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http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2017/october/documents/papa-francesco_20171028_conferenza-comece.html
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI ALLA CONFERENZA "(RE)THINKING EUROPE",
ORGANIZZATA DALLA COMMISSIONE
DELLE CONFERENZE EPISCOPALI DELL'UNIONE EUROPEA (COMECE)
IN COLLABORAZIONE CON LA SEGRETERIA DI STATO
Aula del Sinodo
Sabato, 28 ottobre 2017
[Sintesi
E’ significativo
che questo incontro abbia voluto essere anzitutto un dialogo nello
spirito di un confronto libero e aperto, attraverso il quale arricchirsi
vicendevolmente e illuminare la via del futuro dell’Europa,
[Occorre interrogarsi
sul nostro compito come cristiani oggi, in queste terre così riccamente
plasmate nel corso dei secoli dalla fede.
San Benedetto
pose all’attenzione dei suoi contemporanei, e anche nostra, una concezione
dell’uomo radicalmente diversa da quella che aveva contraddistinto la
classicità greco-romana, e ancor più di quella violenta che aveva
caratterizzato le invasioni barbariche. L’uomo non è più semplicemente un civis,
un cittadino dotato di privilegi da consumarsi nell’ozio; non è più un miles,
combattivo servitore del potere di turno; soprattutto non è più un servus,
merce di scambio priva di libertà destinata unicamente al lavoro e alla fatica.
San
Benedetto non bada alla condizione sociale, né alla ricchezza, né al potere
detenuto. Egli fa appello alla natura comune di ogni essere umano, che,
qualunque sia la sua condizione, brama certamente la vita e desidera giorni
felici. Per Benedetto non ci sono ruoli, ci sono persone: non ci sono
aggettivi, ci sono sostantivi. È proprio questo uno dei valori fondamentali che
il cristianesimo ha portato: il senso della persona, costituita a immagine di
Dio.
Purtroppo, si
nota come spesso qualunque dibattito si riduca facilmente ad una discussione di
cifre. Non ci sono i cittadini, ci sono i voti. Non ci sono i migranti, ci sono
le quote. Non ci sono lavoratori, ci sono gli indicatori economici. Non ci sono
i poveri, ci sono le soglie di povertà. Il concreto della persona umana è così
ridotto ad un principio astratto, più comodo e tranquillizzante. Se ne comprende la ragione: le persone hanno volti, ci obbligano ad una
responsabilità reale, fattiva, “personale”; le cifre ci occupano con
ragionamenti, anche utili ed importanti, ma rimarranno sempre senz’anima. Ci
offrono l’alibi di un disimpegno, perché non ci toccano mai nella carne.
Riconoscere
che l’altro è anzitutto una persona, significa valorizzare ciò che mi unisce a
lui. L’essere persone ci lega agli altri, ci fa essere comunità.
Dunque il secondo contributo che i
cristiani possono apportare al futuro dell’Europa è la riscoperta del senso di
appartenenza ad una comunità
Si fraintende
il concetto di libertà, interpretandolo quasi fosse il dovere di essere
soli, sciolti da qualunque legame, e di conseguenza si è costruita una
società sradicata priva di senso di appartenenza e di eredità.
Una comunità civile è viva se sa essere aperta, se sa accogliere la
diversità e le doti di ciascuno e nello stesso tempo se sa generare nuove vite,
come pure sviluppo, lavoro, innovazione e cultura.
Persona e comunità sono le fondamenta dell’Europa che
come cristiani vogliamo e possiamo contribuire a costruire. I mattoni di tale
edificio si chiamano: dialogo, inclusione, solidarietà, sviluppo e pace.
Siamo chiamati
a edificare un’Europa nella quale ci si possa incontrare e confrontare a tutti
i livelli, non solo spazio di scambio economico, ma anche cuore nevralgico
della politica, sede in cui si elaboravano le leggi per il benessere di tutti.
Favorire il
dialogo – qualunque dialogo – è una responsabilità basilare della politica, e,
purtroppo, si nota troppo spesso come essa si trasformi piuttosto in sede di
scontro fra forze contrastanti. Alla voce del dialogo si sostituiscono le urla
delle rivendicazioni. Al dialogo si sostituisce, o una
contrapposizione sterile, che può anche mettere in pericolo la convivenza
civile, o un’egemonia del potere politico che ingabbia e impedisce una vera
vita democratica.
I
cristiani sono chiamati a favorire il dialogo politico, specialmente laddove
esso è minacciato e sembra prevalere lo scontro. I cristiani sono chiamati a
ridare dignità alla politica, intesa come massimo servizio al bene comune e non
come un’occupazione di potere. Ciò richiede anche un’adeguata formazione,
perché la politica non è “l’arte dell’improvvisazione”, bensì un’espressione
alta di abnegazione e dedizione personale a vantaggio della comunità.
Essere leader esige studio, preparazione ed esperienza.
Responsabilità
comune dei leader è favorire un’Europa che sia una comunità inclusiva,
libera da un fraintendimento di fondo: inclusione non è sinonimo di
appiattimento indifferenziato. Al contrario, si è autenticamente inclusivi
allorché si sanno valorizzare le differenze, assumendole come patrimonio comune
e arricchente. In questa prospettiva, i migranti sono una risorsa più che un
peso. I cristiani sono chiamati a meditare seriamente l’affermazione di Gesù:
«Ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25,35). Soprattutto davanti
al dramma dei profughi e dei rifugiati, non ci si può dimenticare il fatto di
essere di fronte a delle persone, le quali non possono essere scelte o scartate
a proprio piacimento, secondo logiche politiche, economiche o perfino
religiose.
Non si può
pensare che il fenomeno migratorio sia un processo indiscriminato e senza
regole, ma non si possono nemmeno ergere muri di indifferenza o di paura.
Adoperarsi
per una comunità inclusiva significa edificare uno spazio di
solidarietà. Essere comunità implica infatti che ci si sostenga a vicenda e
dunque che non possono essere solo alcuni a portare pesi e compiere sacrifici
straordinari, mentre altri rimangono arroccati a difesa di posizioni
privilegiate.
La
solidarietà, quella parola che tante volte sembra che si voglia cacciare via
dal dizionario. La solidarietà, che nella prospettiva cristiana trova la sua
ragion d’essere nel precetto dell’amore (cfr Mt 22,37-40), non
può che essere la linfa vitale di una comunità viva e matura. Insieme all’altro
principio cardine della sussidiarietà, essa riguarda non solo i rapporti fra
gli Stati e le Regioni d’Europa. Essere una comunità solidale significa avere
premura per i più deboli della società, per i poveri, per quanti sono scartati
dai sistemi economici e sociali, a partire dagli anziani e dai disoccupati. Ma
la solidarietà esige anche che si recuperi la collaborazione e il sostegno
reciproco fra le generazioni.
A partire
dagli anni Sessanta del secolo scorso è in atto un conflitto generazionale senza
precedenti. Nel consegnare alle nuove generazioni gli ideali che hanno fatto
grande l’Europa, si può dire iperbolicamente che alla tradizione si è preferito
il tradimento. Al rigetto di ciò che giungeva dai padri, è seguito così il
tempo di una drammatica sterilità L’Europa
vive una sorta di deficit di memoria. Tornare ad essere comunità
solidale significa riscoprire il valore del proprio passato, per arricchire il
proprio presente e consegnare ai posteri un futuro di speranza.
Tanti
giovani si trovano invece smarriti davanti all’assenza di radici e di
prospettive, sono sradicati, «in balia delle onde e trasportati qua e là da
qualsiasi vento di dottrina» (Ef 4,14); talvolta anche
“prigionieri” di adulti possessivi, che faticano a sostenere il compito che
spetta loro. L’educazione è un
compito comune, che richiede l’attiva partecipazione allo stesso tempo dei
genitori, della scuola e delle università, delle istituzioni religiose e della
società civile. Senza educazione, non si genera cultura e s’inaridisce il
tessuto vitale delle comunità.
L’Europa
che si riscopre comunità sarà sicuramente una sorgente di sviluppo per
sé e per tutto il mondo. Sviluppo è
da intendersi nell’accezione che il Beato Paolo VI diede a tale parola. «Per
essere autentico sviluppo deve essere integrale, il che vuol dire volto alla
promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo. Com’è stato giustamente sottolineato
da un eminente esperto: “noi non accettiamo di separare l’economico dall’umano,
lo sviluppo dalla civiltà dove si inserisce. Ciò che conta per noi è l’uomo,
ogni uomo, ogni gruppo d’uomini, fino a comprendere l’umanità intera”». Allo
sviluppo dell’uomo contribuisce il lavoro, che è un fattore essenziale per la
dignità e la maturazione della persona. Serve lavoro e servono condizioni
adeguate di lavoro. Nel secolo
scorso non sono mancati esempi eloquenti di imprenditori cristiani che hanno
compreso come il successo delle loro iniziative dipendeva anzitutto dalla
possibilità di offrire opportunità di impiego e condizioni degne di
occupazione. Occorre ripartire dallo
spirito di quelle iniziative, che sono anche il miglior antidoto agli scompensi
provocati da una globalizzazione senz’anima, una globalizzazione
"sferica", che, più attenta al profitto che alle persone, ha creato
diffuse sacche di povertà, disoccupazione, sfruttamento e di malessere sociale.
Spetta
parimenti ai governi creare le condizioni economiche che favoriscano una sana
imprenditoria e livelli adeguati di impiego. Alla politica compete specialmente
riattivare un circolo virtuoso che, a partire da investimenti
a favore della famiglia e dell’educazione, consenta lo sviluppo armonioso e
pacifico dell’intera comunità civile.
Infine,
l’impegno dei cristiani in Europa deve costituire una promessa di pace.
Fu questo il pensiero principale che animò i firmatari dei Trattati di Roma. Essere operatori di pace significa farsi promotori di una cultura
della pace. Ciò esige amore alla verità, senza la quale non possono
esistere rapporti umani autentici, e ricerca della giustizia, senza la quale la
sopraffazione è la norma imperante di qualunque comunità.
La pace esige pure creatività. L’Unione Europea
manterrà fede alla suo impegno di pace nella misura in cui non perderà la
speranza e saprà rinnovarsi per rispondere alle necessità e alle attese dei
propri cittadini. Cent’anni fa, proprio in questi
giorni iniziava la battaglia di Caporetto, una delle più drammatiche della
Grande Guerra. Essa fu l’apice di una guerra di logoramento, quale fu il primo
conflitto mondiale, che ebbe il triste primato di mietere innumerevoli vittime
a fronte di risibili conquiste. Da quell’evento impariamo che se ci si trincera
dietro le proprie posizioni, si finisce per soccombere. Non è dunque questo il
tempo di costruire trincee, bensì quello di avere il coraggio di lavorare per
perseguire appieno il sogno dei Padri fondatori di un’Europa unita e concorde,
comunità di popoli desiderosi di condividere un destino di sviluppo e di pace.
[I cristiani sono
chiamati ad] animare processi che
generino nuovi dinamismi nella società. È proprio quanto fece san Benedetto,
non a caso da Paolo VI proclamato patrono d’Europa: egli non si curò di
occupare gli spazi di un mondo smarrito e confuso. Sorretto dalla fede, egli
guardò oltre e da una piccola spelonca di Subiaco diede vita ad una movimento
contagioso e inarrestabile che ridisegnò il volto dell’Europa.]
Testo integrale
Eminenze,
Eccellenze,
Distinte Autorità,
Signore e Signori,
Sono
lieto di prendere parte a questo momento conclusivo del Dialogo (Re)Thinking
Europe [=(Ri)Pensare l’Europa].
Un contributo cristiano al futuro del progetto europeo, promosso
dalla Commissione degli Episcopati della Comunità Europea (COMECE). Saluto
particolarmente il Presidente, Sua Eminenza il Cardinale Reinhard Marx, come
pure l’On. Antonio Tajani, Presidente del Parlamento Europeo, e li ringrazio
per le deferenti parole che poc’anzi mi hanno rivolto. A ciascuno di voi
desidero esprimere vivo apprezzamento per essere intervenuti numerosi a questo
importante ambito di discussione. Grazie!
Il Dialogo di questi giorni
ha fornito l’opportunità di riflettere in modo ampio sul futuro dell’Europa da
una molteplicità di angolature, grazie alla presenza tra voi di diverse
personalità ecclesiali, politiche, accademiche o semplicemente provenienti
dalla società civile. I giovani hanno potuto proporre le loro attese e
speranze, confrontandosi con i più anziani, i quali, a loro volta, hanno avuto
l’occasione di offrire il loro bagaglio carico di riflessioni ed esperienze. È significativo che questo incontro abbia
voluto essere anzitutto un dialogo nello spirito di un
confronto libero e aperto, attraverso il quale arricchirsi vicendevolmente e
illuminare la via del futuro dell’Europa, ovvero il
cammino che tutti insieme siamo chiamati a percorrere per superare le crisi che
attraversiamo e affrontare le sfide che ci attendono.
Parlare di un contributo cristiano al
futuro del continente significa anzitutto interrogarsi
sul nostro compito come cristiani oggi, in queste terre così riccamente
plasmate nel corso dei secoli dalla fede. Qual è la nostra responsabilità
in un tempo in cui il volto dell’Europa è sempre più connotato da una pluralità
di culture e di religioni, mentre per molti il cristianesimo è percepito come
un elemento del passato, lontano ed estraneo?
Persona
e comunità
Nel
tramonto della civiltà antica, mentre le glorie di Roma divenivano quelle
rovine che ancora oggi possiamo ammirare in città; mentre nuovi popoli
premevano sui confini dell’antico Impero, un giovane fece riecheggiare la voce
del Salmista: «Chi è l'uomo che vuole la vita e desidera vedere giorni
felici?». [1] Nel proporre questo interrogativo
nel Prologo della Regola, san
Benedetto pose all’attenzione dei suoi contemporanei, e anche nostra, una
concezione dell’uomo radicalmente diversa da quella che aveva contraddistinto
la classicità greco-romana, e ancor più di quella violenta che aveva
caratterizzato le invasioni barbariche. L’uomo non è più semplicemente un civis,
un cittadino dotato di privilegi da consumarsi nell’ozio; non è più un miles,
combattivo servitore del potere di turno; soprattutto non è più un servus,
merce di scambio priva di libertà destinata unicamente al lavoro e alla fatica.
San
Benedetto non bada alla condizione sociale, né alla ricchezza, né al potere
detenuto. Egli fa appello alla natura comune di ogni essere umano, che,
qualunque sia la sua condizione, brama certamente la vita e desidera giorni
felici. Per Benedetto non ci sono ruoli, ci sono persone: non ci sono
aggettivi, ci sono sostantivi. È proprio questo uno dei valori fondamentali che
il cristianesimo ha portato: il senso della persona, costituita a immagine di
Dio. A partire da tale principio si costruiranno i monasteri, che
diverranno nel tempo culla della rinascita umana, culturale, religiosa ed anche
economica del continente.
Il
primo, e forse più grande, contributo che i cristiani possono portare
all’Europa di oggi è ricordarle che essa non è una raccolta di numeri o di
istituzioni, ma è fatta di persone. Purtroppo,
si nota come spesso qualunque dibattito si riduca facilmente ad una discussione
di cifre. Non ci sono i cittadini, ci sono i voti. Non ci sono i migranti, ci
sono le quote. Non ci sono lavoratori, ci sono gli indicatori economici. Non ci
sono i poveri, ci sono le soglie di povertà. Il concreto della persona umana è
così ridotto ad un principio astratto, più comodo e tranquillizzante. Se ne comprende la ragione: le persone
hanno volti, ci obbligano ad una responsabilità reale, fattiva, “personale”; le
cifre ci occupano con ragionamenti, anche utili ed importanti, ma rimarranno
sempre senz’anima. Ci offrono l’alibi di un disimpegno, perché non ci toccano
mai nella carne.
Riconoscere
che l’altro è anzitutto una persona, significa valorizzare ciò che mi unisce a
lui. L’essere persone ci lega agli altri, ci fa essere comunità.
Dunque il secondo contributo che i
cristiani possono apportare al futuro dell’Europa è la riscoperta del senso di
appartenenza ad una comunità. Non a caso i Padri fondatori del progetto
europeo scelsero proprio tale parola per identificare il nuovo soggetto politico
che andava costituendosi. La comunità è il più grande antidoto agli
individualismi che caratterizzano il nostro tempo, a quella tendenza diffusa
oggi in Occidente a concepirsi e a vivere in solitudine. Si fraintende il concetto di libertà, interpretandolo quasi fosse
il dovere di essere soli, sciolti da qualunque legame, e di
conseguenza si è costruita una società sradicata priva di senso di appartenenza
e di eredità. E per me questo è grave.
I cristiani riconoscono che la loro identità
è innanzitutto relazionale. Essi sono inseriti come membra di un corpo, la
Chiesa (cfr 1 Cor12,12), nel quale ciascuno con la propria identità
e peculiarità partecipa liberamente all’edificazione comune. Analogamente tale
relazione si dà anche nell’ambito dei rapporti interpersonali e della società
civile. Dinanzi all’altro, ciascuno scopre i suoi pregi e i difetti; i suoi
punti di forza e le sue debolezze: in altre parole scopre il suo volto,
comprende la sua identità.
La famiglia, come prima comunità, rimane il
più fondamentale luogo di tale scoperta. In essa, la diversità è esaltata e
nello stesso tempo è ricompresa nell’unità. La famiglia è l’unione
armonica delle differenze tra l’uomo e la donna, che è tanto più vera
e profonda quanto più è generativa, capace di aprirsi alla vita e agli altri.
Parimenti, una comunità civile è viva se
sa essere aperta, se sa accogliere la diversità e le doti di ciascuno e nello
stesso tempo se sa generare nuove vite, come pure sviluppo, lavoro, innovazione
e cultura.
Persona e comunità sono dunque le
fondamenta dell’Europa che come cristiani vogliamo e possiamo contribuire a
costruire. I mattoni di tale edificio si chiamano: dialogo, inclusione,
solidarietà, sviluppo e pace.
Un
luogo di dialogo
Oggi tutta l’Europa, dall’Atlantico agli Urali,
dal Polo Nord al Mare Mediterraneo, non può permettersi di mancare
l’opportunità di essere anzitutto un luogo di dialogo, sincero e
costruttivo allo stesso tempo, in cui tutti i protagonisti hanno pari dignità.
Siamo chiamati a edificare un’Europa nella
quale ci si possa incontrare e confrontare a tutti i livelli, in un certo senso
come lo era l’agorà antica [«agorà»:
spazio pubblico e di riunione nelle città greche (ἀγορά). Creazione
originale dell’urbanistica ellenica, era al tempo stesso piazza principale e
centro religioso della città, - fonte: Treccani on line]. Tale era infatti la piazza
della polis [«città»,
nel greco antico]. Non solo spazio di scambio economico, ma
anche cuore nevralgico della politica, sede in cui si elaboravano le leggi per
il benessere di tutti; luogo in cui si affacciava il tempio così che alla
dimensione orizzontale della vita quotidiana non mancasse mai il respiro
trascendente che fa guardare oltre l’effimero, il passeggero e il provvisorio.
Ciò ci spinge a considerare il ruolo positivo
e costruttivo che in generale la religione possiede nell’edificazione della
società. Penso ad esempio al contributo del dialogo interreligioso nel favorire
la conoscenza reciproca tra cristiani e musulmani in Europa. Purtroppo, un
certo pregiudizio laicista, ancora in auge, non è in grado di percepire il
valore positivo per la società del ruolo pubblico e oggettivo della religione,
preferendo relegarla ad una sfera meramente privata e sentimentale. Si instaura
così pure il predominio di un certo pensiero unico
[2] assai diffuso nei consessi
internazionali, che vede nell’affermazione di un’identità religiosa un pericolo
per sé e per la propria egemonia, finendo così per favorire un’artefatta
contrapposizione fra il diritto alla libertà religiosa e altri diritti
fondamentali. C'è un divorzio fra loro.
Favorire
il dialogo – qualunque dialogo – è una responsabilità basilare della politica,
e, purtroppo, si nota troppo spesso come essa si trasformi piuttosto in sede di
scontro fra forze contrastanti. Alla voce del dialogo si sostituiscono le urla
delle rivendicazioni. Da più parti si ha la sensazione che il bene comune
non sia più l’obiettivo primario perseguito e tale disinteresse è percepito da
molti cittadini. Trovano così terreno fertile in molti Paesi le formazioni
estremiste e populiste che fanno della protesta il cuore del loro messaggio
politico, senza tuttavia offrire l’alternativa di un costruttivo progetto
politico. Al dialogo si sostituisce, o
una contrapposizione sterile, che può anche mettere in pericolo la convivenza
civile, o un’egemonia del potere politico che ingabbia e impedisce una vera
vita democratica. In un caso si distruggono i ponti e nell’altro si
costruiscono muri. E oggi l'Europa conosce ambedue.
I
cristiani sono chiamati a favorire il dialogo politico, specialmente laddove
esso è minacciato e sembra prevalere lo scontro. I cristiani sono chiamati a
ridare dignità alla politica, intesa come massimo servizio al bene comune e non
come un’occupazione di potere. Ciò richiede anche un’adeguata formazione,
perché la politica non è “l’arte dell’improvvisazione”, bensì un’espressione
alta di abnegazione e dedizione personale a vantaggio della comunità.
Essere leader esige studio, preparazione ed esperienza.
Un
ambito inclusivo
Responsabilità
comune dei leader è favorire un’Europa che sia una comunità inclusiva,
libera da un fraintendimento di fondo: inclusione non è sinonimo di
appiattimento indifferenziato. Al contrario, si è autenticamente inclusivi
allorché si sanno valorizzare le differenze, assumendole come patrimonio comune
e arricchente. In questa prospettiva, i migranti sono una risorsa più che un
peso. I cristiani sono chiamati a meditare seriamente l’affermazione di Gesù:
«Ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25,35). Soprattutto davanti
al dramma dei profughi e dei rifugiati, non ci si può dimenticare il fatto di
essere di fronte a delle persone, le quali non possono essere scelte o scartate
a proprio piacimento, secondo logiche politiche, economiche o perfino
religiose.
Tuttavia, ciò non è in contrasto con il
dovere di ogni autorità di governo di gestire la questione migratoria «con la
virtù propria del governante, cioè la prudenza»,[3] che deve tener conto tanto della
necessità di avere un cuore aperto, quanto della possibilità di integrare
pienamente coloro che giungono nel paese a livello sociale, economico e
politico. Non si può pensare che il
fenomeno migratorio sia un processo indiscriminato e senza regole, ma non si
possono nemmeno ergere muri di indifferenza o di paura. Da parte loro, gli
stessi migranti non devono tralasciare l’onere grave di conoscere, rispettare e
anche assimilare la cultura e le tradizioni della nazione che li accoglie.
Uno
spazio di solidarietà
Adoperarsi
per una comunità inclusiva significa edificare uno spazio di
solidarietà. Essere comunità implica infatti che ci si sostenga a vicenda e
dunque che non possono essere solo alcuni a portare pesi e compiere sacrifici
straordinari, mentre altri rimangono arroccati a difesa di posizioni
privilegiate. Un’Unione Europea che, nell’affrontare le sue crisi, non
riscoprisse il senso di essere un’unica comunità che si sostiene e si aiuta – e
non un insieme di piccoli gruppi d’interesse – perderebbe non solo una delle
sfide più importanti della sua storia, ma anche una delle più grandi
opportunità per il suo avvenire.
La
solidarietà, quella parola che tante volte sembra che si voglia cacciare via
dal dizionario. La solidarietà, che nella prospettiva cristiana trova la sua
ragion d’essere nel precetto dell’amore (cfr Mt 22,37-40), non
può che essere la linfa vitale di una comunità viva e matura. Insieme all’altro
principio cardine della sussidiarietà, essa riguarda non solo i rapporti fra
gli Stati e le Regioni d’Europa. Essere una comunità solidale significa avere
premura per i più deboli della società, per i poveri, per quanti sono scartati
dai sistemi economici e sociali, a partire dagli anziani e dai disoccupati. Ma
la solidarietà esige anche che si recuperi la collaborazione e il sostegno
reciproco fra le generazioni.
A partire dagli anni Sessanta del secolo scorso è in atto un conflitto
generazionale senza precedenti. Nel consegnare alle nuove generazioni gli
ideali che hanno fatto grande l’Europa, si può dire iperbolicamente che alla
tradizione si è preferito il tradimento. Al rigetto di ciò che giungeva dai
padri, è seguito così il tempo di una drammatica sterilità.
Non solo perché in Europa si fanno pochi figli - il nostro inverno demografico
-, e troppi sono quelli che sono stati privati del diritto di nascere, ma anche
perché ci si è scoperti incapaci di consegnare ai giovani gli strumenti
materiali e culturali per affrontare il futuro. L’Europa vive una sorta di deficit di memoria. Tornare ad
essere comunità solidale significa riscoprire il valore del proprio passato,
per arricchire il proprio presente e consegnare ai posteri un futuro di
speranza.
Tanti
giovani si trovano invece smarriti davanti all’assenza di radici e di
prospettive, sono sradicati, «in balia delle onde e trasportati qua e là da
qualsiasi vento di dottrina» (Ef 4,14); talvolta anche
“prigionieri” di adulti possessivi, che faticano a sostenere il compito che
spetta loro. Grave è l’onere di educare, non solo offrendo un insieme di
conoscenze tecniche e scientifiche, ma soprattutto adoperandosi «per promuovere
la perfezione integrale della persona umana, come anche per il bene della società
terrena e per la edificazione di un mondo più umano».[4] Ciò esige il coinvolgimento di tutta
la società. L’educazione è un compito
comune, che richiede l’attiva partecipazione allo stesso tempo dei genitori,
della scuola e delle università, delle istituzioni religiose e della società
civile. Senza educazione, non si genera cultura e s’inaridisce il tessuto
vitale delle comunità.
Una
sorgente di sviluppo
L’Europa
che si riscopre comunità sarà sicuramente una sorgente di sviluppo per
sé e per tutto il mondo. Sviluppo è
da intendersi nell’accezione che il Beato Paolo VI diede a tale parola. «Per
essere autentico sviluppo deve essere integrale, il che vuol dire volto alla
promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo. Com’è stato giustamente sottolineato
da un eminente esperto: “noi non accettiamo di separare l’economico dall’umano,
lo sviluppo dalla civiltà dove si inserisce. Ciò che conta per noi è l’uomo,
ogni uomo, ogni gruppo d’uomini, fino a comprendere l’umanità intera”».[5]
Certamente allo sviluppo dell’uomo contribuisce il lavoro, che è un fattore
essenziale per la dignità e la maturazione della persona. Serve lavoro e
servono condizioni adeguate di lavoro. Nel
secolo scorso non sono mancati esempi eloquenti di imprenditori cristiani che
hanno compreso come il successo delle loro iniziative dipendeva anzitutto dalla
possibilità di offrire opportunità di impiego e condizioni degne di
occupazione. Occorre ripartire dallo
spirito di quelle iniziative, che sono anche il miglior antidoto agli scompensi
provocati da una globalizzazione senz’anima, una globalizzazione
"sferica", che, più attenta al profitto che alle persone, ha creato
diffuse sacche di povertà, disoccupazione, sfruttamento e di malessere sociale.
Sarebbe opportuno anche riscoprire la
necessità di una concretezza del lavoro, soprattutto per i giovani. Oggi molti
tendono a rifuggire lavori in settori un tempo cruciali, perché ritenuti
faticosi e poco remunerativi, dimenticando quanto essi siano indispensabili per
lo sviluppo umano. Che ne sarebbe di noi, senza l’impegno delle persone che con
il lavoro contribuiscono al nostro nutrimento quotidiano? Che ne sarebbe di noi
senza il lavoro paziente e ingegnoso di chi tesse i vestiti che indossiamo o
costruisce le case che abitiamo? Molte professioni oggi ritenute di
second’ordine sono fondamentali. Lo sono dal punto di vista sociale, ma
soprattutto lo sono per la soddisfazione che i lavoratori ricevono dal poter essere
utili per sé e per gli altri attraverso il loro impegno quotidiano.
Spetta
parimenti ai governi creare le condizioni economiche che favoriscano una sana
imprenditoria e livelli adeguati di impiego. Alla politica compete specialmente
riattivare un circolo virtuoso che, a partire da investimenti
a favore della famiglia e dell’educazione, consenta lo sviluppo armonioso e
pacifico dell’intera comunità civile.
Una
promessa di pace
Infine,
l’impegno dei cristiani in Europa deve costituire una promessa di pace.
Fu questo il pensiero principale che animò i firmatari dei Trattati di Roma.
Dopo due guerre mondiali e violenze atroci di popoli contro popoli, era giunto
il tempo di affermare il diritto alla pace.[6] È un diritto. Ancora oggi però
vediamo come la pace sia un bene fragile e le logiche particolari e nazionali
rischiano di vanificare i sogni coraggiosi dei fondatori dell’Europa.[7]
Tuttavia,
essere operatori di pace (cfr Mt 5,9) non significa solamente
adoperarsi per evitare le tensioni interne, lavorare per porre fine a numerosi
conflitti che insanguinano il mondo o recare sollievo a chi soffre. Essere operatori di pace significa farsi
promotori di una cultura della pace. Ciò esige amore alla verità, senza
la quale non possono esistere rapporti umani autentici, e ricerca della
giustizia, senza la quale la sopraffazione è la norma imperante di qualunque
comunità.
La pace esige pure creatività.
L’Unione Europea manterrà fede alla suo impegno di pace nella misura in cui non
perderà la speranza e saprà rinnovarsi per rispondere alle necessità e alle
attese dei propri cittadini. Cent’anni fa, proprio in questi giorni iniziava la battaglia di
Caporetto, una delle più drammatiche della Grande Guerra. Essa fu l’apice di
una guerra di logoramento, quale fu il primo conflitto mondiale, che ebbe il
triste primato di mietere innumerevoli vittime a fronte di risibili conquiste.
Da quell’evento impariamo che se ci si trincera dietro le proprie posizioni, si
finisce per soccombere. Non è dunque questo il tempo di costruire trincee,
bensì quello di avere il coraggio di lavorare per perseguire appieno il sogno
dei Padri fondatori di un’Europa unita e concorde, comunità di popoli
desiderosi di condividere un destino di sviluppo e di pace.
Essere
anima dell’Europa
Eminenze, Eccellenze,
Illustri Ospiti,
L’autore
della Lettera a Diogneto afferma che «come è l'anima nel corpo, così nel mondo
sono i cristiani».[8] In questo tempo, essi sono chiamati
a ridare anima all’Europa a ridestarne la coscienza, non per occupare degli
spazi - questo sarebbe proselitismo -, ma per animare processi[9] che generino nuovi dinamismi nella
società. È proprio quanto fece san Benedetto, non a caso da Paolo VI proclamato
patrono d’Europa: egli non si curò di occupare gli spazi di un mondo smarrito e
confuso. Sorretto dalla fede, egli guardò oltre e da una piccola spelonca di
Subiaco diede vita ad una movimento contagioso e inarrestabile che ridisegnò il
volto dell’Europa. Egli, che fu «messaggero di pace, realizzatore di
unione, maestro di civiltà»,[10] mostri anche a noi cristiani di
oggi come dalla fede sgorga sempre una speranza lieta, capace di cambiare il
mondo. Grazie.
Che
il Signore benedica tutti noi, benedica il nostro lavoro, benedica i nostri
popoli, le nostre famiglie, i nostri giovani, i nostri anziani, benedica
l'Europa.
Vi
benedica Dio Onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo.
Grazie
tante. Grazie.
[1] Benedetto, Regola,
Prologo, 14. Cfr Sal 33,13.
[8] Lettera
a Diogneto, VI.