Dal WEB:
http://www.settimanesociali.it/wp-content/uploads/2017/10/Magatti-28-ottobre.pdf
48ª Settimana Sociale “Il lavoro
che vogliamo: libero, creativo, partecipativo, solidale” Cagliari, 26-29
ottobre 2017
Dopo l’inverno viene la primavera. Lavoro degno e futuro dell’Italia”
di Mauro Magatti, Segretario del Comitato Cagliari, 28 ottobre 2017
[Nota mia: Mauro Megatti è sociologo ed economista. Insegna Sociologia della globalizzazione e Analisi e
istituzioni del capitalismo contemporaneo nell’Università Cattolica
di Milano]
Oggi è il giorno dell’ascolto e della proposta. Già ieri nei tavoli si è
cominciato a discutere. E più tardi incontreremo le forze sociali e poi il governo
e l’Europa. In questo percorso, il mio compito è quello di provare a
raccogliere in un orizzonte comune i tanti spunti e rinvigorire, se possibile,
il passo di tutti così da procedere nel cammino.
1.È solo il racconto della
vicenda delle ultime tre generazioni vissute nel nostro paese che ci
permette di inquadrare adeguatamente la situazione nella quale ci troviamo. La generazione del dopoguerra, quella di
mio padre, ha lavorato con speranza e passione, creando una grande ricchezza
diffusa per sè e i propri figli. Poi è arrivata la generazione del baby boom,
quella di cui io faccio parte: nata insieme all'individualismo e al
consumerismo, è cresciuta col benessere, venendo poi investita dal vento forte
della globalizzazione neoliberista. A conti fatti, questa generazione
lascia in eredità molti debiti e pochi figli. E così si arriva alla terza generazione, quella dei miei figli - i Millennials [=le persone nate tra il 1985 e il 2005, a cavallo tra il Secondo e il Terzo Millennio della nostra
era - nota mia]- che oggi hanno
l’età per affacciarsi alla vita adulta, ma che sono spesso costretti alla
scelta tra emigrare o stare in panchina. È nel quadro di questo percorso
storico - nel quale è cambiato anche il modo di essere presenti nella società e
nella politica dei Cattolici - che la questione del lavoro in Italia oggi deve
essere posta.
2. Una tale situazione non si è creata per caso. Nella storia recente del nostro paese, c’è
infatti un punto di svolta: sono gli anni 80, quando il debito pubblico
raddoppiò - passando dal 60 al 120% del Pil - e come una idrovora si divorò la
ricchezza accumulata nei decenni passati, compromettendo il futuro delle
generazioni successive. In quel decennio, esaurita la spinta creativa del
dopoguerra, invece di aprire una nuova
stagione di sviluppo, l’Italia si è ripiegata su se stessa, adottando un
modello antigenerativo - tutto schiacciato sull’io, il breve termine, il
binomio consumo-rendita (sostenuto dal debito) - vera causa delle
difficoltà di oggi. Un’idea sbagliata
-che ha prodotto una cultura - da cui derivano molti dei mali che ben
conosciamo: disuguaglianze e povertà; blocco della natalità e del ricambio
generazionale; elites estrattive e corruzione endemica; perdita di peso del
lavoro sulla ricchezza prodotta. Se vogliamo essere onesti, dobbiamo
ammettere che da lì il paese non si è
più ripreso. Come ha confermato la mostra che ha aperto le Settimane:
l’Italia viene da una lunga stagione di declino (su cui ha poi inciso la grave
crisi internazionale del 2008) il cui costo ricade soprattutto sulle spalle dei
giovani, delle famiglie e delle donne. In una parola, potremmo dire che l'Italia
è invecchiata. Ed è invecchiata male.
4. Da qualche tempo, finalmente, i dati parlano di ripresa. E questo è un bene perché respiriamo un
pochino meglio Ma è bene non
fraintendere: i benefici della ripresa raggiungono troppo lentamente e
parzialmente la quotidianità di molte persone. Nel frattempo sono passati
10 anni! La ragione è che la relazione
tra aumento del PIL e condizioni di vita (mediata proprio dal lavoro) è oggi
più labile che in passato: crescono i profitti, la produttività, le quotazioni
di borsa, ma solo in misura modesta l’occupazione. La ricchezza rimane troppo
concentrata e la crescita geograficamente troppo difforme: i salari sono
stagnanti e buona parte del lavoro è precarizzata e sottopagata. Per molte
famiglie, le cose non sono migliorate e le aspettative per il futuro rimangono
fiacche.
La verità è che la crisi del 2008
ha cambiato le condizioni dello sviluppo: che ce ne rendiamo conto o no, siamo entrati in una nuova fase storica,
con la quale dobbiamo ancora imparare a fare i conti.
5. Siamo sulla soglia di una
trasformazione profonda. Negli ultimi vent'anni sono state poste solo le
premesse della “società digitale”. Sappiamo già che una buona parte del ‘lavoro umano’ sarà sostituito dal ‘lavoro delle
macchine”. Senza cedere al pessimismo, si può ragionevolmente ritenere che,
mentre si distruggeranno, nasceranno
nuovi lavori. Ma non dimentichiamo che, per le persone in carne e ossa, a
contare saranno i modi e i tempi del processo di aggiustamento. Il rapporto tra
vita e lavoro è destinato a essere rimodulato. Il lavoro del futuro,
infatti, sarà meno vincolato a luoghi e tempi specifici: in un mondo in cui saremo connessi sempre e ovunque, cosa vorrà dire
“lavorare”? Che cosa ne limiterà il tempo? E come si determinerà il salario”?
Cosa vorranno dire libertà e creatività? Già oggi, col cosiddetto lavoro agile, si vanno diffondendo contratti che
contemplano la possibilità di lavorare a casa. Una soluzione che può permettere una migliore compatibilità con la vita
personale e famigliare, ma che -senza adeguate tutele - può al contrario
favorire nuove forme di controllo e sfruttamento. Sinteticamente, il compito
che ci aspetta è di navigare tra la Scilla della società senza lavoro (jobless society) e la Cariddi di una
società del tutto lavoro (total job
society) - quella in cui ogni nostra attività - di produzione, consumo,
cura - potrà venire assoggettata a controllo e misurazione. Per evitare
entrambi questi scogli è necessario
impegnarsi per rendere la digitalizzazione una benedizione e non una
maledizione. Ma non sarà un compito
facile.
6. Per muoversi nella giusta direzione senza dimenticare chi soffre
la prima cosa da fare è mettersi in ascolto per scorgere i germogli di una
nuova primavera. Lo abbiamo fatto in questi mesi con Cercatori di lavoro e dobbiamo continuare a farlo, tornando a casa,
nei mesi che verranno. Ma quali sono questi germogli? Che il tema della sostenibilità – nella sua accezione ampia: cioè
ambientale e sociale - sia oggi imprescindibile lo hanno capito prima di tutto
alcune imprese, quelle più dinamiche. La sostenibilità promuove un modello di
sviluppo in cui valore economico e sociale sono ricongiunti in un’ottica di
mediolungo periodo. Numerose ricerche dicono che le imprese di successo sono quelle che adottano una strategia centrata
su qualità integrale della produzione; relazioni basate sulla fiducia e il
reciproco riconoscimento con i dipendenti e la filiera dei fornitori;
attenzione al territorio e all’ambiente. La logica dello sfruttamento invece
(del lavoro, dei fornitori, dell’ambiente e del territorio, in una eterna lotta
quotidiana su quantità e prezzo) non porta molto lontano. Considerazioni analoghe valgono per i
territori. A fiorire sono quelli capaci di mettersi insieme per fare squadra e
creare sinergia, superando divisioni e lotte intestine. Le infrastrutture, la
formazione, l’integrazione sociale, l’identità locale non sono costi ma
investimenti. La stessa BCE [=Banca Centrale Europea - nota mia] ha di
recente ammesso che le spese per sanità, educazione e infrastrutture “hanno
effetti positivi sulla crescita a lungo termine, riducendo al tempo stesso la
spesa improduttiva”. In terzo luogo, oggi si riconosce che la motivazione è
decisiva per armonizzare soddisfazione personale e successo d’impresa. Non
solo, tra artigiani, professionisti,
tecnici, manager, imprenditori - specie se donne - cresce la domanda di un
lavoro associato a un senso. C’è voglia di qualche cosa di più: non solamente
far funzionare macchine, servire un sistema efficiente, ma dare il proprio
contributo, essere artefici del cambiamento di sé e della società, rispondere
ai bisogni e risolvere i problemi mettendo in campo la propria intelligenza.
Una domanda da ascoltare e sostenere. Perché questo è il desiderio umano che è mediato dal lavoro: poter esprimere
la propria creatività personale prendendo parte al movimento generativo della
vita.
Anche tra i consumatori cresce la consapevolezza del voto col portafoglio.
Come un sasso nello stagno, ogni atto di
acquisto produce conseguenze che arrivano molto lontano all’interno del sistema
economico. Una consapevolezza che cresce orientando nuovi stili di vita e
nuovi modi di produzione. Tutto ciò è particolarmente vero per i giovani. Le
ricerche dicono che le nuove generazioni giudicano positivamente l'economia di
mercato ma chiedono che sia regolata e messa al riparo dai suoi eccessi. Molto
sensibili nei confronti della questione ambientale, i ragazzi sanno che sarà la
loro generazione a sopportare i costi di una colpevole inazione. Inoltre, le
nuove generazioni ambiscono a costruire un equilibrio migliore tra vita e
lavoro, dove la remunerazione economica non costituisce l’unico criterio di
scelta. Per lo più aperti e tolleranti verso i migranti, i giovani pensano che
l'affermazione personale non debba andare a discapito delle relazioni. Il loro
sogno è che il riconoscimento delle loro capacita dal desiderio non sia
dissociato dal vantaggio per la comunità circostante. Che in mezzo a tante
difficoltà, a tanto dolore, ci sia ragione di sperare lo mostrerà efficacemente
il docufilm che vedremo nel
pomeriggio. Un documento prezioso che ci permetterà di intuire quale può essere
il nostro futuro. Prima di tutto rinnoviamo dunque i nostri occhi e il nostro
cuore: di fronte ai guasti lasciati
dallo sviluppo disordinato degli ultimi decenni, sono tanti coloro che stanno
già cercando un nuovo modo di pensare e di vivere il le-game con l'altro (visto
come costitutivo e non minaccia della propria libertà) e la realtà che li
circonda (da rispettare, non semplicemente da sfrutta-re e manipolare). Secondo
la cornice di uno sviluppo umano integrale tracciato dalla Laudato si’ [enciclica
diffusa nel 2015 da Papa Francesco - nota mia] Si tratta di non disperdere
questo fermento, ma di convogliarlo in una visione unitaria che un po’ per
volta occorre far emergere. Forzando un po’ (ma non troppo!) i termini della
questione, si può dire che l’Italia si
trova davanti a un bivio: o cadere ancora di più nella spirale di sfruttamento
e disuguaglianza resa possibile da una digitalizzazione che pretenda di
organizzare l’intera società come una grande fabbrica; oppure incamminarsi
verso un nuovo sentiero di sviluppo che, rilegando economia e società, metta al
centro la creatività umana arrivando a delineare una transizione migliore tra
vita e lavoro.
7. La primavera, però, non è
l’estate - tempo del caldo e dell’attesa - e tanto meno l’autunno - tempo del
raccolto. È piuttosto il tempo della semina, cioè della speranza, dell’audacia,
dell’impegno. Di chi sa credere senza vedere ancora i frutti. È questa la
stagione che stiamo vivendo! Ma che cosa possiamo o dobbiamo seminare?
8. Il tempo che viviamo ci
sollecita a mettere in discussione l'idea semplice secondo la quale attraverso
il consumo - sostenuto dalla finanza - sia possibile sostenere la crescita.
L'ordine dei fattori va invertito: solo quelle imprese, quelle organizzazioni,
quei territori, quelle comunità che sapranno mettersi insieme per “produrre
valore” potranno prosperare. Prima occorre produrre valore e poi, solo poi, si
può consumare. Non più viceversa. Si tratta di un vero e proprio Cambio di paradigma. Abbandonata la
strada fasulla dell’illusionismo finanziario, siamo chiamati a tornare a "lavorare tutti insieme nella creazione
di un valore comune”, insieme economico e sociale, materiale e spirituale,
secondo un nuovo mix di efficienza e senso, imprenditività e solidarietà,
immanenza [=la realtà in cui siamo
immersi e che ci condiziona - nota mia] e trascendenza [=ciò che
supera la realtà in cui siamo immersi e ci condiziona- nota mia] .
9. Lo provo a dire con una metafora: nel nuovo "mare della
tecnica" che avvolge l'intero pianeta, si ripropone la questione della terra. Etimologicamente, il termine
"terra" significa secco, non umido, in contrapposizione al mare,
ambiente liquido e infido e come tale impossibile da dominare. Dante usa
l'espressione "gran secca" per dire che, per esistere, la terra deve
emergere dal mare. La terra dà dunque il
senso di una solidità, di una permanenza, cioè di una storia, di una cultura,
di un futuro. Di un servizio. In una parola, di un nomos [=legge, nel greco
antico - nota mia], una legge. Parola che ha una triplice valenza
etimologica: Nehmen [=in tedesco, “prendere” - nota mia] significa
presa, conquista; Teilen [in tedesco, “dividere”] divisione,
spartizione; Weiden [in tedesco, “portare al pascolo” - nota mia]
coltivazione, valorizzazione. Che la “terra” (cioè la politica) rischi di
ripresentarsi oggi come conquista (guerra) o divisione (muri) è evidente. Ma la
verità è che, al di là di ogni pretesa di autosufficienza, la terra umana oggi
si può costituire solo in rapporto al mare della tecnica e alle altre terre
emerse. Certo, la terra presuppone
un limite, una cultura (cioè una coltivazione). Ma questo non implica né muri
né contrapposizioni. La via ce la
suggeriscono piuttosto i biologi quando, a proposito delle cellule, distinguono
tra parete e membrana: la prima trattiene tutto per quanto può e da via quanto
meno possibile; la seconda, porosa e resistente, permette il fluire delle
diverse sostanze senza per questo perdere la propria struttura. In effetti, se
è vero che nessuna terra può fiorire oggi indipendentemente dal mare tecnico
planetario (con i suoi codici, i suoi linguaggi, i suoi standard) è altrettanto
vero che la terra - e il suo nomos -
oggi può "emergere" più che mediante il richiamo alla separatezza e,
con essa, al sangue, attraverso l’azione del custodire e del coltivare - che
mette la tecnica al servizio della vita dei suoi abitanti.
10. Ecco dunque il "nomos
della terra" nell'era del mare tecnico: per diventare umana, la terra va lavorata, insieme, con impegno e
generosità. Perché così solo così può fruttare. In tale contesto, il lavoro non
solo può, ma deve tornare a essere al centro del nostro modello di sviluppo.
E non a parole ma nei fatti. Nelle scelte concrete delle imprese, della
pubblica amministrazione, delle famiglie. Il che significa nelle forme
contrattuali, nella imposizione fiscale, nelle regole degli appalti, nella
organizzazione scolastica e educativa.
11. Invero, non c’è nulla di
scontato nel dire che occorre rimettere al centro del nostro modello di
sviluppo il lavoro nella sua accezione antropologicamente più ampia.
Semplicemente perché veniamo da una lunga stagione in cui ciò non è stato vero.
Ma cosa vuol dire mettere al centro il lavoro?
12. Primo: prendersi cura dell’umano in tutte le sue dimensioni. Si
discute di formazione e competenze. Ma una cosa va riaffermata con forza: occorre formare, cioè capacitare, la
persona, superando le false dicotomie che separano invece di tenere
insieme. Non va bene un’idea di cultura astratta, distaccata, rispetto alla quale
la realtà non pare mai all’altezza; ma nemmeno un tecnicismo asfittico,
schiacciato sul fare per il fare. Occorre ribadire che la persona intera è fatta di tante dimensioni (cognitiva, emotiva,
manuale, sociale) che vanno tutte stimolate e curate, coltivando il sapere
teorico che quello pratico, la conoscenza formale e quella informale. La
possibilità di realizzarsi anche lavorativamente (senza produrre scarti)
dipende dalla crescita armoniosa di tante dimensioni diverse. Un processo delicato che deve vedere tanti
soggetti e istituzioni agire di concerto. Perché una formazione integrale non è
mai solo un affare privato. Dice
bene un proverbio africano: per crescere un bambino ci vuole un intero
villaggio. Tradotto nel linguaggio contemporaneo: L’educazione è un bene
comune. Il che significa anche che, alla lunga, non c’è nemmeno crescita se la
comunità non si cura dei propri giovani, soprattutto di quelli più fragili. In
una prospettiva di sviluppo sostenibile, l’inclusione è un principio economico.
13. Secondo: Mettere al
centro il lavoro significa creare un ecosistema favorevole a chi lo crea e a
chi lo pratica. Obiettivo che in Italia appare rimane lontano. Andare in
questa direzione significa: detassare
quanto più possibile il lavoro e poi in generale le attività che lo creano;
fare arrivare a chi crea lavoro (non a chi specula o vive di rendita) le
risorse disponibili. Combattere il castello kafkiano [=assurdo, allucinante, angosciante. Parola che viene dal nome dello
scrittore Franz Kafka e richiama il carattere delle sue opere] della burocrazia. Gli avversari dunque
sono chiari: finanza predatrice, stato distruttore, specula-zione edilizia,
sovranità del consumatore.
Ma non si tratta solo di “liberare” il lavoro.
Si tratta anche di creare nuovo valore.
Cioè nuova economia. Obiettivo che richiede Una rinnovata capacità di stipulare
“alleanze" per creare quel “valore condiviso” tra le cui pieghe è nascosta
buona parte dell’economia del futuro. Gli esempi sono tanti. Dal welfare
all’edilizia, dall’ambiente ai beni culturali, dall’educazione alla ricerca,
dall’energia alle infrastrutture: il lavoro può nascere solo la dove si saprà mettersi
insieme per produrre nuovi tipi di beni. Quello
che viviamo è un tempo di innovazione non di conservazione.
14. Terzo: Non basta parlare
del lavoro purchessia. Il lavoro va sempre e di nuovo Umanizzato. Nell’epoca
dei robot e della intelligenza artificiale, il lavoro si salverà solo capendo
meglio e valorizzando la specificità del lavoro umano. Per reggere l’impatto
della digitalizzazione c’è bisogno di una conversione culturale: passare da un’economia della sussistenza a
un’economia dell’esistenza; produttrice, cioè, di saper-vivere e di saperfare,
dove il lavoro non sia mera fabbricazione, ma contribuzione. Come ha detto Papa Francesco, “Oggi la creazione di nuovo lavoro ha bisogno
di persone aperte e intraprendenti, di relazioni fraterne, di ricerca e
investimenti per risolvere le sfide del cambiamento climatico”. Per umanizzare occorre avere ben chiara la
distinzione tra estrazione e creazione di valore. Nel primo caso si tratta di
spremere il limone dell’efficienza andando a scovare tutti i frammenti di
realtà a cui si può applicare un prezzo. Nel secondo caso, si tratta di
cogliere i bisogni che non hanno ancora risposta, di mettere insieme ciò che è
frammentato o disperso, di favorire la collaborazione tra le parti, di
scommettere sulla capacità di iniziativa delle persone e delle comunità.
Due strade in apparenza sovrapposte, ma che portano a esiti molto diversi.
15. Sono questi i 3 temi delle tre sessioni parallele dove
proseguiremo il lavoro dei tavoli di ieri.
16. Di fronte alle gravissime difficoltà in cui si dibatte la
generazione dei nostri figli non basta
perciò evocare una generica ripresa, dubbia nella consistenza e ancora di più
nei suoi effetti. Né tanto meno si tratta di sollecitarli a correre non si sa
verso dove né per fare che cosa. Si tratta, piuttosto, di autorizzarli a
diventare autori - col nostro pieno e convinto sostegno - della costruzione di
un modello di sviluppo meno ossessionato dalla crescita quantitativa, dalle
performatività, dall’efficienza e più interessato a una nuova sintesi tra
materiale e spirituale, strumentalità e senso, efficienza e creatività. È questo l’invito di Papa Francesco: «adoperatevi
per andare oltre il modello di ordine sociale oggi prevalente. Dobbiamo
chiedere al mercato non solo di essere efficiente nella produzione di ricchezza
e nell’assicurare una crescita sostenibile, ma anche di porsi al servizio dello
sviluppo umano integrale. Non possiamo sacrificare sull’altare dell’efficienza
– “vitello d’oro” dei nostri tempi – valori fondamentali come la democrazia, la
giustizia, la libertà, la famiglia, il creato. In sostanza, dobbiamo mirare a
“civilizzare il mercato”, nella prospettiva di un’etica
amica dell’uomo e del suo ambiente».
Questa dunque deve essere l’ambizione: lavorare
con e per le nuove generazioni allo scopo di promuovere il lavoro degno, non
sfruttato e degradato, ragionevolmente retribuito e stabile. Come pilastro di
un nuovo modello di sviluppo. Prima di tutto per ragioni di senso. Perché vogliamo la felicità delle persone. Di
tutte le persone. E poi per ragioni di merito: perché nel tempo che viviamo solo la qualità del lavoro sarà capace di fare
anche la sua quantità.
17. E tuttavia, nel caso Italiano, indicare la direzione non basta.
Perché i nostri giovani ce la facciano, c’è bisogno di uno sforzo straordinario
per trasformare in un’occasione l’allungamento della vita media. Giovedì il card. Bassetti ha parlato di un
grande patto per il lavoro. Un patto che deve essere prima di tutto
intergenerazionale. Se si vuole invertire il declino generazionale occorre
realizzare un patto inter-generazionale
che miri a sciogliere una contraddizione che rischia di essere micidiale: chi
ha il patrimonio non investe perché vuole proteggersi (gli anziani) e chi vuole
investire non può farlo perché non dispone delle risorse necessarie e anzi è
gravato dal debito accumulato (i giovani). In condizioni differenti, ci troviamo in un passaggio di fase
paragonabile al 1945 (con la Costituzione) e al 1970 (con lo statuto dei
lavoratori). Oggi si tratta di proporre
all’Italia di stipulare un grande patto intergenerazionale basato sulla
rinnovata centralità del lavoro degno così da far emergere il “bene comune”
(vero e proprio Interesse) che lega anziani e giovani: l’avvio di una stagione
qualitativamente diversa di sviluppo (basata sulla centralità del lavoro) a
vantaggio delle giovani generazioni come condizione per la sostenibilità della
protezione degli anziani (che vivono più a lungo). Una opportunità che
richiede la creazione di nuovi strumenti (finanziari, fiscali, contrattuali,
etc.) per mettere in gioco Il patrimonio (cioè il dono-del-padre) mobiliare e immobiliare accumulato in favore della
ripartenza delle giovani generazioni. Una
questione che deve riguardare le famiglie, ma anche le imprese, le associazioni,
lo stato, la Chiesa.
17. Ecco dunque cosa ci chiede l’arrivo di una nuova primavera:
tornare a seminare con speranza e larghezza così da poter sperare di
raccogliere, a suo tempo, frutti buoni.
18. Ci sostiene una convinzione profonda: l’Italia ha tutte le
qualità per essere il luogo dove aprire il cantiere di questo nuovo paradigma.
La tradizione italiana si distingue infatti per non avere mai ridotto il lavoro
alla astrazione, alla serialitá, alla banalizzazione, mantenendo piuttosto la
capacità di incarnarlo nella concretezza della vita. Quando è stata fedele a
questa sua vocazione, il lavoro italiano ha saputo tenere assieme ciò che
altrove si è separato: il bello con la funzione, la mano con la testa, il
singolo con la comunità, l’utilità con il dono, e soprattutto, il particolare
con l’universale e l’immanenza con la trascendenza. In tale modello, il lavoro
- inteso come esperienza viva in cui la persona conosce se stessa e si forma
nel suo rapporto con la realtà (come dice Guardini [Romano Guardini, filosofo e teologo tedesco - 1885/1968 - nota mia] ,
“l’uomo diventa se stesso quando
abbandona se stesso, non però nella forma della leggerezza del vuoto ma in
direzione di qualcosa che giustifica il rischio di sacrificare se stessi” -
è stato fondamento del ben vivere e del ben essere, fattore di incivilimento, mediatore
tra politica, economia e cultura. Ciò spiega perché il lavoro è sempre stato
uno dei modi -forse il modo - mediante cui l’Italia ha saputo esprimere la
propria anima. Da questo genius loci [espressione latina: “ciò che è
caratteristico nei valori di una società stanziata in un certo territorio”],
che valorizza l’unicità di ogni esistenza, talento, vocazione, terra origina
anche quella creatività che tanto peso ha sulla prosperità economica. Una
originalità profondamente intrisa di quella matrice Cristiana che, secondo
Guardini, fonda l’umanesimo della concretezza. Al di là delle difficoltà, la
transizione in corso è l’occasione per recuperare e valorizzare questa nostra
matrice culturale e spirituale che nel secoli ha prodotto esperienze
straordinarie, ancora oggi ammirate in tutto il mondo. L’ultima in ordine di
tempo è quella di Adriano Olivetti [imprenditore
piemontese nel settore delle macchine per scrivere e dei calcolatori,
innovatore sociale e filosofo - 1901/1960] che già 50anni fa aveva intuito, e provato
a mettere in pratica, l’opportunità di uno sviluppo sostenibile basato sulla
valorizzazione del territorio e delle comunità di persone che lo abitano. È
ripartendo da qui, dalla riscoperta della sua più intima matrice cattolica, che
oggi l’Italia può risollevarsi, cogliendo le opportunità del cambio di
paradigma in corso. Dobbiamo chiudere
una pagina e aprirne una nuova. La primavera si annuncia, come suggeriscono
i segni dei tempi. Ma, come altre volte in passato, senza il contributo
coraggioso della radice Cattolica il paese non ce la farà. È questa la
responsabilità da assumere: L’umanesimo
della concretezza è, oggi come ieri, il codice più appropriato per ricomporre fede e storia.