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Un processo continuo di
liberazione
(8 gennaio 2013)
Se c’è, come non può
non esserci nel mondo un processo continuo di liberazione, la Chiesa, il
cristiano con la Chiesa e per la Chiesa, deve essere presente in questo
processo di liberazione. In che modo? Con la triplice azione sacramentale che è
propria della Chiesa e del cristiano.
[…]
Con la parola.
Nel processo di
liberazione e di promozione umana che è nel mondo, la Chiesa e il cristiano
deve essere innanzi tutto presente con la parola di Dio.
[…]
Con la vita.
La Chiesa. … e il
cristiano nella Chiesa non può accontentarsi di parlare di liberazione, non può contentarsi di parlare alla liberazione; la Chiesa attraverso i suoi membri, secondo lo
stato e le condizioni di ognuno, secondo le capacità e la vocazione di ognuno,
deve partecipare al processo di liberazione dell’uomo.
[…]
Con il sacramento.
Ma infine…è con i sacramenti che la Chiesa
deve portare nel mondo la liberazione totale e integrale operata da Cristo.
[ da La Chiesa sacramento di Cristo e segno e
strumento di liberazione, relazione tenuta il 27-6-73 a Terni dal vescovo
Enrico Bartoletti – all’epoca segretario generale della CEI, in Enrico Bartoletti, La Chiesa nel mondo – a
cura di Pietro Gianneschi, Editrice AVE, 1982].
Lo scritto che ho sopra riportato rende bene
il clima degli anni immediatamente dopo il Concilio Vaticano 2°. La Chiesa
cattolica, a lungo considerata essenzialmente una forza di contenimento sociale e personale, se non una
organizzazione francamente reazionaria, veniva concepita in modo nuovo, nel
senso che come fedeli ci si assegnava compiti nuovi, religiosamente motivati,
in un mondo in cui era generale l’ansia di elevazione di popolazioni o strati
di popolazioni fino ad allora considerati fatalmente destinati alla sofferenza
e alla minorità.
Bisogna dire che di certi temi in Italia si parlava
accostandoli piuttosto da lontano, ad esempio di quello dell’elevazione e
liberazione delle popolazioni del cosiddetto Terzo Mondo, in Africa e in Asia.
Ai tempi nostri, in cui strati di popoli africani e asiatici sono migrati dalle
nostre parti, i problemi si sono fatti più concreti.
E’ necessario anche aggiungere che il disegno
conciliare prevedeva un ruolo molto più attivo dei fedeli laici in questi nuovi
compiti. Il convegno ecclesiale Evangelizzazione
e promozione umana, dell’ottobre/novembre 1976 volle progettare un lavoro
di preparazione di questa parte della Chiesa, nella sua totalità, non in alcune
sue porzioni particolarmente illuminate. L’impostazione cambiò abbastanza sotto
il pontificato del papa Giovanni Paolo 2°, che aveva in mente un altro modello
di presenza dei fedeli laici nella società in cui
vivevano. In Italia, comunque, si ebbero frutti: ad esempio, negli anni ’80,
nell’impegno dei laici siciliani contro le organizzazioni mafiose.
Oggi, se consideriamo chi siamo, noi cattolici, visti nel nostro complesso e parlando
francamente, dobbiamo considerarci prevalentemente una forza di liberazione e promozione umana, o una forza di contenimento, o ancora una forza di reazione, gente che quindi vuole tornare ai tempi di prima?
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Pace come promozione umana
(13 gennaio
2013)
Dalla Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), n.13:
“In tutte
quindi le nazioni della terra è radicato un solo popolo di Dio, poiché di mezzo
a tutte le stirpi egli prende i cittadini del suo regno non terreno ma celeste.
E infatti tutti i fedeli sparsi per il mondo sono in comunione con gli altri
nello Spirito Santo, e così « chi sta in Roma sa che gli Indi sono sue membra
». Siccome dunque il regno di Cristo non è di questo mondo (cfr. Gv 18,36), la
Chiesa, cioè il popolo di Dio, introducendo questo regno nulla sottrae al bene
temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e accoglie tutte le
ricchezze, le risorse e le forme di vita dei popoli in ciò che esse hanno di
buono e accogliendole le purifica, le consolida ed eleva. Essa si ricorda
infatti di dover far opera di raccolta con quel Re, al quale sono state date in
eredità le genti (cfr. Sal 2,8), e nella cui città queste portano i loro doni e
offerte (cfr. Sal 71 (72),10; Is 60,4-7). Questo carattere di universalità, che
adorna e distingue il popolo di Dio è dono dello stesso Signore, e con esso la Chiesa cattolica efficacemente e senza
soste tende a ricapitolare tutta l'umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo
capo, nell'unità dello Spirito di lui.
In virtù di
questa cattolicità, le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a
tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le
singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e per uno sforzo
comune verso la pienezza nell'unità. Ne consegue che il popolo di Dio non
solo si raccoglie da diversi popoli, ma nel suo stesso interno si compone di
funzioni diverse. Poiché fra i suoi membri c'è diversità sia per ufficio,
essendo alcuni impegnati nel sacro ministero per il bene dei loro fratelli, sia
per la condizione e modo di vita, dato che molti nello stato religioso,
tendendo alla santità per una via più stretta, sono un esempio stimolante per i
loro fratelli. Così pure esistono legittimamente in seno alla comunione della
Chiesa, le Chiese particolari, con proprie tradizioni, rimanendo però integro
il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede alla comunione
universale di carità, tutela le varietà legittime e insieme veglia affinché ciò
che è particolare, non solo non pregiudichi l'unità, ma piuttosto la serva. E
infine ne derivano, tra le diverse parti della Chiesa, vincoli di intima
comunione circa i tesori spirituali, gli operai apostolici e le risorse
materiali. I membri del popolo di Dio sono chiamati infatti a condividere i
beni e anche alle singole Chiese si applicano le parole dell'Apostolo: « Da
bravi amministratori della multiforme grazia di Dio, ognuno di voi metta a
servizio degli altri il dono che ha ricevuto» (1 Pt 4,10).
Tutti gli uomini sono quindi chiamati a
questa cattolica unità del popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace
universale; a questa unità
in vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli
altri credenti in Cristo, sia infine tutti gli uomini senza eccezione, che la
grazia di Dio chiama alla salvezza.”
Dalla Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, del Concilio Vaticano
2° (1962-1965), n.4:
“E mentre il
mondo avverte così lucidamente la sua unità e la mutua interdipendenza dei
singoli in una necessaria solidarietà, violentemente viene spinto in direzioni
opposte da forze che si combattono; infatti, permangono ancora gravi contrasti
politici, sociali, economici, razziali e ideologici, né è venuto meno il
pericolo di una guerra capace di annientare ogni cosa.
Aumenta lo
scambio delle idee; ma le stesse parole con cui si esprimono i più importanti
concetti, assumono nelle differenti ideologie significati assai diversi.
Infine, con
ogni sforzo si vuol costruire
un'organizzazione temporale più perfetta, senza che cammini di pari passo il
progresso spirituale.
Immersi in così
contrastanti condizioni, moltissimi nostri contemporanei non sono in grado di
identificare realmente i valori perenni e di armonizzarli dovutamente con le
scoperte recenti.
Per questo
sentono il peso della inquietudine, tormentati tra la speranza e l'angoscia,
mentre si interrogano sull'attuale andamento del mondo.
Questo sfida
l'uomo, anzi lo costringe a darsi una risposta.”
Dalle relazione tenuta da mons. Enrico Bartoletti (1916-1976, dal 1972
Segretario generale della C.E.I.) al seminario della Caritas italiana del 27-4-73. In Enrico Bartoletti, La Chiesa nel mondo, Editrice A.V.E., 1982,
pag.123.
Ecco allora
quello che è la Chiesa o per lo meno
quello che ella è virtualmente e potenzialmente e quello che ella deve di
continuo divenire: una comunità, una
comunione di uomini amati da Dio e che hanno la capacità per il dono dello
Spirito che è stato loro concesso di trasfondere, di manifestare, di realizzare
questo amore di Dio per gli uomini verso i loro fratelli. Innanzi tutto
verso coloro che Dio ha chiamato a partecipare alla medesima sorte, ad essere
membra vive della medesima Chiesa; per poi essere disposti ad amare tutti gli
uomini: “ogni uomo è mio fratello”.
Se noi comprendiamo questo e se non ripetiamo pappagallescamente lo slogan
dell’amore che risolve tutto, ma arriviamo a comprendere la radice profonda
che costituisce l’essenza intima e autentica della Chiesa come comunità di
credenti, come comunione di coloro che Cristo ha redento, allora veramente noi
abbiamo della Chiesa e quindi di noi stessi un’altra visione. Noi comprendiamo
che se questa è l’essenza profonda della Chiesa, se questa è la sua realtà di
base, la sua intima connessione interiore, se questo in fondo è il suo mistero,
rivelare questo mistero al mondo non è altro che realizzare la Chiesa: noi per
primi e poi via via a cerchi concentrici la Chiesa sparsa nel mondo. Sicché gli uomini dovrebbero poter dire: ecco,
Dio non ha abbandonato il mondo, Dio non abbandona gli uomini, Dio non ha
abbandonato la storia perché ha messo nel mondo e nella storia dopo Cristo Gesù
nell’amore dello Spirito, questi uomini, cioè la Chiesa che vuole il mondo
secondo il progetto di Dio, manifestando al mondo l’amore che Dio ha avuto per
lui.
Intendere la Chiesa comunità
pacificante è stata una delle idee forti che si sono manifestate nel Concilio
Vaticano 2° (1962-1965).
Bisogna considerare che sul tema
della pace non la si è sempre pensata allo stesso modo nella Chiesa, in
particolare dopo il Concilio Vaticano 2° c’è stata una veloce evoluzione verso
le concezioni che oggi sono diffuse dal magistero.
Il tema della pace, nei documenti
conciliari, si lega poi a quello del ruolo dei laici, perché, poiché la pace è
cosa da realizzare nel mondo profano, nello spazio che c’è fuori dei templi
dove dominano le azioni liturgiche, essa venne vista come compito
principalmente laicale. L’obiettivo politico che il magistero da decenni indica
per l’instaurazione e il mantenimento della pace tra i popoli è quello di un’autorità
mondiale, universalmente riconosciuta e accreditata, che possa svolgere una
sorta di polizia di pace, nel senso
di mediare la pace, ma anche di imporla di fatto, nel caso che i
conflitti non si risolvano consensualmente. E’ stato osservato che
un’organizzazione con un potere così grande potrebbe costituire, nel caso di
degenerazioni, un pericolo per la libertà dei popoli e delle persone. In
realtà, dal punto di vista politico, il magistero confida, per la realizzazione
di un ordine pacifico, in una accordo tra
autorità costituite, con una cessione di
sovranità ad un’autorità superiore. E’ un ordine di idee che troviamo
espresso anche nella Costituzione della nostra Repubblica, nell’art.11:
L’Italia
ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e
come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in
condizione di parità con gli altri Stati, le limitazioni di sovranità
necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le
Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali a tale scopo.
In
realtà un’autorità mondiale di questo tipo non è stata ancora realizzata.
L’esperienza europea di pacificazione continentale, che l’anno scorso ci è fruttata il Nobel per la pace, è basata molto su una progressiva convergenza
dei costumi dei popoli oltre che sull’azione di autorità a vario livello,
secondo il principio, riconosciuto anche dalla dottrina sociale della Chiesa,
della sussidiarietà. In questo quadro
ha avuto molta importanza la penetrazione sociale di costumi democratici,
intesi sia come forme partecipate e pacifiche di decisioni su temi di interesse
comune sia come affermazione concreta dei diritti umani fondamentali.
Il lavoro di pacificazione può farsi
rientrare nell’impegno di promozione
sociale, quindi di progresso umano, che è stato dato come obiettivo
fondamentale al laicato cattolico nel corso del Concilio Vaticano 2°. Negli
scritti che ho sopra riportato, due tratti da documenti conciliari e l’ultimo
da un intervento fatto in sede di esecuzione degli impegni conciliari, non sono
indicate specifiche modalità o specifici interventi. Programmare come
realizzare la pace in concreto, con ideazioni originali basate sull’attenta
considerazione del contesto sociale umano ( lo scrutare i segni dei tempi), è infatti una parte del compito dei
laici, che, nella visione conciliare, deve essere svolto cercando l’unione con
tutti le altre persone bene intenzionate.
Pace, in senso religioso, non è solo
assenza di conflitti, ma l’instaurazione di un ordine sociale in cui la
personalità degli esseri umani possa affermarsi liberamente e pienamente,
secondo il vero bene di ciascuno. E questo è un altro campo in cui potrà
esercitarsi l’azione laicale.
Nei discorsi religiosi e su base
biblica, si collega la pace e la giustizia, intendendo che una vera pace potrà
essere realizzata solo in un ordine sociale giusto. E tuttavia,
realisticamente, non è garantito che dalla giustizia derivi sempre la pace
nelle società umane, in cui si manifestano sempre, ad un certo livello, delle
devianze rispetto all’ordine costituito, talvolta sulla base esclusivamente
degli appetiti e degli interessi individuali e di gruppo. Questo significa che
per il mantenimento della pace occorrerà
sempre l’esercizio, in un certo grado, della forza, della violenza. Ma, in una
prospettiva religiosa, si può pensare di ridurre al minimo questo aspetto e,
comunque, di prevedere che l’esercizio della forza debba farsi solo con
procedure che consentano di mantenere in ogni caso il rispetto delle persone
umane, secondo ciò che ci si propone nei sistemi giudiziari delle democrazie
avanzate, sia in sede di accertamento di violazioni, sia nell’attività di
punizione dei colpevoli.
Mons. Bartoletti metteva in guardia
dal parlare con troppa disinvoltura di amore
come fonte della pace. La pace è un compito collettivo che richiede un impegno
concreto di ideazione e attuazione, non può pensarsi che essa scaturisca, quasi
magicamente, dal parlare di amore.
Pacificare le società umane non è
sempre facile e questo è constatabile anche senza pensare su scala globale o
nazionale. Pensiamo ai contrasti che vi sono talvolta in una comunità
parrocchiale o tra parenti o tra condòmini, quindi in ambiti piuttosto
limitati. E’ qui che si può cominciare a fare un tirocinio nell’arte di essere operatori di pace. In un contesto come
quello del nostro quartiere, in cui comincia a manifestarsi una certa presenza
di stranieri, fedeli di altre religioni, giunti dall’Europa orientale e dall’Asia, l’integrazione sociale degli
stranieri può essere un altro campo per esercitarsi in quel lavoro. Ma, nelle
realtà sociali più prossime, ci sono altri motivi di tensione che possono
essere presi in considerazione per un’azione pacificatrice su base religiosa.
Naturalmente come gruppo parrocchiale composto in prevalenza di adulti e
adultissimi dobbiamo fare i conti innanzi tutto con le nostre concrete capacità
di intervento. Ci sono, ad esempio, delle occasioni di tensione a sfondo
politico tra gruppi giovanili diversamente orientati sui quali non abbiamo la
possibilità di intervenire, fino a quando non riusciremo ad attrarre gente più
giovane. Si tratta di un problema serio, ma al di fuori della nostra portata.
A proposito di gente più giovane, sarebbe bello poter entrare di nuovo in contatto
con le tante persone più giovani che, formatisi in religione nella nostra
parrocchia, non la frequentano più, forse essendo rimasti a vivere in zona.
Anche questo farebbe parte di un’opera di pacificazione, se si fossero
allontanati per qualche motivo di risentimento o di rancore nei confronti della
nostra comunità. Molti sono impegnati
nel lavoro o nello studio quando il gruppo si riunisce. Io stesso ho talvolta
difficoltà a partecipare ai nostri incontri. E anche gli impegni di famiglia
possono ostacolare un impegno extradomestico in certi orari. Sentiamo però la nostalgia e il bisogno di
queste persone più giovani, ci piacerebbe conoscere le loro storie. Come ho
detto altre volte, non agiamo in questo da piazzisti
del sacro, siamo solo persone che vogliono cambiare il mondo in cui vivono
per renderlo migliore, più accogliente per gli esseri umani, secondo grandi
principi. Un lavoro che si fa in modo religioso, vale a dire ben consci della
sproporzione delle nostre forze rispetto all’obiettivo. Eppure, passo dopo
passo, sbagliando e correggendosi, una Europa pacificata è pure sorta dai
millenni bui delle guerre continue!
Non abbiamo la pretesa, noi del
gruppo parrocchiale di AC di San Clemente papa, di cambiare magicamente la vite
degli altri. La cura degli altri, la sollecitudine verso di loro, richiede un
impegno enorme anche per salvare una sola vita, come ben sappiamo noi che
stiamo facendo l’esperienza di genitori. Ecco perché la pacificazione sociale,
che passa anche il prendersi cura degli altri
a fini di giustizia, è necessariamente un compito collettivo, e non solo,
ma un compito in cui devono essere coinvolte le masse.
Ma, in definitiva, lo sforzo che si
fa in un gruppo limitato come il nostro ha pur sempre un senso, segna innanzi
tutto un progresso spirituale, che,
come contagio, può diffondersi nella società intorno a noi, nei punti in cui
entriamo in contatto con essa.
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52
Unita’/comunione nella Chiesa e promozione umana
(13 gennaio 2013)
Dalla Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), n.13:
“In tutte quindi le nazioni della terra è
radicato un solo popolo di Dio, poiché di mezzo a tutte le stirpi egli
prende i cittadini del suo regno non terreno ma celeste. E infatti tutti i
fedeli sparsi per il mondo sono in comunione con gli altri nello Spirito Santo,
e così « chi sta in Roma sa che gli Indi sono sue membra ». Siccome dunque il
regno di Cristo non è di questo mondo (cfr. Gv 18,36), la Chiesa, cioè il
popolo di Dio, introducendo questo regno nulla sottrae al bene temporale di
qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e accoglie tutte le ricchezze, le
risorse e le forme di vita dei popoli in ciò che esse hanno di buono e
accogliendole le purifica, le consolida ed eleva. Essa si ricorda infatti di
dover far opera di raccolta con quel Re, al quale sono state date in eredità le
genti (cfr. Sal 2,8), e nella cui città queste portano i loro doni e offerte
(cfr. Sal 71 (72),10; Is 60,4-7). Questo carattere di universalità, che adorna
e distingue il popolo di Dio è dono dello stesso Signore, e con esso la Chiesa
cattolica efficacemente e senza soste
tende a ricapitolare tutta l'umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo,
nell'unità dello Spirito di lui.
In virtù di
questa cattolicità, le singole parti portano i propri doni alle altre parti e a
tutta la Chiesa, in modo che il tutto e
le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e per uno
sforzo comune verso la pienezza nell'unità. Ne consegue che il popolo di
Dio non solo si raccoglie da diversi popoli, ma nel suo stesso interno si
compone di funzioni diverse. Poiché fra i suoi membri c'è diversità sia per
ufficio, essendo alcuni impegnati nel sacro ministero per il bene dei loro
fratelli, sia per la condizione e modo di vita, dato che molti nello stato
religioso, tendendo alla santità per una via più stretta, sono un esempio
stimolante per i loro fratelli. Così pure esistono legittimamente in seno alla
comunione della Chiesa, le Chiese particolari, con proprie tradizioni,
rimanendo però integro il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede
alla comunione universale di carità, tutela le varietà legittime e insieme
veglia affinché ciò che è particolare, non solo non pregiudichi l'unità, ma
piuttosto la serva. E infine ne derivano, tra le diverse parti della Chiesa,
vincoli di intima comunione circa i tesori spirituali, gli operai apostolici e
le risorse materiali. I membri del popolo di Dio sono chiamati infatti a
condividere i beni e anche alle singole Chiese si applicano le parole
dell'Apostolo: « Da bravi amministratori della multiforme grazia di Dio, ognuno
di voi metta a servizio degli altri il dono che ha ricevuto» (1 Pt 4,10).
Tutti gli uomini sono quindi chiamati a
questa cattolica unità del popolo di Dio, che prefigura e promuove la pace
universale; a questa unità
in vario modo appartengono o sono ordinati sia i fedeli cattolici, sia gli
altri credenti in Cristo, sia infine tutti gli uomini senza eccezione, che la
grazia di Dio chiama alla salvezza.”
Da “Una Chiesa in
ricerca, in servizio, in crescita”, intervento di p.Bartolomeo Sorge al Convegno ecclesiale “Evangelizzazione e
promozione umana”, tenutosi a Roma dal 30-10-76 al 4 -11-76, in Evangelizzazione e promozione umana – atti
del convegno ecclesiale, Editrice A.V.E., 1977:
“…se le due funzioni
di servizio, proprie della Gerarchia e dei laici, sono tra loro chiaramente
distinte, non sono però separate e devono trovare la loro sintesi nella unità
organica della comunione ecclesiale, dell’unica missione evangelizzatrice. Il
vero contributo della evangelizzazione alla promozione umana non sarà mai opera
della Gerarchia o dei laici separati tra loro, ma per essere adeguato deve
passare attraverso il servizio della comunità ecclesiale unita. Perciò, oggi in
Italia il primo problema da risolvere per tradurre efficacemente nei fatti il
nesso intrinseco tra evangelizzazione e promozione umana (tante volte ribadito
dal convegno) è quelle della realizzazione di una piena comunione ecclesiale”.
Venerdì prossimo
inizierà la settimana per l’unità dei cristiani e, quando parliamo di questo
tema, pensiamo alle diverse confessioni cristiane che ancora hanno
organizzazioni separate mentre, nella visione cattolica, le si vorrebbe tutte
legate a un unico pastore, al mondo in cui esse vogliono essere sottomesse ad
un unico Signore.
Tuttavia il problema
dell’unità sussiste anche all’interno della nostra stessa confessione
religiosa. Esso si è fatto più pressante nel corso degli sviluppi del Concilio
Vaticano 2°, come indica il brano della relazione del 1976 del padre Sorge che
ho sopra trascritto. Dell’accentuazione del pluralismo organizzativo laicale ha
fatto le spese in particolare l’Azione Cattolica, la quale negli anni ’70 e ’80
ha visto ridursi molto i propri associati e ai tempi nostri vede addirittura
messo in discussione il proprio ruolo di collaborazione primaria con il Papa e
i vescovi e di principale articolazione dell’azione laicale nella Chiesa.
Ad esempio nella
nostra parrocchia possiamo facilmente constatare come l’Azione Cattolica non
sia più, da tempo, la principale articolazione del laicato. Ad essa si è
sostituita l’organizzazione del Cammino
Neocatecumenale la cui storia, la cui azione e i cui punti di vista nella
Chiesa e nel mondo hanno caratteristiche
piuttosto distanti da quelle dell’Azione Cattolica. Insomma l’Azione Cattolica da casa di tutti è
diventata nella parrocchia un gruppo fortemente minoritario. Oggi la nostra
parrocchia e altre che hanno subito dinamiche simili assomigliano a una
confederazione di vari gruppi in precario equilibrio, in cui non c’è una vera comunicazione
tra le varie parti che coesistono intorno alla chiesa parrocchiale e svolgono
varie attività nella liturgia, nell’azione caritativa e nella formazione.
L’unità in definitiva si fa intorno ai sacerdoti e, in particolare, al parroco.
Come ho cercato di
riassumere nei miei precedenti interventi l’Azione Cattolica, nelle varie forme
organizzative che ha avuto dall’inizio del Novecento, nasce storicamente per
l’esigenza dei laici cattolici di partecipare di più all’edificazione della
società del loro tempo, in particolare sfruttando le opportunità offerte dai
sistemi politici democratici. Con il tempo questo ha comportato il pensare
anche in modo nuovo il ruolo del laico nella Chiesa e nel corso del Concilio
Vaticano 2° è stato assecondata questa dinamica. Dopo il Concilio Vaticano 2°
l’Azione Cattolica ha fatto dello sviluppo dei principi conciliari uno dei suoi
principali obiettivi. Tutto questo accadeva in epoche in cui si sentiva una
certa frizione tra i principi religiosi e quelli secondo i quali era
organizzata la società civile. Una delle ragioni del decremento della
partecipazione all’Azione Cattolica può essere vista nel venir meno
dell’importanza di questo contrasto. Non si tratta solo dell’emergere del
fenomeno della secolarizzazione, per cui certe convinzioni religiose hanno
avuto meno forza nella società e vengono riservate fondamentalmente ai momenti
rituali e cerimoniali della società, ma proprio del fatto che la società
civile, venutasi finalmente consolidandosi intorno a principi democratici, tra
i quali quello della libertà religiosa, sembra richiedere di meno un attivismo
dei fedeli laici, che allora possono, come dire, concentrarsi sugli aspetti più
prettamente spirituali della fede. Ad un certo punto si è sentita di meno l’esigenza dell’unità di
pensiero e azione nell’Azione Cattolica, mentre certe richieste e indicazioni
che venivano formulate dal Papa e dai vescovi hanno trovato altri modi di
essere proposte nella sede civile e in quella politica. Ecco quindi che
l’esteso pluralismo delle organizzazioni del laicato cattolico italiano ha
potuto svilupparsi senza più remore di sguarnire il fronte comune. Questo ha
fatto emergere un elemento che nell’Azione Cattolica si cercava di contenere,
vale a dire le diverse concezioni della società e dell’umanità nel suo
complesso che ci sono nel laicato cattolico. Perché se è chiaro che da un punto
di vista dogmatico e liturgico ci si ritrova ancora in unità, le cose cambiano
quando si cominciano a fare programmi su come le cose devono andare nella
società, sul modo in cui porsi nei confronti di altre componenti della società,
sul modo in cui vivere una buona vita cristiana e poi, principalmente, sul problema
degli alleati che si vogliono avere per fare
progredire la società, vale a
dire in quella che, nel gergo nostro, chiamiamo promozione umana. Tutto questo accade senza i toni drammatici del
passato, in cui in ogni cosa era in gioco veramente la libertà della Chiesa e
della sua azione di evangelizzazione, come quando ci si confrontava duramente con le ideologie liberali, fasciste o socialiste che esprimevano un’azione di
forte contrasto con le organizzazioni religiose cattoliche. E’ una dinamica che
si è fatta sentire particolarmente a partire dagli anni ’80: all’epoca si
individuava una cultura della mediazione,
impersonata dall’Azione Cattolica, e una cultura della presenza, della quale erano viste come portatrici varie organizzazioni, tra le quali
il Cammino Neocatecumenale. In genere
si ritiene che sotto il pontificato di Giovanni Paolo 2° per l’Italia la Chiesa
abbia scelto il metodo della presenza.
Oggi si è ormai perso il senso di questo
diversità di visioni e di prospettive, perché le varie organizzazioni hanno
imparato a collaborare, specialmente a livello nazionale. Tuttavia esso attraversa
ancora, di fatto , il nostro laicato, quando, ad esempio, ci si conta e allora
ci sono quelli per i quali i cattolici, considerati come presenza di testimonianza religiosa
effettiva, sono un piccolo resto, una minoranza, e coloro per i quali i
principi religiosi informano ancora di sé la società perché tuttora la
pervadono e la dirigono, anche se su certi aspetti, come nelle questioni delle
relazioni sessuali, c’è un vasto dissenso pratico con i principi insegnati dal
magistero.
Certamente siamo
chiamati all’unità e ad un’unità di tipo particolare che chiamiamo comunione. Innanzi tutto siamo chiamati
a parlare delle nostre scelte con gli altri con i quali ci sentiamo di dover
essere in comunione. Mancano però di
solito le sedi e i luoghi per farlo, perché ognuno se ne sta nel proprio gruppo
separato.
Ma non è detto che poi, parlando, discutendo, si
arrivi effettivamente a deliberazioni comuni, anche se uno degli esercizi di
laicità che ci vengono consigliati nel progetto formativo dell’A.C. è proprio
in questo senso: arrivare democraticamente a decisioni comuni condivise.
Bisogna riconoscere però che il metodo democratico, che si è ampiamente
affermato nelle società civili della nostra Europa, stenta ad essere praticato
nella nostra Chiesa, che, del resto, protesta orgogliosamente la propria
a-democraticità. Insomma, la piena comunione ecclesiale è ancora di là da
venire, mi pare.
Uno dei luoghi in cui
essa potrebbe manifestarsi è proprio l’organizzazione dell’Azione Cattolica, la
quale appunto non ha le caratterizzazioni forti
di altri gruppi e pratica il metodo
democratico. Essa potrebbe anche essere il centro in cui potrebbero iniziare a
convergere coloro che nel passato hanno scelto altre strade per esprimere il
proprio impegno religioso nella società civile, al di fuori di organizzazioni
ecclesiali, e addirittura coloro che si sono staccati dalla comunità
parrocchiali per polemica, rancore o risentimento.
Se però guardiamo
alla nostra realtà di gruppo vediamo che quel traguardo è molto lontano
dall’essere realizzato. In realtà è in forse la nostra sopravvivenza
associativa, se non riusciremo ad attrarre forze nuove nel nostro lavoro.
Eppure esso sarebbe ancora importante nella Chiesa, perché nella Chiesa la democrazia è ancora un problema. C’è
ancora un contributo che potremmo dare alla crescita dell’insieme e, purtroppo,
non ci sono altre organizzazioni che si occupano di fare il lavoro al quale
storicamente l’Azione Cattolica si è impegnata, che possiamo sintetizzare
efficacemente nell’idea dell’evangelizzazione come promozione umana e della
promozione umana come evangelizzazione.
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53
Scrutare i segni dei tempi
(15 gennaio 2013)
Dalla Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, del Concilio Vaticano
2° (1962-1965):
Pertanto il santo Concilio,
proclamando la grandezza somma della vocazione dell'uomo e la presenza in lui
di un germe divino, offre all'umanità la cooperazione sincera della Chiesa, al
fine d'instaurare quella fraternità universale che corrisponda a tale
vocazione.
Nessuna ambizione terrena spinge la
Chiesa; essa mira a questo solo: continuare, sotto la guida dello Spirito
consolatore, l'opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel mondo a rendere testimonianza
alla verità, a salvare e non a condannare, a servire e non ad essere servito.
LA CONDIZIONE DELL'UOMO NEL MONDO
CONTEMPORANEO
4. Speranze e angosce.
Per svolgere questo compito, è dovere
permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo,
così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni
interrogativi degli uomini sul senso della vita presente e futura e sulle loro
relazioni reciproche. Bisogna
infatti conoscere e comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue
aspirazioni e il suo carattere spesso drammatico. Ecco come si possono
delineare le caratteristiche più rilevanti del mondo contemporaneo. L'umanità vive oggi un periodo nuovo della
sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi mutamenti che progressivamente
si estendono all'insieme del globo. Provocati dall'intelligenza e
dall'attività creativa dell'uomo, si ripercuotono sull'uomo stesso, sui suoi
giudizi e sui desideri individuali e collettivi, sul suo modo di pensare e
d'agire, sia nei confronti delle cose che degli uomini. Possiamo così parlare di una vera trasformazione sociale e culturale, i
cui riflessi si ripercuotono anche sulla vita religiosa.
Come accade in ogni crisi di crescenza, questa trasformazione
reca con sé non lievi difficoltà.
L’Azione Cattolica è
particolarmente impegnata non solo ad attuare
i deliberati del Concilio Vaticano 2°, ma a svilupparne
tutte le idee innovative, in particolare quelle che riguardano il ruolo dei
laici nella Chiesa e nel mondo e che assecondarono una trasformazione che già
si era prodotta nel corso dell’Ottocento e del Novecento. Non dobbiamo
nasconderci che questo non è, nella Chiesa di oggi, l’unico modo di considerare
ciò che si debba fare nel dopo Concilio.
Ci sono anche tendenze e movimenti in senso contrario, vale a dire in senso reazionario. C’è insomma chi ha
nostalgia della Chiesa-di-prima,
anche se probabilmente ormai sono pochi a serbarne memoria affidabile. Ciò in
particolare accade con riferimento alla liturgia e al modo di proporsi al
mondo in cui i cristiani vivono, a ciò
che si muove fuori dello spazio specificamente liturgico. Qui mi interessa in
particolare la seconda questione.
Riassumendo molto,
le posizioni che prevalsero durante il Concilio Vaticano 2° furono quelle
piuttosto fiduciose nelle trasformazioni che le civiltà umane stavano subendo
in vari campi, in particolare in quelli della scienza e della tecnica e della
politica. Si aveva la consapevolezza di problemi, anche gravi, che venivano
producendosi e si capiva che essi riguardavano o avrebbero riguardato anche gli
aspetti religiosi della vita umana, si aveva quindi consapevolezza di trovarsi
in un tempo di crisi, in una fase di passaggio, ma si era ottimisti sui
risultati di questo processo. Nel brano della Gaudium et spes che ho sopra trascritto si parla infatti di crisi di crescenza con riferimento ad
esso. Si volle quindi aprire gli occhi e
il cuore a quello che accadeva nel mondo, per capirne le opportunità
religiose di bene. Si usò a questo proposito l’espressione evangelica scrutare i segni dei tempi, parlandone
come di un dovere permanente per la Chiesa: anch’essa la troviamo nel brano
che ho sopra riportato. Ora, bisogna considerare che, storicamente, questa può
essere considerata una novità rispetto alle posizioni precedenti del
magistero. E giunse in un tempo in cui
ancora sussisteva l'Unione Sovietica, una delle principali minacce per le
visioni religiose diffuse nel mondo, un sistema politico in cui si faceva
propaganda attiva di ateismo, e si era ancora nel tempo della cosiddetta guerra
fredda, la contrapposizione anche militare tra i due blocchi politici
dominati dagli Stati Uniti d'America e dall'Unione Sovietica che tuttavia non esplodeva in una conflitto guerreggiato,
in una nuova guerra mondiale, per il
timore dell'annientamento globale a causa dei tremendi effetti distruttivi di
una guerra combattuta con l'impiego di armi nucleari. Tuttavia bisogna
ricordare che, dopo la morte dell'egemone russo Stalin, si era anche nel tempo
in cui sembrava che si aprissero nuove prospettive di pace mondiale. Anche
l'impossibilità pratica di una nuova guerra mondiale venne considerata da
alcuni (ad esempio dal politico cattolico Giorgio La Pira) come un segno provvidenziale. Dovettero però
passare altri trent'anni perché queste speranze di vera distensione a livello
mondiale divenissero infine realtà.
Fino al Settecento la
Chiesa cattolica fu piuttosto integrata
con il mondo in cui viveva, ne era parte autorevole e attiva, ma generalmente
al modo in cui lo erano le potenze di quelle epoche, vale a dire attraverso i
suoi capi o, comunque, i suoi esponenti principali: Papa, vescovi, altro clero,
religiosi. Un ruolo religioso ebbero alcune dinastie profane. Il resto del
popolo dei fedeli generalmente si limitava ad obbedire, così come faceva con i
suoi signori delle nazioni.
A partire dal
Settecento la situazione mutò rapidamente. Non furono tanto e non solo i
fondamenti ideali del pensiero religioso ad essere messi in questione, ma il
potere temporale della Chiesa, vale a dire la sua capacità di influenza sul
mondo in cui viveva. Di fronte a queste contestazioni, che poi vennero
cristallizzandosi nei movimenti liberali e socialisti, la Chiesa reagì con un
moto di opposizione e di contrasto in quasi tutto il mondo in cui la sua azione
era consentita, con l’eccezione degli Stati Uniti d’America per la
particolarità dell’ideologia rivoluzionaria di quella entità statale, che aveva
mantenuto saldi legami con fondamenti religiosi cristiani. Questo modo di
proporsi al mondo culminò in due momenti: l’elencazione legislativa degli
errori del tempo, contenuta nel documento denominato Sillabo, allegato all’enciclica Quanta
Cura, promulgata nel 1864 dal papa Pio 9°, la condanna del movimento cosiddetto
modernista, contenuta nell’enciclica Pascendi Dominicis gregis, promulgata
nel 1907. Con specifico riferimento alla situazione italiana si aggiunse il
divieto fatto ai cattolici, dopo la conquista di Roma da parte del Regno
d’Italia sabaudo, di partecipare alla vita politica, impartito con
provvedimento della Penitenzieria
Apostolica (un ufficio della Santa Sede) del 1870, confermando un
precedente provvedimento del 1868 di altro ufficio della Santa Sede. Con
l’enciclica Graves de communi, promulgata
dal papa Leone 13°, del 1901, venne condannata esplicitamente l’idea di una
politica democratica cristiana.
Possiamo considerare come espressione dello stesso modo di intendere le cose
anche la conclusione, nel 1929, dei Patti
Lateranensi con il regime fascista italiano: benché presentati come conciliazione con il Regno d’Italia,
quindi con il mondo profano, essi assecondarono di fatto le tendenze
reazionarie diffuse in quel tempo in Italia, che in particolare colpivano i
movimenti liberali, socialisti e, in genere, ogni tendenza democratica. La
situazione cominciò lentamente a cambiare dopo la Seconda guerra mondiale,
sotto il pontificato del papa Pio 12°, non tanto con riferimento alla posizione
del magistero, ma ai contributi che, di fatto, venivano dati dai laici
cristiani alla costruzione del nuovo mondo. Le idee che trovarono espressione
nei deliberati conciliari furono elaborate nei vent’anni precedenti.
Nel brano della Gaudium et spes che ho sopra riportato
viene chiarito il senso dell’espressione scrutare
i segni dei tempi: essa vuole dire conoscere e
comprendere il mondo in si vive, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo
carattere spesso drammatico.
La Chiesa nei secoli precedenti si era
considerata e dichiarata maestra di
umanità, come ancora ritiene di
essere. Generalmente però aveva dedotto i propri insegnamenti in materia
dalla propria tradizione teologica. Dal Concilio Vaticano 2° in poi si è
proposta di avere una visione più realistica del mondo fuori dello spazio
liturgico, per capirlo meglio. In questo lavoro ha riconosciuto una specifica
competenza dei laici, i quali in precedenza era considerati generalmente degli esecutori delle deliberazioni del
magistero. Possiamo notare, in particolare, come questa concezione abbia molto
influito sull’elaborazione della dottrina sociale della Chiesa, in particolare
dall’enciclica Populorum progressio,
promulgata dal papa Paolo 6° nel 1967.
La concezione ottimistica dell’andamento delle cose del mondo espressa nei
deliberati del Concilio Vaticano 2° è andata piuttosto temperandosi durante il
pontificato del papa Giovanni Paolo 2°. Egli fu certamente uno dei maggiori
artefici degli sviluppi conciliari, ma era portatore, specialmente negli ultimi
anni del suo regno, di una visione pessimistica sull’umanità sua contemporanea,
vista come soggiogata da potenze di morte. Ho letto che fu abbastanza forte in
questo l’influsso del pensatore eclettico ortodosso russo Vladimir Soloviev
(1853-1900), il quale pronosticava l’avvento dell’Anticristo nell’apparente progressismo
delle tendenze sociali moderne e che era portatore di una visione di stampo
religioso fortemente pessimistica sul
mondo del suo tempo. In quest'ordine di idee abbiamo quindi oggi dei movimenti
che idealmente agiscono come piccolo
resto in opposizione a un mondo malvagio, dando molto risalto agli aspetti
negativi e antireligiosi delle civiltà contemporanee. Come in certe fasi del
cristianesimo delle origini allora ci si ritrae, di fronte a una supposta
ostilità o vera e propria persecuzione del mondo di oggi, in piccole comunità
di impronta familiare, quindi autoritaria, in cui si cerca di vivere un
cristianesimo integrale sorretto dall’amicizia e dalla solidarietà degli altri
aderenti che condividono le stesse idee e lo stesso impegno di vita.
Con l’enciclica Caritas in veritate, promulgata nel 2009 dal papa Benedetto 16°, la
tendenza si è di nuovo invertita.
Non che nella Chiesa cattolica non
possano avere cittadinanza forme di vita comunitaria improntate all’idea del piccolo resto: esse anzi ci saranno
sempre, in particolare nella vita comunitaria degli istituti di vita religiosa.
La Chiesa cattolica, nonostante ciò che comunemente si crede, ha un ordinamento
fortemente pluralistico, in cui da sempre
sono ammesse molte varietà di interpretazione del cristianesimo, pur nella
condivisione di alcuni principi comuni, in particolare di quelli che
specificamente vengono denominati dogmi di fede. Ma, dato l’ordinamento democratico
della gran parte delle società civili contemporanee, è importante che vi sia
chi si occupa di partecipare ad esse per sostenere i punti di vista religiosi
non solo con la modalità della testimonianza
di vita, ma anche con quella della partecipazione attiva per influire
articolando i principi religiosi, i valori, in forme che possano essere
condivise anche da chi religioso non è (secondo la tecnica della mediazione
culturale) e collaborando ai processi di trasformazione sociale che
comunque vengono incontro alle istanze religiose, come ad esempio quella della
pace universale tra i popoli e della universale libertà religiosa.
Capire il mondo è fatica, non
nascondiamocelo. Per i più anziani è poi più semplice chiudersi in una
religiosità familiare che richiama quella della loro infanzia, centrata
prevalentemente sulle liturgie parrocchiali e sulla spiritualità personale. Ma,
devo dire, i più anziani del nostro gruppo di Azione Cattolica dimostrano
invece lo spirito indomito laicale della loro gioventù e in questo a volte sorprendono i più
giovani, i quali sono più facili allo scoramento.
Bisogna riconoscere che nell’opera
di comprendere meglio il mondo più si è più il risultato è migliore. E ciò è
ancora più vero se in questo lavoro sono coinvolte persone appartenenti a
diverse generazioni che tuttavia sono disposte al dialogo reciproco. Nel nostro
gruppo di Azione Cattolica mancano le persone più giovani. Finisco quindi, come
spesso mi accade di fare, con un appello ai più giovani perché prendano parte a questo nostro lavoro,
nella consapevolezza che esso non consiste tanto in un ritornare, quindi in un moto reazionario,
ma nel costruire il nuovo, un mondo come, anche dal punto di vista religioso,
non c’è mai stato nel
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54
Fede cristiana: speranza credibile e onesta
o pia illusione?
(17 gennaio 2013)
Preghiera di Paolo VI per la Messa funebre per Aldo Moro (13 maggio 1978
– San Giovanni in Laterano)
Ed
ora le nostre labbra, chiuse come da un enorme ostacolo, simile alla grossa
pietra rotolata all’ingresso del sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi per
esprimere il “De profundis”, il grido cioè ed il pianto dell’ineffabile dolore
con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce.
Signore, ascoltaci!
E chi può ascoltare il nostro lamento, se non
ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra
supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo Uomo buono, mite, saggio,
innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito
immortale, segnato dalla Fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita. Per
lui, per lui.
Signore, ascoltaci!
Fa’, o Dio, Padre di misericordia, che non
sia interrotta la comunione che, pur nelle tenebre della morte, ancora
intercede tra i Defunti da questa esistenza temporale e noi tuttora viventi in
questa giornata di un sole che inesorabilmente tramonta. Non è vano il
programma del nostro essere redenti: la nostra carne risorgerà, la nostra vita
sarà eterna! Oh! che la nostra fede pareggi fin d’ora questa promessa realtà.
Aldo e tutti i viventi in Cristo, beati nell’infinito Iddio, noi li rivedremo!
Signore, ascoltaci!
E intanto, o Signore, fa’ che, placato dalla
virtù della tua Croce, il nostro cuore sappia perdonare l’oltraggio ingiusto e
mortale inflitto a questo Uomo carissimo e a quelli che hanno subìto la
medesima sorte crudele; fa’ che noi tutti raccogliamo nel puro sudario della
sua nobile memoria l’eredità superstite della sua diritta coscienza, del suo
esempio umano e cordiale, della sua dedizione alla redenzione civile e
spirituale della diletta Nazione italiana!
Signore, ascoltaci!
Interrompo gli interventi sui temi del
Concilio Vaticano 2° per proporre una riflessione sulla base del dibattito che si è articolato nella riunione di martedì
scorso del nostro gruppo.
La fede religiosa ci salva dalla sofferenza
dandole un senso, si è detto. Eppure spesso siamo piuttosto angosciati da ciò
che ci accade e lo sono stati anche dei Papi in alcuni momenti della loro vita.
Ho sopra trascritto la preghiera che il papa Paolo 6° recitò nel corso della
messa funebre per Aldo Moro, il presidente della Democrazia Cristiana, suo
amico personale, ucciso quattro giorni prima da un’organizzazione terrorista di
impronta comunista, le “brigate rosse”, dopo un lungo sequestro di persona.
Una delle accuse più tremende rivolte alla
nostra religione è di essere una organizzazione dedita a una pia frode, che
prospetta realtà soprannaturali immaginarie per lenire sofferenze reali invece
che porvi rimedio per quanto possibile, disperando di riuscirvi o rinunciando a
farlo per vigliaccheria o addirittura per collusione con gli oppressori e
aggressori. Si tratta di un’obiezione molto dura perché, dal punto di vista
storico e sociologico ha qualche fondamento di verità, anche se, nella nostra
spiritualità, ci convinciamo che in definitiva è infondata.
Noi, da credenti, non ci facciamo illusioni
sulla consistenza ed effettività del male e del dolore nella vita degli esseri
umani: costituiscono effettivamente un grosso ostacolo sulla via della fede, simile alla grossa pietra rotolata
all’ingresso del sepolcro di Cristo, secondo l’espressione usata dal papa
Paolo 6°. Se certamente la fede religiosa
può essere uno dei modi per reagire alle avversità, in alcuni casi essa
può addirittura essere di impaccio sulla strada della resistenza e allora ce se
ne libera. Ma, di solito, quello che in certe condizioni personali difficili si
rifiuta non è la vera fede, ma una sua approssimazione insufficiente, il
fideismo. Tuttavia non dobbiamo sottovalutare le difficoltà che anche da
credenti ben formati si incontrano in certe condizioni di contrasto e di
dolore. La nostra infatti è una fede religiosa paradossale, che quindi non
trova definitive conferme
nell’osservazione del realtà intorno a noi, anche se la magnifica complessità
della natura suggerisce l’idea di un disegno
intelligente che si spera essere anche amorevole,
visto che l’amore nella natura c’è. La caducità delle cose e dei viventi e
l’incessante lotta di questi ultimi per la sopravvivenza e, anche oltre questo,
per prevalere a spese di altri possono anche sorreggere convinzioni opposte.
Per quanto poi ci si ragioni molto su e ci cerchi di dimostrare in concreto che
le cose, in conclusione, vanno per il meglio, è solo nella spiritualità
interiore profonda che noi troviamo il fondamento della nostra speranza
religiosa, alla quale, per quanto osteggiata nel mondo come effettivamente va,
sentiamo di non poter rinunciare, pur mantenendo una visione realistica delle
cose, quindi non chiamando bene il male per poi superficialmente concludere che
tutto è bene. Piuttosto, e qui richiamo una espressione che lo scrittore
Bernanos usò nel romanzo Diario di un curato di campagna (1936), possiamo arrivare ad ammettere che tutto è grazia, che insomma, pur con
tutte le sue avversità e con la prospettiva certa della morte, la vita
umana, la nostra vita, merita di essere
vissuta, che le cose belle che ci sono capitate non ce le siamo in fondo
meritate ma ci sono state come donate e che, nella prospettiva della gioia che
è al fondo del vivere, riusciamo ad accettare quella realtà di dolore che
sembra ineliminabile dalla nostra esistenza e addirittura l’idea della fine.
Naturalmente in religione c’è molto di più di questo, ma non darei per scontato
che tutti riescano ad arrivarci con facilità:
ad agevolare in questo i credenti serve appunto la nostra organizzazione
religiosa, in cui ci si sorregge gli uni gli altri. E’ bello riuscire a
concludere, secondo le espressioni usate dal papa Paolo 6°: Non è
vano il programma del nostro essere redenti: la nostra carne risorgerà, la
nostra vita sarà eterna! Oh! che la nostra fede pareggi fin d’ora questa
promessa realtà.
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55
La Chiesa vuole rinnovare il mondo
(19 gennaio 2013)
Dal decreto Apostolicam Actuositatem (traduzione dal
latino: L'attività apostolica)
sull'apostolato dei laici, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965)
L'opera di redenzione di Cristo ha per natura sua come fine la salvezza
degli uomini, però abbraccia pure il
rinnovamento di tutto l'ordine temporale. Di conseguenza la missione della
Chiesa non mira soltanto a portare il messaggio di Cristo e la sua grazia agli
uomini, ma anche ad animare e perfezionare l'ordine temporale con lo
spirito evangelico. Il laici dunque, svolgendo tale missione della Chiesa, esercitano il loro apostolato
nella Chiesa e nel mondo, nell'ordine spirituale e in quello temporale. Questi
ordini sebbene distinti, tuttavia sono così legati nell'unico disegno divino,
che Dio stesso intende ricapitolare in Cristo tutto il mondo per formare una
creazione nuova: in modo iniziale sulla terra, in modo perfetto alla fine del
tempo. Nell'uno e nell'altro ordine il
laico, che è simultaneamente membro del popolo di Dio e della città degli
uomini, deve continuamente farsi guidare dalla sua unica coscienza cristiana.
In queste poche righe
del decreto conciliare Apostolicam
Actuositatem, del Concilio Vaticano 2°, sono concentrati alcuni principi
molto importanti e anche molto controversi nella storia della nostra
confessione religiosa.
Innanzi tutto,
iniziamo a tradurre i termini che vengono utilizzati nel documento, i quali, a
loro volta, sono una traduzione dal testo originale scritto in latino
ecclesiastico moderno.
Che cosa è l'ordine temporale? E' il mondo in cui
viviamo, l'ambiente naturale e
sociale. Lo si distingue dall'ordine spirituale che, nella terminologia
teologica, è quello della fede, in cui
il soprannaturale tocca la realtà naturale e, in particolare, interagisce e
dialoga, con noi viventi qui sulla Terra. Questi due ordini da sempre sono
stati considerati distinti per i
cristiani, e, da un certo punto in poi, diciamo più o meno, dal terzo secolo
della nostra era, però anche legati.
Il cristianesimo
nasce nella Palestina del primo secolo, in un popolo di cultura e religione
ebraica ma sotto occupazione militare e politica romana. La situazione politica
del tempo non era tranquilla. La rivolta covava, ma c'erano periodi in cui
bisognava organizzare una convivenza in qualche modo pacifica. L'idea di distinzione
origina da questa situazione, per cui, ad un certo punto, dinanzi al problema
dell'ossequio preteso dalle autorità degli occupanti, invece di risolversi per
la guerra ai romani, all'opposizione dura,
si deliberò di dare "A Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel
che è di Dio". Cesare era
l'imperatore romano: anche in seguito gli imperatori romani mantennero questo
appellativo, così come altri monarchi dei tempi successivi (Zar è un forma contratta di Cesare). Parlando di Dio in quel contesto ci si volle riferire
ai doveri specificamente religiosi.
Nei primi secoli,
quelli dell'opposizione e della persecuzione, il modo della distinzione prevalse. Poi il
cristianesimo, con un processo durato circa due secoli, si integrò nell'ordine
politico dell'impero romano. In questa epoca comincia a porsi il problema del legame, vale a dire dell'influenza dei
principi religiosi, oggi diremmo dei valori,
sull'ordinamento politico e civile della società. Non è che, prima di allora,
le società dominate dall'impero romano non fossero religiose: non dobbiamo fare
l'errore di considerare quelli che, secondo la terminologia un po' intollerante
dei secoli dell'affermazione politica del cristianesimo nell'impero romano,
chiamiamo i pagani fossero atei.
Tutto al contrario, i pagani dell'ellenismo
e della latinità erano molto religiosi. Altrimenti non si spiegherebbe perché costruirono tutti quei
grandi e magnificenti templi, molti dei quali sono giunti fino a noi. Il fatto
è che le religioni precristiane diffuse nell'impero romano avevano principi
molto diversi da quelli cristiani, anche se poi alcuni loro aspetti, in
particolare quelli liturgici, furono assimilati dal cristianesimo. Basti
pensare al titolo di pontefice che si
dà al Papa e che richiama il massimo sacerdozio religioso dell'antica Roma pagana.
La dialettica, che
ebbe storicamente anche evoluzioni drammatiche, tra il papato romano e gli
imperatori, e i monarchi, politici in genere, che si succedettero in Europa
nelle nazioni divenute cristiane si basò tutta sul rapporto tra distinzione e legame.
Il problema non è mai stato del tutto risolto. Nelle ere delle monarchie
assolute, quelle in cui i popoli erano considerati una sorta di proprietà
ereditaria delle dinastie regnanti o, al più, figli in una famiglia politica
autoritaria di cui il monarca era come il padre (voglio ricordare che
l'appellativo di Papa, attribuito al monarca assoluto della nostra confessione
religiosa, deriva dal vocabolo greco pàpas,
che significa papà), si era
instaurato una sorta di condominio sui sudditi, tra i papi (sovrani nello spirituale) e i monarchi civili (sovrani nel temporale) ed esso, come
succede nei condomini negli edifici, era travagliato da continue controversie,
aggravate dal fatto che fin da epoca remota i papi furono anche sovrani propriamente temporali
(un simulacro di questa realtà è in qualche modo l'attuale Città del Vaticano,
a Roma). Ancora oggi, di fronte a certe pronunce del Papa che investono
problemi morali implicati nella legislazione politica sorgono problemi.
L'accusa di papismo cattolico
ostacolò a lungo la via ai candidati cattolici alla presidenza degli Stati
Uniti d'America, superata solo al tempo dell'elezione di John Kennedy.
Questioni analoghe costarono la vita all'inglese san Tommaso Moro (1478-1535),
importante ministro e consigliere del re
Enrico 8°.
Nella visione antica
del legame tra temporale e spirituale,
pace si otteneva quando i sovrani nei due ordini riuscivano a trovare
un'intesa. Ciò fatto, la rivolta contro il principe in un ordine era
considerata illecita anche dal principe dell'altro ordine. Questo ordine di
idee portò dal Settecento la Chiesa cattolica, intesa in particolare come
gerarchia del clero, a schierarsi, in genere,
con le dinastie civili contro i moti popolari democratici. In questo
costituisce una eccezione il caso degli Stati Uniti d'America, ordinamento
politico in cui però all'origine prevalevano i principi religiosi di
confessioni originate alla Riforma e i cattolici, quando iniziarono ad
arrivare, in particolare con l'immigrazione irlandese, polacca e italiana erano
emarginati.
Dal Settecento, rinnovamento dell'ordine temporale, vale a dire della società
civile, significò in genere, nelle nazioni europee soggette a monarchie
assolute e nei popoli a loro assoggettati, rivoluzione.
I primi a farla, in senso moderno, furono i coloni britannici del Nord America,
nel 1776. La Chiesa cattolica non fu mai storicamente favorevole alle rivoluzioni, anche se nella teologia
ufficiale tomistica c'erano principi anche per decidere quando rivoltarsi a un
sovrano ingiusto. Ma in particolare si è dimostrata avversa alle rivoluzioni democratiche come quelle che
portarono alla deposizione delle dinastie regnanti con le quali aveva concluso
accordi favorevoli. Ancora oggi vediamo talvolta ricevuti in Vaticano con onori
particolari gli eredi di antiche dinastie regnanti ormai senza più alcun
potere.
L'assimilazione alle
monarchie assolute iniziò però ad essere vissuta con fastidio dai papi da un
certo momento in poi, diciamo dai tempi del Concilio Vaticano 2°. Essi, ad
esempio, cominciarono a sentirsi a disagio nei momenti liturgici in cui,
secondo un'antica tradizione, dovevano indossare il fastoso copricapo detto tiara o triregno, che reca tre corone, una sopra l'altra, incastonate in
una sorta di turbante dorato, simbolo dell'essere, in vari sensi, anche in
quello politico, re dei re.
E' chiaro che la
prospettiva è molto diversa nel brano della Apostolicam
Actuositatem che ho sopra citato. Qui
l'idea di rinnovamento delle
società civili è addirittura centrale. Non c'è l'immagine della Chiesa come regno, ma come popolo. Infatti, storicamente, negli ultimi tre secoli il rinnovamento è scaturito da azioni di
popolo. Ma anche l'immagine degli ordinamenti politici è diversa da quella
di un tempo: essi vengo denominati città degli
uomini, espressione cara a Giuseppe
Lazzati e che richiama l'idea contemporanea di sovranità popolare. Insomma si tratta di una rappresentazione in
cui, con riferimento all'idea di rinnovamento
delle società civili, sono tramontati i monarchi
e sono sorti i popoli.
La pace tra cielo e
terra non è poi più affidata ad un accordo condominiale
tra monarchi del temporale e dello spirituale, ma a un'altra realtà che in
passato era guardata con grande sospetto, quando pretendeva di sindacare gli
ordini di sovrani: la coscienza.
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56
Democrazia, difficile
virtù
In religione si ha di solito difficoltà a
pensare alla democrazia come ad una virtù. In un certo senso la si subisce e
perciò, quando se ne parla, si cerca di mettere in guardia i fedeli dalle sue
degenerazioni e, in definitiva, si suggerisce di rimettersi al giudizio della
gerarchia del clero, un’organizzazione non solo non democratica, ma addirittura
antidemocratica. E, infatti, si ripete
abbastanza spesso che le nostre collettività non sono delle democrazie (ed in effetti così come sono
organizzate non lo sono) e non si
capisce che questo non è un loro aspetto di cui andare fieri, ma un loro
problema, perché, appunto, la democrazia è una virtù.
Considerando che tra il 1944 e il 1991 la democrazia è entrata anche nella
dottrina sociale della Chiesa, nel senso che la si considera una condotta
politica virtuosa, dopo che, fin dagli esordi dei processi democratici moderni,
a fine Settecento, la si era sostanzialmente assimilata all’eresia e
condannata, bisognerebbe insegnare la democrazia nella nostre collettività di
fede, e soprattutto praticarla.
Democrazia non è solo la regola per cui la
decisione comune è quella maggioritaria. Significa, prima di tutto, libertà di
coscienza e di parola, rispetto degli altri, processi decisionali preceduti da
un dibattito franco, aperto, completo, informato, responsabilità dei capi verso
i governati, temporaneità delle funzioni di comando, e soprattutto un
particolare impegno a quella che Ghandi (Mahatma
- “grande anima”, politico indiano vissuto tra il 1869 e il 1948) definiva non - menzogna e che significa non tanto
dire sempre la verità, perché noi non possediamo la verità e sempre la dobbiamo cercare come a
tentoni, ma ripudiare la menzogna, ciò che sappiamo non essere la verità. In
religione significa, ad esempio, rinunciare ad impiegare, per asservire le
persone, ai molti effetti speciali di tipo magico-spirituale che possono essere
impiegati e storicamente lo sono stati ma che hanno collegamenti assai labili
con la verità, come quando si promette al sofferente la guarigione da mali
fisici o morali in cambio di sottomissione acritica, e rinunciare all’idea di ricostruire gli altri secondo un certo nostro modello
promettendo la felicità.
Bisognerebbe fare scuola di democrazia a
partire dai bambini della prima iniziazione religiosa, quando scoprono
l’amicizia. La democrazia ha molto a che fare con l’amicizia, perché presuppone
la condivisione di valori forti ancor prima che inizino i processi decisionali.
Questi valori sono appunto quelli implicati nell’amicizia tra gli esseri umani,
il riconoscersi reciprocamente bisognosi gli uni degli altri, quella dimensione
relazionale che ci fa crescere, come ci è stato spiegato nel primo incontro del
ciclo Immìschiati sulla dottrina sociale della Chiesa, per cui
non si ha cuore di rinunciare a nessuno. E’ per questo che la democrazia, prima
di studiarla sui libri, occorre viverla e innanzi tutto scoprirla nelle relazioni
con gli altri. Questo significa che occorre farne tirocinio. E, innanzi tutto,
imparare a non diffidarne.
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57
Dottrina
sociale, liturgia e Concilio Vaticano 2°
I
documenti del Concilio Vaticano 2° (1962-1965) sono leggi per la nostra
confessione religiosa e contengono importanti disposizioni in materia di
liturgia e di dottrina sociale. Le novità più rilevanti apparvero essere, fin
dai primi anni, quelle in materia di liturgia. Ma anche la dottrina sociale
venne profondamente innovata.
Nell’Ottocento, quella che consideriamo “la” dottrina sociale, ma che in realtà
ne è storicamente l’ultima propaggine, iniziò ad occuparsi dei fenomeni
democratici che si venivano manifestando in Europa, animati da spirito di
libertà e di giustizia sociale. Se ne occupò per contrastarli. Entrò subito in
polemica, fin dall’enciclica Le novità del papa Pecci
del 1891, con il liberalismo e il socialismo. Questa polemica non è ancora
sopita, tanto che è stata ripresa dai relatori nel corso del primo incontro del
ciclo Immischiati, nella nostra parrocchia.
Durante
il Concilio Vaticano 2° si corresse il tiro. La libertà di coscienza del
liberalismo e l’impegno per la giustizia sociale del socialismo divennero virtù
anche in senso religioso.
Nello
stesso tempo si cercò di avvicinare la liturgia al popolo, consentendo molto
più ampiamente l’uso delle lingue nazionali in luogo del latino, che era
diventato un grosso ostacolo alla formazione religiosa dei fedeli mediante la
partecipazione alle azioni liturgiche, in particolare alla Messa. Per volontà
del papa Montini l’uso della lingua nazionale divenne poi la forma normale
delle liturgie con la partecipazione dei laici, al di fuori degli ambienti
monastici o della Curia Vaticana e di altri ambienti particolari.
Per
quanto riguarda il rito della Messa, i saggi del Concilio così scrissero nella
Costituzione Il Sacro Concilio:
48. Perciò la Chiesa si preoccupa vivamente che i fedeli non assistano come
estranei o muti spettatori a questo mistero di fede, ma che, comprendendolo
bene nei suoi riti e nelle sue preghiere, partecipino all'azione sacra
consapevolmente, piamente e attivamente; siano formati dalla parola di Dio; si
nutrano alla mensa del corpo del Signore; rendano grazie a Dio; offrendo la
vittima senza macchia, non soltanto per le mani del sacerdote, ma insieme con
lui, imparino ad offrire se stessi, e di giorno in giorno, per la mediazione di
Cristo, siano perfezionati nell'unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio
sia finalmente tutto in tutti.
La
partecipazione attiva alla liturgia era collegata all’impegno per la giustizia
che si ritenne di promuovere nei fedeli laici: per lavorare nella società per
infondervi i principi religiosi, per ordinarla secondo Dio, come
venne scritto nella Costituzione Luce per le genti
n.31 Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio
trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio.
i laici
dovevano essere adeguatamente preparati e la liturgia era un’occasione molto
importante per farlo.
Il
nuovo ruolo dei laici di fede nella società disegnato dai saggi del Concilio
spiega perché negli anni successivi venne accettata anche la democrazia come
virtù politica e religiosa insieme, in un processo conclusosi nel 1991 nelle
affermazioni teoriche, con l’enciclica Il Centenario del
papa Wojtyla, ma ancora in corso nei suoi sviluppi pratici.
Nell’incontro Immìschiati sulla persona è stato detto che la
dottrina sociale non è una terza via tra liberalismo e socialismo ed è vero. In
realtà si tratta di una mediazione culturale della nostra fede che recepisce,
ibridandoli, principi liberali e principi socialisti. Ne costituisce una
sintesi, costruita per rendere compatibili le loro principali istanze con la nostra
fede religiosa. In un’ottica di fede si è però respinta l’idea che ognuno
sia libero di fare di sé stesso e degli altri tutto ciò che è possibile fare,
perché noi non siamo dei, ma solo creature fragili. E’ questa è
sicuramente la realtà.
Nell’Ottocento
la via democratica era ancora molto di là da venire in religione.
Il
nazionalismo del Regno d’Italia privò i Papi del loro piccolo regno nell’Italia
centrale ed essi la presero molto male.
Il
Regno d’Italia era retto da un sistema politico che integrava conservatorismo,
autoritarismo, nazionalismo e liberalismo. Nel primo dopoguerra si vide però
che di quest’ultimo poteva fare a meno. Ma, insomma, ai tempi dell’insorgere
del contenzioso con il Papato si presentava come uno stato democratico, anche se
l’elettorato era piuttosto selezionato, tra i soli uomini di un determinato
censo o con un livello minimo di istruzione (che all’epoca era di pochi). Fatto
sta che il Papato, nella polemica con il Regno d’Italia, intese promuovere un
movimento del popolo minuto, che, sebbene a suo avviso insidiato da un
arrogante e presuntuoso ceto politico irreligioso, tuttavia era ancora custode
delle buone e antiche tradizioni italiane. Represse coloro, prevalentemente
appartenenti ai ceti colti, che cercavano una via per vivere attivamente
le istituzioni democratiche del Regno, come Romolo Murri, il promotore a fine
Ottocento del movimento politico della democrazia cristiana, e
anche l’ideatore del nome e del concetto di tale politica, e cercò
di mantenere le masse lontane dalle istituzioni politiche dello stato,
per utilizzarle come strumento di pressione per riavere ciò che gli era stato
tolto con la guerra del 1870 per la presa di Roma. Volle così dimostrare di
avere mantenuto una sovranità sugli italiani. La prima
dottrina sociale della Chiesa si presenta quindi come un insieme di norme date
da un sovrano, il Papa, al suo popolo. Non era ammessa alcuna partecipazione
all’elaborazione di quei principi sociali, sebbene le encicliche sociali non
siano mai state il frutto di un lavoro solitario dei Pontefici, ma sempre
un lavoro collettivo, a più mani, perché i Papi hanno una
formazione prevalentemente teologica, anche se, ad esempio, persone come
Montini e Wojtyla si intendevano pure di filosofia. La repressione dei ceti
colti dei laici di fede determinò che la religione apparisse cosa da incolti.
In più, i fedeli erano indotti a non partecipare alle elezioni politiche e così
si trovavano nella stessa condizione degli analfabeti, esclusi dal parteciparvi
a causa della loro condizione di ignoranza. Fu con Giuseppe Toniolo, agli inizi
del Novecento, che si cominciò, faticosamente, a cercare di andare in altra
direzione, dando una formazione ai fedeli laici, ed anche alle donne dal primo
dopoguerra. L’Azione Cattolica, nata per essere un più docile strumento alla
politica papale in Italia rispetto alla rissosa Opera dei Congressi, indotta a
sciogliersi d’autorità nel momento di più acceso scontro tra intransigenti (contrari
alla partecipazione alle istituzioni democratiche) e democratici,
divenne lo strumento di questa elevazione delle masse che proseguì, nelle
organizzazioni intellettuali del gruppo, anche dopo il compromesso del papato
con il regime fascista, che consentì di chiudere la questione
romana, le rivendicazioni papali di uno stato nel Lazio, con l’istituzione
della Città del Vaticano e con risarcimenti di notevole entità. Dalle file
dell’Azione Cattolica uscirono molti dei politici che governarono l’Italia dopo
la sconfitta del regime fascista mussoliniano e fino al 1994 (ma anche oltre).
L’ideologia di questi politici democratici cristiani fu
modellata sulla dottrina sociale della Chiesa, ma anche contribuì a modellarla.
Questo contributo laicale fu riconosciuto dai saggi del Concilio che lo
inserirono nella loro nuova dottrina sociale.
Ecco ad
esempio che cosa si legge nella Costituzione Luce per le genti al n.37:
I pastori, da
parte loro, riconoscano e promuovano la dignità e la responsabilità dei laici
nella Chiesa; si servano volentieri del loro prudente consiglio, con fiducia
affidino loro degli uffici in servizio della Chiesa e lascino loro libertà e
margine di azione, anzi li incoraggino perché intraprendano delle opere anche
di propria iniziativa. Considerino attentamente e con paterno affetto in Cristo
le iniziative, le richieste e i desideri proposti dai laici e, infine,
rispettino e riconoscano quella giusta libertà, che a tutti compete nella città
terrestre.
Da questi
familiari rapporti tra i laici e i pastori si devono attendere molti vantaggi
per la Chiesa: in questo modo infatti si afferma nei laici il senso della
propria responsabilità, ne è favorito lo slancio e le loro forze più facilmente
vengono associate all'opera dei pastori. E questi, aiutati dall'esperienza dei
laici, possono giudicare con più chiarezza e opportunità sia in cose spirituali
che temporali; e così tutta la Chiesa, forte di tutti i suoi membri, compie con
maggiore efficacia la sua missione per la vita del mondo.
Sia
nella liturgia che nelle cose sociali, il metodo indicato dal saggi dell’ultimo
Concilio fu quello di promuovere la partecipazione del popolo. La liturgia e la
dottrina sociale non furono più solo affare del clero. Ma la partecipazione di
tutti richiede di fare tirocinio di democrazia. In questo siamo ancora piuttosto
indietro.
Da un
lato la gerarchia del clero diffida profondamente del popolo, sempre visto sul
punto dell’apostasia e bisognoso che qualcuno gli inculchi (questo
è il tremendo verbo che viene spesso utilizzato nel gergo clericale) i principi
di vita buona. Dall’altro nel popolo sorgono ciclicamente capi e capetti che
cercano di imporre la propria volontà (spesso in buona fede, ma non sempre) con
la forza del numero o della loro veemenza.
In
particolare si ha sempre difficoltà a confrontarsi con il pluralismo sociale e
religioso dei nostri tempi.
Le cose
si sono molto complicate nella società italiana di oggi. Per molti italiani è
impossibile tornare a una fede religiosa che non è
mai stata quella della loro tradizione, perché provengono dall’ortodossia
orientale e da altre confessioni cristiane, dall’islamismo, dall’induismo, dal
buddismo, dallo sikhismo e via dicendo. E il maggior livello di istruzione
della gente, raggiunto per merito del sistema scolastico pubblico, ha
comportato che su molte questioni di coscienza non si
sia più disposti all’obbedienza acritica. Nessuno in genere,
neanche le donne che in passato sono state le fedeli più docili,
è più disposto adabitare ambienti sociali in cui gli è
vietato di mettere bocca, di proporre cambiamenti. Inoltre certe umiliazioni
non le si sopportano più, come quelle che colpirono, e ancora talvolta
colpiscono, coloro che hanno avuto problemi coniugali. Ma anche i fedeli
considerati di serie B perché non hanno raggiunto certi traguardi di perfezionamento.
Così,
ad esempio, si è insofferenti, è accaduto nella nostra parrocchia, a usi
liturgici, come la Veglia di Pasqua super-prolungata all’uso neocatecumenale e
infarcita della simbologia di quel movimento, che ostacolano la partecipazione
di tutti e la comprensione di ciò che accade. Non ci si va più e non ci si
pongono tanti problemi, e tanti saluti alla partecipazione e alla formazione.
La
partecipazione attiva nella società del nostro tempo richiede la democrazia, e
innanzi tutto il rispetto degli altri, perché ci troviamo a vivere in un
contesto sempre più pluralistico. Per capirlo bene occorre guardarlo sotto
diversi punti di vista, è necessaria una vasta collaborazione. Nessuno, ai
tempi nostri, può sapere tutto di tutto, salvo che in settori
superspecialistici, ma per questo sempre più limitati. Come scrisse Pierre
Riches in un bel libro di tanti anni fa (Note di catechismo per ignoranti
colti, Mondadori, non più in commercio) al più riusciamo ad essere ignoranti
colti. Insieme ci sforziamo di superare i nostri limiti individuali.
La sapienza degli altri ci arricchisce e viceversa. Confrontando le conoscenze
e le opinioni, le correggiamo. E’ questo che si fa nel dialogo: ci si
mette in relazione gli uni con gli altri, chiarendosi. Questo è l’inizio della
democrazia.
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58
Convincersi
della democrazia
Ho
imparato la democrazia in FUCI, tra gli universitari cattolici, a cavallo tra
gli anni ’70 e gli anni ’80 del secolo scorso, anni duri, anni in cui furono
assassinati due grandi esponenti del movimento cattolico-democratico, Aldo
Moro, tra in fondatori della nostra nuova Repubblica nel secondo dopoguerra e
tra i principali artefici di varie fasi di rinnovamento della democrazia
italiana, ucciso nel 1978, e Vittorio Bachelet, tra i rifondatori della nostra
Azione Cattolica, ucciso nel 1980. Divenne evidente il carattere
antidemocratico dei moti insurrezionali dell'epoca motivati da costruzioni
ideologiche comuniste: la democrazia italiana, però, a quei tempi riprese a
funzionare e il pericolo, lentamente, nel corso degli anni ’80, fu vinto. Di
solito si fanno finire quelli che vengono definiti anni di piombo con
l’omicidio di Roberto Ruffilli, altro esponente del cattolicesimo democratico,
nel 1988. A quei tempi egli era impegnato in un disegno di riforma dello stato
democratico.
Di
fronte al pericolo, si ricostituirono dei legami sociali, si riprese fiducia
gli uni negli altri, questo cambiò il clima sociale della nazione, pur in
un’epoca di duri conflitti sindacali. Ci fu una risposta giudiziaria ai crimini
politici, ma non avrebbe avuto successo senza questa nuova situazione nella
società italiana.
La FUCI
storicamente è stato l’ambiente sociale della nostra fede che più si è
dedicato, fin dalle origini, a fare tirocinio di democrazia. Fu fondata a fine
Ottocento, qui a Roma, dal democratico cristiano Romolo Murri,
prete e attivista politico, in un tempo in cui ai cattolici era
ancora vietata la politica in Italia, e allora la si doveva praticare come una
generica azione sociale.
Quello
degli universitari è un mondo favorevole al tirocinio democratico, perché il
tempo in cui si studia all’università è il momento in cui si avverte più
acutamente il bisogno degli altri, la propria non autosufficienza. Fino al
liceo il mondo può stare in manuale e sembra di avere tutto lo scibile umano
nella propria piccola libreria domestica. All’università si approfondisce, si
entra nei particolari, e più lo si fa, più si capisce di riuscire a controllare
settori sempre più limitati della conoscenza, per cui, per fare ciò che ci si
aspetta da una persona di cultura, occorre interagire con gli altri, che si
sono concentrati in altri settori e hanno ciò che serve per completare il
proprio lavoro. Bisogna, in questo dialogo con gli altri, fare uno sforzo per
far capire i risultati della propria ricerca, traducendoli dal proprio gergo
specialistico, e anche per capire quella altrui. In sostanza, all’università
più si sa e più si capisce quanto non si sa. Sapere di non sapere venne
considerato da un antico saggio greco come la sapienza più grande. Ma lo è
anche il sapere, il rendersi conto, di ciò
che non si sa, quindi uscire dal generico e individuare bene i propri
limiti, per capire che cosa occorre, quale collaborazione cerare, per andare
avanti. E' in quel momento che si comincia a ricercare chi possa aiutare a
superare quei limiti. Il vero sapiente è sempre alla ricerca (Ricerca è
la rivista dei fucini). Nel momento in cui si capisce di avere bisogno degli
altri per superare i propri limiti nasce anche la democrazia. Infatti per
interagire con gli altri occorre creare il contesto giusto, praticare un certo
metodo.
Non si
può praticare la democrazia quando si pensa di sapere tutto ciò che serve e si
è convinti che gli altri non solo non servono, ma costituiscono anche un
pericolo, o comunque un fastidio, perché tendono a mettere in dubbio certe
sicurezze. Allora si cerca di imporre agli altri la propria visione, così come
avviene certe volte nelle riunioni condominiali, e si finisce per litigare
inutilmente: la cosa comune poi ne risente, si deteriora, perché non c’è
accordo su come farne la manutenzione. L’incapacità di democrazia degrada la
società, che richiede un lavoro comune per sostenersi, e innanzi tutto un impegno,
di molti. Fino al Settecento la democrazia veniva considerata in religione, ma
sulla base di un antico pensiero greco, una forma di disordine e di
allontanamento dalla verità. La democrazia, come oggi la intendiamo, nel senso
di potere di tutti, ha invece bisogno di ordine, di chiarezza, e
anche di fiducia reciproca e di rispetto.
All’origine
della democrazia c’è l’amicizia: in un certo senso possiamo considerare la
democrazia come una forma di amicizia. Si deve riconoscere di aver bisogno
dell’aiuto degli altri ed essere disposti a lavorare insieme a loro per il bene
di tutti, irraggiungibile senza la collaborazione di tutti. Si deve rispettare
ma anche essere rispettati. E sforzarsi di farsi capire, come si fa tra amici.
Questo collegamento con l’amicizia spiega perché in religione si è cominciato a
collegare la democrazia con quella particolare benevolenza amicale che
definiamo carità e che rimanda al concetto sottostante al
termine del greco antico agàpe, vale a dire a un lieto
convito in cui ce n’è per tutti.
Se la
democrazia è una forma di amicizia, si capisce come non si possa praticarla
veramente per via telematica. Occorre incontrarsi faccia a faccia e fare
esperienza concreta gli uni degli altri. In questo incontro ci si svela e si
possono avere sorprese piacevoli e spiacevoli, ma comunque in genere si hanno
sorprese. Finché gli altri rimangono una linea di caratteri sul video servono a
poco. D’altra parte conoscerli veramente è impegnativo, in tutti i sensi:
richiede uno sforzo, una pazienza nell’avvicinarli e conoscerli, e una fatica,
un tempo da trascorrere insieme. E’ così che però si costruisce la società, si
creano legami duraturi.
Se lo
stare insieme dipende solo dalla comune soggezione ad un qualche gerarca,
culturale, politico, religioso e via dicendo, ha basi labili. Perché il legame
vero è solo con il punto di riferimento gerarchico non tra le persone alla
base. Ecco perché l’ingenuo attuale papismo delle nostre collettività religiose
serve a poco sia per formare la gente, sia per rinsaldare le nostre esperienze
sociali.
Certe
volte ci si incontra, in religione, e tutto si risolve in un gridarsi gli uni
gli altri le parole d’ordine dei rispettivi gerarchi di riferimento. A che
serve? Si rimane estranei come prima, con in più molto risentimento.
Un
universitario per la prima volta nella sua vita viene posto di fronte alla
realtà così com’è veramente, ed essa è complessa. Tutte le semplificazioni
degli studi precedenti si rivelano ciò che sono, vale a dire, appunto,
semplificazioni, una base di partenza. Scopre che ci sono molte
interpretazioni, ma che la realtà le supera tutte, anche perché è in movimento,
evolve. La cultura segue la realtà, ma ne è anche parte, ed evolve anch’essa.
Questo è vero anche per tutte le verità, comprese quelle ritenute fondamentali,
della nostra fede. E’ per questo che si scrive tanto di teologia. Se tutto
fosse così semplice come talvolta viene presentato, non servirebbe.
Il
primo passo per affrontare il pensiero sociale della nostra fede è il convincersi
della democrazia, perché questo è stato il principale traguardo raggiunto dalla
dottrina sociale nel corso del Novecento. La democrazia è infatti la via per
influire nelle società pluralistiche dei nostri tempi per cercare di infondervi
i grandi principi ideali della nostra fede. Non ce n’è un’altra perché non è
possibile dominare culturalmente da gerarchi religiosi, in un impero religioso,
un mondo di otto miliardi di persone sempre più mescolate tra loro. Ma la
democrazia non è ancora di casa, in genere, nelle nostra collettività
religiose, ad esempio nella nostra parrocchia. In religione la si pratica in
circoli intellettuali come la FUCI. Ma in realtà non dovrebbe essere così,
perché la democrazia è per tutti, ed è solo così che è
veramente efficace.
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59
Democrazia dei cristiani, democrazia di
tutti
(30-3-16)
[dal libro:
Pietro Scoppola, La democrazia dei cristiani - Il cattolicesimo
politico nell’Italia unita - intervista a cura di Giuseppe Tognon,
Laterza, 2005, €10,00, disponibile in commercio]
Domanda: Ma
ci sarà un ruolo significativo per i cattolici nella vita politica italiana di
domani?
SCOPPOLA:
Certamente, anche se sarà diverso da quello che svolsero in passato, al momento
dell’Unità d’Italia nel 1861, quando restarono esclusi dallo stato liberale e
mortificati proprio perché cattolici, o alla caduta del fascismo nel ’43,
quando assunsero la responsabilità di guidare un paese sconfitto e lacerato
verso la libertà e lo sviluppo.
Il loro
futuro sarà di sostenere la democrazia, che è in difficoltà e che ha bisogno di
una profonda ispirazione etica e religiosa. Non da soli, insieme agli altri
credenti, alla migliore tradizione laica e alle tradizioni popolari delle
sinistre europee, ma ancora una volta decisivi per l’Italia e per l’Europa.
La
Democrazia cristiana è stato il partito dei cattolici italiani, l’espressione
più riuscita della loro maggiore età politica, lo strumento del loro enorme
potere e insieme della loro crisi, come sempre accade nella storia umana.
Ma oggi
il problema è la democrazia di tutti e la maturità del cattolicesimo politico
italiano si misurerà proprio nella capacità di abbandonare la nostalgia per la
Democrazia Cristiana per un proprio partito esclusivo, e di lavorare piuttosto
per la democrazia dei cristiani, che è la democrazia di tutti (pag.3-4).
*******************************************************
Quand’è che si entra veramente in società? Un primo momento importante è quando
si trova un lavoro stabile. L’altro è quando si forma un famiglia coniugale,
basata su un rapporto d’amore coniugale, più stabile perché si pensa
anche a dei figli. In genere, ai tempi nostri, ci si arriva intorno ai
trent’anni.
E
quand’è che si hanno le prime esperienze veramente sociali, al di fuori della
famiglia, nella società generale, che di solito coincidono con la
scoperta dell’amore sessuale, la base della famiglia coniugale? Per me è
accaduto al terzo anno delle superiori, a sedici anni.
I
trentenni di oggi hanno compiuto sedici anni nel 2002. Il libro di Scoppola da
cui ho tratto la citazione sopra trascritta è stato pubblicato nel 2005. E’ un
testo da universitari. I trentenni di oggi potrebbero averlo avuto tra le
mani appena pubblicato. Scoppola parla della Democrazia Cristiana, il partito
dei cattolici, finito dieci anni prima. Una realtà della quale un universitario
della metà del primo decennio degli anni 2000 non aveva mai avuto personale
esperienza, anche se era citata in un capitolo o due dei libri di storia per le
superiori.
Un
trentenne di oggi, allora, potrebbe effettivamente credere, se non avesse avuto
tra le mani quel testo di Scoppola o altri libri del genere, che in Italia i
cattolici abbiano vissuto sotto il dominio dei laici, intesi come gli
irreligiosi, i non credenti. Invece i cattolici, dal 1946, hanno dominato la
politica italiana, ininterrottamente sino ad oggi, prima con lo strumento di un
partito e poi, dalla metà degli anni ’90, mediante un’azione di pressione
politica attuata direttamente dalla Conferenza Episcopale Italiana per il
tramite di gruppi di pressione transpartitici.
Di
solito si ricordano le leggi sul divorzio (1970) e sull’interruzione volontaria
della gravidanza (1978) come casi di sconfitta delle posizioni politiche dei
cattolici. Sono stati gli unici due casi in cui ciò è avvenuto, nella storia
della Repubblica democratica. E in realtà non si trattava di una sconfitta
dei cattolici, perché si trattò di leggi ampiamente condivise dai
cattolici, come dimostrarono i successivi referendum promossi su di esse, ma di
una sconfitta della politica della gerarchia cattolica.
Un
terzo caso simile potrebbe darsi nel caso della legge sulle unioni civili delle
persone omosessuali e sulle unioni di fatto, che ancora è in gestazione.
L’azione di interdizione politica della gerarchia cattolica aveva sino ad ora
impedito l’approvazione di qualsiasi legge in materia, e dunque anche il suo
vaglio di costituzionalità, che aveva travolto la legge sulla fecondazione
assistita del 2004, pesantemente condizionata dall’azione politica della
gerarchia cattolica. Anche nel caso delle unioni civili omossessuali e delle
unioni di fatto i sondaggi evidenziano un ampio consenso della maggioranza
degli italiani, cattolici compresi. Se la legge fosse approvata, e non è ancora
sicuro che lo sia, e si andasse ad un referendum, probabilmente sarebbe
democraticamente confermata dalle urne.
Tutto
il resto della politica italiana, nell’era della Repubblica, è stato costruito
con il contributo determinante della politica dei cattolici, e secondo la loro
volontà, ispirata in maniera preponderante alla dottrina sociale della Chiesa,
in particolare a quella successiva agli anni Sessanta, epoca dalla quale si
attenuò molto l’orientamento in genere reazionario che l’aveva caratterizzata
dalla fine dell’Ottocento e in cui si fece più sensibile l’influenza del
pensiero laicale in varie discipline, in particolare l’economia, l’antropologia
e la sociologia.
L’idea di trovarsi in uno stato ostile ai cattolici è quindi del tutto falsa.
Ecco perché Scoppola parlò del partito dei cattolici come
lo «strumento del loro enorme potere».
Il
potere dei cattolici italiani raggiunse il suo massimo livello nel regime
democratico post-fascista. Fu sorretto da un’ideologia originale, riconducibile
al pensiero di politici come Luigi Sturzo, Alcide De Gasperi, Giuseppe
Dossetti, Aldo Moro, che colmava le grandi lacune della dottrina sociale in
materia di democrazia. Quest’ultima fu accettata pienamente dalla gerarchia
cattolica solo con l’enciclica Il Centenario, del 1991,
del papa Wojtyla. Ma nei testi della dottrina sociale la democrazia non viene
trattata in dettaglio. La si presenta genericamente come una forma di potere
del popolo che richiede partecipazione. Ma come si debba partecipare non è
precisato. In genere si è molto attenti a fissarne dei limiti nei confronti
della gerarchia del clero e in materia di trasformazioni sociali. La gerarchia,
in genere, diffida del popolo; e spesso non comprende bene la vita della
gente, i suoi problemi, le sue aspirazioni. Vive in un universo
autoreferenziale. E poi sente il pensiero democratico come un pericolo per il
suo stesso potere, perché essa non è organizzata democraticamente e addirittura
se ne vanta, non vuole esserlo (ma le spiegazioni che dà in merito non sono
molto convincenti). Questo spiega anche perché il tirocinio democratico non
rientra in genere tra le esperienze che vengono proposte ai fedeli nelle
collettività di base. Lo si pratica, ad esempio, nei circoli intellettuali
della FUCI e del MEIC, due movimenti scaturiti dall’Azione Cattolica che in
questo si sono particolarmente specializzati.
In
realtà la democrazia, come ai tempi nostri la intendiamo, è una forma di
governo delle società umane molto particolare, perché è strettamente legata
alla giustizia, la comprende al suo interno. Nelle altre forme di potere essa
può essere al più un orientamento morale, rimanendo sempre qualcosa di esterno:
in quei casi la legge suprema del potere è il potere stesso, il mantenimento
del potere, e di fronte ad essa la giustizia recede. Viene praticata se e nella
misura in cui serve al mantenimento del potere, alla creazione di un consenso
sociale, al mantenimento della pace sociale. La democrazia, il potere di tutti,
invece, vive della giustizia, perché non si può governare tutti senza
essere giusti, senza riconoscere a tutti la
medesima dignità sociale, il medesimo diritto alla vita e alla ricerca della
felicità. Senza giustizia si ricade nelle altre forme di potere, non
democratiche: la democrazia degenera. La democrazia è essa stessa una forma di
giustizia, perché dà veramente a ciascuno il suo, riconosce ad ogni essere
umano la dignità che gli compete. Ma non solo: la democrazia indica come essere
giusti in ogni campo, è anche un importante criterio di orientamento morale,
oltre che politico. La giustizia sociale come nei nostri tempi la intendiamo
non può derivarsi direttamente da un testo sacro formatosi migliaia di anni fa.
Questo crea qualche problema alla dottrina sociale, intesa
come forma di teologia. Ed in effetti il riconoscimento del valore della
democrazia è recentissimo in quella dottrina, lo possiamo considerare una
conquista dell’altro ieri. La teologia, quindi, specialmente quella dei
nostri capi religiosi, ancora si è poco familiarizzata con la democrazia.
Questo rende ancora difficile, talvolta, spiegare teologicamente come
una vita di fede possa esprimersi anche in democrazia, in particolare nella
collaborazione a politiche democratiche. E questo anche se la pratica sociale e
il pensiero politico dei fedeli hanno da molto tempo superato queste
difficoltà, contribuendo addirittura a costruire la nostra nuova Europa,
fondata su democrazia e giustizia sociale.
Io
che ho fatto il liceo ai tempi della Democrazia Cristiana, il partito dei
cattolici, o il partito cristiano come lo definì un altro
fine intellettuale del nostro mondo, Gianni Baget Bozzo, non ho difficoltà a
capire come la vita di fede possa sostenere un pensiero e un’azione politica da
esprimersi in un contesto e con metodi democratici. Un trentenne di oggi
dovrebbe forse ripartire da capo.
Innanzi tutto occorre fare realisticamente i conti con la storia. Respingere
certe interessate falsificazioni, correnti nel nostro mondo, secondo le quali i
cattolici vivrebbero nell’Italia democratica al modo degli antichi Israeliti
sotto il regno dei Faraoni egiziani. La Repubblica democratica post-fascista è
stata costruita come la vollero i cattolici e anche la sua crisi ha radici nel
mondo cattolico, ed è innanzi tutto crisi del pensiero democratico
espresso dalle nostre genti di fede. Un cattolico dovrebbe quindi sentire una
particolare responsabilità per ciò che sta accadendo in politica. Tutto
questo è necessario in
politica. Non basta brandire il Compendio della Dottrina sociale della
Chiesa come una sorta di Libro delle Giovani Marmotte,
in cui pretendere di trovare risposta a tutti i problemi politici. Quel testo
può essere solo un inizio. Serve per orientarsi tra le fonti, i vari testi dei
Papi dai quali origina la dottrina sociale. Ma poi bisogna andare a leggere i
testi di riferimento, oggi tutti disponibili sul WEB sul portale
<www.vatican.va>. Per accorgersi che la dottrina sociale ha avuto uno
sviluppo storico, è cambiata rapidamente nel giro di poco più di un secolo,
il tempo che intercorre tra l’enciclica Le Novità, del 1891, del
papa Pecci, e la Laudato si’, del 2015, del
papa Bergoglio, che esprime una dottrina sociale molto innovativa. E quindi,
per poi approfondire ulteriormente. In questo tempo di sviluppo della
dottrina sociale, le novità dei tempi hanno inciso
moltissimo. Esse sono venute per la massima parte dal mondo dei laici, intesi
come le persone non inquadrate nel clero o nei religiosi. Tuttavia questa
realtà non ha trovato ancora riconoscimento nella dottrina
sociale che è rimasta, appunto, una dottrina,
vale a dire una branca della teologia che diffonde un pensiero il quale
pretende di essere obbedito per l’autorità, non democratica, di chi lo emana.
Questa realtà normativa è poco adatta al pensiero
sociale diffuso in quella dottrina, che sempre richiede verifiche e
sperimentazioni, sempre richiede processi democratici.
Non so
quanti sarebbero disposti, ad esempio, a condividere questa affermazione,
riportata nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa, n.
227, riprendendo pronunce del papa Wojtyla:
“Le unioni di
fatto, il cui numero è progressivamente aumentato, si basano su una falsa
concezione della libertà di scelta degli individui e su un’impostazione del
tutto privatistica del matrimonio e della famiglia”.
Questa
sentenza non corrisponde a ciò che vedo realizzato in società. Ed è anche
inutilmente insultante verso chi ha realizzato unioni coniugali non
formalizzate in un matrimonio, religioso o civile, ma comunque stabili e
feconde in tutti i sensi. Non rende giustizia a quelle
unioni. Non riconosce dignità a coloro che le esprimono. E infatti non è uscita
da un pensiero democratico, ma dagli autocrati della dottrina sociale. E' stato
scritto che essi appaiono sempre in ritardo rispetto alle conquiste sociali.
Alla
democrazia è essenziale un pensiero sociale che sia sviluppato democraticamente,
vale a dire nel libero confronto e nel dialogo tra le persone. Altrimenti non
si possono fare progetti, anche perché la conoscenza affidabile sfugge. E l’immischiarsi in
politica lascia, allora, un po’ il tempo che trova, come si dice.
O si
vorrebbe che la gente, imparando la dottrina sociale della Chiesa, ritornasse
ad essere il braccio secolare della gerarchia, il suo strumento di pressione in
politica, secondo il progetto originario dei Papi? Ecco, appunto questo
l’esperienza di politica democratica della Democrazia Cristiana volle superare.
Come
persone di fede non possediamo la verità, ogni soluzione
giusta, sui fatti sociali e politici. Le soluzioni devono essere ricercate nel
confronto democratico, in quella che Scoppola definiva la democrazia di
tutti. Il filosofo Aldo Capitini ne parlava come di Omnicrazia, che
significa la stessa cosa, e la vedeva attuata attraverso Centri di orientamento,
in cui capire e scegliere nel confronto e dialogo democratici.
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60
Nella grande politica
(6-6-16)
Incollo
di seguito il testo di un discorso tenuto il 3 giugno scorso dal papa Francesco
a magistrati convocati a Roma da tutto il mondo dalla Pontificia Accademia
delle scienze. In esso ha ripreso il tema della necessità di immischiarsi nella
politica e, in particolare, in quella “grande”. Ha parlato anche della
necessità di liberare i giudici da pressioni indebite, politiche e di altra
natura.
I primi
commentatori delle parole di Bergoglio hanno notato il riferimento alla
"grande" politica più che quello alla libertà dei giudici. Entrambi
però sono importanti e connessi e rappresentano delle novità nell'ideologia
proposta negli ultimi anni alle collettività di fede che riconoscono l'autorità
religiosa del vescovo di Roma.
Più o
meno dal Sesto secolo della nostra era la Chiesa cattolica come complesso di
istituzioni è stata uno dei più importanti attori politici europei; questo in
particolare a partire dal secondo millennio, da quando si è costituita come un
impero religioso ad ordinamento feudale. Quindi è sempre stata "in
politica", e in quella "grande". Dove sta la novità?
La
novità sta nel fatto che nelle parole di Bergoglio quell'impero non c'è più.
Lui per primo ne ha rifiutati i segni andando a vivere in albergo, invece che
nella reggia romana dei pontefici.
Ci sono
i popoli e ci sono delle esigenze di giustizia, in particolare delle sofferenze
da lenire, ci sono delle vittime a cui dedicare "grande attenzione".
C'è un ordine sociale da cambiare per esigenze di giustizia. Un compito che
viene evocato come una "buona onda", "dall'alto in basso e
viceversa, dalla periferia al centro e viceversa, dai leader fino alle comunità
e dai popoli e dall'opinione pubblica fino ai più altri livelli
dirigenziali", dove quei "viceversa" sono molto importanti,
perché in passato non se ne faceva conto e tutto colava dall'alto: dall'alto in
basso e dal centro alla periferia.
In
quest'ottica sembra quasi che dal giudice si pretenda molto di più di quello
che egli è autorizzato a fare, anche negli ordinamenti di tipo democratico:
qualcosa che pare una rivoluzione sociale, da fare agendo insieme, in comunità,
per "aprire brecce, vie nuove di giustizia". E' perché Bergoglio,
prendendo lo spunto dall’udienza a quei magistrati, sembra aver considerato il
giudice come un modello di cittadino democratico e ha in realtà invitato tutti a
farsi giudici dell'ordine sociale esistente e a farlo liberamente, contrastando
i condizionamenti indebiti e innanzi tutto quello della corruzione,
avendo come guida la giustizia e non le "strutture di peccato"
che dalla giustizia lo allontanano, perché la giustizia è il primo attributo della
società, che senza di essa non dà felicità e pace. Bisogna ricordare che la
Chiesa cattolica-istituzione è stata, e ancora per certi versi è, uno dei più
potenti centri di pressione politica in senso proprio, con critiche che non
hanno risparmiato i giudici accusati talvolta di voler creare un
nuovo diritto per fini di giustizia (gli ultimi episodi risalgono solo a
qualche settimana fa, in Italia). Il ragionamento di Bergoglio può quindi
essere considerato anche un'autocritica: egli in fondo ha imparato la lezione
dell'illuminismo, ma ne ha anche assimilate di altre. Può liberare forze
potenti in quella che può essere considerata attualmente anche la più
importante compagine politica italiana, l'unica non ancora allo stato liquido o
semi-liquido.
Venendo
veramente da un altro mondo, egli recupera un discorso iniziato da Montini a
cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, un forte appello all'azione politica
per la riforma sociale, presentata come dovere religioso:
" Prendere sul serio la politica nei suoi diversi livelli - locale,
regionale, nazionale e mondiale - significa affermare il dovere dell'uomo, di
ogni uomo, di riconoscere la realtà concreta e il valore della libertà di
scelta che gli è offerta per cercare di realizzare insieme il bene della città,
della nazione, dell'umanità" [lo scrisse nel 1971 nel documento
"L'80° Anniversario"].
"Giustizia,
libertà, azione collettiva per il cambiamento sociale": ora in religione
se ne riprende a parlare, ma le si è apprese da altri, a partire dall’Ottocento.
Un capo religioso di oggi sostiene che non se ne può fare a meno, che bisogna
riscoprirle. Molti invece le avevano sepolte, e forse dimenticate, forse
sottovalutate come eccessi di gioventù, nelle loro biblioteche. C'è, mi pare,
tutta una tradizione da recuperare. Un lavoro da fare anche in religione, per
l’importante azione politica che la fede vissuta collettivamente produce, ma
anche perché i principi religiosi incidono sia sugli obiettivi sia sui metodi.
“La politica è una maniera esigente - ma non è la sola - di vivere l'impegno
cristiano al servizio degli altri.”, scrisse anche Montini nel documento che ho
sopra citato. La definì “una testimonianza personale e collettiva della serietà
della loro fede mediante un servizio efficiente e disinteressato agli uomini”
tale da rendere necessario “inventare forme di moderna democrazia non soltanto
dando a ciascun uomo la possibilità di essere informato e di esprimersi, ma
impegnandolo in una responsabilità comune.” E’ questa responsabilità alla
luce della fede che rende esigente l’impegno politico come
valore anche religioso.
°°°°°°°°°°°°°°°°°°
INTERVENTO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AL VERTICE DI GIUDICI E MAGISTRATI
CONTRO IL TRAFFICO DELLE PERSONE UMANE E IL CRIMINE ORGANIZZATO
[VATICANO, 3-4 GIUGNO 2016]
Casina Pio IV
Venerdì, 3 giugno 2016
Buonasera. Vi saluto cordialmente
e rinnovo l’espressione della mia stima per la vostra collaborazione nel
contribuire al progresso umano e sociale, di cui la Pontificia Accademia delle
Scienze Sociali è capace.
Se mi rallegro di tale contributo
e mi compiaccio con Voi, è anche in considerazione del nobile servizio che
potete offrire all’umanità, approfondendo sia la conoscenza di questo fenomeno
così attuale, ossia l’indifferenza nel mondo globalizzato e le sue forme
estreme, sia le soluzioni dinanzi a tale sfida, cercando di migliorare le
condizioni di vita dei nostri fratelli e sorelle più bisognosi. Seguendo
Cristo, la Chiesa è chiamata a impegnarsi. Ossia, non vale l’adagio
dell’Illuminismo secondo il quale la Chiesa non deve mettersi in politica; la
Chiesa deve mettersi nella “grande” politica! Perché — cito Paolo VI — la
politica è una delle forme più alte dell’amore, della carità. E la Chiesa è
anche chiamata a essere fedele alle persone, ancora più quando si considerano
le situazioni dove si toccano le piaghe e la drammatica sofferenza, nelle quali
sono coinvolti i valori, l’etica, le scienze sociali e la fede; situazioni in
cui la vostra testimonianza come persone e umanisti, unita alla vostra
specifica competenza sociale, è particolarmente apprezzata.
Nel corso degli ultimi anni non
sono mancate importanti attività della Pontificia Accademia delle Scienze
Sociali sotto il vigoroso impulso della sua Presidente, del Cancelliere e di
alcuni collaboratori esterni di grande prestigio, che ringrazio di cuore.
Attività in difesa della dignità e libertà degli uomini e donne di oggi e, in
particolare, attività volte a sradicare la tratta e il traffico di persone e le
nuove forme di schiavitù come il lavoro forzato, la prostituzione, il traffico
di organi, il narcotraffico, la criminalità organizzata. Come ha detto il mio
predecessore Benedetto XVI, e come io stesso ho affermato in diverse occasioni,
questi sono veri e propri crimini di lesa umanità che devono essere riconosciuti
come tali da tutti i leader religiosi, politici e sociali e plasmati nelle
leggi nazionali e internazionali.
L’incontro con i
leader religiosi delle principali religioni che oggi
influiscono nel mondo globale, il 2 dicembre 2014, come pure il vertice degli
amministratori e dei sindaci delle città più importanti del mondo,
il 21 luglio 2015, hanno espresso la volontà di questa Istituzione di
perseguire l’eliminazione delle nuove forme di schiavitù. Serbo un ricordo
particolare di questi due incontri, come anche dei significativi seminari dei
giovani, tutti su iniziativa dell’Accademia. Qualcuno potrebbe pensare che
l’Accademia debba muoversi piuttosto in un ambito di scienze pure, di
considerazioni più teoriche: e questo risponde certamente a una concezione
illuministica di quello che deve essere un’Accademia. Un’Accademia deve avere
radici, e radici nel concreto, perché altrimenti corre il rischio di fomentare
una riflessione liquida, che si vaporizza e non arriva a niente. Questo
divorzio tra l’idea e la realtà è chiaramente un fenomeno culturale del
passato, e più precisamente dell’illuminismo, ma che ha ancora la sua
incidenza.
Ora, ispirata dagli stessi
aneliti, l’Accademia vi ha convocato, giudici e pubblici ministeri di tutto il
mondo, con esperienza e saggezza pratica nello sradicamento della tratta, del
traffico di persone e della criminalità organizzata. Siete venuti qui in
rappresentanza dei vostri colleghi con il lodevole intento di progredire nella
piena consapevolezza di tali flagelli e, di conseguenza, di rendere manifesta
la vostra insostituibile missione dinanzi alle nuove sfide che ci pone la
globalizzazione dell’indifferenza, rispondendo alla crescente richiesta della
società e nel rispetto delle leggi nazionali e internazionali. Farsi carico
della propria vocazione significa anche sentirsi e proclamarsi liberi. Giudici
e pubblici ministeri liberi: da che cosa? Dalle pressioni dei governi; liberi
dalle istituzioni private e, naturalmente, liberi dalle “strutture di peccato”
di cui parla il mio predecessore san Giovanni Paolo II, in particolare della
“struttura di peccato”, liberi dal crimine organizzato. So che subite
pressioni, subite minacce in tutto questo; e so anche che oggi essere giudici,
essere pubblici ministeri, significa rischiare la pelle, e ciò merita un
riconoscimento al coraggio di quelli che vogliono continuare a essere liberi
nell’esercizio della propria funzione giuridica. Senza questa libertà, il
potere giudiziario di una nazione si corrompe e semina corruzione. Tutti
conosciamo la caricatura della giustizia per questi casi, no? La giustizia con
gli occhi bendati, alla quale cade la benda tappandole la bocca.
Fortunatamente, per l’attuazione
di questo complesso e delicato progetto umano e cristiano, cioè liberare
l’umanità dalle nuove schiavitù e dal crimine organizzato, che l’Accademia
realizza seguendo la mia richiesta, si può anche contare sull’importante e
decisiva sinergia con le Nazioni Unite. C’è una maggiore consapevolezza di ciò,
una forte consapevolezza. Sono lieto che i rappresentanti dei 193 Paesi membri
dell’ONU abbiano approvato all’unanimità i nuovi obiettivi di sviluppo
sostenibile e integrale, in particolare il numero 8.7, che recita: «Adottare
misure immediate ed efficaci per eliminare il lavoro forzato, porre fine alle
forme moderne di schiavitù e alla tratta di esseri umani e assicurare il
divieto e l’eliminazione delle peggiori forme di lavoro infantile, inclusi il
reclutamento e l’uso di bambini soldato e, al più tardi entro il 2025, porre
fine al lavoro infantile in tutte le sue forme». Fin qui la Risoluzione. Si può
ben dire che realizzare tali obiettivi sia ora un imperativo morale per tutti i
Paesi membri dell’ONU.
Perciò occorre generare un moto
trasversale e ondulare, una “buona onda”, che abbracci l’intera società
dall’alto in basso e viceversa, dalla periferia al centro e viceversa, dai
leader fino alle comunità, e dai popoli e dall’opinione pubblica fino ai più
alti livelli dirigenziali. La realizzazione di ciò esige che, come hanno già
fatto i leader religiosi, sociali e i sindaci, così anche i giudici prendano
piena consapevolezza di tale sfida, sentano l’importanza della propria
responsabilità davanti alla società e condividano le proprie esperienze e buone
pratiche e agiscano insieme — è importante, in comunione, in comunità, che
agiscano insieme — per aprire brecce e nuove vie di giustizia a beneficio della
promozione della dignità umana, della libertà, della responsabilità, della
felicità e, in definitiva, della pace. Senza cedere al gusto della simmetria,
potremmo dire che il giudice sta alla giustizia come il religioso e il filosofo
alla morale, e il governante o qualsiasi altra figura personalizzata del potere
sovrano alla politica. Ma solo nella figura del giudice la giustizia si
riconosce come il primo attributo della società. Ed è una cosa che va
recuperata, perché la tendenza sempre più forte è quella di “liquefare” la
figura del giudice attraverso le pressioni e le altre cose che ho menzionato
prima. E tuttavia è il primo attributo della società. Appare nella stessa
tradizione biblica, non è vero? Mosè ha bisogno di istituire 70 giudici perché
lo aiutino, giudichino i casi. È il giudice a chi si ricorre. E anche in questo
processo di liquefazione, gli aspetti contundenti, concreti della realtà
interessano i popoli. Ossia, i popoli hanno un’entità che dà loro consistenza,
che li fa crescere, avere i propri progetti, accettare i propri fallimenti,
accettare i propri ideali; però stanno anche soffrendo un processo di
liquefazione, e tutto quello che è la consistenza concreta di un popolo tende a
trasformarsi nella semplice identità nominale di un cittadino. E un popolo non
è lo stesso di un gruppo di cittadini. Il giudice è il primo attributo di una
società di popolo.
L’Accademia, convocando i giudici,
aspira solo a collaborare in base alle proprie possibilità, secondo il mandato
dell’ONU. È opportuno ringraziare qui quelle nazioni che, tramite gli
Ambasciatori presso la Santa Sede, non si sono mostrate indifferenti o
arbitrariamente critiche, bensì, al contrario hanno collaborato attivamente con
l’Accademia per la realizzazione di questo vertice. Gli ambasciatori che non
hanno sentito tale necessità o che se ne sono lavati le mani o che hanno
pensato che non era poi così necessario, li aspettiamo alla prossima riunione.
Chiedo ai giudici di realizzare la
propria vocazione e missione essenziale: stabilire la giustizia senza la quale
non c’è ordine né sviluppo sostenibile e integrale, e neanche pace sociale.
Senza dubbio, uno dei più grandi mali sociali del mondo odierno è la corruzione
a tutti i livelli, che debilita qualsiasi governo, debilita la democrazia
partecipativa e l’attività della giustizia. A voi giudici spetta fare
giustizia, e vi chiedo una speciale attenzione nel fare giustizia nell’ambito
della tratta e del traffico di persone e, di fronte a ciò e al crimine
organizzato, vi chiedo di guardarvi dal cadere nella ragnatela delle
corruzioni.
Quando diciamo “fare giustizia”,
come voi ben sapete, non intendiamo che si debba cercare il castigo di per sé,
ma che, quando si comminano pene, queste siano date per la rieducazione dei
responsabili, in modo tale che si possa dare loro una speranza di reinserimento
nella società. Ossia, non c’è pena valida, senza speranza. Una pena chiusa in
se stessa, che non dà luogo alla speranza è una tortura, non è una pena. Su
questo mi baso anche per affermare seriamente la posizione della Chiesa contro
la pena di morte. Chiaro, mi diceva un teologo che nella concezione della teologia
medievale e post-medievale la pena di morte conteneva la speranza: «li
affidiamo a Dio». Ma i tempi sono cambiati e non è più così. Lasciamo che sia
Dio a scegliere il momento... La speranza del reinserimento nella società:
“neppure l’omicida perde la sua dignità personale e Dio stesso se ne fa
garante” (San Giovanni Paolo II, Evangelium vitae,
n. 9). E se questa delicata congiunzione tra giustizia e misericordia — che in
fondo è preparare per un reinserimento — vale per i responsabili dei crimini
contro l’umanità come per ogni altro essere umano, a fortiori vale
soprattutto per le vittime che, come indica il loro stesso nome, sono più
passive che attive nell’esercizio della loro libertà, essendo cadute nella
trappola dei nuovi cacciatori di schiavi. Vittime tante volte tradite nel più
intimo e sacro della loro persona, cioè nell’amore che aspirano a dare e a
ottenere, e che le loro famiglie devono loro o che viene loro promesso da
pretendenti o mariti, i quali invece finiscono col venderle nel mercato del
lavoro forzato, della prostituzione o del traffico di organi.
I giudici sono chiamati oggi più
che mai a dedicare grande attenzione ai bisogni delle vittime. Sono loro le
prime a dover essere riabilitate e reintegrate nella società, e per loro si
devono perseguire in una lotta senza quartiere trafficanti e carniferos,
i carnefici. Non vale il vecchio adagio: «Sono cose che esistono da che mondo è
mondo». Le vittime possono cambiare e di fatto sappiamo che cambiano vita con
l’aiuto dei buoni giudici, delle persone che le assistono e di tutta la
società. Sappiamo che non poche di queste persone sono uomini e donne avvocati
e politici, scrittori brillanti o hanno incarichi di successo per servire in
modo valido il bene comune. Sappiamo quanto sia importante che ogni vittima
trovi la forza di parlare del suo essere vittima come di un passato che ha
superato coraggiosamente essendo ora un sopravvissuto o, per meglio dire, una
persona con qualità di vita, con dignità recuperata e libertà assunta. Riguardo
a questo tema del reinserimento, vorrei raccontare un’esperienza empirica. Mi
piace, quando vado in una città, visitare il carcere. Ne ho visitati diversi. È
curioso, senza voler offendere nessuno, ma la mia impressione generale è stata
che le carceri in cui il direttore è una donna vanno meglio di quelle in cui il
direttore è un uomo. Questo non è femminismo, è curioso. La donna ha, riguardo
al tema del reinserimento, un olfatto speciale, un tatto speciale che, senza
perdere energie, per ricollocare queste persone, per reinserirle. Alcuni lo
attribuiscono alla radice della maternità. Ma è curioso, lo dico come
esperienza personale, vale la pena rifletterci. E qui in Italia c’è un’alta
percentuale di carceri dirette da donne, molte donne, giovani, rispettate e che
sanno trattare con i detenuti. Un’altra mia esperienza personale è che alle
udienze del mercoledì non è raro che partecipi un gruppo di detenuti — di una o
l’altra prigione — portati dal direttore o dalla direttrice; stanno lì. Sono
tutti gesti di reinserimento.
Voi siete chiamati a dare speranza
nel fare la giustizia. Dalla vedova che insistentemente chiede giustizia (Lc 18,
1-8) alle vittime di oggi, tutte alimentano un anelito di giustizia, come
speranza che l’ingiustizia che attraversa questo mondo non sia l’ultima realtà,
non abbia l’ultima parola.
A volte può essere di giovamento
applicare, secondo modalità proprie di ciascun paese, di ogni continente, di
ogni tradizione giuridica, la prassi italiana di recuperare i beni
criminosamente acquisiti dai trafficanti e dai delinquenti, per offrirli alla
società e, in concreto, per il reinserimento delle vittime. La riabilitazione
delle vittime e il loro reinserimento nella società, sempre realmente
possibile, è il bene più grande che possiamo fare a loro, alla comunità e alla
pace sociale. Certo, il lavoro è duro. Non termina con la sentenza. Termina
dopo, facendo sì che vi siano un accompagnamento, una crescita, un
reinserimento, una riabilitazione della vittima e del carnefice.
Se c’è una cosa che attraversa le
beatitudini evangeliche e il protocollo del giudizio divino con cui tutti
saremo giudicati secondo il Vangelo di Matteo (cap. 25), è il tema della
giustizia: «Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, beati quelli che
soffrono per la giustizia, beati quelli che piangono, beati i miti, beati gli
operatori di pace, benedetti dal Padre mio quelli che trattano il più bisognoso
e il più piccolo dei miei fratelli come me stesso». Essi o esse — e qui è il
caso di riferirci in particolare ai giudici — avranno la ricompensa più grande:
possederanno la terra, saranno chiamati e saranno figli di Dio, vedranno Dio, e
gioiranno eternamente insieme al Padre.
In tale spirito oso chiedere ai
giudici, ai pubblici ministeri e agli accademici di continuare la loro opera e
realizzare, nei limiti delle loro possibilità e con l’aiuto della grazia, le
felici iniziative che onorano il loro servizio alle persone e al bene comune.
Grazie!
*********************************************
61
Il partito del Papa
Con
l’enciclica Laudato si’, dell’anno scorso, Bergoglio ha
diffuso un progetto integrato di riforma della società contemporanea, un vero e
proprio manifesto politico. Esso deve essere discusso democraticamente, ma
proprio per la fonte da cui proviene è difficile farlo in religione, e al di
fuori dei contesti religiosi non lo si fa perché non interessa. Infatti
il partito del Papa non ha seguito in Italia. Il nostro
è stato il Paese che dal 1948 al 1994 è stato dominato da un artito
cristiano ed è stato impressionante constatare che nelle ultime
elezioni cittadine non solo nessuno dei movimenti che le animavano si è
richiamato a quella tradizione, ma che anche nessuno ha affrontato il tema di
Roma come città della fede, e questo nonostante il Giubileo in corso. Nessuno
si è richiamato ai temi politici della Laudato si’, che
probabilmente è poco conosciuta anche negli ambienti di fede, e anche laddove è
conosciuta viene presentata attenuandone l’impatto specificamente politico.
Sembra che, assuefatti all’imponente letteratura pontificia, si sia considerato
distrattamente un documento in cui invece ogni parola è importante perché segna
un cambiamento di rotta e l’apertura di nuove opportunità. Si dà uno sguardo ai
titoli, si legge qualche brano scelto traendolo dai commentatori, e poi si
aspetta il prossimo documento, che infatti è venuto con
l’esortazione Letizia dell’amore.
Fare politica
ha a che fare con il potere e, di solito, in religione, sebbene il potere lo si
sia sempre esercitato e anche piuttosto disinvoltamente, si ritiene
sconveniente parlarne. Alla fine si cerca di assimilarlo proponendolo come
una forma esigente di carità. Questa espressione viene attribuita,
sbagliando, al papa Montini, mentre è del suo predecessore Sarto, il Papa dei
Patti lateranensi. La usò nel 1927 in un discorso tenuto ai dirigenti della
Federazione Universitaria Cattolica Italiana, del quale sono riuscito a trovare
uno stralcio sul WEB:
“I giovani talora si chiedono se, cattolici come sono, non debbano fare
alcuna politica. Ed ecco che, dedicando il loro studio ai suddetti argomenti,
vengono a porre in se stessi le basi della buona, della vera, della grande
politica, quella che è diretta al bene sommo e al bene comune, quello
della polis, della civitas, a quel pubblico bene, che è
la suprema lex a cui devono esser rivolte le attività sociali.
E così facendo essi comprenderanno e compiranno uno dei più grandi doveri
cristiani, giacché quanto più vasto e importante è il campo nel quale si può
lavorare, tanto più doveroso è il lavoro. E tale è il campo della
politica, che riguarda gli interessi di tutta la società, e che sotto questo
riguardo è il campo della più vasta carità, della carità politica,
a cui si potrebbe dire null'altro, all'infuori della religione, essere
superiore.
È con questo
intendimento che i cattolici e la Chiesa debbono considerare la politica;
poiché la Chiesa e i suoi rappresentanti, in tutti i gradi di tal
rappresentanza, non possono essere un partito politico, né fare la politica di
un partito, il quale per natura sua attende a particolari interessi, o
se pur mira al bene comune, sempre vi mira dietro il prisma di sue vedute
particolari.”
In quegli anni la Santa Sede stava contrattando con il Mussolini quelli
che poi, nel 1929, furono stipulati come Patti Lateranensi.
Parlando dell’uomo con cui aveva concluso quegli accordi che oggi molti in
religione ritengono disonorevoli e di cui si volle assumere la piena
responsabilità, disse, parlando agli universitari della Cattolica di
Milano il 13 febbraio 1929, due giorni dopo l’evento:
“Dobbiamo dire che siamo stati anche dall’altra parte nobilmente assecondati. E
forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza Ci ha fatto
incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per
gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o
piuttosto disordinamenti, tutte quelle leggi, diciamo, e tutti quei regolamenti
erano altrettanti feticci e, proprio come i feticci, tanto più intangibili e
venerandi quanto più brutti e deformi. E con la grazia di Dio, con molta
pazienza, con molto lavoro, con l’incontro di molti e nobili assecondamenti,
siamo riusciti « tamquam per medium profundam eundo» a conchiudere
un Concordato che, se non è il migliore di quanti se ne possono fare, è certo
tra i migliori che si sono fin qua fatti; ed è con profonda compiacenza che
crediamo di avere con esso ridato Dio all’Italia e l’Italia a Dio.”
Montini, invece, nella lettera apostolica L’Ottantesimo
Anniversario[della prima enciclica sociale Le novità, del
1891] fece un discorso diverso, sollecitando all’azione:
"Significato dell’azione politica
46 […]È vero che
sotto il termine «politica» sono possibili molte confusioni che devono essere
chiarite; ma ciascuno sente che nel settore sociale ed economico, sia nazionale
che internazionale, l'ultima decisione spetta al potere politico.
Questo, in quanto è il vincolo naturale e necessario per assicurare la
coesione del corpo sociale, deve avere per scopo la realizzazione del bene
comune. Esso agisce, nel rispetto delle legittime libertà degli individui,
delle famiglie e dei gruppi sussidiari, al fine di creare, efficacemente e a vantaggio
di tutti, le condizioni richieste per raggiungere il vero e completo bene
dell'uomo, ivi compreso il suo fine spirituale. Esso si muove nei limiti della
sua competenza, che possono essere diversi secondo i paesi e i popoli; e
interviene sempre nella sollecitudine della giustizia e della dedizione al bene
comune, di cui ha la responsabilità ultima. Tuttavia non elimina così il campo
d'azione e le responsabilità degli individui e dei corpi intermedi, onde questi
concorrono alla realizzazione del bene comune. In effetti, «l'oggetto di ogni
intervento in materia è di porgere aiuto ai membri del corpo sociale, non già
di distruggerli o di assorbirli». Conforme alla propria vocazione, il
potere politico deve sapersi disimpegnare dagli interessi particolari per
considerare attentamente la propria responsabilità nei riguardi del bene di
tutti, superando anche i limiti nazionali. Prendere sul serio la
politica nei suoi diversi livelli - locale, regionale, nazionale e mondiale -
significa affermare il dovere dell'uomo, di ogni uomo, di riconoscere la realtà
concreta e il valore della libertà di scelta che gli è offerta per cercare di
realizzare insieme il bene della città, della nazione, dell'umanità. La
politica è una maniera esigente - ma non è la sola - di vivere l'impegno
cristiano al servizio degli altri. Senza certamente risolvere ogni
problema, essa si sforza di dare soluzioni ai rapporti fra gli uomini. La sua
sfera è larga e conglobante, ma non esclusiva. Un atteggiamento invadente,
tendente a farne un assoluto, costituirebbe un grave pericolo. Pur
riconoscendo l'autonomia della realtà politica, i cristiani,
sollecitati a entrare in questo campo di azione, si sforzeranno di raggiungere
una coerenza tra le loro opzioni e l'evangelo e di dare, pur in mezzo a un legittimo
pluralismo, una testimonianza personale e collettiva della serietà della
loro fede mediante un servizio efficiente e disinteressato agli uomini."
Che
cosa c’è di diverso tra il pensiero del Sarto e quello del Montini sulla
politica? C’è la democrazia, che significa anche considerare la politica non
come inevitabile sviluppo di interessi particolari, ma
come servizio efficiente e disinteressato per realizzare
insieme il bene della città, della nazione, dell'umanità. E c’è
la mediazione, che significa concepire la politica come ricerca insieme
ad altri, in un clima di pluralismo.
Esercitare
il potere in modo insieme democratico e conforme allo spirito evangelico
non è innato nei fedeli: è cosa che si impara, della quale occorre fare tirocinio.
Negli anni ’80 se ne aveva chiara consapevolezza e infatti fu quella l’epoca in
cui in Italia fiorirono tante scuole di politica.
Ma poi emerse il pluralismo della politica e si lasciò
perdere. Si riprese a fare politica andando dietro a un Papa, come negli anni
bui dell’intransigentismo ottocentesco, quelli della polemica
durissima con il liberalismo democratico, che ancora risalta moltissimo nelle
parole del papa Sarto che ho sopra trascritto. Si è persa una tradizione di
impegno politico, della quale oggi si può avere un’idea solo sui libri. Quindi
poi la rinnovata esortazione all’impegno politico democratico di Bergoglio cade
nel vuoto. Anzi, mi pare che in genere, rispetto agli orientamenti politici della Laudato
sì, la maggioranza dei fedeli sia all’opposizione, diciamo su posizioni
francamente di destra, che oggi significano, ad esempio, posizione dura su
migranti ed emarginati sociali, difesa del tenore di vita degli italiani a
scapito di qualsiasi onere di solidarietà sociale che possa comportare più
tasse, posizione ostile all’integrazione sociale di stranieri residenti e
di fedeli di altre religioni, contrarietà a misure di controllo sociale per
preservare ambiente naturale e territorio dai danni delle attività industriali
e dell’edilizia intensiva.
Ad
essere cittadini di una democrazia avanzata si impara e se la politica
democratica ha un valore anche religioso si tratta di un lavoro che deve essere
impostato anche negli ambienti di fede, come una parrocchia. Si inizia con un
tirocinio, con fare esperienza di democrazia negli affari minuti, nella
gestione di un gruppo, di un servizio, rifuggendo e contrastando il cesarismo dei
capi. Poi ci si ragiona sopra, trovando i riferimenti culturali. E’ cosa che
costa fatica, perché ci si è disabituati. Anche da noi in parrocchia, per lungo
tempo, tutte le sedi di partecipazione democratica sono cadute un po’ in
disuso, a cominciare dal Consiglio pastorale, che mi pare ormai privo di
legittimazione democratica, poiché, a mia memoria, non riesco più a ricordare
quando si svolsero le ultime elezioni di alcuni suoi componenti e alcune delle
stesse persone che vi partecipano, per ciò che mi è stato riferito, non hanno
ben chiaro a che titolo vi partecipino.
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62
Fede e politica: una relazione essenziale
[da: Ludwig
Hertling, Storia della Chiesa - La penetrazione dello spazio umano ad
opera del cristianesimo, Città Nuova, 1974 (ed.originale Morus-Verlag,
Berlin, 1967)]
La nuova
serie di papi sotto l’influenza degli imperatori
Ottone
I (1°) [912-973, duca di Sassonia, re di Germania e imperatore del Sacro Romano
Impero dal 962] e suo figlio Ottone II (2°) [955-983, duca di Sassonia, re di
Germania e imperatore del Sacro Romano Impero dal 973], che morì troppo presto,
erano intervenuti nelle cose di Roma con le migliori intenzioni, ma senza
ottenere veri risultati. E’ strano quindi che ciò sia invece riuscito al terzo
Ottone [Ottone III (3°) di Sassonia, 980-1002, re d’Italia e di Germania,
imperatore del Sacro Romano Impero dal 996], il quale personalmente non
possedeva la qualità dell’uomo forte anche per la sua età ancor giovanile, ma
deve avergli giovato il prestigio che s’era notevolmente accresciuto attorno
alla corona imperiale per merito di suo padre e di suo nonno.
Gregorio V e
Silvestro II
Quando
nell’anno 996 morì Giovanni XV (15°), Ottone III si trovava proprio in viaggio
verso Roma. I romani lo pregarono di designare il nuovo papa. Ottone III
contava allora 16 anni, era profondamente religioso, essendo stato
educato dai migliori maestri del tempo, ed inoltre era un idealista
entusiasta che sognava gli splendori dell’antico Impero romano. Egli designò
come papa il suo cappellano di corte, che era anche un suo parente, Brunone.
Questi, a sua volta molto giovane, perché contava solo 24 anni, in fatto di
idealismo non la cedeva all’imperatore. Eletto papa, assunse il nome di Gregorio
V (5°), ma morì già nel 999, dopo aver iniziato un pontificato assai
promettente. Dopo di lui Ottone III scelse come papa il suo antico maestro
Gerberto. Gerberto, un francese, prima vescovo di Reims e poi di Ravenna, era
molto ammirato per la sua cultura, al punto tale che la leggenda popolare ne ha
fatto un mago. Non meno idealista del suo predecessore, Gerberto si chiamò Silvestro
II (2°), era tuttavia un uomo già maturo. Per la prima volta, dopo un
lungo tempo la Chiesa aveva un nuovo papa che mirava alla cristianità. Silvestro
istituì la gerarchia per la Polonia divenuta ormai quasi completamente
cristiana e le assegnò come metropoli Gnesen. Lo stesso fece per gli
ungari con la metropoli di Gran, A colui che era stato fino allora il
duca degli ungari, santo Stefano, conferì il titolo di re.
Il nuovo
predominio dei signori di Tuscolo
Dopo la morte
prematura dell’imperatore Ottone III (1002) a Roma, a Roma scoppiò nuovamente
un conflitto tra i conti di Tuscolo e i Crescenzi, i quali già sotto Gregorio V
avevano tentato di suscitare disordini e ora giunsero persino a creare un
antipapa. Ma il nuovo imperatore Enrico II (2°) fece accettare ai
romani il legittimo pontefice Benedetto VIII (8°) (1012-1024) della
famiglia di Tuscolo. Benedetto VIII aiutò Pisa e Genova allorché queste due
città vinsero i saraceni presso Luna, strappando così la Sardegna ai musulmani.
Nel 1020 il papa si recò in Germania e consacrò il duomo di Bamberga,
fatto erigere da Enrico II. Poi tenne insieme all’imperatore un sinodo in
Pavia, in cui il celibato del clero veniva ancora inculcato. Inoltre vennero
promulgati fin d’allora decreti contro la simonia, ossia il conferimento degli
ordini sacri in cambio di denaro, o di altri vantaggi. Nel concetto di simonia
si vennero un po’ alla volta a comprendere tutti gli abusi che derivavano dal
sistema delle chiese di proprietà privata e, in genere, dalla dipendenza della
Chiesa dai signori feudali, e che alla fine la condussero a ingaggiare la lotta
delle investiture.
I conti
di Tuscolo tornarono a essere, come cent’anni prima, i padroni di Roma. Il
fratello di Benedetto VIII, Alberico, governava la città col titolo di console.
Dopo la morte di Benedetto VIII, un terzo fratello divenne papa col nome
di Giovanni XIX (19°). Questi incoronò imperatore
Corrado II (2°). Ai festeggiamenti intervennero i re Rodolfo III (3°) di
Borgogna e Canuto di Danimarca e Inghilterra. quanto al resto, egli non si
occupò d’altro che di denaro. L’imperatore Basilio II (2°) di Bisanzio gli
profferse (=offrì) del denaro, qualora avesse riconosciuto al patriarca di
Costantinopoli il titolo di «patriarca ecumenico», che i papi precedenti gli
avevano sempre negato. Giovanni XIX si dichiarò pronto, ma dovette rinunciarvi
a causa della indignazione che questo fatto suscitò tra i monaci cluniacensi
(federazione di abazie benedettine facenti capo a quella di Cluny, in
Francia). Dopo la sua morte, nel 1933, la famiglia dei conti di Tuscolo, che
voleva a tutti i costi occupare la Sede apostolica con uno dei suoi membri,
impose come papa il figlio di Alberico,il tredicenne Teofilatto. Il ragazzo,
che si chiamò Benedetto IX (9°), venne cacciato dopo poco
tempo dai romani; ma l’imperatore Corrado II (2°) ve lo ricondusse, dal momento
che in fin dei conti era pur il legittimo papa. Cacciato un’altra volta, egli
ritornò ancora. Finalmente, per far cessare lo scandalo, il ricco arciprete di
San Giovanni a Porta Latina, Giovanni Graziano, gli promise una notevole
pensione, qualora avesse abdicato, Benedetto IX accettò, tanto più che dal
partito contrario gli si era innalzato contro un antipapa per nome Silvestro
III (3°).
Intervento di
Enrico III (3°)
Giovanni
Graziano aveva agito con le migliori intenzioni. Ma non fu cosa saggia l’aver
ora accettato egli stesso l’elezione a Sommo Pontefice. Gregorio VI (6°),
come egli si chiamò, possedeva tutte le qualità necessarie, e dagli
ecclesiastici più rigidi, come Pier Damiani, fu salutato con entusiasmo. Ma
poiché uno dei principali punti del programma di riforma si riferiva alla
simonia, e cioè al commercio degli uffici ecclesiastici, appariva quanto meno
un’imperfezione che il papa regnante avesse pagato il suo predecessore con lo
scopo di farlo abdicare. Inoltre Benedetto IX si pentì ben presto della sua
abdicazione e ricomparve come papa, cosa che fece pure l’antipapa Silvestro
III. In questo ginepraio senza via di uscita solo l’imperatore poteva essere
d’aiuto. Enrico III (3°), successore di Corrado II, venne chiamato in Italia.
Egli tenne un sinodo a Sutri, una cittadina a settentrione di Roma. Benedetto
IX, che già aveva abdicato, e Silvestro II che non era mai stato legittimo
papa, furono definitivamente deposti. Gregorio VI (6°) acconsentì a lasciare
volontariamente il soglio pontificio e, per non far scoppiare un nuovo scisma,
l’imperatore lo prese con sé in Germania. Lo accompagnava un giovane
chierico romano, Ildebrando,che avrebbe dovuto svolgere in seguito un ruolo
storico di grande importanza. Gregorio VI morì a Colonia nel 1047.
L’imperatore sembrava l’unica personalità in grado di ristabilire l’ordine,
tanto che tutti furono d’accordo che fosse lui stesso a nominare i papi
seguenti. I suoi due primi papi, Clemente II (2°),
precedentemente vescovo di Bamberga, e Damaso II, vescovo di
Bressanone, uomini eccellenti entrambi, morirono dopo pochissimo tempo dopo la
loro elezione. Allora Enrico III nominò un alsaziano, il vescovo di Toul. Il
nuovo papa, però, Leone IX (9°), desiderò un’elezione regolare
da compiersi a Roma. Nel viaggio che doveva condurlo a questa città, prese
con sé il giovane Ildebrando, il quale, dopo la morte di Gregorio VI, s’era
fatto monaco, probabilmente a Cluny. Ildebrando servì lui e i suoi successori,
finché non venne eletto papa egli stesso [con il nome di Gregorio 7°].
[…]
Alessandro
II [papa eletto nel 1061, per l’influsso di Ildebrando e senza
l’ingerenza dell’imperatore] morì il 21 aprile 1073. Ai funerali, che ebbero
luogo il giorno e furono presieduti da Ildebrando nella sua qualità di
arcidiacono, il popolo acclamò Ildebrando stesso come suo successore. I
cardinali si ritirarono immediatamente a San Pietro in Vincoli per eleggerlo
secondo le regole precedentemente stabilite. Ildebrando, prudente, procrastinò
il giorno dell’incoronazione per attendere l’approvazione del re tedesco Enrico
IV. A ricordo del nobile spirito di Gregorio VI, che egli aveva accompagnato
nell’esilio, volle chiamarsi Gregorio VII (7°).
Gregorio VII
appartiene a quegli uomini della storia di cui basta pronunciare il nome perché
suscitino le reazioni più diverse. Non è cosa facile, perciò, dare un giudizio
appropriato sulla sua personalità. Il Gregorovius (storico tedesco studioso del
medioevo, morto nel 1891) solitamente pieno di odio per tutto quanto è
cattolico e papale, trova che, al paragone di Gregorio VII, Napoleone appare un
barbaro. E fa di lui una specie di mago, che, con armi invisibili, incute
spavento al mondo intero. La Chiesa lo annovera tra i suoi santi celebrandone
la festa ogni anno il 25 maggio. Vi sono però anche dei cattolici per i quali
Gregorio VII è il tipo del papa politico anziché religioso. Certo è che
Gregorio VII fece un’impressione enorme anche sui suoi contemporanei. San Pier
Damiani lo chiamava scherzosamente «un santo demonio», volendo con ciò
significare l’instancabilità e la passione che distinguevano Gregorio da ogni
altro. Come già l’apostolo san Paolo, Gregorio VII era piccolo di statura,
mobilissimo, infaticabile, pieno di coraggio personale, d’un’incredibile
vitalità. Lo zelo lo consumava, ma era unicamente lo zelo per la casa di Dio.
Ogni cosa era per lui una realtà da conquistare. In ciò egli assomiglia a
sant’Ignazio di Lojola.
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Quando
da ragazzo lessi le pagine che ho sopra trascritto, da un libro di studio di
mia madre, rimasi meravigliato dello sforzo fatto dal gesuita Ludwig Hertling
di argomentare, contro certe evidenze, una qualche continuità tra la Chiesa in
cui mi ero formato da bambino negli anni Sessanta e poi da ragazzo nel decennio
seguente e quella a cavallo dell’anno Mille. Rimasi anche affascinato dai suoi
racconti sul papa Gregorio VII. Per certi versi il secondo millennio della nostra
fede e, in particolare, la struttura delle nostre istituzioni religiose dipende
dal suo attivismo, è un progetto suo.
Nel
2013 è stato eletto papa un vescovo, un religioso dello stesso ordine di
Hertling, che ha assunto un nome da sovrano senza un numero dietro. Non c’era
mai stato prima un papa di nome Francesco. E’ andato a vivere in un
albergo nella cittadella vaticana di cui è sovrano politico assoluto. Ma non ha
rifiutato le insegne della sovranità religiosa. E ha aperto sicuramente un
nuovo corso politico, con il suoi documenti La gioia del
Vangelo, del 2013, e Laudato si’, del
2015. Un po’ come avvenne intorno all’anno Mille. All’epoca il moto di
cambiamento fu sostenuto dai monaci della federazione di Cluny, oggi dal
movimento conciliare.
Quanto
è importante la politica nella fede?
Una
tesi che si potrebbe tentare di argomentare (ci vorrebbe una vita e tanto,
tanto studio per farlo) è che è tutto, da un punto di vista storico
e sociologico, naturalmente. Non mi riferisco alla teologia e all’ordine
soprannaturale.
Adottando il lessico di Hertling, mi appare, così, a uno sguardo un po’
superficiale come è quello di un ignorante colto come io sono, uno che non è
uno specialista di certi temi e che pure per rendere ragione della propria fede
deve tentare di ragionare su di essi, come se dal Quarto secolo della nostra
era la penetrazione dello spazio umano ad opera del cristianesimo sia
avvenuta per la massima parte per via politica. Una politica che nel primo
millennio fu dominata dai sovrani civili, gli imperatori romani e
poi da quelli che si considerarono loro successori, e che nel secondo
millennio, da Gregorio VII in poi, è stata ancora dominata da essi ma anche dai
sovrani religiosi romani, che strutturarono le istituzioni da loro dipendenti
come un impero religioso a imitazione di quello civile, esercitando una sorta
di condominio su un popolo di sudditi. Questa era dei
papi-imperatori sta volgendo al termine in questi anni ed è questa l’epoca in
cui noi fedeli siamo finiti in mezzo, ma poteva andarci peggio, potevamo
nascere nella Roma dominata dai signori di Tuscolo, che espressero sovrani
religiosi definiti da alcuni storici, spregiativamente, pornocrati.
Se, da
un punto di vista storico, la politica è stata la principale via per l’affermazione
della fede, è evidente che chi propone l’apoliticità della
fede non fa gli interessi della religione. In realtà le divisioni, a volte
durissime non nascondiamocelo, che ci sono oggi tra i fedeli non vertono, a ben
vedere, su temi teologici, ma su temi politici. Come deve cambiare la società
del nostro tempo? Che ruolo, ad esempio, deve avervi la donna? Come deve fare
il pastore chi a questo ruolo è designato in quanto membro del
clero? E poi: come combattere la povertà? Come evitare che l’industria rovini
l’ambiente in cui viviamo? Chi e in base a che criteri deve fare le parti della
ricchezza che si produce? Una fede religiosa che non affronti questi temi
diventa inutile. E la nostra fede non lo è
mai stata storicamente e non lo è. Infatti di questi temi si discute oggi, in
religione.
La
politica contemporanea si fa con metodo e secondo principi democratici, che
significa partecipazione di tutti al governo, elevazione
di tutti alla sovranità. Questo implica un tirocinio,
una formazione che non può limitarsi allo studio dell’imponente
letteratura dei papi. La politica democratica richiede una partecipazione anche
alla elaborazione dei principi e, vista la stretta connessione tra fede e
politica, per cui la nostra mi appare essere stata sempre (questo mi sembra il
suo vero tratto distintivo rispetto ai tanti culti misterici che
le furono coevi nel primi tre secoli della nostra era) una fede
politica, ciò finirà (come del resto è già accaduto con lo sviluppo del
movimento di idee che sfociò negli scorsi anni Sessanta nell’ultimo Concilio
ecumenico) per riflettersi anche sul modo di pensare la
fede. E’ stato osservato, ad esempio, che alcuni dei più importanti movimenti scaturiti
nel post-Concilio hanno sviluppato una propria caratteristica
teologia, anche se leggo che alcuni teologi di professione ne evidenziano in
genere alcuni tratti rudimentali e insufficienti. E sicuramente dietro la
proposta politica del nostro vescovo e padre universale
Bergoglio si scorge una teologia piuttosto ben definita che, mi pare per la
prima volta nella storia della nostra fede, viene ora proposta per la
discussione di tutti, non imposta d’autorità o proposta al vaglio
solo degli specialisti.
Possiamo considerare, sotto l’aspetto politico, i papi Wojtyla,
regnante come Giovanni Paolo 2°, e Ratzinger, regnante col nome di Benedetto
16°, gli ultimi sovrani dell’era apertasi con Gregorio 7°, tanto diversi da
quelli del primo millennio. E Bergoglio-Francesco (senza il numero vicino), il
papa che ci è venuto dal Nuovo Mondo, l'America che non è mai stata dominata
dai sovrani medievali alla cui memoria il Wojtyla era ancora tanto legato,
il capostipite di una nuova schiera di capi religiosi. Probabilmente è un
processo che coinvolgerà anche noi fedeli, e direi che ciò sta già avvenendo.
Un ritorno al passato è impossibile. L’umanità è troppo cambiata. Il
nostro mondo è la Terra intera e non il piccolo universo umano in cui
pensavano di essere signori del mondo i papi intorno all'anno Mille.
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63
La vita di fede come esperienza civile
La fede
può essere alla base di un’esperienza civile? In Italia a lungo si è pensato
che fosse possibile. Questo ha caratterizzato molto la nostra religiosità. Una
storia analoga si è vissuta in Germania. In altre regioni europee la fede
è stata integrata nel nazionalismo: ma questa è un’altra cosa. Mi riferisco, ad
esempio, alla Spagna e alla Polonia. In Italia al centro di tutto ci sono
stati dei valori e il coinvolgimento delle masse mediante processi democratici.
Tutto ciò è durato fino agli anni ’80, poi si è presa un’altra strada. A questo
punto, però, la fede e la vita religiosa possono apparire inutili.
Di
tutto ciò si sono avuti riflessi anche in parrocchia. Ne ho scritto molto in passato.
Ho ricordato i fermenti degli anni ’70. La situazione di oggi, a paragone con
quell’epoca, appare piuttosto impoverita. C’è meno gente, si fanno meno cose.
In passato, e molto a lungo, si è pensato che oltre a catechismo e
famiglia ci fosse poco di buono. In sostanza si sono rifiutati quasi due secoli
di storia, in cui la nostra Azione Cattolica è stata protagonista.
Negli
ultimi vent’anni c’è stato anche un problema di formazione del clero. Sono
venuti a collaborare molti sacerdoti stranieri, che non erano stati parte di
quella storia di esperienza civile di cui dicevo e neanche la conoscevano; non
conoscendola non l’apprezzavano neanche. E i sacerdoti italiani, a parte molte
eccezioni naturalmente, mi pare abbiano avuto una formazione molto ritualistica,
molto centrata sul sacro, sull’incenso e sugli accessori liturgici ad esempio.
Quando ho avuto occasione di avvicinare questi ambienti di seminaristi, mi ha
fatto impressione la grande quantità di incenso utilizzata, per cui me li
ricordo sempre circonfusi di questa nebbia azzurrina e profumata. E con noi
visitatori laici i futuri preti sembravano non avere molta dimestichezza:
certo, eravamo meno disciplinati di loro, introducevamo un elemento di disturbo
in qualche modo, ma, in fondo, non eravamo ilgregge, quelli a cui loro
erano destinati? E’ un po’ quello che accade nelle Messe per le Prime
comunioni, a cui partecipa molta gente che si vede bene non essere abituata
a stare in chiesa. Ma non è proprio questo il nostro
popolo? Quando lo si idealizza nei bei documenti del nostro supremo magistero,
popolo qui, popolo lì … tutto va bene, ma quando
il popolo esce dalla carta e diventa carne e sangue non fa più quella buona
impressione. E’ perché manca un’esperienza civile, di contatto e consuetudine in
cui ognuno sia ammesso veramente con la propria vita, in spirito repubblicano di
eguaglianza, rispetto, amicizia: così si entra in chiesa da estranei. Ma la
liturgia serve appunto anche asuscitare un popolo diverso,
per precorrere un’esperienza civile di quel tipo, per cambiare le cose intorno
a noi, per scoprirci più che fratelli, legati più che altro da una certa
storia biologica per cui abbiamo un po’ le stesse facce, ma anche e
soprattutto amici; non serve solo adeodorare gli
ambienti con questi nugoli di incenso.
Si è
puntato molto al perfezionamento interiore, cercandolo
di sorreggerlo con strutture di gruppo forti, che mi pare abbiano
vissuto un po’ una vicenda analoga a quelle di alcuni ordini religiosi,
le quali da luoghi di libertà personale dove vivere a pieno l’amicizia della
fede si sono trasformati in cupe prigioni, in particolare per le donne.
Ma la vita di fede non sta solo in questo.
Agli
albori del cattolicesimo democratico, nel 1797, scriveva il bolognese Nicolò
Fava Ghisilieri, in Riflessioni politico-morali raccolte da un
solitario ad uso della gioventù libera d’Italia [citato in Vittorio E.
Giuntella, La religione amica della democrazia - i cattolici
democratici del Triennio Rivoluzionario (1976-1799)]:
“Quand’è che
l’uomo può dirsi un buon cittadino? Allorché, rispettando le leggi, e i diritti
de’ suoi fratelli, rende dolce e amabile la società a suoi simili, e rendendola
dolce a se stesso non può non amarla. Come si ottiene ciò, se non co’ principi
della morale? Ma dove vi fu mai morale più precisa, più certa, più dettagliata,
più stabile della morale dell’Evangelo, non abbandonata però alle
interpretazioni in spirito privato de’ protestanti? Ciò si è già dimostrato. Il
più dolce, e il più soave processo, che c’imponga una simile religione, qual
altro è mai, se non quello della Carità? E non è forse nel sistema
repubblicano, che più si cerca di fraternizzare? Or qual religione vi è più
opportuna di questa a un tal uopo, se c’istruisce, e ci obbliga a riguardarci
tutti come fratelli. Le dissensioni civili, che son tanto nemiche della
Libertà, non trovano forse ostacolo, ne’ suoi precetti, che ci rendono rei
dinanzi al Giudice supremo persino dei temerari giudizi e delle maldicenze, che
lacerano l’altrui fama, non che degli odi covati a lungo nel seno?”
Ad uno
spirito religioso può non bastare di distinguersi dalla società, di starsene da
parte in un mondo tutto suo che, man mano che ci si separa, finisce per
diventare tutto fantasia, sogno, o peggio gioco di ruolo. E’ per questo che
siamo stati mandati nel mondo? Da giovane non avrei sopportato questa
prospettiva, che per altro non mi fu mai proposta, ma neanche da anziano mi ci
adatto. Però ci sono pochi posti in cui vivere un’esperienza civile animata
dalla fede. Uno deve fare da sé. Certe cose non te le spiegano in parrocchia e
nemmeno altrove. Viene tra noi uno come don Ciotti e sembra un marziano, una
persona da un altro mondo. Eppure intorno a lui ci sono tante persone di fede
che condividono la sua esperienza civile.
Da dove
ripartire?
Direi
dai più giovani perché in genere hanno più tempo per la formazione: è il loro
lavoro. Il tempo degli adulti è affollato di tanti altri doveri e ne rimane
poco per qualcos’altro. Oggi i più giovani ci sfuggono forse perché il modo in
cui presentiamo la religione la fa apparire inutile per loro, se non peggio. Il
nucleo di spinta di ogni organizzazione, quello che ne consente la costante
rigenerazione, è costituito dai ventenni/trentenni. Ma non basta che ci siano:
occorre che sappiano lavorare in società, che non la temano, che non ne
diffidino, che arrivino anche ad amarla. Spesso in religione prospettiamo loro
le fosche visioni del futuro che hanno i più anziani, e che anche i nostri
ultimi sovrani religiosi ebbero nella loro vecchiaia. L’immagine di una società
in disfacimento, corrotta, preda del peccato e di pulsioni di morte. Ma non c’è
solo questo intorno a noi.
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64
Condominio o repubblica
C’è una bella
differenza tra un condominio e una repubblica, anche se in entrambi si prendono
decisioni seguendo il metodo democratico.
In un
condominio ci si finisce perché si compra un appartamento e si diventa
proprietari anche di parti comuni, come l’ascensore. Si è scelta una cosa, ci
si serve anche di altre cose, però per queste si è obbligati a
farlo insieme agli altri. Se non ci fossero gli altri sarebbe meglio
o peggio? In fondo si pensa che sarebbe meglio. Non li si è scelti, con loro
bisogna solo condividere l’uso di certe cose. Ma chi li conosce veramente e,
soprattutto, chi li vuole conoscere? Fanno sempre un sacco di difficoltà nelle
decisioni comuni. Spesso hanno abitudini fastidiose e non le vogliono
cambiare. E probabilmente di noi pensano lo stesso.
Una
repubblica nasce quando ci si sceglie tra persone. L’obiettivo comune è creare
una società migliore, in cui si viva meglio, ad esempio in cui nessuno sia
abbandonato alla propria sofferenza. Gli altri sono molto importanti, le cose
molto meno. Ci si cerca perché si vive bene insieme. Al centro di una
repubblica ci sono dei valori: questo significa una certa concezione di
società. E poi la fedeltà a quei valori. Si è disposti a dare molto, anche la
vita, per realizzarli. Uno di essi, molto importante, è l’eguaglianza in
dignità, che significa rifiutare ogni tirannia. Si è sovrani in molti e questo
richiede di essere sovrani giusti, come raramente sono i signori della Terra.
Per diventarlo, giusti, perché raramente lo si è dall’inizio, la
giustizia infatti è una conquista culturale, occorre tener conto degli altri e
innanzi tutto mettersi in relazione, discutere, esaminare insieme le questioni,
i problemi, le soluzioni. Il metodo democratico non comincia quando si decide
che vinca la maggioranza, ma quando si attribuiscono ad
ognuno dei diritti fondamentali che nessuna maggioranza
può ledere. E’ questo che faceva degli antichi sovrani quelli che erano, ciò
per cui li si definiva sacri. Nella democrazia repubblicana ogni
persona è sacra, nel senso che ha diritti intangibili.
Questa è una concezione religiosa perché non dipende da ciò che si trova in un
qualche momento in società, dai rapporti di forze al suo interno, non è
qualcosa che oggi c’è e domani potrebbe cambiare. E non dipende nemmeno da come
vanno le cose in genere: religione è ribellarsi alla tirannia dell’esistente,
che certuni pensano eterno e che invece in una fede viene relativizzato, per
cui si scopre che non lo è affatto, che ha un prima in
cui non c’era e che avrà un dopo in cui non ci sarà più.
Ma c’è qualcosa che non passa? C’è. Dopo ogni incidente della storia ci si
ritrova insieme e si scopre che è ancora bello farlo. Come lo chiamiamo questo?
In religione lo si è definito, con un termine del greco antico, agàpe,
che richiama l’idea di un lieto convito in cui ce ne sia per tutti e nessuno
venga escluso. In italiano lo si traduce in tanti modi, con tante parole, che
però sembrano in genere usurate e quindi poco adatte a rendere l’idea. Repubblica potrebbe
anche andare bene, se però le affianchiamo l’aggettivo universale. Nessuno
escluso.
Alcuni dicono che bisogna cominciare a cambiare sé stessi, per cambiare il
mondo. E seguono vie di perfezionamento. Ma vedo che spesso in questa loro
sforzo di perfezione rimangono poi soli con sé stessi.
Gli esseri umani non sono fatti per essere così.
Questi cammini allora dove portano? Ci si perfeziona,
se uno proprio deve dare importanza a un fatto come questo, nell’agàpe,
crescendo con gli altri. E’ soprattutto il lavoro dei giovani, che da realtà
limitate e limitanti, come in genere sono le famiglie, devono aprirsi all’universale,
a tutto quello che c’è intorno.
Anche
in una parrocchia, come in ogni specie di società, si fa la scelta di
essere condominio o repubblica. Dipende
da che cosa pensiamo degli altri. Che cosa è il sacro per
noi: la statua del santo antico o l’essere umano che vive? La statua la
si condivide al modo dell’ascensore in un condominio,
con l’essere umano si entra in relazione.
La
nostra Cena rituale, con le povere cose che condividiamo, alle quali
però diamo un valore infinito perché ci mettono in relazione
benevolente e universale, non è forse la celebrazione dell’agàpe religiosa?
Farne una realtà condominiale sembra impossibile, eppure
è una via che qualche volta si è seguita, fondamentalmente per il fastidio che
certi altri portano nell’allestimento scenografico. Evocare una realtà universale,
in cui nessuno sia escluso, in cui ognuno sia sacro… Ma non è meglio
essere in meno a condividere, in modo che ce ne sia di più per
quelli che ci sono? Questa è fondamentalmente la ragione politica della
crisi della nostra nuova Europa comunitaria. Ecco allora che si fa molto conto
delle cose e non si ragiona nell’ottica della moltiplicazione,
quella per cui nell’agàpe l’inventario contabile di
ciò che c’è non rende l’idea delle possibilità che ci sono nella benevolenza
universale, di come, quando si fa posto agli altri, poi c’è n’è per tutti e ne
avanzano ceste e ceste, come è scritto. Gente di poca fede, e di poca umanità,
stiamo diventando in Europa. Da dove possono venire le risorse per cambiare? La
nostra fede ne ha molte. Molti dei valori repubblicani europei originano
da essa. L'ideologia fondamentale della nostra nuova Europa è piena dei valori
della nostra fede, quindi la nostra fede può essere una risorsa per
rigenerarla. Se però si riesce a viverla con spirito repubblicano.
Può sembrare paradossale con i tanti prìncipi del clero che ci
portiamo dietro e a cui dobbiamo fare spazio. Ma la loro autorità è cambiata:
ci hanno fatto spazio. Ed è questo spazio che noi laici dobbiamo riempire in
spirito repubblicano e non condominiale.
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65
Fedi omicide
Ci sono
nel mondo di oggi persone che manifestano le loro convinzioni religiose
uccidendo e uccidendosi. Il principale loro bersaglio sono quelli della loro
stessa fede: è tra essi che fanno il maggior numero di morti. L’Europa c’entra
perché è la sua cultura che è criticata: infatti vengono colpiti quelli che
vivono all’europea.
Parlando di questioni culturali,
bisogna dire che condividiamo con altre fedi monocratiche un importante
patrimonio culturale e che in quest’ultimo c’è anche l’antico comando di
sterminio degli infedeli e degli apostati,
quelli che hanno rinnegato la propria fede di prima. Leggiamo pagine tremende
in merito negli scritti sacri originati dall’antico ebraismo. Ma anche parti di
quelli formatisi nelle nostre prime collettività di fede sono stati
interpretati in quel senso nel corso della storia.
Di fatto le nazioni che abbracciarono
la nostra religione si resero responsabili di orrende stragi per ragioni
religiose, che nelle Americhe divennero addirittura genocidio. In Europa ebbero
motivazioni religiose i pogrom, le periodiche persecuzioni
antiebraiche, attuati in Polonia e Russia.
Strumentalizzarono la nostra fede
i razzismi nordamericani e sudafricani. L’organizzazione razzista
nordamericana Ku-Klux-Klan celebrava i suoi delitti con croci
infuocate.
La particolarità della religiosità
omicidiaria contemporanea è l’autoannientamento degli stessi omicidi, in un
quadro di martirio religioso, di testimonianza di fede nella
prospettiva di una ricompensa soprannaturale, in un aldilà. E’ qualcosa di
diverso dal cercare la morte in battaglia. Infatti, di solito, sono colpiti
degli inermi e la morte dell’omicida non è solo una eventualità, ma una
sicurezza, come nel caso di quelli che si fanno esplodere in ambienti
affollati. L’autoannientamento ha ragioni politiche e serve a potenziare
l’effetto terroristico di queste azioni stragiste, ma anche a ostacolare le
indagini, eliminando la possibilità di dichiarazioni dei colpevoli.
La fede, e in particolare una
fede basata sulla cultura biblica, può essere stragista? Poiché di fatto lo è
stata, attraverso i secoli, dobbiamo riconoscere che lo può essere. Perché, in
genere, non lo è più? Perché c’è stata una conquista culturale derivata dai
processi democratici originati in Europa e nel Nord America, per cui si è
riusciti a far convivere pacificamente religioni esclusiviste, le
quali quindi in linea di principio escludono la possibilità di altre fedi.
Questi sviluppi hanno coinvolto entrambe le due maggiori fedi monocratiche del
mondo, ma anche, e da tempi molto più antichi, l’ebraismo. Quest’ultimo, dopo
la distruzione della propria entità politica nel Vicino Oriente e la diffusione
in Europa e in altre parti del mondo, si è trovato a dover convivere con popoli
di altri fedi, e ha sviluppato una corrispondente religiosità.
Quello che emerge dalle stragi di
questi anni, commesse con moventi religiosi, è che con la teologia si può
convincere la gente di tutto, veramente di tutto. E che quindi la teologia ha
molte e serie controindicazioni. Naturalmente serve gente che, per qualche sua
ragione, non è più disposta ad esercitare qullo spirito critico che è la base
della convivenza civile.
In Europa non si uccide più per
moventi religiosi tratti dalla nostra fede, ma ancora si discrimina. Ci si
convince, ad esempio, che la donna è inferiore all’uomo e che ha un destino
servile. O che certe famiglie non sono vere famiglie e non vanno riconosciute
come tali. Bergoglio qualche giorno fa ha detto che dobbiamo chiedere perdono
agli omosessuali, e qualche ragione evidentemente c’è. Si tratta di
discriminazioni su basi teologiche che la teologia non riesce ancora a
superare. L’ultima grande persecuzione motivata da ragioni religiose della
nostra fede è stata quella contro i modernisti, attuata all’inizio del secolo
scorso dal papa Giuseppe Melchiorre Sarto. Fu molto dolorosa. Colpì animi buoni
e di grande valore. Qui la teologia è molto cambiata.
Nel mondo contemporaneo, in cui
vive un numero di gente enormemente superiore che nel passato e in cui ci siamo
intensamente legati gli uni con gli altri nei processi economici, è
indispensabile che le religioni convivano pacificamente. Esse sono necessarie
per conservare l’umanità del nostro vivere, ma a condizione che nessuna
pretenda l’esclusività. Altrimenti diventano disumane e fanno vivere male.
Uccidono. La soluzione è di promuovere di generazione in generazione quel
processo culturale per cui in concreto esse possono convivere. Significa
accentuare i processi democratici, secondo i quali la persona umana ha diritti
fondamentali intangibili, che ruotano intorno al diritto alla vita. E’ l’antico
comandamento Non uccidere! che in democrazia viene preso molto sul
serio, tanto che, ad esempio, nella nostra nuova Europa non c’è più la pena di
morte. E poi costruire e sostenere, nella gente, con un’adeguata
formazione e anche in sede religiosa, la capacità critica, per cui, ad esempio,
si riesca a distinguere in eventi come quelli del Bangladesh i loro veri
moventi, al di là della paccottiglia ideologica religiosa che li riveste. E’
quello che facciamo nella nostra fede accostando il tema storico delle Crociate.
Gli assassini vogliono farci
odiare gli uni gli altri, è stato osservato da più parti in questi giorni: la
giusta reazione quindi non è quella di odiare, perché sarebbe fare quello che
quelli vogliono da noi, ma di attuare e intensificare forme di convivenza
pacifica tra genti di fedi diverse. Nel mondo di oggi è possibile e in genere
accade: gli odiatori religiosi sono sparute minoranza, ormai, per nostra buona
sorte.
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66
Le religioni e il tribunale della coscienza e della ragione
(16 luglio 2016)
Solo da quale decennio la nostra
religione ha aderito alla cultura della pace universale, e ora ci sembra
assurdo che potesse essere altrimenti. Ma non lo è.
Storicamente la nostra religione è
stata mortifera quanto, e, al tempo della sua diffusione mondiale, addirittura
molto più delle altre religioni coeve. Condivide un importante patrimonio
culturale con le altre principali religioni monoteistiche e in esso vi è il
germe della violenza stragista. L’ebraismo della nostra era lo ha superato, al
tempo della sua dispersione tra le genti, e ha costituito un buon esempio di
come farlo. Noi ci abbiamo messo molto più tempo, essenzialmente perché
la nostra fede è diventata e rimasta a lungo strumento di potere, e potere
e violenza sono strettamente legati.
I grandi principi umanitari che
costituiscono il nerbo dell’etica sociale e politica dell’Occidente
contemporaneo furono proclamati, a fine Settecento, nel corso di due
rivoluzioni, quella nord americana e quella francese, che espressero una
notevole violenza, in particolare la seconda. Eppure quei principi condussero
alla cultura dei diritti fondamentali della persona e al rifiuto della violenza
pubblica, compresa la pena di morte, della nostra nuova Europa. Occorse però il
bagno di sangue della Seconda guerra mondiale per produrre questo risultato.
Con la laicizzazione delle istituzioni pubbliche le religioni cessarono, in
Occidente, di costituire fattore di ordine pubblico e furono liberate dalla
loro violenza. Nella nostra religione, i teologi ci spiegarono come fare per
vivere la fede in modo molto diverso dal passato e, innanzi tutto, che si
poteva, e anzi si doveva farlo. E’ il processo che venne denominato purificazione
della memoria. E’ pur vero, però, che, anche ai nostri tempi,
dobbiamo riconoscere, come scriveva Aldo Capitini, che solo ieri
eravamo violenti.
Sarebbe bello constatare che il
rifiuto della violenza si sia prodotto storicamente per virtù propria
della nostra religione, ma purtroppo non avvenne così. Gli strumenti della
violenza ci dovettero essere strappati dalle mani, dagli stati liberali, e non
di rado ne esprimiamo anche una certa nostalgia.
Ci stupisce la violenza collettiva
a sfondo religioso espressa nel Vicino Oriente e la pretesa di altre religioni
monoteistiche di monopolizzare le religioni dei popoli, di ridurre tutte le
altre fedi a culti tollerati (nel migliore dei casi) o di
annientarle (nei casi limite): ma questa è stata anche la nostra cultura fino
all’altro ieri e ciò fin dalle origini. Ci vantiamo di essere stati, nei tempi
antichi, distruttori di idoli, ma in realtà questo significa essere stati
persecutori religiosi. La distruzione stragista del soprannaturale altrui fu
eclatante nella colonizzazione europea della Americhe.
La violenza per sottomettere le
donna e quella contro gli omosessuali fanno parte della nostra cultura
religiosa, delle nostre radici bibliche, e infatti ciclicamente si manifestano
ancora tra noi.
Chi oggi prenderebbe alla lettera
il comando biblico di sterminare gli infedeli? Eppure a lungo lo si è fatto, ad
esempio nella distruzione delle culture native americane e nelle guerre di
religione europee.
Sulla via del contrasto della
violenza bellica ebbe i suoi guai il nostro Lorenzo Milani, nella sua polemica
contro i cappellani militari italiani che avevano trattato da vili gli
obiettori di coscienza. Si era, appunto, nell’altro ieri della
nostra storia religiosa.
Per gran parte dei due millenni
della nostra storia religiosa si è stati convinti che in guerra un qualche dio
fosse con noi, nel mentre facevamo a pezzi gli altri. Lo stesso che avrebbe
dato una ricompensa eterna, in un qualche suo paradiso, ai morti sul campo di
battaglia. Questo fu appunto lo spirito penitenziale con cui
si affrontarono storicamente le “crociate”.
Si insegna, in religione, che la
nostra è un fede che ci porta oltre la morte: sicuramente la nostra religione è
stata utilizzata per contenere la paura della morte, specialmente in battaglia.
L’etica del milite europeo è stata, molto a lungo, anche religiosa.
Oggi ci definiscono “crociati”, ma
è solo perché non ci conoscono bene. La nostra buona battaglia religiosa
non è più quella della guerra. Abbiamo imparato la lezione di uno come Immanuel
Kant che consigliava la pace perpetua e invitava a vergognarsi
della vittorie belliche. E allora c’è una vecchia religione
che abbiamo abbandonato e una nuova religione alla quale
e nella quale ci siamo aperti. Nella violenza con pretesti religiosi di questi
giorni vediamo allora noi stessi come eravamo solo l’altro
ieri.
Ad un certo punto abbiamo portato
la nostra religione davanti al tribunale della coscienza e della ragione e ci
siamo ritrovati noi stessi sul banco degli imputati: la religione era solo lo
specchio di noi stessi, di come volevamo essere.
In un’umanità di otto miliardi di
persone, strettamente interconnessa, per cui quasi tutti gli oggetti di nostro
uso quotidiano vengono prodotti dall’altra parte del globo, è ancora
ammissibile poter sostenere lo sterminio degli infedeli, e tante altre
cose della vecchia religione? Ad esempio tutto il
sessismo che troviamo nelle nostre scritture, per cui un certo pluralismo in
questo campo provocherebbe l’ira soprannaturale, lo sterminio, la pioggia di
fuoco e simili. Non è, questa concezione, una bruttura solo degli altri,
è anche nostra. E’ solo l’altro ieri che una donna non poteva
entrare in chiesa senza coprirsi il capo.
Questo portare la religione, e noi
stessi, davanti al tribunale della coscienza e della ragione è il secolarismo.
Benedetto secolarismo se ci ha portato la pace, se ha tolto la violenza alle
religioni, quella che di questi tempi ci si scaglia addosso provenendo da un
medioevo che si manifesta in mezzo a noi e dall’altra parte del nostro piccolo
mare! Ricordiamo che anche noi fummo così, solo l’altro ieri.
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67
La Nazione
Nella
Costituzione vigente si fa riferimento al concetto di nazione in tre punti, e
in due di essi si parla di "Nazione", con l'iniziale maiuscola. È
scritto che i "parlamentari" (deputati e senatori) rappresentano la
"Nazione" (art.67). I pubblici impiegati sono al servizio della
"Nazione" (art.98). Il Presidente della Repubblica rappresenta l'
"unità nazionale" (art.87).
Che cosa è la "Nazione"?
La Costituzione non lo precisa. Non c'entrano lingua, stirpe e religione,
perché esse non possono essere fattori di particolare connotazione della
Repubblica: lo stabilisce L'art.3 della Costituzione. Di ciò che in genere, in
campo culturale, si ritiene definire la nazione, rimane una storia comune, che
significa anche una consuetudine di vita comune, di convivenza pacifica, in
particolare sotto il profilo politico, e solidarietà civile.
La storia della nostra costruzione
nazionale è stata particolarmente travagliata. Si dovettero combattere anche
resistenze politico/religiose, perché essa si fece anche contro il papato,
nell'Ottocento. Fatta l'Italia, si dovettero fare gli italiani, come fu
osservato. Da un certo punto di vista, l'Italia unita, politicamente
organizzata intorno alla monarchia Savoia, era fatta di tante nazioni, ciascuna
con una propria storia particolare, una propria lingua e una propria cultura.
L'Italiano era solo lingua letteraria. I Re Savoia parlavano correntemente
francese e piemontese. La gran parte della gente era analfabeta e quindi
confinata nelle culture particolari. Nella storia d'Italia, quindi, quando ci
riferisce alla Nazione, si intende una realtà che si è venuta costruendo
nell'arco di circa un secolo tra Ottocento e Novecento, in particolare sulla
base dell'ideologia politica di Giuseppe Mazzini. Nazione significa gente che
volle vivere insieme, per non essere "calpesti e derisi", e lo
eravamo perché non eravamo popolo, perché eravamo divisi, proprio come si canta
nell'inno nazionale. L'unità culturale italiana fu conseguita però, veramente,
solo nel secondo dopoguerra, in particolare per le vie dell'istruzione pubblica
di massa e di radio e televisione. È a partire da questa epoca che veramente la
Nazione si manifestò. Ed è significativo l'abbandono dei progetti
secessionistici che ebbero corso negli anni Novanta. Cercarono di parlare ai
popoli ma tra i popoli italiani ebbero un limitato seguito.
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68
Degrado della politica ed eclisse del Parlamento
(3-11 agosto 2016)
68.1. Nel corso dei passati anni '90 si cominciò a presentare il Parlamento
come un'istituzione troppo affollata, inutilmente complicata, troppo lenta nel
decidere, troppo costosa, e i parlamentari come un ceto parassitario. La
ragione può essere individuata nel degrado della politica che si era
manifestato nel corso del decennio precedente. Esso era dipeso fondamentalmente
dalla degenerazione della politica controllata dai partiti, che si presentarono
platealmente, nel corso di inchieste giudiziarie svolte con una certa
sistematicità dal 1992, come minati dalla corruzione. Essi infatti avevano
preso a finanziarsi pretendendo una quota del denaro pubblico erogato per
appalti pubblici da chi aveva assunto gli appalti. E influivano sulla scelta
degli appaltatori, facendo preferire illegalmente quelli che avevano accettato
di versare quel tributo. I partiti avevano preso consapevolezza di questi fatti
molto prima che emergessero in sede giudiziaria: all'inizio degli anni Ottanta
si iniziò a parlare di " questione morale" e si faceva riferimento
proprio al fatto che i partiti avevano iniziato a controllare a proprio
beneficio, non nell'interesse pubblico, ogni settore della vita nazionale in
cui venivano spese risorse pubbliche.
Ma la corruzione pubblica non fu
l'unica ragione del degrado. Un'altra può essere individuata nella dissoluzione
del sistema sovietico, a cavallo tra gli anni '80 e gli anni '90, e nella
contemporanea metamorfosi del Partito Comunista Italiano, che attenuò le
istanze critiche verso la società di quel tempo. La presenza in Italia del più
forte partito comunista dell'Occidente democratico era stata storicamente un
potente stimolo, nel secondo dopoguerra, alla costituzione e mantenimento di
partiti politici forti e strutturati che gli si opponevano, cercando in
particolare di contendergli l'influsso sui lavoratori. La presenza
dell'opposizione comunista, con la sua ideologia fortemente centrata sui temi
della giustizia sociale e sulla riforma dello stato nel senso della piena
attuazione dei valori e principi costituzionali, con la sua critica politica
irriducibile, colta, perseverante, avevano indotto i partiti che ai comunisti
si opponevano a tener conto di coloro che nella società stavano peggio e a una
più attenta selezione del ceto politico ammesso a occuparsi in Parlamento degli
affari di stato. Il partito originato dalla riforma di quello comunista non
ebbe lo stesso effetto, perché si comincio a pensare che il capitalismo di tipo
statunitense e la società da esso prodotta non avessero alternative. Si scrisse
addirittura di una " fine della storia". In Italia l'idea di
sviluppo sostituì quella di giustizia sociale, che era stata alla base delle
ideologie dei partiti popolari. Lo sviluppo divenne faccenda da tecnocrati e le
basi sociali dei vecchi partiti di massa un ostacolo. I neo-partiti del nuovo
corso tesero a ricostruirle come comitati elettorali e non ne curarono più la
formazione politica. I movimenti laicali cattolici furono tra le poche
formazioni sociali a continuare a occuparsene sulla base dell'esteso corpo
ideologico della dottrina sociale e del pensiero sviluppato nelle università
religiose.
Che c'entrano i partiti con il
Parlamento? La loro occupazione del Parlamento non è all'origine del
progressivo minor credito dell'istituzione tra la gente?
In realtà, nel sistema
istituzionale disegnato nella Costituzione repubblicana entrata in vigore nel
1948, approvata dall'Assemblea Costituente nel 1947 al termine dei suoi lavori
svolti dalla metà del 1946, il nesso tra partiti politici e Parlamento era
fondamentale per realizzare la sovranità popolare, quindi un sistema politico
in cui le masse avessero voce in capitolo sulle sorti dello stato. Infatti il
popolo che i costituenti vollero elevare alla sovranità non era composto da
individui atomizzati, ma da collettività politiche organizzate nei partiti,
attraverso i quali i cittadini avrebbero potuto/dovuto concorrere a determinare
la politica nazionale (come è scritto nell'art.49 della Costituzione). Ed erano
stati infatti i partiti politici a organizzare la guerra di Resistenza contro
l'ultimo fascismo, dal settembre 1943, a riorganizzare le basi collettive e
ideologiche della politica democratica nel corso di quella lotta e, infine, a pretendere
la guida dello stato dopo la caduta del regime e a progettarne la riforma Anche
le basi culturali e giuridiche del nuovo stato democratico erano state ideate e
proposte in seno ai partiti.
Il faticoso processo di
elevazione del popolo alla cittadinanza democratica si era anche prima espresso
nei partiti di popolo, fin dalla seconda metà dell'Ottocento. Per i partiti di
popolo, che si proponevano di organizzare politicamente le masse, il metodo
democratico fu una conquista culturale, da un'iniziale diffidenza, determinata
dal fatto che la democrazia liberale che aveva realizzato l'unità nazionale era
stata un fatto elitario, essenzialmente espressione di una borghesia
illuminata, in una situazione in cui il diritto di voto era attribuito a meno del
10% della popolazione.
Il primo grande partito politico
di massa italiano fu oggettivamente, al di là delle formali prese di distanza,
la Chiesa cattolica e fu inizialmente antidemocratico. Questo segnò profondamente la
storia nazionale. L’accettazione dell’ideologia democratica da parte della
Chiesa cattolica, nella vita civile e, cautamente, anche nelle organizzazioni
laicali, maturò tra il 1941 e il 1991.
68.2. La crisi dei partiti
politici italiani ha portato ad un degrado della politica.
L'affermazione della democrazia
di popolo fu storicamente legata in modo molto stretto all'affermazione dei
partiti di massa e alla conquista culturale, da parte di essi, dei principi
democratici. Quest'ultima si manifestò in particolare nel lavoro parlamentare, che
determinò la formazione di una classe politica di derivazione popolare e al
popolo collegata in maniera vitale.
Il primo partito politico italiano
popolare, di massa, può essere considerato, sotto certi aspetti, la Chiesa cattolica, naturalmente intesa come
realtà di rilevanza sociologica, non nei suoi aspetti soprannaturali descritti
dalla teologia. Questa realtà politica della nostra Chiesa ci interessa
particolarmente come fedeli e cittadini italiani.
Bisogna ricordare che la Chiesa
cattolica ha cominciato a sviluppare un pensiero propriamente politico molto
precocemente, fin dal primo secolo della nostra era. Proprio Clemente romano, a
cui è intitolata la nostra parrocchia, ne fu una delle fonti. Successivamente,
dal Sesto secolo circa, la Chiesa cattolica divenne una attrice propriamente
politica e dall'Undicesimo secolo un soggetto politico sovrano, non più
feudatario di altre entità politiche. Tuttavia, fino alla metà dell'Ottocento,
agì politicamente al modo delle altre monarchie europee, trattando i popoli
solo come un insieme di sudditi e valendosi della sua autorità sacrale per
accreditare le proprie gerarchie in politica. Dall'Undicesimo secolo si
strutturò giuridicamente come un impero politico/religioso e questa
configurazione è quella che fondamentalmente ha e rivendica ancora oggi, pur
dopo le molte riforme che si è data con il Concilio Vaticano secondo
(1962-1965). Ha cominciato ad agire politicamente come un partito di massa in
concomitanza con la conclusione del processo di unificazione nazionale italiano
e più precisamente tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta dell'Ottocento,
quando la gerarchia del clero si rese conto che non avrebbe recuperato il suo
piccolo regno nell'Italia centrale, con capitale Roma, appoggiandosi agli altri
sovrani europei. A quel punto diede il via libera all'attivismo sociale del
laicato di fede italiano, che già si era venuto organizzando spontaneamente per
sostenere le pretese politiche del Papato. Tuttavia i papi accentrarono nelle
loro mani la direzione politica di quello che rapidamente assunse forma di
movimento di massa: essi divennero sostanzialmente i capi del primo partito
politico di massa, diffuso capillarmente sul territorio, che ebbe nell'Opera
dei Congressi, fondata nel 1871, praticamente all'indomani della caduta del
Regno pontificio, la sua centrale di coordinamento nazionale e nel socialismo
molti riferimenti ideali quanto a giustizia sociale e modi di intervento a
favore delle masse. L'enciclica "Le novità", del papa Gioscchino Pecci,
Leone 13°, diffusa nel 1891, fu il suo
manifesto ideologico. Essa è tutta in polemica con il socialismo, ma ne recepì,
dando loro una copertura teologica, molti degli ideali. In particolare diede il
via libera all'attivismo sociale nelle masse con finalità di elevazione
sociale.
Altri partiti di massa furono il
Partito socialista, fondato nel 1892, il Partito Repubblicano, di ideologia
mazziniana, fondato nel 1895, e, più tardi, quando finalmente il Papato rimosse
il divieto per i fedeli cattolici di partecipare alla politica nazionale
nell'attività parlamentare, il Partito Popolare Italiano, fondato dal prete don
Luigi Sturzo e da altri esponenti cattolici nel 1919. Nel 1921 vennero fondati
il Partito Comunista Italiano e il Partito Nazionale Fascista, entrambi collegati
all'esperienza socialista, in quanto il primo originò per scissione dai
socialisti e il secondo ebbe in Benito Mussolini, che era stato uno dei massimi
esponenti del socialismo italiano, il suo "Duce", vale a dire
il capo supremo carismatico. Nel corso della Seconda guerra mondiale, nel 1942,
sulla base dell'esperienza del Partito Popolare e di quella dei giovani
intellettuali cattolici formatisi alla democrazia negli anni del fascismo, in
particolare nella FUCI (gli universitari cattolici), nel Movimento
Laureati e nell'Università Cattolica di Milano, fu fondata la Democrazia
Cristiana, la quale ebbe in Alcide De Gasperi uno dei suoi principali
esponenti. Infine, nel 1946, esponenti del disciolto Partito Nazionale Fascista
fondarono il Movimento Sociale Italiano, partito che ebbe un seguito
popolare significativo, in particolare a Roma dove fu a lungo il terzo partito
cittadino, e che, pur nell'accettazione dei principi istituzionali e dei metodi
della nuova democrazia repubblicana, riproponeva alcuni temi del fascismo
storico, in particolare l'anticomunismo, il nazionalismo, la preferenza per un
Governo nazionale forte e accentratore, un certo militarismo, un'etica sociale
basata sul principio gerarchico, un'etica familiare maschilista e paternalista,
un ordinamento sindacale ispirato al corporativismo, che escludesse quindi il
conflitto sociale tra lavoratori e datori di lavoro.
Ecco dunque descritti i principali
attori dei processi democratici dai quali, dalla metà degli anni Quaranta del
secolo scorso, originò la nostra democrazia repubblicana popolare, centrata sul
Parlamento, quella che bruscamente entrò in crisi all'inizio degli anni
Novanta.
68.3. La politica italiana è entrata in
crisi negli scorsi anni '70.
Nel secondo dopoguerra si era
prodotto in Italia, negli anni Cinquanta e Sessanta, un lungo periodo di
espansione economica basato su due fattori: il basso costo dell'energia e del
lavoro. Questo aveva favorito il varo di una estesa normativa di carattere
sociale a favore della popolazione meno ricca. Essa rientrava nei programmi sia
del partito egemone, la Democrazia Cristiana, ispirati alla dottrina sociale
della Chiesa, sia in quelli di socialisti e comunisti. Questo produsse anche
movimenti di rivendicazione sociale per ottenere ulteriori miglioramenti. Le
tensioni sociali giunsero al culmine nel corso degli anni '70, quando un
improvviso aumento dei prezzi del petrolio come ritorsione degli stati arabi
per la questione palestinese indusse una lunga crisi economica. Furono anni colpiti
da fatti di terrorismo politico gravi e ripetuti. In questo periodo i partiti
di governo iniziarono a contrattare il consenso sociale a fronte di provvidenze
a varie categorie. Il governo all'epoca aveva un largo margine d'azione in
quanto, direttamente o partecipando al capitale azionario di società d'impresa,
controllava larga parte dell'economia. E non aveva i limiti di bilancio imposti
oggi dalla partecipazione all'Unione Europea. Lo scontro politico si fece meno
ideologico, anche per l'evoluzione in del Partito Comunista Italiani, che
proprio in quegli anni prese una posizione molto più autonoma dai partiti
comunisti dell'Europa orientale. Questo però fece degenerare la politica,
perché le varie categorie cominciarono a ragionare in termini di tornaconto
particolare invece che di interessi nazionali. Si produsse una "crisi di
legittimazione" della politica e una conseguente " crisi di
governabilità". Mio zio Achille, sociologo bolognese, ne trattò in un
libro del 1980 intitolato "Crisi di governabilità e mondi vitali". I
"mondi vitali" sono quelli che forniscono alle persone il senso della
vita, ad esempio le famiglie o le comunità religiose, ma anche alcune
collettività politiche. Mio zio vedeva nella crisi di queste realtà di mondo
vitale la causa della perdita di senso della politica, che quindi doveva
"comprare" il consenso politico a costi crescenti e insostenibili. La
soluzione alla crisi della politica era quindi per lui sostenere quei mondi
vitali, innanzi tutto con un lavoro di formazione e di sostegno. Per altri la
soluzione giusta era invece quella di consentire al governo di non dover più
"contrattare" il consenso politico, attribuendo un maggiore potere a
chi alle elezioni fosse risultato preferito, un potere non più "proporzionale"
al suo "peso" elettorale. Chi vinceva alle elezioni doveva avere
garantita la maggioranza parlamentare che lo sosteneva, fino alla tornata
elettorale successiva. Tutti i progetti di modifica istituzionale della
politica abortiti o approvati dagli anni '80 sono andati in questo senso. La
proposta di mio zio fu seguita dalla Democrazia Cristiana agli inizi degli anni
'80 cercando di coinvolgere in un nuovo progetto di riforma sociale la base
cattolica, ma questa iniziativa non ebbe successo, venendo penalizzata alle
elezioni politiche, per la ragione che nel frattempo il partito aveva virato a
destra, laicizzandosi molto, e le realtà sociali cattoliche faticavano a
riconoscersi in esso.
Negli
anni della Repubblica democratica, caratterizzati da intensi scontri ideologici
e politici, il Parlamento, con le sue due Camere, ha fatto il lavoro che ci si
attendeva, vale a dire ha garantito la stabilità democratica, nella progressiva
attuazione della Costituzione, pur nel veloce mutare dei governi in carica. Il
sistema fu "bloccato" fino all'inizio degli anni Novanta, in quanto i
partiti che si riconoscevano nell'ideologia dell'Occidente democratico e
capitalista avevano convenuto di lasciare il Movimento Sociale Italiano, per i
suoi legami culturali con il fascismo storico, e il Partito Comunista Italiano,
per quelli con l'Unione Sovietica, fuori delle coalizioni di governo.
Tuttavia il lavoro parlamentare aveva consentito di accogliere,
traducendole in norme di legge, alcune istanze di giustizia sociale dell'opposizione
comunista e di dare comunque voce a quella "missina" ( come venivano
chiamati gli aderenti al Movimenti Sociale Italiano). E questo rispondere alle
attese aveva riguardato anche il Senato, che aveva svolto il ruolo di Camera
"alta" che gli era stato proprio di dalla sua istituzione nel Regno
Sabaudo, nel 1848. In una società che non era ancora invecchiata come
l'attuale, il solo fatto che i suoi membri fossero almeno quarantenni aveva
garantito quella maggiore riflessività e ponderazione che ci si aspetta dagli
anziani. Ma non era stato solo questo: i partiti politici, nello scegliere i
candidati, vi avevano mandato le loro persone più autorevoli. La presenza, come
membri di diritto, degli ex Presidenti della Repubblica, e quella dei cittadini
nominati da questi ultimi per avere "illustrato la Patria" aveva
rafforzato questa immagine. Insomma, almeno fino agli inizi degli anni '90, il
Senato non apparì assolutamente come una istituzione inutile, come è stata
presentata dai fautori della riforma costituzionale respinta nel 2016 mediante
un referendum popolare, anche se i
costituzionalisti, fin dai tempi della Costituente, consigliavano di
specializzarne le funzioni in modo che non fosse un puro e semplice
"doppione" della Camera dei deputati. In effetti il Senato non lo fu
mai, almeno fino agli anni Novanta, quando si manifestò la politica come ora la
viviamo, l'epoca di quella che venne chiamata "Seconda Repubblica",
che è quella in cui caddero tutte le preclusioni di un tempo all'accesso al
governo di certe forze politiche e, nel medesimo tempo quella in cui la
politica parlamentare, paradossalmente, iniziò ad essere considerata una perdita di
tempo.
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69
La sfida
della pace
(21 febbraio
2016)
L’idea di una pacifica convivenza
tra i popoli a livello mondiale è recente e origina nelle culture più
fortemente improntate dalla nostra fede religiosa, dal secondo dopoguerra.
Fondamentale fu l’esperienza storica dei totalitarismi politici e ideologici
europei dal primo dopoguerra, diffusisi in popoli di antica civiltà religiosa.
La fede religiosa non sembrò aver costituito un ostacolo insuperabile alle
divisioni e ai conflitti, anzi il più delle volte vi fu coinvolta. Un esempio
spettacolare di ciò si ebbe durante il regime mussoliniano, in Italia, con il
quale la nostra gerarchia religiosa, ma non tutta la gente di fede, accettò di conciliarsi.
Lo stradone in stile cimiteriale che celebra quell’evento, e che fu realizzato
distruggendo un antico quartiere popolare e deportandone gli abitanti, ne è
ancor oggi l’immagine: la larga via che all’epoca fu aperta portava al regime
mussoliniano e la Conciliazione con il papato fu senz’altro uno dei
maggiori successi politici e ideologici del fascismo italiano. Con il senno del
poi dobbiamo riconoscere che può dirsi l’opposto per il papato, anche se la
sistemazione politica che fu data all’epoca vige tutt’oggi. La nuova via della
pace ha avuto anche il senso di una conversione in
senso religioso.
La novità delle concezioni contemporanee
sulla pace diffuse in Occidente è che esse non prevedono l’assimilazione dei
popoli in un’unica fede o in un’unica ideologia, ma si propongono la convivenza
delle diversità. Questo è stato il punto debole della nostra bimillenaria
esperienza di fede.
Se leggiamo storie delle nostre
collettività religiose risalenti ancora alla metà degli anni Sessanta le
troviamo viziate da un’incredibile faziosità, secondo la sensibilità
contemporanea naturalmente. Quelle cattoliche sono in genere veramente ossessionate
dal tentativo, realisticamente piuttosto difficile, di far risalire
l’organizzazione del papato imperiale del secondo millennio ai
primi secoli della vita delle nostre collettività religiose.
Studiando i libri di storia
religiosa si capisce perché la materia in essi trattata non è utilizzata, in
genere, nella formazione religiosa comune, quella rivolta a tutti e non alla
particolare cerchia degli specialisti o dei preti e religiosi. Innanzi tutto è
piena di polemiche durissime delle quali oggi è arduo capire l’importanza per
la vita di fede. E’ poi esprime una violenza ideologica e verbale, ma anche
fisica che è intollerabile con la mentalità di oggi.
A partire dal Quinto secolo
i gerarchi religiosi latini si separarono da quelli di cultura greca, derivati
dalle nostre più antiche collettività religiose, su questioni attinenti alla
persona del Fondatore che vennero presentate in modi oggi (ma anche all’epoca)
accessibili solo agli specialisti. Che riflesso potevano aver avuto sulla vita
della gente comune? Davvero i popoli che aderirono alle concezioni
ritenute errate dai gerarchi romani erano cattivi? Durante diverbi
tra gerarchi religiosi su quelle questioni, nel 449 a Efeso, una città di
civiltà greca sulle coste mediterranee dell’attuale Turchia, il vescovo di
Costantinopoli Flaviano fu picchiato e morì poco dopo.
Ai tempi nostri l’argomentare dei
teologi, almeno quando si rivolgono alla gente comune, è diverso. Si ragiona
sull’esperienza comune per poi spiegarne il senso religioso. Ha maggiore
importanza l’antropologia, la questione di come viene considerato l’essere
umano nelle sistemazioni ideologiche che vengono proposte. Questo modo di
procedere ha portato a un riavvicinamento con culture religiose della nostra
stessa fede dalle quali ci si era separati. Questo è avvenuto con le
collettività religiose che si sono riorganizzate sulla base dei principi
religiosi proposti da Lutero, Calvino e altri riformatori religiosi del secondo
millennio. Con i greci, i popoli di cultura ellenistica dai quali
ci si è separati molto prima, c’è la difficoltà che le loro antiche
collettività in Oriente sono in gran parte finite sommerse, sovrastate,
dall’altra grande fede monoteistica diffusa in quelle regioni a partire dal
Settimo secolo. Si cerca allora di riconciliarsi con
i loro eredi, con l’ortodossia dell’Europa orientale e si scopre che non
ci dividono da essa questioni di fede veramente fondamentali, ma essenzialmente
l’assetto istituzionale imperiale del papato romano che fu dato nel basso
medioevo. Ma è soprattutto la pacifica coesistenza nelle stesse nostre città
con quelli delle altre confessioni a fare la differenza dal passato. Si scopre
che si può vivere insieme, conoscendosi si finisce per stimarsi, e allora tutti
gli arzigogoli teologici si appianano. In Italia molte chiese ortodosse hanno
sede in chiese concesse dai vescovi cattolici perché non più utilizzate.
Anticamente la gente comune
rimaneva a fare da spettatrice a certi azzuffamenti teologici e gerarchici. Era
un po’, ma non sempre, nello stato di gregge. Nel secondo millennio
è stato diverso. Le spiritualità nuove prorompevano dalla gente comune e i capi
religiosi faticavano a venirne a capo. La scoperta, in Occidente nel
Quattrocento, della stampa tipografica mise la cultura religiosa alla portata
delle masse. Stiamo vivendo una rivoluzione analoga con il WEB, il trattamento
telematico delle informazioni consentito dalla rete internet e dalla sua
interfaccia sugli schermi dei nostri computer, organizzata in modo da essere
accessibile anche ai bimbi più piccoli. Questa possibilità di renderci conto
dei problemi ci responsabilizza molto. Siamo spinti ad uscire dallo stato di
gregge e abbiamo gli strumenti per farlo. In un certo senso la nostra nuova
Europa si fonda su questa nuova realtà. Le divisioni che oggi la minacciano
interpellano i suoi popoli. Essi hanno imparato a convivere e a conoscersi. E’
più difficile rinchiudersi nell’egoismo del passato e fondare partiti del Noi
soli. Anche i capi politici nazionalisti, che spingono per la chiusura della
frontiere, paradossalmente creano internazionali politiche. E’
lo stesso anche per le questioni in materia di fede. Certe forme di
spiritualità non soddisfano più e, soprattutto, non servono più.
Parlare di pace, come oggi la
intendiamo, è facile e anche bello, realizzare la pace è molto più difficile,
anche in religione. La vita nelle parrocchie lo dimostra. A volte la
coesistenza tra le loro componenti è piuttosto precaria. A volte si ricade nei
vizi delle origini, nella brutta abitudine di lanciarsi anatemi, vale a dire
scomuniche, senza avere nemmeno, tra l’altro, il potere giuridico. E questo
anche se la gente della nostra fede, dal secondo dopoguerra, ha mostrato molti
modi perfare pace e l’Europa contemporanea, pur con tutti i suoi
attuali problemi, ne è la dimostrazione.
Joseph Ratzinger qualche anno fa
diffuse un’enciclica la Carità nella Verità (2009) in
cui affrontò sostanzialmente la questione se venga prima la carità,
il fare il bene agli altri, o la verità,
il dire cose coerenti con il patrimonio di fede,
entrando in una inedita polemica con il suo predecessore Giovanni Battista
Montini, il quale nell’enciclica Lo sviluppo dei popoli (1967)
aveva lanciato un forte appello a tutte le persone di buona volontà a fare il
bene, affermando che lo sviluppo è il nuovo nome della pace,
anche in senso religioso.
Certe questioni noi laici di fede
possiamo tranquillamente lasciarle ai teologi di professione, come lo stesso
Ratzinger è stato per gran parte della sua vita.
La mia opinione è che ci si
debba concentrare, noi che non siamo teologi, sulla faccenda del fare
il bene, e innanzi tutto nel volersi bene, nel fare
pace come oggi lo si intende, comprendendo in quell’azione anche
lo sviluppo dei popoli e delle singole persone, per poi
cercare il senso religioso del bene che ci è riuscito di fare, quindi non
ragionando sulle sole intenzioni ma sui risultati ottenuti.
Nella questioni di fede, infatti, è vero che, come si dice, tra
il dire e il fare c’è di mezzo il mare.
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70
Impegno civile come attività religiosa
(3 gennaio 2015)
Claude Lévi-Strauss, il più grande
antropologo culturale dei nostri tempi, ha affermato in “Tristi tropici”, che
in tutta la storia umana, solo due sono state le strategie impiegate allorché
si è dovuto risolvere il problema diversità altrui: una è stata la strategia
“antropoemica”, l’altra la strategia “antropofagica”.
La prima consisteva nel “vomitare”,
nello sputar fuori gli altri, considerati come esseri incurabilmente estranei e
alieni, nel vietare il contatto fisico, il dialogo, i rapporti sociali e
qualsiasi tipo di«commercium» [=relazione di mutuo scambio],
commensalità o«connubium» (=alleanza basata su una relazione
affettiva profonda).Varianti estreme di questa strategia “emica” sono oggi,
come sempre, l’incarcerazione, la deportazione e la soppressione fisica. Sue
forme aggiornate, “raffinate” (modernizzate) sono la separazione spaziale, i
ghetti urbani, l’accesso selettivo agli spazi.
La seconda strategia consiste in
una cosiddetta “disalienazione” delle sostanze estranee:
nell’«ingerire», «divorare» i corpi e gli spiriti estranei in modo
da renderli , attraverso il metabolismo, identici e non più distinguibili dal
corpo che li ingerisce. Tale strategia assunse una parimenti varia gamma di
forme, dal cannibalismo all’assimilazione forzata: crociate culturali, guerre
dichiarate ai costumi, calendari, culti, dialetti e altri «pregiudizi»
e «superstizioni» locali. Se la prima categoria mirava all’esilio e alla
distruzione degli “altri”, la seconda puntava all’annullamento o distruzione
della loro “diversità”.
[da: Zygmunt Bauman, Modernità
liquida, Laterza, 2011 (opera edita per la prima volta in Gran
Bretagna nel 2000]
Sono nato, sono cresciuto e mi
sono formato in un ambiente religioso che dava molto importanza all’impegno
civile, inteso come il partecipare alla collettività politica per costruire
la città dell’uomo(espressione risalente a Giuseppe Lazzati,
1909-1986), vale a dire una società benevola verso tutti gli esseri umani. In
una società pluralistica come quella in cui siamo immersi l’impegno civile
richiede di essere democratico, vale a dire aperto al dialogo e alla
collaborazione con chi su molte cose la pensa diversamente ma è unito a noi
dalla comune umanità.
A volte però, in religione, si ritiene che il metodo del dialogo sia
inutile e anche controproducente, perché potrebbe portare a contaminazione. Per
reagire alla diversità altrui, vengono impiegate entrambe le tecniche
sunteggiate da Lévi-Strauss: l’esclusione e l’assimilazione.
Da un lato si costruiscono
frontiere ideologiche strettamente presidiate e isolate dal contesto sociale
intorno. All’interno, salvo che nel ruolo di semplice consumatore di
servizi religiosi, è ammesso solo chi accetta la conformità di pensiero, o,
almeno, si impegna a non contestarla, per amore di pace, come si dice. D’altro
lato, chi è ammesso all’interno viene esortato a farsi digerire, assimilare,
divenendo parte di una collettività di uguali,
in cui è abolita ogni diversità (e quindi la necessità di un vero e franco
dialogo), e in cui questa uguaglianza è realizzata mediante la pratica
dell’obbedienza verso dei formatori, in cui ogni
pensiero critico non viene accolto tanto bene.
Si tratta di ideologia piuttosto lontana da
quella indicata come preferibile nei documenti del Concilio Vaticano 2°.
In
realtà essa, benché la si voglia riferire alle origini, in realtà proiettando non
del tutto a proposito sul passato nostre attuali concezioni, diverge
marcatamente dai costumi delle nostre collettività religiose di tutti i tempi,
in cui l’impegno civile ha avuto una parte fondamentale: altrimenti non
parleremmo oggi di radici religiose dell’Europa. Essa ha infatti
origine storica piuttosto recente e precisamente in epoca fascista. Fu allora
che, a seguito del compromesso raggiunto all’epoca dai nostri capi religiosi
con il regime fascista, la religione si impegnò a non occuparsi
di politica (in realtà, così facendo, dando un formidabile appoggio al
regime fascista), quindi delle cose della città dell’uomo. Era
scritto nel Concordato che fu stipulato nel 1929 e che fu in
parte superato con l’avvento della Costituzione repubblicana entrata in vigore
del 1948 e, definitivamente, con gli Accordi di revisione di quel Concordato,
stipulati nel 1984.
Bisogna che sia più chiaro
che, nonostante tutte le metafore sociali che utilizziamo a fini propedeutici,
per rendere in termini semplici un’idea di cose molto difficili da capire,
noi partecipiamo a una collettività,
ne siamo anche responsabili; possiamo riconoscere anche di essere
generati alla fede in una collettività,
ma assolutamente non da una collettività: infatti,
come è scritto, noi dobbiamo rinascere dall’alto. Quindi poi nessuno può sentirsi obbligato a
farsi digerire o generare o rigenerare da una
certa collettività, per quanto poi possa decidere liberamente di farlo.
Il metodo di assimilare persone
in una collettività di fede che si vieta l’impegno civile, inteso come
relazioni con chi la pensa diversamente, porta alla progressiva emarginazione delle
persone di fede. Alla situazione, per intenderci che si sviluppò nell’Ottocento
nel conflitto tra il nostro nazionalismo e le pretese politiche del Papato ad
un suo regno intorno a Roma. Sentiamo gli altri come estranei e da loro siamo
sentiti estranei. Per farceli amici chiediamo troppo, chiediamo loro di farsi
digerire; loro non ci stanno e noi li vomitiamo.
L’impegno civile nella nostra
Repubblica, come è configurato nella vigente Costituzione, si basa su una
concezione personalistica che è stata ideata in ambito
cattolico negli anni ’30, sulla base di un filone di pensiero che risale al
Medioevo e che ha basi scritturistiche. Tale concezione si basa sul rispetto
della dignità della persona umana, sia come singola sia nelle formazioni
sociali a cui partecipa. Questo significa che non è ammesso che una formazione
sociale possa digerire una persona. Ma, a ben vedere, questo
principio digestivo è estraneo anche all’ideologia
insegnata dai nostri capi religiosi. Infatti la nostra fede si basa su
una conversione intesa come processo di metamorfosi personale
e libera. In particolare, nei nostri scritti sacri non ci viene mai presentato
il nostro Maestro impegnato in attività propriamente digestive.
La mia formazione religiosa ha
compreso anche insegnamenti su come partecipare a una collettività di fede da
laico. Essa è stata condotta nello spirito del Concilio Vaticano 2°, i cui
principi vennero entusiasticamente accolti nell’ambiente religioso della mia
famiglia. Il laico deve partecipare a una collettività di fede mantenendo
integra la sua dignità di persona umana e rispettando la dignità personale
degli altri fedeli. Si tratta di cosa di cui occorre fare tirocinio.
L’impegno civile è appunto quel
tipo di relazioni con gli altri che ci permette di collaborare con chi la pensa
in modo diverso da noi per costruire qualcosa di comune, in religione o
altrove. Esso, nella nostra fede, ha avuto sempre una forte valenza
religiosa, della quale non sempre, però, si è mantenuta consapevolezza.
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71
Spunti per un dialogo politico su democrazia di popolo e fede cristiana.
(29-1-15)
71.1. Note di metodo
Questa conversazione si propone di
stimolare un franco dibattito politico tra persone di fede.
Non proporrò contenuti eruditi.
Farò invece riferimento ad alcune idee chiave tratte dalla storia delle nostre
collettività permeate dal pensiero religioso.
Perché il dialogo sia veramente
libero non farò riferimento esplicito ad alcun documento di autorità religiose,
né menzionerò queste ultime. Presenterò in forma anonima il pensiero sociale
che storicamente espressero. Esso potrà così essere analizzato e
criticato senza alcuna remora.
Inizierò definendo che cosa
intendo per politica.
Proseguirò tratteggiando alcuni
tratti caratteristici di ciò che ho chiamato democrazia di popolo.
Richiamerò la storia del pensiero
politico espresso nella nostra fede religiosa, con particolare riferimento
all’Italia.
Infine analizzerò i problemi che oggi
in italia si presentano alle persone di fede impegnate nel partecipare alla
democrazia di popolo.
La mia formazione è giuridica, ma
di pratico del diritto, non di teorico. Ho ricevuto una formazione politica dal
lungo contatto con mio zio Achille, persona di fede, professore di sociologia e
politico.
71.2.
La politica
Definisco
politica l’attività di governo delle società umane. Un’attività di questo tipo
si riscontra anche in collettività poco numerose e primitive. E’ stata ritenuta
una caratteristica degli esseri umani come viventi sociali.
Lo studio delle collettività
primitive ci può dare un’idea dello sviluppo delle attività propriamente
politiche. Una delle linee di costituzione di un’autorità politica può
individuarsi, nelle collettività di tipo patriarcale, nell’espansione del
potere monocratico di un maschio dominante su collettività di parenti o
servitori. Nella nostra cultura l’idea di autorità è ancora piuttosto legata a
quella di paternità e ciò per un retaggio storico molto risalente nel tempo e
radicato nelle diverse culture che si sono incontrate, scontrate e ibridate
intorno al bacino del Mediterraneo.
Le nostre concezioni sulla
politica impiegano tuttora schemi di pensiero originati nelle filosofie
dell’antica Grecia. Solo dall’Ottocento si è cominciata a impiegare l’analisi
sociologica per capire i problemi politici. Una particolare chiave
interpretativa della politica è stata proposta dal marxismo a partire dalla
medesima epoca: essa è particolarmente caratterizzata dall’analisi storica
dell’evoluzione delle società umane. Sociologia e marxismo convergono
nell’individuare all’origine del potere politico le dinamiche sociali delle
popolazioni umane. In quest’ottica tutta la storia della politica è stata
reinterpretata utilizzando le acquisizioni di queste discipline. Per capire la
politica e per prevederne gli sviluppi si ritiene necessario capire le società
in cui essa si manifesta.
71.3. La democrazia di popolo
Definisco
democrazia un regime politico in cui l’autorità è legata in misura più o meno
intensa alla volontà collettiva dei governati, sia nella scelta di chi la
esercita sia nei suoi metodi, finalità generali e obiettivi concreti. Non
consiste solo nel metodo maggioritario per adottare decisioni collettive. Si
fonda anche su un sistema ampio di diritti di libertà, per consentire la
partecipazione al dibattito politico e ai processi decisionali collettivi. In
democrazia è essenziale la possibilità di un dialogo fra soggetti liberi. Anche
nel definire concettualmente i caratteri della democrazia si è soliti fare
riferimento a modelli realizzati e teorizzati nell’antica Grecia. Tuttavia la
democrazia come ai tempi nostri la si intende è un’esperienza sociale che non è
mai esistita prima del secondo dopoguerra. E non è mai stata neppure teorizzata
prima degli scorsi anni Venti. Il nostro mondo è veramente un nuovo mondo.
La chiamo democrazia di popolo per distinguerla dalle
precedenti esperienze storiche.
Il suo archetipo è il regime
politico emerso a fine Settecento dalla rivoluzione statunitense, che è stata
espressa anche mediante temi religiosi tratti dalla nostra fede.
Quell’esperienza, anche se in genere non se ne ha consapevolezza, non è stata
solo una secessione dal dominio di una monarchia europea, ma è stata
propriamente una rivoluzione. Ha infatti instaurato un nuovo modello di
società, fondato su un’ideologia egualitaria su basi religiose, secondo
la quale tutti gli essere umani sono stati creati uguali e con
diritti inviolabili.
Crediamo in queste verità che sono
evidenti di per sé stesse, che tutti gli uomini sono creati uguali, dotati dal
loro Creatore di certi inalienabili diritti, e tra questi il diritto alla Vita,
alla Libertà e alla ricerca della Felicità. Per assicurare questi diritti
sono costituiti i Governi tra gli uomini. Essi derivano i loro legittimi poteri
dal consenso dei governati.[Dichiarazione d’Indipendenza
delle Tredici Colonie, costituitesi in Stati Uniti
d’America, 4 luglio 1776].
E’ proprio da questa ideologia,
più che da quella espressa dopo pochi anni dopo dalla Francia rivoluzionaria,
che derivano le democrazie di popolo contemporanee. E ciò innanzi tutto per il
fatto che la democrazia statunitense ha avuto una durata molto più lunga di
quella espressa dalla rivoluzione francese, che fu veramente effimera. Essa ha
potuto quindi costituire un modello duraturo sul quale si sono innestati gli
sviluppi successivi. Poi per il fatto che nel secondo dopoguerra quel modello
fu preso come riferimento per riorganizzare i regimi politici europei. Il più
importante e duraturo contributo della rivoluzione francese alle democrazie di
popolo contemporanee è stata la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e
del cittadino del 1789, la base dello stato di diritto:
ogni autorità è soggetta alla legge e quest’ultima deriva dalla volontà
generale alla quale tutti hanno diritto di concorrere; gli esseri
umani nascono liberi e uguali, dotati di diritti inviolabili.
L’uguaglianza nell’ottica di quelle
rivoluzioni è un’uguaglianza in dignità. Essa è affermata
religiosamente, vale a dire in modo pregiudiziale e assoluto, a
prescindere da qualsiasi riscontro effettivo nella realtà (uso il termine religioso in
questo particolare senso, come lo intendeva il filosofo Aldo Capitini).
L’altro fattore da cui sono
scaturite le democrazie di popolo contemporanee è stato l’apporto del
socialismo, dall’Ottocento. In quest’ottica la politica viene concepita come
uno strumento per rendere effettiva l’uguaglianza in
dignità mediante la giustizia sociale. Tra i diritti inviolabili vengono
inclusi anche alcuni diritti sociali, ad esempio quello alla
libertà dal bisogno, all’istruzione, alla salute, al lavoro. Nell’insieme
costituiscono presidi della giustizia sociale e si aggiunsero ai diritti di
libertà proclamati nelle rivoluzioni americane e francese del Settecento.
In merito si ricorda come
archetipo la costituzione tedesca di Weimer del 1919, di cui trascrivo una
norma significativa.
Art.151. L’ordinamento della vita
economica deve corrispondere alle norme fondamentali della giustizia e tendere
a garantire a tutti un’esistenza degna dell’uomo. In questi limiti è da
tutelare la libertà economica dei singoli.
Altro archetipo è considerato la
costituzione sovietica del 1936 (detta di Stalin), in cui erano
previsti il diritto al lavoro e al riposo, all’assistenza materiale nella
vecchiaia e nella malattia o in caso di inabilità al lavoro, all’istruzione,
all’uguaglianza in dignità, oltre ai diritti di libertà previsti delle
costituzioni rivoluzionari settecentesche che ho sopra ricordato.
Trascrivo due articoli particolarmente significativi.
122. Alla donna sono accordati
nell’URSS diritti uguali a quelli dell’uomo in tutti i campi della vita
economica, statale, culturale e socio-politica. […]
123. L’uguaglianza giuridica dei
cittadini dell’URSS indipendentemente dalla loro nazionalità e razza, in tutti
i campi della vita economica, statale, culturale e socio-politica, è legge
irrevocabile.
Qualsiasi limitazione diretta o
indiretta dei diritti e, al contrario, qualsiasi attribuzione di privilegi
diretti o indiretti ai cittadini in dipendenza della razza o della nazionalità
alla quale appartengano, così come qualsiasi propaganda di settarismo razziale
o nazionale, ovvero di odio e disprezzo, è punita dalla legge.
Dalla storia sappiamo che
nell’Unione Sovietica questi diritti rimasero in gran parte solo nelle
costituzioni, non divennero mai realtà. Quella costituzione tratteggiò un mondo
nuovo che rimase però sempre a livello ideale.
Le previsioni costituzionali
relative ai diritti fondamentali e inviolabili delle costituzioni che ho citato
furono presi come riferimento nel secondo dopoguerra dai saggi della nostra
Costituente, nel 1947, i cui lavori precedettero quelli per la redazione
della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite,
approvata nel 1948. Da quest’ultima scaturì la concezione contemporanea della
democrazia a livello planetario, come regime politico universale destinato a
realizzare una reale eguaglianza in dignità degli esseri umani, a
prescindere dalla loro condizione di cittadinanza politica particoare,
mediante l’effettività dei diritti fondamentali e inviolabili, in particolare
di quelli sociali, a livello universale. Riporto un articolo particolarmente
significativo della Costituzione italiana vigente:
Art. 3
Tutti i
cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza
distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche,
di condizioni personali e sociali.
È compito
della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che,
limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il
pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i
lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Il
secondo comma è stato scritto dal socialista Lelio Basso. L’universalità della
concezione politica sottostante, espressa poi anche nella dichiarazione ONU,
risalta dal fatto che vengono ripudiate le discriminazioni su basi etniche e
linguistiche, rendendo la nuova Repubblica una democrazia non solo per gli
italiani e degli italiani. Considerata l’importanza che ebbero
elementi cattolico-democratici nella redazione dei principi fondamentali di
quella Costituzione, la possiamo considerare anche come espressione di una
teologia politica.
L’ultimo
fattore decisivo per la creazione delle democrazie di popolo è stato il
suffragio universale, che in Italia è stato realizzato solo dal 1946.
Una
democrazia di popolo è un regime con amplissima base popolare e basato su
un’idea di uguaglianza molto legata alla giustizia sociale da realizzare
mediante riforme sociali introdotte con l’autorità delle leggi. L’obiettivo
delle democrazie di popolo è la trasformazione delle società per rimuovere le
cause di infelicità e di discriminazione.
71.4. Il
pensiero politico espresso dalla nostra fede religiosa, con particolare
riferimento alla situazione italiana.
Di
solito non si ha sufficiente consapevolezza che i cristiani molto presto
svilupparono un pensiero politico su basi di fede. In caso contrario
l’ideologia politica basata sulla fede cristiana non avrebbe potuto sostituire,
nel giro di quattro secoli quella basata sull’antica religione politeistica. In
particolare non se fa menzione nella formazione religiosa di primo e secondo
livello. Si passa dai cristiani perseguitati dal potere imperiale romano agli
imperatori cristiani.
Un
indizio della precoce partecipazione dei cristiani alla vita politica lo
possiamo trovare nella Lettera a Diogneto, che si fa risalire alla
fine del secondo secolo:
[I
cristiani] abitano ciascuno la propria patria, ma come stranieri
residente; a tutto partecipano attivamente come cittadini, a tutto
assistono passivamente come stranieri; ogni terra straniera è per loro patria,
e ogni patria terra straniera. [V,5].
Conquistato
lo stato romano, l’ideologia politica dei cristiani fu, in genere, quella di
ritenere che lo stato fosse espressione del popolo cristiano e che il monarca
dovesse svolgere anche compiti di guida religiosa. Il politologo Gianni Baget
Bozzo considerò come archetipo di questa mentalità il pensiero del vescovo,
teologo e storico Eusebio di Cesarea (265-340). La dimostrazione di
quanto essa si fosse radicata è che tutti i concili ecumenici del primo
millennio, dal primo di Nicea (325) al settimo di Costantinopoli (879), furono
convocati da imperatori. L’ideologia del monarca come capo civile e religioso
del popolo cristiano fu fondata sulle narrazioni veterotestamentarie adattate
ad una situazione storica molto diversa e rimase latente in Europa fino
all’avvento della secolarizzazione del potere politico, nell’Ottocento. Sempre
su base veterotestamentaria fu fondata, in Occidente, la parallela ideologia
che affermava una supremazia politica del potere religioso su quello
civile. Il popolo cristiano, in Occidente, finì per avere due padri che
pretendevano di governarlo, ma solo nel secondo millennio si produsse una vera
e propria competizione politica tra di essi. Nel quinto secolo le invasioni dal
Nord Europa provocarono il crollo della nuova civiltà cristiana in Occidente:
un evento che fu vissuto come una catastrofe anche religiosa. La storia che
seguì può anche essere interpretata come un tentativo del potere religioso
occidentale di porvi rimedio. In effetti gli invasori erano già venuti a
contatti con la civiltà imperiale mediterranea e la prendevano come modello di
potere politico. Ciò rese possibile assimilare la loro cultura in quella
politico/religiosa formatasi a partire dal quarto secolo. E produsse l’emergere
del patriarcato romano, uno dei cinque del cristianesimo delle origini
(Alessandria, Gerusalemme, Antiochia, Costantinopoli e Roma), come imperatore
religioso e politico. Il processo iniziò nel settimo secolo, sotto dominio
longobardo: al papato fu assegnato un regno territoriale nell’Italia centrale. Questo
dominio fu confermato in epoca carolingia, nel nono secolo, nella quale il
papato si federò con l’impero dei franchi adottandone la struttura feudale
nella sua organizzazione ed iniziando ad agire come sovrano propriamente
politico. Questa struttura di potere politico, fondata su due padri del
popolo, su due imperatori politico/religiosi, fu
rafforzata dalle necessità di difesa dalle travolgenti invasioni islamiche. In
Oriente rimase invece l’organizzazione politico religiosa del passato
imperniata sull’imperatore, con il patriarca religioso, l’ultimo rimasto in
Oriente, in posizione subordinata. Il consolidamento del potere imperiale del
papato avvenne nell’undicesimo e dodicesimo secolo. Fu basato su labili
collegamenti neotestamentari, sull’idea di un impero politico-religioso come
espressione della regalità divina, di cui il papato era manifestazione vicaria
(teologia del papato risalente al tredicesimo secolo). Nel Basso Medioevo, dai
costumi delle città medievali occidentali del secondo millennio, si produsse
l’idea che il mantenimento della pace politica e religiosa fosse
fondamentalmente un problema criminale, da affrontare irrogando pene
efferate. Pace a quell’epoca era una delle denominazione
del diritto criminale. Da ciò l’istituzione di polizie politiche di natura
politica-religiosa la cui manifestazione più eclatante fu l’Inquisizione
cattolica. Ne può essere considerata un’estensione la guerra di crociata,
in particolare quella condotta nel tredicesimo secolo contro i dissenzienti
religiosi albigesi. In un’ottica di fede, fino all’inizio dell’Ottocento, la
politica venne vista come un problema di fedeltà ad un capo politico/religioso;
in Occidente anche come quella ad uno o ad entrambi gli imperatori religiosi
emersi dal primo millennio. I fedeli, in genere, o erano sudditi o capi feudali
assoluti. Nel secondo millennio cominciarono a manifestarsi idealità di
giustizia sociale a base popolare ed evangelica: esse dovettero però venire a
patti con i padri politico-religiosi, con le gerarchie
assolutistiche monarchico-feudali civili e/o religiose, entrambe esercitanti
poteri propriamente politici, o vedersi da essi duramente represse come
espressioni criminali. Esperienze di tipo di tipo tendenzialmente democratico
furono organizzate nell’Europa occidentale fin dagli inizi del secondo
millennio da statuti cittadini e intorno alle corti dei sovrani, ma, a parte il
caso dell’importante influsso del calvinismo politico, la prima
espressione di una teologia politica su base democratica, e quello delle
rivoluzioni parlamentari inglesi del Seicento,
prodottesi in collettività di fede affrancate dal centralismo religioso romano,
l’idea di affidare ai popoli la definizione dei valori supremi delle società,
ciò che definiamo giustizia sociale, ebbe difficoltà ad essere
integrata nelle concezioni di fede. Del resto, nelle Scritture quel tipo di
democrazia semplicemente non c’è, per il contesto storico in cui esse si
formarono, e di ciò ha risentito la teologia su di esse costruita. C’è però un’idea
che è risultata al centro delle ideologie democratiche contemporanee:
l’uguaglianza in dignità. La possiamo trovare sintetizzata in questo
passo della lettera ai Galati: “Non c’è Giudeo né Greco; non c’è né schiavo
né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo
Gesù” (Gal 3,28. Vers.CEI 2008).
I
processi storici e sociali da cui sono emerse le democrazie contemporanee
furono avviati, sostanzialmente, a partire dalla seconda metà del Settecento,
anticipati sul piano ideologico dal pensiero liberale e illuminista. Ma
fu l’Ottocento il secolo del loro crogiolo. In Italia il confronto con le
collettività di fede fu particolarmente drammatico per i prevalere di
fortissime tendenze reazionarie, appoggiate da efficienti organizzazioni di
polizia ideologica. In origine non anti-religiosi, i moti rivoluzionari
espressi nel Risorgimento italiano, divennero anticlericali per le difficoltà
incontrate nel processo di unificazione nazionale ad opera delle organizzazioni
clericali. Il motto del mazzinismo “Dio e popolo” indica che una integrazione
tra tendenze democratiche e fede religiosa era possibile, ma essa fu duramente
repressa. La storia delle collettività di fede italiane dalla metà
dell’Ottocento può essere interpretata come un faticoso processo di
integrazione tra idee religiose, idee di giustizia sociale e idee di
democrazia politica, con uno scontro durissimo su base ideologica tra diverse
componenti sociali religiose, che lasciò importanti tracce, oltre che nella
storia nazionale, anche nelle biografie dei più importanti personaggi di fede di
quel periodo, ad esempio in quelle di Romolo Murri, il fondatore del movimento
democratico-cristiano, e di Giuseppe Toniolo. Fino alla metà degli anni
Quaranta prevalsero tendenze reazionarie, con conseguenze tragiche sul piano
politico. Il ritardo dell’integrazione democratica dei cattolici spianò infatti
la strada al fascismo storico. Si riteneva, da molti, che, al di fuori di
un’organizzazione paternalistica, fortemente accentrata, la fede religiosa si
sarebbe corrotta. La democrazia era vista, secondo un filone dell’antico
pensiero greco, come fonte di disordine culturale e sociale. Il crollo del
fascismo storico e il ruolo dei cattolico-democratici nella lotta antifascista
e nell’organizzazione della nuova Repubblica aprirono un nuovo corso.
L’ideologia di fede sottostante era stata lungamente elaborata in circoli
ristretti a partire dal pensiero dei filosofi francesi Jacques Maritain e
Emmanuel Mounier. Il processo ebbe una tappa importante negli anni Sessanta, ma
l’idea che il regime democratico fosse quello preferibile risale, nella
teologia cattolica, addirittura al 1991. E’ una storia non ancora conclusa, in
particolare nell’Italia di oggi, dove l’influenza clericale in politica è stata
fortissima.
71.5.
Problemi che oggi in Italia si presentano alle persone di fede impegnate nel
partecipare alla democrazia di popolo.
L’idea
che in religione non si debba parlare di politica è un portato del fascismo
storico e in particolare del compromesso, da molti ritenuto disonorevole,
concluso tra la nostra gente di fede e il Mussolini nel 1929. In quel modo il
fascismo chiuse la bocca al cattolicesimo democratico, ma, più in generale, ad
ogni forma di teologia politica.
La scelta
religiosa che fu fatta in alcuni ambienti di fede negli anni scorsi
anni Sessanta, sulla scia dei risultati dell’assemblea di saggi della nostra
confessione religiosa svoltasi all’inizio di quel decennio, fu cosa
profondamente diversa. Liberò la fede dalla politica di partito, aprendola al
pluralismo e proponendosi una formazione e un tirocinio collettivi in merito.
In quell’epoca, infatti, sulla base di un pensiero teologico avviato nel
secondo dopoguerra, i problemi politici vennero concepiti anche come problemi
religiosi, quindi in un’ottica di fede. Fu infatti scritto:
Le gioie e le
speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto
e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze
e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che
non trovi eco nel loro cuore. [1965].
E anche:
Noi
scongiuriamo per primi tutti i Nostri figli. Nei paesi in via di sviluppo non
meno che altrove, i laici devono assumere come loro compito specifico il
rinnovamento dell’ordine temporale. Se l’ufficio della gerarchia è quello di
insegnare e interpretare in modo autentico i principi morali da seguire in
questo campo, spetta a loro, attraverso la loro libera iniziativa e senza
attendere passivamente consegne o direttive, di penetrare di spirito cristiano
la mentalità della loro comunità di vita. Sono necessari dei cambiamenti,
indispensabili delle riforme profonde: essi devono impegnarsi risolutamente a
infonder loro il soffio dello spirito evangelico. [1967].
Divenne
quindi centrale e possibile, ma di attuazione piuttosto difficile nelle
nostre collettività di fede, ciò che venne efficacemente sintetizzato, in
queste righe:
“La Chiesa […] con il II Concilio ha
mutato profondamente il suo rapporto con la società e l’umanità. Dalla difesa
del proprio campo di missione spirituale nel temporale (obiettivo della nuova
cristianità elaborato nei confronti dell’età moderna) intende passare
all’apertura evangelizzatrice a tutti gli uomini, al campo della societas
hominum, sul fondamento della sola, comune, natura umana.
[…]
E’ nella comunità di Chiesa locale che
l’unità nell’essenziale e il pluralismo di partecipazioni politiche e sociale
debbano convivere se non integrarsi nella tensione talora, mai nella dialettica
profana, nella dialogicità spesso, che non esclude, anzi fa crescere la
funzione di guida e di autorità dottrinale e pastorale della gerarchia come la
partecipazione all’ufficio sacerdotale, profetico e regale dei laici, nella
Chiesa e nella storia.
[…]
Sotto questo profilo, tutta
l’innovazione della Gaudum et Spes e dell’intero concilio sembra concentrarsi
in quel paragrafo 4 della Octogesima Adveniens di Paolo VI che così fatica a
trovare (ma il convegno ecclesiale del novembre ’76 [Evangelizzazione
e promozione umana] ne è un luminoso esempio) applicazione e sviluppi
pastorali. […] La comunità di Chiesa locale, guidata dal Vescovo, [deve essere]
assunta anche come luogo di confronti tra credenti, pure tra credenti con
scelte politiche diverse, per cercare insieme le vie essenziali di impegno di
tutta la Chiesa locale alla necessaria trasformazione della società in cui la
comunità di Chiesa opera, per l’evangelizzazione e la promozione umana”.[Achille
Ardigò, “Toniolo: il primato della riforma sociale. Per ripartire dalla
società civile”, 1978]
In quest’ottica, in
religione si dovrebbe parlare di politica. Una
importante manifestazione del nuovo corso, per la verità rimasta quasi l’unica,
fu il convegno ecclesiale Evangelizzazione e promozione umana,
svoltosi a Roma nel 1976. Le difficoltà emerse negli scorsi anni Settanta
portarono, dagli anni ’80 al prevalere di orientamenti paternalistici, in
quello che, nel campo fede/democrazia, può essere visto come un lungo inverno,
nonostante il recepimento della democrazia nel pensiero teologico. La pratica,
quindi, non fu all’altezza della teoria. Significativo di questo sviluppo mi
pare sia stato l’appello all’astensionismo dei cattolici in occasione di un
referendum su tema sensibile per la fede, nel 2005. E anche
la dura repressione delle teologie di liberazione di origine latino-americana.
Oggi siamo autorevolmente invitati a far ripartire quel processo di sviluppo
democratico nella pratica delle nostre collettività di fede, ma sembrano
mancare risorse sufficienti a farlo. Secondo il costume dell’ultimo trentennio,
si attendono ancora, paternalisticamente, istruzioni dettagliate dall’alto,
invece di suscitare un movimento in basso. Quest’ultimo dovrebbe avere come
protagonisti i laici di fede, più coinvolti del clero nei processi sociali
democratici.
71.6. Da quanto ho esposto, emerge la
necessità di fare tirocinio di democrazia anche nelle nostre collettività di
fede, in particolare nella formazione permanente dei laici di
fede, impegnati con primaria responsabilità nel compito collettivo di
infondere valori nella società civile in cui sono immersi,
alla quale partecipano con poteri sovrani.
E’ passato ormai mezzo secolo da
quando si prese consapevolezza di questo, ma ancora quel tipo di tirocinio è
piuttosto ostico negli ambienti religiosi. Lo si vede con sospetto, come fonte
di disordine. Ma è proprio per affrontare in modo ordinato il metodo
democratico che esso occorre.
Storicamente le genti di fede sono
state ammaestrate ad obbedire e, in particolare, ad obbedire tacendo. “Obbedir
tacendo” fu un motto dell’Arma dei Carabinieri ed esso ha un senso preciso
negli ambienti militari: significa abnegazione nello sforzo di contribuire a un
risultato comune che richiede compattezza e coordinazione. Si ricorda che anche
il Garibaldi, rivoluzionario repubblicano risorgimentale, obbedì alle
autorità militari sabaude in diverse occasioni, in particolare con un famoso
telegramma spedito durante la Terza guerra d’indipendenza, la cui immagine ho
incollato qui sopra, e poi al termine della stupefacente conquista delle
regioni del regno borbonico dell’Italia meridionale. Ma la sua obbedienza non
fu solo una questione militare: fu prima di tutto frutto di una valutazione
realistica delle prospettive dell’unificazione nazionale e dello sviluppo di
uno stato degli italiani che sostituisse il precedente pluralismo regionale,
creando innanzi tutto un popolo capace di autogoverno, nelle forme democratiche
all’epoca vigenti e concretamente possibili, alle quali egli stesso
partecipò vivacemente nel dibattito politico.
Democrazia significa autogoverno
del popolo: essa richiede la capacità culturale di elevarsi alla sovranità. Nel
momento in cui si è deciso, anche in religione, tra gli anni Sessanta e gli
anni Novanta del secolo scorso, che non solo le persone di fede debbano sentire
il dovere religioso di partecipare all’autogoverno della società in cui sono
immerse, ma anche che i regimi democratici sono quelli preferibili per il
governo delle società, è chiaro che, accanto al tradizionale tema della
disciplina, dell’obbedienza, deve farsi strada quello del tirocinio
all’autogoverno, ad essere sovrani nella società e ad esserlo collettivamente,
secondo il metodo democratico incentrato sul dialogo. Non c’è altro modo,
infatti, per influire efficacemente nello sviluppo di società democratiche. In
quest’ottica, “la politica è la più alta forma di carità”, come insegnava il
beato Giovanni Battista Montini. E, non dimentichiamolo, fu san Karol
Wojtyla a insegnarci, con la sua lettera del 1991 in occasione dei cento
anni dalla lettera del suo predecessore che aveva inaugurato il magistero sociale,
che la democrazia è il regime preferibile, anche in un’ottica di fede.
Nella prospettiva democratica,
come sosteneva Lorenzo Milani,l’obbedienza non è più una virtù, se
significa sottrarsi al compito della sovranità collettiva.
La base del tirocinio democratico
è la coscienza storica. Essa mi pare carente nella formazione religiosa di
primo e secondo livello e anche in quella degli adulti e, in particolare, qui
da noi. Questo significa che, poi, il rapporto della nostra gente di fede con
la democrazia sarà piuttosto problematico. In ogni questione si andrà
ansiosamente alla ricerca di una sorta di padre a cui
sottomettersi, secondo un costume bimillenario in religione. Ma la scelta del
padre, in mancanza di sufficiente memoria storica, avverrà con criteri
superficiali, sulla base di apparenze di autorità, di forme luccicanti, di
sicumere esibite, di conformismo collettivo o di puro legalismo.
In religione ci troviamo a dover
convivere con molti padri i quali pretendono obbedienza paternalistica.
La democrazia però consiste in un certo senso proprio nel sindacare questa
autorità paternalistica e, nella mentalità democratica, si vorrebbe riscoprire,
nell’esercizio dell’autorità, il valore di una certa saggezza. I padri ce li
troviamo davanti per ragioni per così dire di natura, saggi
invece si diventa e si deve essere riconosciuti.
71.7. In genere
nelle nostra collettività di fede non sappiamo parlare efficacemente di
libertà. Mettiamo subito le mani avanti, presentando tutti i guasti che la
libertà produrrebbe. Questo ci impedisce di lasciarci coinvolgere nel pensiero
democratico, che è centrato sull’idea di libertà. Non di rado si finisce per
dire che l’unica vera libertà è nell’obbedienza a ciò che ordinano i nostri
capi religiosi, anche se ciò viene presentato come obbedienza alla volontà
divina. Purtroppo la storia ci insegna che questa soluzione non è stata sempre
soddisfacente. E’ in questo senso che Lorenzo Milani scrisse chel’obbedienza
non è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni.
All’inizio ho incollato
un’immagine della Statua della libertà, a New York. Ho ricordato
che sul suo piedistallo sono incisi gli ultimi versi della poesia Il
nuovo colosso, della poetessa americana Emma Lazarus:
“Datemi chi tra voi è esausto e povero,
le vostre masse che si accalcano
nell’anelito di libertà,
i miseri rifiuti della vostre
popolose terre.
Mandatemi quelli che non hanno più
casa e gli sventurati,
innalzando la mia luce mostrerò loro la
porta d’oro!”.
Questa lirica rende bene, con
forte impatto emotivo, il senso dell’azione di liberazione che è propria della
democrazia e dell’idea democratica di libertà, presenti con molta forza nel
pensiero che ispirò la rivoluzione americana del 1776, con esplicite radici di
fede. E spiega perché, anche da cristiani, noi ci dobbiamo innamorare della
libertà.
In democrazia libertà
significa libertà di essere giusti. La giustizia sociale
è al centro dell’idea democratica di libertà. Democrazia significa pensare,
tutti insieme, con metodo basato sul dialogo, un mondo nuovo, in cui essere
liberi di essere giusti. E’ questa la politica democratica. Che richiede di
elevarsi dalla soggezione all’ingiustizia alla libertà di essere giusti. Il
disegno preciso di questo mondo nuovo non c'è nelle nostre scritture sacre, che
risalgono a tempi antichi, in cui l'idea di una democrazia di tutti non
era stata ancora prodotta, anche se, in ambiente ellenistico, a cui però
l'ebraismo delle origini cristiane era in genere ostile, la cultura possedeva
varie teorizzazioni sulla democrazia. Nelle scritture sacre possiamo trovare
principi di giustizia sociale e, innanzi tutto, l'idea di pari dignità degli
esseri umani, creatiuguali, ma non la democrazia di
tutti come noi oggi la intendiamo. Ciò non significa che democrazia e
fede non possano essere conciliate. La rivoluzione statunitense di fine
Settecento dimostra proprio il contrario.
Libertà di essere giusti. Ma che
cos’è questa giustizia?
Riporto di seguito alcune righe
che ci scrissi anni fa, prendendo spunto da una Giornata della memoria.
“Abbiamo molto sbagliato quando abbiamo
fatto una politica cinica, cattiva, violenta. Questa è la politica dei despoti.
Dobbiamo fare una politica che innanzi tutto rispetti gli infiniti mondi
vitali, mio zio Achille ci scrisse un libro su, che sorreggono la nostra vita.
Non escludere nessuno, non disprezzare nessuno. Ancora con Capitini:
interessarsi sommamente a tutti, sperare che la realtà di tutti arrivi a tutti
gli esclusi per guarirli; scoprire che c'è sempre una non violenza più autentica
e che "ieri eravamo violenti". Capitini definiva questo come lavoro
"religioso" perché ci mette in rapporto con una realtà sommamente
amata e rispettata, una ricerca "sacra" perché comprende chi soffre e
sta peggio di noi. Sulla via della più alta sovranità incontriamo l'esigenza
della più alta giustizia.
Io faccio parte di una genia di
malvagi persecutori. Noi cristiani siamo stati ciechi per millenni. Seguaci di
maestri ebrei, del fariseo Paolo di Tarso, abbiamo perseguitato l'ebraismo,
disprezzato le sue sante tradizioni, i suoi riti, le sue consuetudini; abbiamo
infierito in modo inaudito su quel mondo vitale sul quale nondimeno
continuavamo a invocare benedizioni: "Gerusalemme siano rinforzate le tue
porte e i tuoi bastioni, scorra in te latte e miele, siano salvate le tue
madri, crescano forti i tuoi figli...". Questa la situazione in cui mi
sono ritrovato, da cristiano. Ora che abbiamo finalmente iniziato a
convertirci, noi cristiani, ora capiamo l'infinito amore che c'è dietro ogni
gesto religioso dell'ebraismo, dietro ogni sua tradizione e preghiera, dietro
ogni rito, e ci strazia l'orrore di quello che è stato fatto per tanto tempo.
Il passato non può essere cambiato. Ma almeno per il presente e per il futuro,
nei quali si può essere diversi, vorrei mostrare di aver imparato la lezione
che ho ricevuto dalla storia e agire diversamente. "Teshuvà",
pentimento e conversione. E invitare i miei compagni a fare altrettanto, quando
insieme pensiamo a un mondo nuovo.
Prima di compiere qualsiasi
violenza, prima di cancellare sbrigativamente qualcuno dalla storia, prima di
disprezzare qualsiasi consuetudine o idea delle quali magari non capiamo subito
il senso, pensiamo bene se questa sia veramente la giustizia che ci serve per
elevare "tutti" ad essere re. Tutti i giorni mi pare che non manchino
occasioni per esercitare questa "pazienza", che significa apertura a
tutti, aspirazione alla giustizia somma, lì dove misericordia e verità
finalmente si incontrano e si baciano, come è scritto.”
Una persona che rappresenta bene
questi ideali democratici è il pastore battista statunitense nero Martin Luther
King (1929-1968), il più noto esponente del movimento statunitense dei diritti
civili degli anni Sessanta. Egli, seguace dell’ideologia non violenta teorizzata
dall’indiano Ghandi, fu un disobbediente per amore di giustizia: questa fu la
libertà che si prese.
71.8 L’esperienza
del costituirsi di una collettività è vissuta spesso secondo due modalità:
quella del ritrovare un padre e quella del trovare una persona da amare. Nelle
nostre scritture sacre esse sono entrambe presenti, ma di solito la seconda è
più difficile da vivere, e innanzi tutto da accettare, nelle nostre
collettività di fede, secondo i modi religiosi che ci siamo costruiti. Questo
accade fondamentalmente perché la nostra ideologia religiosa è prodotta da un
ceto di maschi celibi che ambiscono al ruolo di padri e tendono a organizzare
collettività paternalistiche.
Nel tirocinio della democrazia
occorre riscoprire e rivivere quell’altra modalità, dell’amore.
L’esperienza dello stato nascente
è stata paragonata all’innamoramento, all’esperienza emotiva
dell’innamoramento. E c’è molta emotività amorevole nell’esperienza della
democrazia. Innanzi tutto ci si innamora dell’anelito di libertà, quindi della
libertà, non vivendola più come peccato e fonte di disobbedienza. In
democrazia, libertà significa libertà di pensare e costruire un mondo nuovo, in
cui tutti vengano liberati dal bisogno, dall’ignoranza, dalla malattia, dalle
discriminazioni su basi sociali ed economiche, dalla solitudine. E di farlo
come lavoro collettivo, in cui sono coinvolte le moltitudini. Democrazia
significa anche trovare e, innanzi tutto, accettare, moltissimi amici. Uscire
da una condizione di schiavitù, di servaggio, esistenziale per entrare in una
condizione amicale. “Vi ho chiamato amici”: riflettere a fondo sul
senso di questo detto evangelico (Gv 15,15) può essere molto utile in un
ragionamento sulla democrazia e le sue finalità. Esso è inserito in un
brano che tratta dall’agàpe, la forma di benevolenza sociale che è
caratteristica delle nostre concezioni di fede e che ha il senso di accogliere
gli altri in una piacevole convito. Gli amici non ce li troviamo imposti per
natura, come i fratelli, ma ce li scegliamo. Le democrazie contemporanee si
propongono di realizzare un’amicizia universale, di scegliersi come
amica l'intera umanità, secondo una particolare concezione di pace che
ha fatto breccia anche nel pensiero religioso, il quale finalmente è
giunto a riconoscervi le radici di fede.
In democrazia si sogna innanzi
tutto di essere liberi di avere tanti amici, di farsi tanti amici, di farsi
amiche popolazioni di tutta la terra, senza discriminazioni. Un lavoro molto
bello e appassionante, di cui ci si può e ci si deve innamorare. In democrazia
ci si innamora di questa libertà: le catene che vengono simbolicamente infrante
sono quelle della divisione e del pregiudizio verso gli altri.
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FINE