SHARING THE WISDOM OF
TIME / LA SAGGEZZA DEL TEMPO
DIALOGO DEL SANTO
PADRE FRANCESCO
CON GIOVANI E ANZIANI
Istituto Patristico
Augustinianum
Martedì, 23 ottobre 2018
dal WEB
http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2018/october/documents/papa-francesco_20181023_giovani-anziani.htm
Federica Ancona — Italia, 26 anni
Papa Francesco, oggi noi giovani siamo sempre esposti
a modelli di vita che esprimono una visione “usa e getta”, quella che Lei
chiama “cultura dello scarto”. Mi sembra che la società oggi ci spinge a
vivere una forma di individualismo che poi finisce nella competizione. Non mi
chiedono di dare il meglio di me, ma di essere sempre migliore degli altri. Ma
ho l’impressione che chi cade in questo meccanismo alla fine finisce per
sentirsi un fallito. Qual è invece la strada per la felicità? Come faccio
a vivere una vita felice? Come possiamo noi giovani guardarci dentro e capire
che cosa è davvero importante? Come possiamo noi giovani creare rapporti veri e
autentici quando tutto attorno a noi sembra finto, di plastica? Grazie, Santo
Padre.
Papa Francesco:
“Finto e di plastica”: è la cultura del trucco, quello
che conta sono le apparenze; quello che conta è il successo personale anche a
prezzo di calpestare la testa altrui, andare avanti con questa competizione che
tu dici – io ho qui le domande scritte, per non perdermi. E la tua domanda è:
come essere felici in questo mercato della competizione, in questo mercato
dell’apparenza? Tu non hai detto la parola ma mi permetto di dirla io: in
questo mercato dell’ipocrisia; lo dico non in senso morale, ma in senso psicologico-umano:
apparire qualcosa che non c’è dentro, si appare in un modo ma dentro c’è il
vuoto, per esempio, o c’è l’affanno per arrivare, non è vero?
Su questo mi viene di dirti un gesto, un gesto per
spiegare quello che voglio dirti con la mia risposta. Il gesto è questo: la
mano tesa e aperta. La mano della competizione è chiusa e prende: sempre
prendere, accumulare, tante volte a caro prezzo, a costo di annientare gli
altri, per esempio, a costo del disprezzo altrui ma… questa è la competizione!
Il gesto dell’anti-competizione è questo: aprirsi. E aprirsi in cammino. La
competizione generalmente è ferma: fa i suoi calcoli, tante volte
incoscientemente, ma è ferma, non si mette in gioco; fa dei calcoli, ma non si
mette in gioco. Invece, la maturazione della personalità avviene sempre in
cammino, si mette in gioco. Per dirlo con un’espressione comune: si sporca le
mani. Perché? Perché ha la mano tesa per salutare, per abbracciare, per
ricevere. E questo mi fa pensare a quello che dicono i santi, anche Gesù: “C’è
più gioia nel dare che nel ricevere”. Contro questa cultura che annienta i
sentimenti, c’è il servizio, servire. E tu vedrai che la gente più matura, i
giovani più maturi – maturi nel senso di sviluppati, sicuri di sé stessi,
sorridenti, con senso dell’umorismo – sono quelli con le mani aperte, in
cammino, con il servizio. E l’altra parola: che rischiano. Se tu nella vita non
rischi, mai, mai sarai matura, mai dirai una profezia, avrai soltanto
l’illusione di accumulare per essere sicura. E’ una cultura dello scarto, ma
per coloro che non si sentono scartati è la cultura dell’assicurazione: avere
tutte le assicurazioni possibili per essere a posto. E mi viene in mente quella
parabola di Gesù: l’uomo ricco che aveva avuto un raccolto così grande che non
sapeva dove mettere il grano. E disse: “Farò dei magazzini più grandi e così
sarò sicuro”. L’assicurazione per tutta la vita. E Gesù dice che questa storia
finisce così: “Stolto: questa sera morirai” (cfr Lc 12,16-21).
La cultura della competizione non guarda mai la fine;
guarda il fine che si è proposto nel suo cuore: arrivare,
arrampicando, in ogni modo, ma sempre calpestando teste. Invece la cultura del
convivere, della fraternità è una cultura del servizio, una cultura che si apre
e si sporca le mani.
Questo è il gesto. Non so, non voglio ripetermi ma
credo che questa sia la risposta essenziale alla tua domanda. Vuoi salvarti da
questa cultura che ti fa sentire una fallita, dalla cultura della competizione,
dalla cultura dello scarto, vivere una vita felice? Apri: il gesto della mano
sempre tesa così, il sorriso, in cammino, mai seduta, in cammino sempre,
sporcati le mani. E sarai felice. Non so, mi viene di dirti questo.
Delia Gallagher:
La prossima domanda, Santo Padre, viene da Malta. E’
una coppia – Tony e Grace Naudi, sono nonni e sono sposati da 43 anni.
Tony and Grace Naudi — Malta, 71 e 65 anni
[in inglese] Santo Padre, mi chiamo Tony. Mia moglie
Grace ed io abbiamo cresciuto una famiglia di quattro figli, un figlio e tre
figlie, e abbiamo cinque nipoti e un altro in arrivo. Come molte
famiglie, abbiamo dato ai nostri figli un’educazione cattolica, e abbiamo fatto
di tutto per aiutarli a vivere la parola di Dio nella loro vita quotidiana.
Eppure, nonostante i nostri sforzi come genitori di trasmettere la fede, i
figli qualche volta sono molto critici, ci contestano, sembrano respingere la
loro educazione cattolica. Che cosa dobbiamo dire loro? Per noi la fede è
importante. È doloroso per noi vedere i nostri figli e i nostri nipoti lontani
dalla fede o molto presi dalle cose più mondane o superficiali. Ci dia una
parola di incoraggiamento e di aiuto. Che cosa possiamo fare come genitori
e nonni per condividere la fede con i nostri figli e i nostri nipoti?
Papa Francesco:
C’è una cosa che ho detto una volta, perché mi è
venuta spontanea, sulla trasmissione della fede: la fede va trasmessa “in
dialetto”. Sempre. Il dialetto familiare, il dialetto… Pensate alla mamma di
quei sette giovani di cui leggiamo nel Libro dei Maccabei: per due volte il racconto
biblico dice che la mamma li incoraggiava “in dialetto”, nella lingua materna,
perché la fede era stata trasmessa così, la fede si trasmette a casa. Sempre.
Sono proprio i nonni, nei momenti più difficili della storia, coloro che hanno
trasmesso la fede. Pensiamo alle persecuzioni religiose del secolo scorso,
nelle dittature genocide che tutti abbiamo conosciuto: erano i nonni che di
nascosto insegnavano ai nipotini a pregare, la fede, e anche di nascosto li
portavano al battesimo. Perché non i genitori? Perché i genitori erano
coinvolti nella filosofia del partito, di ambedue i partiti [nazista e
comunista] e, se si fosse saputo che facevano battezzare i figli, avrebbero
perso il lavoro, per esempio, o sarebbero diventati vittime di persecuzioni. Mi
raccontava una maestra, una insegnante di uno di questi Paesi, che il lunedì
dopo Pasqua dovevano domandare ai bambini: “Cosa avete mangiato ieri a casa?”,
semplicemente, e di quelli che dicevano “uova, uova”, passare l’informazione
per punire i genitori. Così loro [i genitori] non potevano fare la trasmissione
della fede: erano i nonni a farla. E hanno avuto, in questi momenti di
persecuzione, una grande responsabilità per questo, assunta da loro stessi, e
la portavano avanti, di nascosto, con i metodi più elementari.
Riprendo: la fede va trasmessa sempre in dialetto: il
dialetto di casa. E anche il dialetto dell’amicizia, della vicinanza, ma sempre
in dialetto. Lei non può trasmettere la fede con il Catechismo: “leggi il
Catechismo e avrai la fede”. No. Perché la fede non sono soltanto i contenuti,
c’è il modo di vivere, di valutare, di gioire, di rattristarsi, di piangere…: è
tutta una vita che porta lì. E la Sua domanda è un po’ – mi permetto –, sembra
un po’ esprimere un senso di colpa: “Forse abbiamo fallito nella trasmissione
della fede?”. No. Non si può dire questo. La vita è così. All’inizio voi avete
trasmesso la fede, ma poi si vive, e il mondo fa delle proposte che
entusiasmano i figli nella loro crescita, e tanti si allontanano dalla fede
perché fanno una scelta, non sempre cattiva, ma tante volte inconsapevole, tra
i valori, sentono delle ideologie più moderne e si allontanano. Ho voluto
soffermarmi su questa descrizione della trasmissione della fede per dire il mio
parere. La prima cosa è non spaventarsi, non perdere la pace. La pace, sempre
parlando con il Signore: “Noi abbiamo trasmesso la fede e adesso…”. Tranquilli.
Mai cercare di convincere, perché la fede, come la Chiesa, non cresce per
proselitismo, cresce per attrazione – questa è una frase di Benedetto XVI – cioè
per testimonianza. Ascoltarli, accoglierli bene, i nipotini, i figli,
accompagnarli in silenzio.
Mi viene in mente un aneddoto di un sindacalista – un
dirigente, un sindacalista che ho conosciuto –, che a 20/21 anni era caduto
nella dipendenza dall’alcol. Viveva da solo con la mamma, perché la mamma lo
aveva avuto da ragazza. Lui si ubriacava. E al mattino vedeva che la mamma
usciva per andare a lavorare: lavorava lavando le tovaglie, le camicie, come si
lavava in quel tempo, con l’asse di legno. Lavorava tutta la giornata, e il
figlio lì… E lui vedeva la mamma, ma faceva finta di dormire – non aveva lavoro
in un tempo in cui c’era tanto lavoro – e guardava come la mamma si fermava, lo
guardava con tenerezza e se ne andava a lavorare. Questo lo ha fatto crollare:
quel silenzio, quella tenerezza della mamma ha fatto crollare tutte le
resistenze e lui un giorno ha detto: “No, non può essere così”, si è dato da
fare, è maturato e ha fatto una buona famiglia, una buona carriera… Silenzio,
tenerezza… Silenzio che accompagna, non il silenzio dell’accusa, no, quello che
accompagna. E’ una delle virtù dei nonni. Abbiamo visto tante cose nella vita
che tante volte soltanto il silenzio buono, quello caldo, può aiutare.
Poi, se uno si domanda quali sono le cause di questo
allontanamento, c’è sempre una sola causa che apre le porte alle ideologie: le
testimonianze negative. Non sempre in famiglia, no, la maggior parte sono le
testimonianze negative di gente di Chiesa: preti nevrotici, o gente che dice di
essere cattolica e fa la doppia vita, incoerenze, per il fatto di cercare
dentro le comunità cristiane cose che non sono valori cristiani… Sono sempre le
testimonianze negative che allontanano dalla vita [di fede]. E poi, le persone
che ricevono questi esempi negativi, accusano. Dicono: “Io ho perso la fede
perché ho visto questo e questo…”. E hanno ragione. E ci vuole soltanto
un’altra testimonianza, quella della bontà, della mitezza, della pazienza, la
testimonianza che ha dato Gesù nella sua passione, quando Lui soffriva ed era
capace di toccare il cuore.
Ai genitori e ai nonni che hanno questa esperienza,
consiglio molto amore, molta tenerezza, comprensione, testimonianza e pazienza.
E preghiera, preghiera. Pensate a Santa Monica: ha vinto con le lacrime. Era
brava. Ma mai discutere, mai, perché questo è un tranello: i figli vogliono
portare i genitori alla discussione. No. Meglio dire: “Non so rispondere a
questo, cerca da un’altra parte, ma cerca, cerca…”. Sempre evitare la
discussione diretta, perché questo allontana. E sempre la testimonianza “in
dialetto”, cioè con quelle carezze che loro capiscono. Questo.
Delia Gallagher:
Grazie, Santo Padre. La terza domanda viene dagli
Stati Uniti, da Rosemary Lane. Rosemary lavora per Loyola Press e quindi è
stato fatto grazie a lei, in parte, questo libro per il quale lei ha raccolto
alcune storie di anziani per realizzare il libro.
Rosemary Lane — Stati Uniti d’America, 30 anni
[in inglese] Santo Padre, ho avuto il privilegio di
trascorrere un anno raccogliendo la saggezza dagli anziani di tutto il mondo
per il libro La saggezza del tempo. Mi è accaduto di chiedere ad
alcuni anziani come affrontano le loro fragilità, le loro incertezze per il
futuro. Una donna saggia, Conny Caruso, mi ha detto che io non devo mai darmi
per vinta. Devo darmi da fare, lottare, avere fiducia nella vita. Ma oggi la
fiducia non la si può dare per scontata. Anche da Lei io avverto personalmente
questo messaggio di fiducia. Mi fa riflettere che la fiducia mi venga da
persone che hanno vissuto già a lungo. Noi giovani viviamo una vita difficile,
viviamo in un mondo instabile e pieno di sfide. Che cosa direbbe Lei, da nonno,
a giovani che vogliono avere fiducia nella vita, che desiderano costruirsi un
futuro all’altezza dei loro sogni?
Papa Francesco:
“Che cosa direbbe Lei, da nonno, a giovani che
vogliono avere fiducia nella vita, che desiderano costruirsi un futuro
all’altezza dei loro sogni?”. Questa è la domanda. Un bel lavoro hai fatto, con
queste interviste! E’ una bella esperienza che non dimenticherai mai, mai! Una
bella esperienza.
Prendo l’ultima parola: “all’altezza dei loro
sogni”. Sogni è l’ultima parola. E la risposta è: incomincia a
sognare. Sogna tutto. Mi viene in mente quella bella canzone: “Nel blu dipinto
di blu, felice di stare lassù”. Sognare così, sfacciatamente, senza vergogna.
Sognare. Sognare è la parola. E difendere i sogni come si difendono i figli.
Questo è difficile da capire ma è facile da sentire: quando tu hai un sogno,
una cosa che non sai come dirla, ma la custodisci e la difendi perché
l’abitudine quotidiana non te la tolga. Aprirsi a orizzonti che sono contro le
chiusure. Le chiusure non conoscono gli orizzonti, i sogni sì! Sognare, e prendere
i sogni dagli anziani. Portare su di sé gli anziani e i loro sogni. Portare
addosso questi anziani, i loro sogni; non ascoltarli, registrarli, e poi dire
“adesso andiamo a divertirci”. No. Portarli addosso. Il sogno che noi riceviamo
da un anziano è un peso, costa portarlo avanti. E’ una responsabilità: dobbiamo
portarli avanti.
C’è un’icona che viene dal Monastero di Bose, che si
chiama “la Santa Comunione”, e cioè un monaco giovane che porta avanti un
anziano, porta avanti i sogni di un anziano, e non è facile, si vede che fa
fatica in questo. In questa immaginetta tanto bella si vede un giovane che è
stato capace di prendere su di sé i sogni degli anziani e li porta avanti, per
farli fruttificare. Questo forse sarà di ispirazione. Tu non puoi portarti
tutti gli anziani addosso, ma i loro sogni sì, e questi portali avanti,
portali, che ti farà bene. Non solo ascoltarli, scriverli, no: prenderli e
portarli avanti. E questo ti cambia il cuore, questo ti fa crescere, questo ti
fa maturare. E’ la maturazione propria di un anziano.
Loro, nei sogni, ti diranno anche cosa hanno fatto
nella vita; ti racconteranno gli sbagli, i fallimenti, i successi, ti diranno
questo. Prendilo. Prendi tutta questa esperienza di vita e vai avanti. Questo è
il punto di partenza.
“Cosa direbbe Lei ai giovani che vogliono avere
fiducia nella vita?”: prendi su di te i sogni degli anziani e portali avanti.
Questo ti farà maturare. Grazie.
Delia Gallagher:
Grazie. La prossima domanda viene dall’Italia, dalla
signora Fiorella Bacherini, che è moglie, mamma, nonna nonché insegnante di
italiano per i migranti e i rifugiati a Firenze.
Fiorella Bacherini — Italia, 83 anni
Papa Francesco, sono preoccupata. Ho tre figli. Uno è
gesuita come lei. Hanno scelto la loro vita e vanno avanti per la loro strada.
Ma guardo anche attorno a me, guardo al mio Paese, al mondo. Vedo crescere le
divisioni e la violenza. Ad esempio, sono rimasta molto colpita dalla durezza e
dalla crudeltà di cui siamo stati testimoni nel trattamento dei rifugiati. Non
voglio discutere di politica, parlo dell’umanità. Com’è facile far crescere
l’odio tra la gente! E mi vengono in mente i momenti e i ricordi di guerra che
ho vissuto da bambina. Con quali sentimenti Lei sta affrontando questo momento
difficile della storia del mondo?
Papa Francesco:
Grazie. Mi è piaciuto quel “non parlo di politica, ma
parlo di umanità”. Questo è saggio.
I giovani non hanno l’esperienza delle due guerre. Io
ho imparato da mio nonno che ha fatto la prima, sul Piave, ho imparato tante
cose, dal suo racconto. Anche le canzoni un po’ ironiche contro il re e la
regina, tutto questo ho imparato. I dolori, i dolori della guerra… Cosa lascia
una guerra? Milioni di morti, nella grande strage. Poi è venuta la seconda, e
questa l’ho conosciuta a Buenos Aires con tanti migranti che sono arrivati:
tanti, tanti, tanti, dopo la Seconda Guerra Mondiale. Italiani, polacchi,
tedeschi… tanti, tanti. E ascoltando loro ho capito, tutti capivamo cos’era una
guerra, che da noi non si conosceva. Credo che sia importante che i giovani
conoscano gli effetti delle due guerre del secolo scorso: è un tesoro,
negativo, ma un tesoro per trasmettere, per creare delle coscienze. Un tesoro
che ha fatto anche crescere l’arte italiana: il cinema del dopoguerra è una
scuola di umanesimo. Che loro conoscano questo è importante, per non cadere
nello stesso errore. Che loro conoscano come cresce un populismo: per esempio,
pensiamo al ’32-’33 di Hitler, quel giovanotto che aveva promesso lo sviluppo
della Germania dopo un governo che aveva fallito. Che sappiano come
incominciano, i populismi.
Lei ha detto una parola molto brutta ma molto vera:
“seminare odio”. E non si può vivere seminando odio. Noi, nell’esperienza
religiosa della storia della religione, pensiamo alla Riforma: abbiamo seminato
odio, tanto, da ambedue le parti, protestanti e cattolici. Questo l’ho detto
esplicitamente a Lund [in Svezia, nell’incontro ecumenico], e adesso da 50 anni
lentamente ci siamo accorti che non era quella la strada e stiamo cercando di
seminare gesti di amicizia e non di divisione. Seminare odio è facile, e non
solo sulla scena internazionale, anche nel quartiere. Uno va, sparla di una
vicina, di un vicino, semina odio e quando si semina odio c’è la divisione, c’è
cattiveria, nella vita quotidiana. Seminare odio con i commenti, con le
chiacchiere… Dalla grande guerra scendo alle chiacchiere, ma sono della stessa
specie. Seminare odio anche con le chiacchiere in famiglia, nel quartiere, è
uccidere: uccidere la fama altrui, uccidere la pace e la concordia in famiglia,
nel quartiere, nel posto di lavoro, far crescere le gelosie, le competizioni di
cui parlava la prima ragazza. Cosa faccio io – era la sua domanda – quando vedo
che il Mediterraneo è un cimitero? Io, Le dico la verità, soffro, prego, parlo.
Non dobbiamo accettare questa sofferenza. Non dire “ma, si soffre dappertutto,
andiamo avanti…”. No, questo non va. Oggi c’è la terza guerra mondiale a
pezzetti: un pezzetto qua, un pezzetto là, e là, e là… Guardate i luoghi di
conflitto. Mancanza di umanità, aggressione, odio fra culture, fra tribù, anche
una deformazione della religione per poter odiare meglio. Questa non è una
strada: questa è la strada del suicidio dell’umanità. Seminare odio, preparare
la terza guerra mondiale, che è in corso a pezzetti. E credo di non esagerare
in questo. Mi viene in mente – e questo va detto ai giovani – quella profezia
di Einstein: “La quarta guerra mondiale sarà fatta con le pietre e i bastoni”,
perché la terza avrà distrutto tutto. Seminare odio e far crescere l’odio,
creare violenza e divisione è un cammino di distruzione, di suicidio, di altre
distruzioni. Questo si può coprire [giustificare] con la libertà, si può
coprire con tanti motivi! Quel giovanotto del secolo scorso, negli anni ’30, lo
copriva con la purezza della razza; e qui, i migranti. Accogliere il migrante è
un mandato biblico, perché “tu stesso sei stato migrante in Egitto” (cfr Lv 19,34).
Poi pensiamo: l’Europa è stata fatta dai migranti, tante correnti migratorie
nei secoli hanno fatto l’Europa di oggi, le culture si sono mischiate. E
l’Europa sa bene che nei momenti brutti altri Paesi, dell’America, per esempio,
sia del Nord che del Sud, hanno accolto i migranti europei, sa cosa significa
questo. Noi dobbiamo riprendere, prima di esprimere un giudizio sul problema
delle migrazioni, riprendere la nostra storia europea. Io sono figlio di un
migrante che è andato in Argentina, e tanti, in America, tanti hanno un cognome
italiano, sono migranti. Accolti con il cuore e con le porte aperte. Ma la
chiusura è l’inizio del suicidio. E’ vero che si devono accogliere i migranti,
si devono accompagnare, ma soprattutto si devono integrare. Se noi accogliamo
“così” [come capita, senza un piano], non facciamo un bel servizio: c’è il
lavoro dell’integrazione. La Svezia è stata un esempio da più di 40 anni, in
questo. Io l’ho vissuto da vicino: quanti argentini e uruguayani, al tempo
delle nostre dittature militari, sono stati rifugiati in Svezia. E subito li
hanno integrati, subito. Scuola, lavoro… Integrati nella società. E quando
l’anno scorso sono stato a Lund, mi ha ricevuto all’aeroporto il Primo
Ministro, e poi, siccome non poteva venire lui a congedarsi, ha inviato una
Ministro, credo della cultura… In Svezia, dove sono tutti biondi, questa era un
po’ bruna: una Ministra della cultura così… Poi ho saputo che era figlia di una
svedese e di un migrante dell’Africa. Così integrata che è arrivata a essere
Ministra del Paese. Così si integrano le cose. Invece, la tragedia che tutti
ricordiamo di Zaventem [in Belgio], non era stata fatta da stranieri: l’hanno
fatta giovani belgi! Ma giovani belgi che erano stati ghettizzati in un
quartiere. Sì, sono stati ricevuti ma non integrati. E questa non è la strada.
Un governo deve avere – questi sono i criteri – il cuore aperto per ricevere,
le strutture buone per fare la strada dell’integrazione e anche la prudenza di
dire: fino a questo punto, posso, oltre non posso. E per questo è importante
che tutta l’Europa si metta d’accordo su questo problema. Al contrario, il peso
più forte lo portano l’Italia, la Grecia, la Spagna, Cipro un po’, questi
tre-quattro Paesi… E’ importante.
Ma, per favore, non seminare odio. E oggi, io
chiederei per favore a tutti di guardare il nuovo cimitero europeo: si chiama
Mediterraneo, si chiama Egeo. Questo che mi viene di dire a Lei. E grazie per
avere fatto questa domanda, non per politica, ma per umanità. Grazie!
Delia Gallagher:
Grazie. Santo Padre, la prossima domanda viene dalla
Colombia, da una giovane donna che si chiama Jennifer Tatiana Valencia Morales,
e lei lavora per “Unbound” e quindi viaggia nei villaggi della montagna
della Colombia per aiutare anziani e giovani, e si sposta con la motocicletta.
Jennifer Tatiana Valencia Morales — Colombia, 20
anni
[in spagnolo] Papa Francesco, raccogliendo le storie
di questo libro io sono rimasta profondamente colpita dalla vita degli anziani.
Lei di storie ne avrà già ascoltate tante nella Sua vita. Che cosa L’ha spinta
ad accettare questo progetto e ad ascoltare le storie di vita delle persone
anziane presenti in questo libro? In questo libro molte storie sono di anziani
che vivono situazioni di grande povertà, gente non rilevante agli occhi del
mondo, della società. Nessuno starebbe ad ascoltarle. Dopo aver ascoltato
storie di vita Lei si sente toccato, cambiato? Le piace ascoltare le storie di
vita? La aiuta nel suo mestiere di Papa?
Papa Francesco:
L’ultima domanda: “Le piace ascoltare le storie di
vita, L’aiuta nel Suo mestiere di Papa?” Sì, e mi piace anche. Mi piace. Quando
sono nelle udienze, il mercoledì, incomincio a salutare la gente, mi fermo dove
ci sono i bambini e gli anziani. E ho tante esperienze, tante esperienze nell’ascoltare
gli anziani. Ve ne dirò una soltanto, che riguarda la famiglia. Una volta c’era
una coppia che faceva il 60° di matrimonio, ma erano giovani, perché a quei
tempi si sposavano giovani. Oggi per sposare un figlio, la mamma deve smettere
di stirare le camicie, perché altrimenti non se ne va di casa! Ma a quei tempi
si sposavano giovani. Io ho fatto loro la domanda: “Valeva la pena di fare
questa strada?”, e loro, che mi guardavano, si sono guardati tra loro, e poi
sono tornati a guardarmi e avevano gli occhi bagnati, e allora mi hanno
risposto: “Siamo innamorati!”. Io mai, mai pensavo a una risposta così
“moderna” da una coppia che faceva 60 anni di matrimonio. Sempre tu incontri
cose nuove, cose nuove che ti aiutano ad andare avanti.
Poi, un’altra cosa: ho avuto un’esperienza di dialogo
con gli anziani, per caso, da ragazzo. Mi piaceva ascoltarli. Una nostra vicina
era amante dell’opera, e io da adolescente, 16/17 anni, la accompagnavo
all’opera, sì, nel “pollaio” [il loggione], dove era meno costoso… Poi, le mie
due nonne, io parlavo tanto con loro: ero curioso della loro vita, mi
colpivano. Una cosa che ricordo tanto degli anziani è una signora che veniva a
casa ad aiutare mamma a lavare: era una siciliana, immigrata, che aveva due
figli; aveva vissuto la guerra, la seconda guerra, e poi se n’era andata con i
figli; e lei raccontava storie di guerra, e ho imparato tanto dal dolore di
quella gente, cosa significa lasciare il Paese, al punto che questa donna io
l’ho accompagnata fino alla morte, a 90 anni. E una volta che c’è stato un
distacco, per un atto mio di egoismo l’ho persa di vista, ho sofferto tanto per
non trovarla.
E’ stata una bella esperienza, con gli anziani, non mi
spaventavano. Stavo sempre con i giovani, ma… E con queste esperienze ho capito
la capacità di sognare che hanno gli anziani, perché c’è sempre un consiglio:
“Vai così, fai questo…, ti racconto questo, non dimenticarti di questo…”. Un
consiglio non imperativo, ma aperto, e con tenerezza. E questi consigli mi
davano un po’ il senso della storia e dell’appartenenza. La nostra identità non
è la carta d’identità che abbiamo: la nostra identità ha delle radici, e
ascoltando gli anziani noi troviamo le nostre radici, come l’albero, che ha le
proprie radici per crescere, fiorire, dare frutto. Se tu tagli le radici
all’albero, non crescerà, non darà dei frutti, morirà, forse. C’è una poesia –
l’ho detto tante volte – una poesia argentina di uno dei nostri grandi poeti,
Bernardez, che dice: “Quello che l’albero ha di fiorito, viene da quello che ha
di sotterrato”. Ma non un andare alle radici per chiudersi lì, come un
conservatore chiuso, no. E’ fare – e questo l’ho sentito nell’Aula del Sinodo,
uno di questi vescovi saggi lo ha detto – è fare come il tartufo – è costoso,
il tartufo! –: nasce vicino alla radice, assimila tutto e poi, guarda che
gioiello, il tartufo! E come fa male alle tasche, per averne uno!
Prendere la linfa dalle radici, le storie, e questo ti
dà l’appartenenza a un popolo. E poi questa appartenenza è quello che ti dà l’identità.
Se mi dici: perché oggi ci sono tanti giovani “liquidi”?, in questa liquidità
culturale che è alla moda, che tu non sai se sono “liquidi” o “gassosi”… Non è
colpa loro! E’ colpa di questo staccarsi dalle radici della storia. Ma non si
tratta di essere come loro [gli anziani], ma di prendere il succo, come il
tartufo, e crescere e andare avanti con la storia. Identità, appartenenza a un
popolo.
E un’altra esperienza che ho avuto, già come prete e
come vescovo, è quella che fanno i giovani quando vanno a fare visita in una
casa di riposo. A Buenos Aires, una piccola esperienza. [I ragazzi dicevano:]
“Andiamo là? Ma è noioso, con i vecchi!”. Questa era la prima reazione. Poi
vanno, con la chitarra, incominciano… e gli anziani incominciano a svegliarsi,
e alla fine sono i giovani che non vogliono più uscire! Continuano a suonare e
a suonare perché si crea questo legame.
E infine, la figura biblica: quando Maria e Giuseppe
portano il Bambino al Tempio, sono due anziani a riceverli. Quell’uomo saggio
[Simeone] che ha sognato tutta la vita di incontrare, di vedere il Liberatore,
il Salvatore. E canta quella liturgia, inventa una liturgia di lode a Dio. E
quell’anziana [Anna] che stava nel Tempio, con la stessa speranza, e fa la
chiacchierona e va dappertutto a dire: “E’ questo, è questo…”, sa trasmettere
quello che ha scoperto nell’incontro con Gesù. Quell’immagine dei due vecchi.
La Bibbia ripete che sono spinti dallo Spirito. E dice che i giovani, Maria e
Giuseppe, con Gesù, vogliono osservare la Legge del Signore. E’ un’immagine
molto bella del dialogo e della ricchezza che si dà in questo, che è ricchezza
di appartenenza e di identità. Non so se ti ho risposto…
Delia Gallagher:
Bene. Santo Padre, l’ultima domanda viene dagli Stati
Uniti, dal signor Martin Scorsese, noto regista, produttore, sceneggiatore; il
suo film più recente è Silence, che è la storia di un gesuita
missionario in Giappone.
Martin Scorsese — Stati Uniti, 75 anni.
[in inglese] Santo Padre, è da molto che faccio film,
ma sono cresciuto nella classe lavoratrice, nei quartieri periferici di New
York. Lì c’è una chiesa, la cattedrale di San Patrizio: è la prima cattedrale
cattolica di New York. Ho passato tanto tempo in quella chiesa. Ma fuori da
quella chiesa, le cose erano molto diverse: c’era la povertà, la violenza… Da
bambino ho capito che le sofferenze che vedevo non erano in televisione o nei
film: erano proprio lì, davanti ai miei occhi, erano reali. Ho capito che nella
strada c’era una verità e che in chiesa c’era un’altra verità che veniva
presentata e che non erano, o non sembravano essere uguali. E’ stato molto,
veramente molto difficile metterle insieme, riconciliare questi due mondi.
L’amore di Gesù sembrava essere una cosa completamente “a parte”, estranea,
aliena, spesso, rispetto a quello che vedevo accadere in strada. Sono stato
fortunato perché ho avuto genitori buoni che mi hanno amato e un sacerdote
giovane, straordinario, che è diventato una specie di mentore per me e per
altri, negli anni della formazione. Però, anche oggi, guardandoci intorno –
giornali, televisione – sembra che il mondo sia segnato dal male. Oggi le
persone fanno tanta fatica a cambiare, a credere nel futuro. Non si crede più
nel bene. Assistiamo anche ai penosi fallimenti umani nella stessa istituzione della
Chiesa. Come possiamo noi persone anziane rafforzare e guidare i giovani nelle
esperienze che loro dovranno affrontare nella vita? Come, Santo Padre, può
sopravvivere la fede di un giovane uomo o di una giovane donna in questo
uragano? Come possiamo aiutare la Chiesa in questo sforzo? In che modo
oggi un essere umano può vivere una vita buona e giusta in una società dove ciò
che spinge ad agire sono avidità e vanità, dove il potere si esprime con
violenza? Come faccio a vivere bene quando faccio esperienza del male?
Papa Francesco:
“Come, in che modo la fede di una giovane donna o di
un giovane uomo può sopravvivere a questo uragano? Come possiamo aiutare la
Chiesa in questo sforzo?”. E’ la domanda. E’ un uragano, davvero. Anche quando
noi eravamo bambini si manifestava un fenomeno che sempre c’è stato, ma non
così forte… Oggi si vede più chiaramente quello che la crudeltà può fare in un
bambino… Il problema della crudeltà: come si agisce rispetto alla crudeltà?
Crudeltà dappertutto. Crudeltà fredda nei calcoli per rovinare l’altro… E una
delle forme di crudeltà che mi colpisce, in questo mondo dei diritti umani, è
la tortura. In questo mondo, la tortura è pane quotidiano, e sembra normale, e
nessuno parla. La tortura è la distruzione della dignità umana. Una volta,
seguivo i genitori giovani, e ho parlato di come correggere i bambini, come
punirli: a volte serve la “filosofia pratica” dello schiaffo, uno schiaffetto,
ma mai in faccia, mai, perché questo toglie la dignità. Voi sapete dove darlo –
dicevo ai genitori –, ma mai in faccia. E la tortura è come uno schiaffo in
faccia, è giocare con la dignità delle persone. La violenza. La violenza per
sopravvivere, la violenza in certi quartieri dove se tu non rubi non mangi. E
questo è parte della nostra cultura, che noi non possiamo negare, perché è la
verità e dobbiamo riconoscerla.
Ma lascio la domanda: come agire rispetto alla
crudeltà? La grande crudeltà – ho parlato della tortura – e la piccola crudeltà
che c’è tra noi? Come insegnare, come trasmettere ai giovani che la crudeltà è
una strada sbagliata, una strada che uccide, non solo la persona, anche
l’umanità, il senso di appartenenza, la comunità? E qui, c’è una parola che
dobbiamo dire: la saggezza del piangere, il dono del piangere. Davanti a queste
violenze, a questa crudeltà, a questa distruzione della dignità umana, il
pianto è umano e cristiano. Chiedere la grazia delle lacrime, perché il pianto
ammorbidisce il cuore, apre il cuore. E’ fonte di ispirazione, piangere. Gesù,
nei momenti più sentiti della sua vita, ha pianto. Nel momento in cui Lui ha
visto il fallimento del suo popolo, ha pianto su Gerusalemme. Piangere. Non
abbiate paura di piangere per queste cose: siamo umani.
Poi, condividere l’esperienza, e torno a parlare del
dialetto e dell’empatia. Condividere l’esperienza con empatia, con i giovani:
non si può avere una conversazione con un giovane senza empatia. Dove trovo
questa empatia? Non condannare i giovani, come i giovani non devono condannare
gli anziani, ma avere l’empatia: l’empatia umana. Io me ne vado perché sono
vecchio, ma tu rimarrai, e questa è l’empatia della trasmissione dei valori.
E poi, la vicinanza. La vicinanza fa miracoli. La
nonviolenza, la mitezza, la tenerezza: queste virtù umane che sembrano piccole
ma sono capaci di superare i conflitti più difficili, più brutti. Vicinanza,
come Lei forse da bambino si è avvicinato a questa gente con tante sofferenze,
e forse da lì ha incominciato a prendere la saggezza che oggi ci fa vedere nei
Suoi film. Vicinanza a coloro che soffrono. Non avere paura. Vicinanza ai
problemi. E vicinanza tra giovani e anziani. Sono poche cose: mitezza, tenerezza,
vicinanza. E così si trasmette un’esperienza e si fa maturare. I giovani, noi
stessi e l’umanità.
Ringrazio per tutte queste domande e per questa vostra
riflessione, che mi ha fatto parlare un po’ troppo! Grazie per il vostro
lavoro, grazie a voi giovani sinodali e grazie a voi anziani. Vi chiedo di
pregare per me. Grazie.