimere un senso di colpa: “Forse abbiamo fallito nella trasmissione della fede?”. No. Non si può dire questo. La vita è così. All’inizio voi avete trasmesso la fede, ma poi si vive, e il mondo fa delle proposte che entusiasmano i figli nella loro crescita, e tanti si allontanano dalla fede perché fanno una scelta, non sempre cattiva, ma tante volte inconsapevole, tra i valori, sentono delle ideologie più moderne e si allontanano. Ho voluto soffermarmi su questa descrizione della trasmissione della fede per dire il mio parere. La prima cosa è non spaventarsi, non perdere la pace. La pace, sempre parlando con il Signore: “Noi abbiamo trasmesso la fede e adesso…”. Tranquilli. Mai cercare di convincere, perché la fede, come la Chiesa, non cresce per proselitismo, cresce per attrazione – questa è una frase di Benedetto XVI – cioè per testimonianza. Ascoltarli, accoglierli bene, i nipotini, i figli, accompagnarli in silenzio.
Mi viene in mente un aneddoto di un sindacalista – un dirigente, un sindacalista che ho conosciuto –, che a 20/21 anni era caduto nella dipendenza dall’alcol. Viveva da solo con la mamma, perché la mamma lo aveva avuto da ragazza. Lui si ubriacava. E al mattino vedeva che la mamma usciva per andare a lavorare: lavorava lavando le tovaglie, le camicie, come si lavava in quel tempo, con l’asse di legno. Lavorava tutta la giornata, e il figlio lì… E lui vedeva la mamma, ma faceva finta di dormire – non aveva lavoro in un tempo in cui c’era tanto lavoro – e guardava come la mamma si fermava, lo guardava con tenerezza e se ne andava a lavorare. Questo lo ha fatto crollare: quel silenzio, quella tenerezza della mamma ha fatto crollare tutte le resistenze e lui un giorno ha detto: “No, non può essere così”, si è dato da fare, è maturato e ha fatto una buona famiglia, una buona carriera… Silenzio, tenerezza… Silenzio che accompagna, non il silenzio dell’accusa, no, quello che accompagna. E’ una delle virtù dei nonni. Abbiamo visto tante cose nella vita che tante volte soltanto il silenzio buono, quello caldo, può aiutare.
Poi, se uno si domanda quali sono le cause di questo allontanamento, c’è sempre una sola causa che apre le porte alle ideologie: le testimonianze negative. Non sempre in famiglia, no, la maggior parte sono le testimonianze negative di gente di Chiesa: preti nevrotici, o gente che dice di essere cattolica e fa la doppia vita, incoerenze, per il fatto di cercare dentro le comunità cristiane cose che non sono valori cristiani… Sono sempre le testimonianze negative che allontanano dalla vita [di fede]. E poi, le persone che ricevono questi esempi negativi, accusano. Dicono: “Io ho perso la fede perché ho visto questo e questo…”. E hanno ragione. E ci vuole soltanto un’altra testimonianza, quella della bontà, della mitezza, della pazienza, la testimonianza che ha dato Gesù nella sua passione, quando Lui soffriva ed era capace di toccare il cuore.
Ai genitori e ai nonni che hanno questa esperienza, consiglio molto amore, molta tenerezza, comprensione, testimonianza e pazienza. E preghiera, preghiera. Pensate a Santa Monica: ha vinto con le lacrime. Era brava. Ma mai discutere, mai, perché questo è un tranello: i figli vogliono portare i genitori alla discussione. No. Meglio dire: “Non so rispondere a questo, cerca da un’altra parte, ma cerca, cerca…”. Sempre evitare la discussione diretta, perché questo allontana. E sempre la testimonianza “in dialetto”, cioè con quelle carezze che loro capiscono. Questo.
Delia Gallagher:
Grazie, Santo Padre. La terza domanda viene dagli Stati Uniti, da Rosemary Lane. Rosemary lavora per Loyola Press e quindi è stato fatto grazie a lei, in parte, questo libro per il quale lei ha raccolto alcune storie di anziani per realizzare il libro.
Rosemary Lane — Stati Uniti d’America, 30 anni
[in inglese] Santo Padre, ho avuto il privilegio di trascorrere un anno raccogliendo la saggezza dagli anziani di tutto il mondo per il libro La saggezza del tempo. Mi è accaduto di chiedere ad alcuni anziani come affrontano le loro fragilità, le loro incertezze per il futuro. Una donna saggia, Conny Caruso, mi ha detto che io non devo mai darmi per vinta. Devo darmi da fare, lottare, avere fiducia nella vita. Ma oggi la fiducia non la si può dare per scontata. Anche da Lei io avverto personalmente questo messaggio di fiducia. Mi fa riflettere che la fiducia mi venga da persone che hanno vissuto già a lungo. Noi giovani viviamo una vita difficile, viviamo in un mondo instabile e pieno di sfide. Che cosa direbbe Lei, da nonno, a giovani che vogliono avere fiducia nella vita, che desiderano costruirsi un futuro all’altezza dei loro sogni?
Papa Francesco:
“Che cosa direbbe Lei, da nonno, a giovani che vogliono avere fiducia nella vita, che desiderano costruirsi un futuro all’altezza dei loro sogni?”. Questa è la domanda. Un bel lavoro hai fatto, con queste interviste! E’ una bella esperienza che non dimenticherai mai, mai! Una bella esperienza. 
Prendo l’ultima parola: “all’altezza dei loro sogni”. Sogni è l’ultima parola. E la risposta è: incomincia a sognare. Sogna tutto. Mi viene in mente quella bella canzone: “Nel blu dipinto di blu, felice di stare lassù”. Sognare così, sfacciatamente, senza vergogna. Sognare. Sognare è la parola. E difendere i sogni come si difendono i figli. Questo è difficile da capire ma è facile da sentire: quando tu hai un sogno, una cosa che non sai come dirla, ma la custodisci e la difendi perché l’abitudine quotidiana non te la tolga. Aprirsi a orizzonti che sono contro le chiusure. Le chiusure non conoscono gli orizzonti, i sogni sì! Sognare, e prendere i sogni dagli anziani. Portare su di sé gli anziani e i loro sogni. Portare addosso questi anziani, i loro sogni; non ascoltarli, registrarli, e poi dire “adesso andiamo a divertirci”. No. Portarli addosso. Il sogno che noi riceviamo da un anziano è un peso, costa portarlo avanti. E’ una responsabilità: dobbiamo portarli avanti.
C’è un’icona che viene dal Monastero di Bose, che si chiama “la Santa Comunione”, e cioè un monaco giovane che porta avanti un anziano, porta avanti i sogni di un anziano, e non è facile, si vede che fa fatica in questo. In questa immaginetta tanto bella si vede un giovane che è stato capace di prendere su di sé i sogni degli anziani e li porta avanti, per farli fruttificare. Questo forse sarà di ispirazione. Tu non puoi portarti tutti gli anziani addosso, ma i loro sogni sì, e questi portali avanti, portali, che ti farà bene. Non solo ascoltarli, scriverli, no: prenderli e portarli avanti. E questo ti cambia il cuore, questo ti fa crescere, questo ti fa maturare. E’ la maturazione propria di un anziano.
Loro, nei sogni, ti diranno anche cosa hanno fatto nella vita; ti racconteranno gli sbagli, i fallimenti, i successi, ti diranno questo. Prendilo. Prendi tutta questa esperienza di vita e vai avanti. Questo è il punto di partenza.
“Cosa direbbe Lei ai giovani che vogliono avere fiducia nella vita?”: prendi su di te i sogni degli anziani e portali avanti. Questo ti farà maturare. Grazie. 
Delia Gallagher:
Grazie. La prossima domanda viene dall’Italia, dalla signora Fiorella Bacherini, che è moglie, mamma, nonna nonché insegnante di italiano per i migranti e i rifugiati a Firenze.
Fiorella Bacherini — Italia, 83 anni
Papa Francesco, sono preoccupata. Ho tre figli. Uno è gesuita come lei. Hanno scelto la loro vita e vanno avanti per la loro strada. Ma guardo anche attorno a me, guardo al mio Paese, al mondo. Vedo crescere le divisioni e la violenza. Ad esempio, sono rimasta molto colpita dalla durezza e dalla crudeltà di cui siamo stati testimoni nel trattamento dei rifugiati. Non voglio discutere di politica, parlo dell’umanità. Com’è facile far crescere l’odio tra la gente! E mi vengono in mente i momenti e i ricordi di guerra che ho vissuto da bambina. Con quali sentimenti Lei sta affrontando questo momento difficile della storia del mondo?
Papa Francesco:
Grazie. Mi è piaciuto quel “non parlo di politica, ma parlo di umanità”. Questo è saggio.
I giovani non hanno l’esperienza delle due guerre. Io ho imparato da mio nonno che ha fatto la prima, sul Piave, ho imparato tante cose, dal suo racconto. Anche le canzoni un po’ ironiche contro il re e la regina, tutto questo ho imparato. I dolori, i dolori della guerra… Cosa lascia una guerra? Milioni di morti, nella grande strage. Poi è venuta la seconda, e questa l’ho conosciuta a Buenos Aires con tanti migranti che sono arrivati: tanti, tanti, tanti, dopo la Seconda Guerra Mondiale. Italiani, polacchi, tedeschi… tanti, tanti. E ascoltando loro ho capito, tutti capivamo cos’era una guerra, che da noi non si conosceva. Credo che sia importante che i giovani conoscano gli effetti delle due guerre del secolo scorso: è un tesoro, negativo, ma un tesoro per trasmettere, per creare delle coscienze. Un tesoro che ha fatto anche crescere l’arte italiana: il cinema del dopoguerra è una scuola di umanesimo. Che loro conoscano questo è importante, per non cadere nello stesso errore. Che loro conoscano come cresce un populismo: per esempio, pensiamo al ’32-’33 di Hitler, quel giovanotto che aveva promesso lo sviluppo della Germania dopo un governo che aveva fallito. Che sappiano come incominciano, i populismi.
Lei ha detto una parola molto brutta ma molto vera: “seminare odio”. E non si può vivere seminando odio. Noi, nell’esperienza religiosa della storia della religione, pensiamo alla Riforma: abbiamo seminato odio, tanto, da ambedue le parti, protestanti e cattolici. Questo l’ho detto esplicitamente a Lund [in Svezia, nell’incontro ecumenico], e adesso da 50 anni lentamente ci siamo accorti che non era quella la strada e stiamo cercando di seminare gesti di amicizia e non di divisione. Seminare odio è facile, e non solo sulla scena internazionale, anche nel quartiere. Uno va, sparla di una vicina, di un vicino, semina odio e quando si semina odio c’è la divisione, c’è cattiveria, nella vita quotidiana. Seminare odio con i commenti, con le chiacchiere… Dalla grande guerra scendo alle chiacchiere, ma sono della stessa specie. Seminare odio anche con le chiacchiere in famiglia, nel quartiere, è uccidere: uccidere la fama altrui, uccidere la pace e la concordia in famiglia, nel quartiere, nel posto di lavoro, far crescere le gelosie, le competizioni di cui parlava la prima ragazza. Cosa faccio io – era la sua domanda – quando vedo che il Mediterraneo è un cimitero? Io, Le dico la verità, soffro, prego, parlo. Non dobbiamo accettare questa sofferenza. Non dire “ma, si soffre dappertutto, andiamo avanti…”. No, questo non va. Oggi c’è la terza guerra mondiale a pezzetti: un pezzetto qua, un pezzetto là, e là, e là… Guardate i luoghi di conflitto. Mancanza di umanità, aggressione, odio fra culture, fra tribù, anche una deformazione della religione per poter odiare meglio. Questa non è una strada: questa è la strada del suicidio dell’umanità. Seminare odio, preparare la terza guerra mondiale, che è in corso a pezzetti. E credo di non esagerare in questo. Mi viene in mente – e questo va detto ai giovani – quella profezia di Einstein: “La quarta guerra mondiale sarà fatta con le pietre e i bastoni”, perché la terza avrà distrutto tutto. Seminare odio e far crescere l’odio, creare violenza e divisione è un cammino di distruzione, di suicidio, di altre distruzioni. Questo si può coprire [giustificare] con la libertà, si può coprire con tanti motivi! Quel giovanotto del secolo scorso, negli anni ’30, lo copriva con la purezza della razza; e qui, i migranti. Accogliere il migrante è un mandato biblico, perché “tu stesso sei stato migrante in Egitto” (cfr Lv 19,34). Poi pensiamo: l’Europa è stata fatta dai migranti, tante correnti migratorie nei secoli hanno fatto l’Europa di oggi, le culture si sono mischiate. E l’Europa sa bene che nei momenti brutti altri Paesi, dell’America, per esempio, sia del Nord che del Sud, hanno accolto i migranti europei, sa cosa significa questo. Noi dobbiamo riprendere, prima di esprimere un giudizio sul problema delle migrazioni, riprendere la nostra storia europea. Io sono figlio di un migrante che è andato in Argentina, e tanti, in America, tanti hanno un cognome italiano, sono migranti. Accolti con il cuore e con le porte aperte. Ma la chiusura è l’inizio del suicidio. E’ vero che si devono accogliere i migranti, si devono accompagnare, ma soprattutto si devono integrare. Se noi accogliamo “così” [come capita, senza un piano], non facciamo un bel servizio: c’è il lavoro dell’integrazione. La Svezia è stata un esempio da più di 40 anni, in questo. Io l’ho vissuto da vicino: quanti argentini e uruguayani, al tempo delle nostre dittature militari, sono stati rifugiati in Svezia. E subito li hanno integrati, subito. Scuola, lavoro… Integrati nella società. E quando l’anno scorso sono stato a Lund, mi ha ricevuto all’aeroporto il Primo Ministro, e poi, siccome non poteva venire lui a congedarsi, ha inviato una Ministro, credo della cultura… In Svezia, dove sono tutti biondi, questa era un po’ bruna: una Ministra della cultura così… Poi ho saputo che era figlia di una svedese e di un migrante dell’Africa. Così integrata che è arrivata a essere Ministra del Paese. Così si integrano le cose. Invece, la tragedia che tutti ricordiamo di Zaventem [in Belgio], non era stata fatta da stranieri: l’hanno fatta giovani belgi! Ma giovani belgi che erano stati ghettizzati in un quartiere. Sì, sono stati ricevuti ma non integrati. E questa non è la strada. Un governo deve avere – questi sono i criteri – il cuore aperto per ricevere, le strutture buone per fare la strada dell’integrazione e anche la prudenza di dire: fino a questo punto, posso, oltre non posso. E per questo è importante che tutta l’Europa si metta d’accordo su questo problema. Al contrario, il peso più forte lo portano l’Italia, la Grecia, la Spagna, Cipro un po’, questi tre-quattro Paesi… E’ importante.
Ma, per favore, non seminare odio. E oggi, io chiederei per favore a tutti di guardare il nuovo cimitero europeo: si chiama Mediterraneo, si chiama Egeo. Questo che mi viene di dire a Lei. E grazie per avere fatto questa domanda, non per politica, ma per umanità. Grazie!
Delia Gallagher:
Grazie. Santo Padre, la prossima domanda viene dalla Colombia, da una giovane donna che si chiama Jennifer Tatiana Valencia Morales, e lei lavora per “Unbound” e quindi viaggia nei villaggi della montagna della Colombia per aiutare anziani e giovani, e si sposta con la motocicletta.
Jennifer Tatiana Valencia Morales — Colombia, 20 anni
[in spagnolo] Papa Francesco, raccogliendo le storie di questo libro io sono rimasta profondamente colpita dalla vita degli anziani. Lei di storie ne avrà già ascoltate tante nella Sua vita. Che cosa L’ha spinta ad accettare questo progetto e ad ascoltare le storie di vita delle persone anziane presenti in questo libro? In questo libro molte storie sono di anziani che vivono situazioni di grande povertà, gente non rilevante agli occhi del mondo, della società. Nessuno starebbe ad ascoltarle. Dopo aver ascoltato storie di vita Lei si sente toccato, cambiato? Le piace ascoltare le storie di vita? La aiuta nel suo mestiere di Papa?
Papa Francesco:
L’ultima domanda: “Le piace ascoltare le storie di vita, L’aiuta nel Suo mestiere di Papa?” Sì, e mi piace anche. Mi piace. Quando sono nelle udienze, il mercoledì, incomincio a salutare la gente, mi fermo dove ci sono i bambini e gli anziani. E ho tante esperienze, tante esperienze nell’ascoltare gli anziani. Ve ne dirò una soltanto, che riguarda la famiglia. Una volta c’era una coppia che faceva il 60° di matrimonio, ma erano giovani, perché a quei tempi si sposavano giovani. Oggi per sposare un figlio, la mamma deve smettere di stirare le camicie, perché altrimenti non se ne va di casa! Ma a quei tempi si sposavano giovani. Io ho fatto loro la domanda: “Valeva la pena di fare questa strada?”, e loro, che mi guardavano, si sono guardati tra loro, e poi sono tornati a guardarmi e avevano gli occhi bagnati, e allora mi hanno risposto: “Siamo innamorati!”. Io mai, mai pensavo a una risposta così “moderna” da una coppia che faceva 60 anni di matrimonio. Sempre tu incontri cose nuove, cose nuove che ti aiutano ad andare avanti.
Poi, un’altra cosa: ho avuto un’esperienza di dialogo con gli anziani, per caso, da ragazzo. Mi piaceva ascoltarli. Una nostra vicina era amante dell’opera, e io da adolescente, 16/17 anni, la accompagnavo all’opera, sì, nel “pollaio” [il loggione], dove era meno costoso… Poi, le mie due nonne, io parlavo tanto con loro: ero curioso della loro vita, mi colpivano. Una cosa che ricordo tanto degli anziani è una signora che veniva a casa ad aiutare mamma a lavare: era una siciliana, immigrata, che aveva due figli; aveva vissuto la guerra, la seconda guerra, e poi se n’era andata con i figli; e lei raccontava storie di guerra, e ho imparato tanto dal dolore di quella gente, cosa significa lasciare il Paese, al punto che questa donna io l’ho accompagnata fino alla morte, a 90 anni. E una volta che c’è stato un distacco, per un atto mio di egoismo l’ho persa di vista, ho sofferto tanto per non trovarla.
E’ stata una bella esperienza, con gli anziani, non mi spaventavano. Stavo sempre con i giovani, ma… E con queste esperienze ho capito la capacità di sognare che hanno gli anziani, perché c’è sempre un consiglio: “Vai così, fai questo…, ti racconto questo, non dimenticarti di questo…”. Un consiglio non imperativo, ma aperto, e con tenerezza. E questi consigli mi davano un po’ il senso della storia e dell’appartenenza. La nostra identità non è la carta d’identità che abbiamo: la nostra identità ha delle radici, e ascoltando gli anziani noi troviamo le nostre radici, come l’albero, che ha le proprie radici per crescere, fiorire, dare frutto. Se tu tagli le radici all’albero, non crescerà, non darà dei frutti, morirà, forse. C’è una poesia – l’ho detto tante volte – una poesia argentina di uno dei nostri grandi poeti, Bernardez, che dice: “Quello che l’albero ha di fiorito, viene da quello che ha di sotterrato”. Ma non un andare alle radici per chiudersi lì, come un conservatore chiuso, no. E’ fare – e questo l’ho sentito nell’Aula del Sinodo, uno di questi vescovi saggi lo ha detto – è fare come il tartufo – è costoso, il tartufo! –: nasce vicino alla radice, assimila tutto e poi, guarda che gioiello, il tartufo! E come fa male alle tasche, per averne uno!
Prendere la linfa dalle radici, le storie, e questo ti dà l’appartenenza a un popolo. E poi questa appartenenza è quello che ti dà l’identità. Se mi dici: perché oggi ci sono tanti giovani “liquidi”?, in questa liquidità culturale che è alla moda, che tu non sai se sono “liquidi” o “gassosi”… Non è colpa loro! E’ colpa di questo staccarsi dalle radici della storia. Ma non si tratta di essere come loro [gli anziani], ma di prendere il succo, come il tartufo, e crescere e andare avanti con la storia. Identità, appartenenza a un popolo.
E un’altra esperienza che ho avuto, già come prete e come vescovo, è quella che fanno i giovani quando vanno a fare visita in una casa di riposo. A Buenos Aires, una piccola esperienza. [I ragazzi dicevano:] “Andiamo là? Ma è noioso, con i vecchi!”. Questa era la prima reazione. Poi vanno, con la chitarra, incominciano… e gli anziani incominciano a svegliarsi, e alla fine sono i giovani che non vogliono più uscire! Continuano a suonare e a suonare perché si crea questo legame.
E infine, la figura biblica: quando Maria e Giuseppe portano il Bambino al Tempio, sono due anziani a riceverli. Quell’uomo saggio [Simeone] che ha sognato tutta la vita di incontrare, di vedere il Liberatore, il Salvatore. E canta quella liturgia, inventa una liturgia di lode a Dio. E quell’anziana [Anna] che stava nel Tempio, con la stessa speranza, e fa la chiacchierona e va dappertutto a dire: “E’ questo, è questo…”, sa trasmettere quello che ha scoperto nell’incontro con Gesù. Quell’immagine dei due vecchi. La Bibbia ripete che sono spinti dallo Spirito. E dice che i giovani, Maria e Giuseppe, con Gesù, vogliono osservare la Legge del Signore. E’ un’immagine molto bella del dialogo e della ricchezza che si dà in questo, che è ricchezza di appartenenza e di identità. Non so se ti ho risposto…
Delia Gallagher:
Bene. Santo Padre, l’ultima domanda viene dagli Stati Uniti, dal signor Martin Scorsese, noto regista, produttore, sceneggiatore; il suo film più recente è Silence, che è la storia di un gesuita missionario in Giappone.
Martin Scorsese — Stati Uniti, 75 anni.
[in inglese] Santo Padre, è da molto che faccio film, ma sono cresciuto nella classe lavoratrice, nei quartieri periferici di New York. Lì c’è una chiesa, la cattedrale di San Patrizio: è la prima cattedrale cattolica di New York. Ho passato tanto tempo in quella chiesa. Ma fuori da quella chiesa, le cose erano molto diverse: c’era la povertà, la violenza… Da bambino ho capito che le sofferenze che vedevo non erano in televisione o nei film: erano proprio lì, davanti ai miei occhi, erano reali. Ho capito che nella strada c’era una verità e che in chiesa c’era un’altra verità che veniva presentata e che non erano, o non sembravano essere uguali. E’ stato molto, veramente molto difficile metterle insieme, riconciliare questi due mondi. L’amore di Gesù sembrava essere una cosa completamente “a parte”, estranea, aliena, spesso, rispetto a quello che vedevo accadere in strada. Sono stato fortunato perché ho avuto genitori buoni che mi hanno amato e un sacerdote giovane, straordinario, che è diventato una specie di mentore per me e per altri, negli anni della formazione. Però, anche oggi, guardandoci intorno – giornali, televisione – sembra che il mondo sia segnato dal male. Oggi le persone fanno tanta fatica a cambiare, a credere nel futuro. Non si crede più nel bene. Assistiamo anche ai penosi fallimenti umani nella stessa istituzione della Chiesa. Come possiamo noi persone anziane rafforzare e guidare i giovani nelle esperienze che loro dovranno affrontare nella vita? Come, Santo Padre, può sopravvivere la fede di un giovane uomo o di una giovane donna in questo uragano? Come possiamo aiutare la Chiesa in questo sforzo?  In che modo oggi un essere umano può vivere una vita buona e giusta in una società dove ciò che spinge ad agire sono avidità e vanità, dove il potere si esprime con violenza? Come faccio a vivere bene quando faccio esperienza del male?
Papa Francesco:
“Come, in che modo la fede di una giovane donna o di un giovane uomo può sopravvivere a questo uragano? Come possiamo aiutare la Chiesa in questo sforzo?”. E’ la domanda. E’ un uragano, davvero. Anche quando noi eravamo bambini si manifestava un fenomeno che sempre c’è stato, ma non così forte… Oggi si vede più chiaramente quello che la crudeltà può fare in un bambino… Il problema della crudeltà: come si agisce rispetto alla crudeltà? Crudeltà dappertutto. Crudeltà fredda nei calcoli per rovinare l’altro… E una delle forme di crudeltà che mi colpisce, in questo mondo dei diritti umani, è la tortura. In questo mondo, la tortura è pane quotidiano, e sembra normale, e nessuno parla. La tortura è la distruzione della dignità umana. Una volta, seguivo i genitori giovani, e ho parlato di come correggere i bambini, come punirli: a volte serve la “filosofia pratica” dello schiaffo, uno schiaffetto, ma mai in faccia, mai, perché questo toglie la dignità. Voi sapete dove darlo – dicevo ai genitori –, ma mai in faccia. E la tortura è come uno schiaffo in faccia, è giocare con la dignità delle persone. La violenza. La violenza per sopravvivere, la violenza in certi quartieri dove se tu non rubi non mangi. E questo è parte della nostra cultura, che noi non possiamo negare, perché è la verità e dobbiamo riconoscerla.
Ma lascio la domanda: come agire rispetto alla crudeltà? La grande crudeltà – ho parlato della tortura – e la piccola crudeltà che c’è tra noi? Come insegnare, come trasmettere ai giovani che la crudeltà è una strada sbagliata, una strada che uccide, non solo la persona, anche l’umanità, il senso di appartenenza, la comunità? E qui, c’è una parola che dobbiamo dire: la saggezza del piangere, il dono del piangere. Davanti a queste violenze, a questa crudeltà, a questa distruzione della dignità umana, il pianto è umano e cristiano. Chiedere la grazia delle lacrime, perché il pianto ammorbidisce il cuore, apre il cuore. E’ fonte di ispirazione, piangere. Gesù, nei momenti più sentiti della sua vita, ha pianto. Nel momento in cui Lui ha visto il fallimento del suo popolo, ha pianto su Gerusalemme. Piangere. Non abbiate paura di piangere per queste cose: siamo umani.
Poi, condividere l’esperienza, e torno a parlare del dialetto e dell’empatia. Condividere l’esperienza con empatia, con i giovani: non si può avere una conversazione con un giovane senza empatia. Dove trovo questa empatia? Non condannare i giovani, come i giovani non devono condannare gli anziani, ma avere l’empatia: l’empatia umana. Io me ne vado perché sono vecchio, ma tu rimarrai, e questa è l’empatia della trasmissione dei valori.
E poi, la vicinanza. La vicinanza fa miracoli. La nonviolenza, la mitezza, la tenerezza: queste virtù umane che sembrano piccole ma sono capaci di superare i conflitti più difficili, più brutti. Vicinanza, come Lei forse da bambino si è avvicinato a questa gente con tante sofferenze, e forse da lì ha incominciato a prendere la saggezza che oggi ci fa vedere nei Suoi film. Vicinanza a coloro che soffrono. Non avere paura. Vicinanza ai problemi. E vicinanza tra giovani e anziani. Sono poche cose: mitezza, tenerezza, vicinanza. E così si trasmette un’esperienza e si fa maturare. I giovani, noi stessi e l’umanità.
Ringrazio per tutte queste domande e per questa vostra riflessione, che mi ha fatto parlare un po’ troppo! Grazie per il vostro lavoro, grazie a voi giovani sinodali e grazie a voi anziani. Vi chiedo di pregare per me. Grazie.