Scritti politici 2016-2017 - materiale per un tirocinio alla democrazia - PARTE 3
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59. Festa della Repubblica
Il 2
Giugno è una festa civile:
la Festa della Repubblica. Si fa memoria di un evento storico
accaduto il 2 giugno 1946: gli italiani, e per la prima volta anche le donne,
votarono per scegliere se l’Italia dovesse essere un regno, sotto la dinastia
Savoia, o una repubblica ed elessero i componenti di un’Assemblea Costituente,
che dovevano scrivere una nuova costituzione dello stato, sostituendo lo Statuto
entrato in vigore nel 1848. Le ultime elezioni libere si erano svolte nel 1924,
ventidue anni prima, gli anni del regime fascista mussoliniano. L’Azione
Cattolica aveva svolto un ruolo molto importante nella formazione politica
delle masse, in particolare delle donne. Dal voto popolare uscì la scelta per
la repubblica e per un regime istituzionale di democrazia popolare, in quanto
prevalsero i partiti che si proponevano di realizzarlo.
Ma non si festeggia solo un
evento storico, accaduto ormai tanti anni fa. Le persone ancora viventi che vi
parteciparono hanno oggi dai 92 anni in su (la maggiore età e quindi il diritto
al voto erano fissati all’epoca a 21 anni). Si festeggia, in fondo come per i
compleanni delle persone, che la repubblica democratica sia ancora in vita e
vitale. Essa è affidata al popolo, che si rinnova di generazione in
generazione: vanno tramandati principi e procedure, nel tempo in cui le
generazioni più anziane coesistono con le più giovani, prima di sparire. I
regimi politici sono parte della cultura di un popolo, del sistema di costumi,
concezioni e regole che rendono possibile l’organizzazione della vita
collettiva. Le culture cambiano, di generazione in generazione, e così i
sistemi politici. Chi è al potere cerca di solito di resistere al cambiamento:
è stato l’assillo di tutte le dinastie regnanti, ma anche di ogni altro gruppo
egemone nei regimi politici. Se si è convinti della bontà del regime
politico democratico repubblicano, allora c’è da festeggiare constatando che è
durato fino ad oggi. Non si è mantenuto sulla forza delle armi. Per questo la
Repubblica non dovrebbe essere festeggiata con una parata militare, ma con una
grande evento gioioso di massa in cui ci sia spazio per la riflessione
politica. Dovrebbe sfilare il popolo. La repubblica in Italia è sorta con il
ritorno della pace e, fino ad oggi, non ha mai dovuto essere difesa con le
armi. Questo perché ha scelto la via della pace e ha sviluppato politiche di
pace, all'interno di grandi organizzazioni internazionali che avevano il
medesimo obiettivo, in questo distinguendosi nettamente sia dalla politica del
regime fascista, ma anche da quella dei governi del Regno d’Italia dall’Unità
nazionale all’avvento del regime fascista, che si fa risalire al 1922.
Attualmente l’Italia è impegnata con proprie forze militari in diversi fronti
di guerra, ma non per ragioni di difesa. Il più sanguinoso è quello
dell’Afghanistan, con 59 morti e oltre 600 feriti. La motivazione di questi
impegni militari è il mantenimento della pace nel quadro dell’azione di
organismi internazionale.
Oggi repubblica e democrazia
sembrano strettamente collegati e addirittura sinonimi, come se volessero dire
la stessa cosa, ma non è così.
Democrazia è quando il potere
viene condiviso tra molti secondo regole che consentono la partecipazione
collettiva, limitando i poteri di ciascuno e stabilendo
principi giuridici di giustizia sociale per contenere
gli arbitri dei potenti. Cominciò ad essere praticata e teorizzata nell’antica
Atene, in Grecia, nel Sesto secolo dell’era antica.
La repubblica, termine
che deriva dal latino e che in quella lingua significava “cosa pubblica”, è
invece un’invenzione culturale dei romani. All'inizio equivaleva a “stato” e
significava la separazione giuridica, stabilita quindi da norme pubbliche
formali, tra i poteri, gli interessi e i patrimoni della classe politica
egemone e quelli destinati all’uso pubblico nell'interesse della collettività.
Fu un notevole progresso culturale. Nelle monarchie arcaiche, dei tempi
molto antichi, che in genere si erano sviluppate come estensione del potere di
un maschio adulto sulle persone della propria famiglia a lui soggette e sui
suoi beni, tutto apparteneva al sovrano, persone e cose, non c’era distinzione
tra le cose “sue” e quelle della collettività. Nell'antica civiltà romana
continuò ad esserci uno stato, quindi una “repubblica” in quel senso, anche
quando in essa si svilupparono degli imperi di tipo dinastico, nei quali quindi
la successione al vertice poltico avveniva tra generazioni di un’unica
famiglia.
Qual è la distinzione
fondamentale tra repubblica e monarchia? In una repubblica chi domina lo stato
lo fa nell'interesse pubblico, non nel proprio interesse o in quello della sua
famiglia. Pensa di aver ricevuto un mandato, un incarico, in tal senso. In una
monarchia, invece, il sovrano pensa di avere personalmente, o come membro di
una dinastia, il diritto di supremazia politica, come cosa che
gli appartiene. Si è visto che all'origine di ogni monarchia vi è un atto di
forza, di violenza. Stabilizzandosi, ogni monarchia cerca una giustificazione
sacrale del proprio dominio, per collegarlo a una volontà divina e renderlo più
stabile.
In una monarchia dinastica,
come era quella dei Savoia nel Regno d’Italia, il diritto politico
del sovrano passa di genitore in figlio, secondo regole giuridiche, quindi
formali. Ma, all'inizio di ogni dinastia monarchica, vi è sempre un capostipite
che non ha giustificato in tal modo il suo potere: è il caso di Napoleone
Bonaparte, quando dal 1804 divenne imperatore dei francesi, cambiando
la forma di stato da repubblica democratica a monarchia assoluta.
Chi ci assicura che il figlio
del monarca sia all'altezza, o migliore, del suo genitore? Nessuno. Spesso,
anzi, è accaduto proprio il contrario. Questo è il limite delle monarchie
dinastiche. E comunque il potere monarchico tende a degradarsi nel tempo,
perché è legato alla persona, anche fisica, del monarca, che con
l'invecchiamento degrada, e non di rado degenera al modo in cui accade ai
poteri assoluti o con pochi limiti. Nelle repubbliche democratiche si cerca di
mandare al potere supremo i migliori, e comunque se ne prevede la periodica
sostituzione: non vi sono poteri a vita. Nell’Italia della
repubblica democratica questo in genere è accaduto, se si considerano i
Presidenti della Repubblica, che hanno preso il posto dei re.
Storicamente ci furono
repubbliche, nel senso di sistemi politici non dominati da un sovrano,
dinastico o non, non democratiche. Non fu democratica, ad esempio, la Repubblica
Sociale Italiana mussoliniana, che controllò l’Italia del Centro-Nord, con
capitale a Salò sul lago di Garda, tra il 1943 e il 1945. Né lo fu lo stato
repubblicano franchista, che dominò la Spagna tra il 1939 e il 1975
(paradossalmente in Spagna il ritorno della democrazia coincise con la
restaurazione di una monarchia dinastica). Non fu, di fatto, democratica
l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, durata dal 1917 al 1991,
perché dominata da un’oligarchia di partito. Non furono democratiche, in parte
della loro storia, diverse repubbliche Latino-Americane, quando caddero nel
dominio di oligarchie dispotiche, in genere di origine militare, che si
sottrassero al controllo politico attuato mediante libere periodiche elezioni
politiche. La democrazia di popolo, come oggi la intendiamo e pratichiamo, è
stata un’importante conquista culturale anche per le repubbliche.
Vi sono state e vi sono
monarchie che incorporano principi repubblicani e democratici. Sono così tutte
le attuali monarchie europee, a seguito di un processo politico iniziato nel
Settecento (ma in Inghilterra addirittura nel Duecento). Attraverso statuti,
che significa sostanzialmente costituzioni, si stabilirono
dei limiti ai poteri delle dinastie regnanti e questo fece spazio alla politica
democratica. Nello stesso tempo furono giuridicamente distinti patrimoni,
poteri e interessi delle dinastie regnanti da quelli degli stati.
Storicamente si è pensato che
le monarchie producessero un ordine sociale migliore e più stabile. In realtà la
storia non conferma questa opinione. E’ un’idea che deriva dalla
sacralizzazione del potere monarchico e quindi da una cultura indotta per
stabilizzarlo, sottraendolo al cambiamento sociale. La realtà è che le
monarchie hanno sempre teso ad assolutizzarsi, ad estendere il loro potere, e
questo le ha poste in conflitto con gli altri poteri sociali compresenti: sono
state quindi sempre impegnate, in genere e fino ad epoca piuttosto
recente, in congiure di palazzo violente e sanguinose. Le democrazie vennero
diffamate dalle monarchie come poteri disordinati e arbitrari: nell'epoca
moderna si sono manifestate tutto l’opposto, quando e finché sono rimaste tali.
Questo perché le democrazie moderne sono non solo un sistema di limiti a poteri
arbitrari, ma anche di principi di giustizia sociale.
In un sistema repubblicano
nessuno deve arrogarsi il potere di appropriarsi della cosa pubblica e di
identificare i propri interessi con quelli dello stato. Questo significa che si
deve combattere la corruzione della politica, che consiste appunto in quello.
In un sistema democratico nessun potere è senza limiti, sia in durata che in
estensione, e si attivano procedure di controllo di come il potere pubblico
viene esercitato. Tutto questo richiede una intensa e costante partecipazione
popolare. L’idea che il popolo entri in ballo solo al momento delle elezioni
politiche non è né repubblicana né democratica, ma da aspiranti oligarchi,
futuri monarchi assoluti. In un sistema realmente democratico, chi vince alle
elezioni, e governa, deve sopportare il costante controllo popolare. Lo dice la
nostra Costituzione repubblicana all’art.49, dove si riconosce il diritto
dei cittadini di associarsi liberamente per concorrere a determinare la
politica nazionale. Il primo indice della degenerazione di un potere
democratico è quando chi comanda vuole mani libere fino alle elezioni
successive.
Il papato domina da
sovrano assoluto la Città del Vaticano, l’entità indipendente che ha
contrattato con il Mussolini, nel 1929 concludendo i Patti Lateranensi. E’ un
simulacro di stato stabilito nel quartiere Borgo di Roma (nel Trattato che lo
istituisce non viene mai definito stato). Il regno papale
sulla Città del Vaticano è un regime politico arcaico che non è indispensabile
né per motivi religiosi, per difendere e propagare la fede, né per motivi
politici, per garantire l’indipendenza del papato: infatti nessuno stato oggi è
veramente sovrano, tutti devono soggiacere a limiti internazionali,
compresa la Città del Vaticano e il suo monarca. Anche la nostra Chiesa, che è
cosa distinta dalla Città del Vaticano anche se ha lo stesso re, è organizzata
come una monarchia assoluta. Anche in questo caso non ve n’è una necessità
teologica o politica.Primato non significa
necessariamente impero. All'interno della nostra
organizzazione religiosa si stanno sviluppando, dagli scorsi anni Sessanta,
processi democratici. L’organizzazione monarchica assoluta, al modo di un
impero, è un portato storico, in particolare dell’epoca feudale, dall’Ottavo
secolo, in cui il papato acquistò una indipendenza politica via via sempre più
estesa e intensa. Che ne dobbiamo fare? Non è necessario fare una rivoluzione
per cambiare le cose, perché comunque stanno già cambiando. I connotati
politici di quel potere si sono infatti molto affievoliti. Le altre monarchie
ancora vigenti non sentono più la necessità di una loro sacralizzazione secondo
la nostra fede: in Europa la stabilità del loro ruolo è garantita dalle norme
costituzionali. Anche nel papato si comincia a ragionare in questo modo per
quanto riguarda la politica ecclesiastica: la politica del papato si va
anch'essa desacralizzando. I principi repubblicani e
democratici mettono la gente al riparto dagli eccessi che nel passato i nostri
sovrani religiosi hanno manifestato. Dal 1991 il papato ha accreditato la
democrazia come regime politico preferibile, in quanto rispondente alla dignità
degli esseri umani. Questo, nel lungo periodo naturalmente, produrrà delle
conseguenze. Innanzi tutto possiamo fin da ora cogliere l’occasione per
approfondire la riflessione personale e collettiva sulla democrazia e per farne
pratica. Teniamo conto che la Costituzione vigente è piena di principi
che sono originati dalla nostra dottrina sociale e che, addirittura, uno dei
principi fondamentali che regola il funzionamento dell’Unione Europea, quello
di sussidiarietà, ha la stessa fonte. I principi repubblicani e democratici non
ci possono più rimanere estranei. Gente nostra è stata protagonista nel loro
sviluppo e nella loro affermazione. Anche da persone di fede, benché ancora
sudditi di una monarchia religiosa assoluta, possiamo quindi fare festa oggi.
60. Il lavoro dell’istituzione
Le collettività umane nascono
e muoiono, così come gli esseri umani. Le istituzioni, queste invenzioni delle
culture umane fatte di storie, tradizioni e norme, danno loro continuità,
consentendo loro di rigenerarsi: in questo modo si cerca di tramandare ai più
giovani il patrimonio di concezioni, conoscenze, costumi acquisito dalle
generazioni più anziane. Ogni istituzione vale se fa questo lavoro senza
impedire il progresso dell’umanità. Di solito chi comanda in una società cerca,
in misura maggiore o minore, di strumentalizzare le sue istituzioni per rendere
più stabile il proprio potere. E’ cosa che si produsse con effetti spettacolari
nelle monarchie sacralizzate europee. Sacralizzare, vale a dire collegarle a
una volontà soprannaturale, le istituzioni della politica ha consentito di
proiettarle molto avanti nel futuro e di conservarne molto efficacemente
l’ordine. Ma si è trattato pur sempre di una strumentalizzazione, perché rimane
vero che ilregno immaginato nella fede non è di
questo mondo. Sono le istituzioni che dovrebbero rimanere strumento,
non la fede. Se avviene l’inverso, e nella nostra confessione è accaduto nei
due millenni della sua storia, la fede ne risulta impoverita, quanto le
istituzioni in tal modo sacralizzate vengono esaltate immaginificamente.
Una parrocchia è anche
un’istituzione, ha dimostrato di saper dare continuità alla socialità umana, e
lavora nel campo dell’integrazione tra vita personale e sociale e la fede
religiosa, ma non è sacralizzata, non strumentalizza la fede, la serve. Nel
2015 la nostra parrocchia era sostanzialmente morta come corpo sociale,
aveva esaurito un suo ciclo storico, ma continuava a rimanere come istituzione.
Questo ha consentito di attivarne una rigenerazione sociale. Non è più tanto
importante capire il perché della crisi, perché si tratta del passato e del
resto le sue cause sono molto chiare: ora è importante partecipare alla
rigenerazione. Possiamo riconoscere che, come istituzione, la parrocchia ha
fatto ciò che ci si attendeva, quello per cui era stata costruita. Ora deve
rigenerarsi come collettività.
Quello che è successo
nella nostra parrocchia è accaduto molte volte, storicamente, ed anche su scala
molto maggiore, nelle nostre collettività sociali. Si osserva una continuità
nei secoli, che è in gran parte di istituzioni e di cultura, ma le società dei
fedeli sono morte e si sono rigenerate molte volte. A volte si pensa,
sbagliando, di poter riproporre il passato. Ma i morti non ritornano. La via
reazionaria non è mai quella giusta.
La nostra fede non c’è stata da
sempre, ha avuto un inizio, dal punto di vista sociale. Prima c’erano altre
religioni, molto antiche. Non bisogna mai pensare che gli antichi non fossero
religiosi. Per convincersi del contrario basta osservare i ruderi dei grandi
templi dell’antichità. Anche le religioni che c’erano prima della nostra
avevano delle istituzioni. Quand'è che quelle fedi si sono dissolte? Quando
sono mutate le istituzioni che le sorreggevano. In particolare quanto non
servirono più per sacralizzare la politica. Questo dimostra che erano piuttosto
strumentalizzate. Ma la gente comune vi faceva affidamento ed è proprio per
questo che le si strumentalizzava: servivano a chi dominava le società di
allora a rafforzare la propria egemonia politica.
Perché la nostra fede è
sopravvissuta alla desacralizzazione delle politica che si è prodotta in Europa
e nelle parti del mondo che seguivano i costumi degli europei tra il Settecento
e l’Ottocento? Fondamentalmente perché ha prodotto un sistema di valori che si
è tradotto in un codice di diritti umani che è al fondo della
nostra civiltà e che orienta anche la politica, indipendentemente da questo o
quel gruppo egemone e da qualsiasi strumentalizzazione. Le istituzioni sociali,
animate da quei valori, cooperano a mantenere la fede come un’opzione sensata
nella società. Ma la desacralizzazione dei poteri politici impedisce di
strumentalizzarla: è l’applicazione del principio della laicità
dei poteri pubblici e della politica.
In un’istituzione come la
parrocchia viene custodito anche il patrimonio culturale di quei valori, ma
esso può sopravvivere senza apporto sociale fino ad un certo punto, non
indefinitamente. Ecco perché è urgente impegnarsi nella rigenerazione sociale
della parrocchia. Non si tratta più tanto di seguire un capo o delle regole: la
parrocchia è istituzione ormai desacralizzata,
questo non basta. I valori che propone devono rivivere nella gente, in
particolare nelle nuove generazioni. Riviverli, di vita in vita, significa
anche attualizzarli, reinterpretarli: le generazioni si riproducono ma non sono
mai la copia identica le une delle altre. In chiesa non si mette in scena
sempre lo stesso spettacolo, come certe volte accade a teatro, e allora ci sono
una serie infinite di repliche, anche per anni, che però, ad un
certo punto, finiscono. Se uno viene in
chiesa da spettatore, solo da spettatore, ad un certo punto vedrà lo spettacolo
liturgico-religioso tolto dal cartellone. E' accaduto. Tante chiese sono state
riciclate come certi cinema sono diventati grandi magazzini, quando molto
a lungo sono stati disertati dal pubblico. Però, ciò che si mette in
scena in parrocchia è in realtà il valore dei
valori, l’agàpe, che è incontrarsi gioiosamente facendo spazio a tutti:
essa non morirà mai, è scritto. Riuscire a farlo dipende da come ciascuno e
tutti collettivamente viviamo, oggi, i valori della
nostra fede.
61. Politica e conflitti sociali
Le società umane si manifestano
sempre in tensione, tra individui, gruppi più o meno estesi, aspiranti al
dominio. Uno degli scopi della politica è di impedire che i conflitti
distruggano la società. A questo serve, in particolare, il diritto, lo si è
capito fin dall’antichità: si vuole evitare che le persone corrano alle armi,
era proprio questa l’espressione usata dagli antichi giuristi. Chi fa le leggi?
Chi riesce a dominare la società in un certo tempo. Cambiando questa
situazione, cambiano anche le leggi. C’entra qualcosa la giustizia? Bisogna
intendersi, innanzi tutto, su che cosa essa sia.
Nel Sesto secolo, in
Grecia, l’imperatore romano Giustiniano, in una
monarchia imperiale ormai sacralizzata secondo la nostra fede, comandò di
creare una grande raccolta di leggi e opere giuridiche e vi fece inserire anche
un manuale di diritto. Quest’ultimo si apriva con una definizione di
giustizia: la costante e perpetua volontà di dare a
ciascuno il suo, non fare male agli altri, vivere onestamente. Ci basta? Su
piccola scala, nei rapporti tra privati, sì, ma quando si parla di fatti
sociali, della dimensione pubblica, non basta più, bisogna ragionarci
sopra ancora, ma fondamentalmente le idee di base rimangono quelle.
Se in una società aumentano
molto le diseguaglianze sarà necessaria una violenza sempre maggiore per
mantenerla pacifica, vale a dire per impedire che insorgano conflitti che ne
mettano in pericolo l’integrità. Se non si è disposti a organizzare e
sviluppare la violenza che è necessaria, occorre cambiarla rendendola meno
diseguale. Non è cosa molto lontana da noi. E’ il problema sociale che ci
assilla proprio di questi tempi, anche in Italia.
Rendere meno diseguale la
società ha a che fare con la giustizia? Alcuni dicono che ognuno ha ciò
che si merita. Ha meritato nel senso che non ha
rubato ciò che ha, lo ha guadagnato in modo legale. Perché
dovrebbe privarsene per darne una parte agli altri? E’ l’argomento che si
utilizza di solito per chiedere una riduzione delletasse. In democrazia
le tasse servono appunto anche a rendere la società meno diseguale: in passato
venivano considerate come uno strumento di giustizia sociale, ai tempi nostri
vengono al contrario considerate come un arbitrio ingiusto. Perché poi si
dovrebbe tassare maggiormente chi è più ricco, come stabilisce la nostra
Costituzione all’art.53? Non sarebbe più giusto stabilire una
percentuale di tassazione uguale per tutti, per i grandi ricchi come per i meno
ricchi? E perché tassare ciò che si lascia in eredità?
In realtà si può argomentare
che nessuno ha poi veramente meritato tutto ciò che gli è
capitato di ottenere in società. L’ha ottenuto perché ne ha
avuto l’opportunità sociale. La ricchezza, nella complesse civiltà
contemporanee, è sempre un fatto sociale, a cui tutti collaborano, e dipende
dalle regole che ci sono in un certo momento, fatte da chi la società riesce a
dominare, la parte che spetta ai singoli. Ciascuno, naturalmente, collabora in
maniera diversa, ma tutti collaborano. Sono le regole
sociali che danno un valore alla collaborazione di ciascuno, a distribuire le
parti. E, allora, se tutti collaborano, non è giusto che
alcuni siano esclusi dal benessere che quella ricchezza sociale dà.Dare
a ciascuno il suo. Ricordate? E’ uno dei criteri di giustizia stabiliti
dagli antichi. Perché, poi, se la ricchezza è un prodotto sociale, ma in
definitiva viene privatizzata a beneficio di troppo pochi, alla fine le masse
di chi sta peggio, organizzandosi, possono anche decidere di farla finita con
regole sociali che le umiliano e le escludono e lottare per
averne di diverse. Per mantenere soggette le masse allora occorrerà una
violenza sempre più estesa e intensa, ma essa richiederà anche molta gente che
vi collabori, molta polizia e sempre più violenta, e ad un certo punto,
peggiorando molto le cose, perché l'ingiustizia tende a moltiplicarsi, ad
espandersi, generando sempre maggiore sofferenza sociale, essa non basterà più.
E comunque, a quel punto, la politica avrà fallito in uno dei suoi scopi
principali: evitare che la gente corra alle armi.
Se uno eredita un
patrimonio, come ha meritato? Chi glielo ha lasciato ha avuto
l’opportunità sociale di metterlo insieme e la società,
alla sua morte, non ha veramente alcun diritto? E, soprattutto, la regola per
cui il patrimonio passa agli eredi è una costruzione sociale, conferisce agli
eredi una opportunità sociale veramente privilegiata. Grandi patrimoni
significano anche maggior potere sociale. un tempo anche gli stati passavano di
genitore in figlio, tra generazioni di monarchi di una dinastia, ma ora si sono
posti dei limiti sociali, le regole sono cambiate, e anche nelle
monarchie ancora regnanti il potere che passa da una generazione
all'altra è molto meno, la società ha preteso il suo. Sono i processi
democratici che lo hanno reso possibile: essi infatti sono anche un sistema di
limiti ai poteri che si esercitano in società. Si è visto che i poteri
condivisi stabilizzano meglio la società, funzionano meglio nel creare
opportunità sociali di benessere, richiedono meno violenza per essere
mantenuti. Nella stessa linea è razionale stabilire dei limiti anche alle
successioni ereditarie tra privati (lo si è fatto nel grande e non lo si
dovrebbe fare nel piccolo?), restituendo alla società ciò che in definitiva da
essa proviene, una parte dei patrimoni lasciati da chi muore: lo si fa non
arbitrariamente, ma secondo regole precise, che stabiliscono delletasse.
E’ onesto questo
modo di pensare, o è voler rapinare i patrimoni privati?
La dottrina sociale ci dice che è onesto, perché i beni della
creazione sono destinati a tutto il genere umano. Ma ci si può arrivare
anche a prescindere da argomentazioni religiose. La ricchezza è un fatto
sociale e la società quindi deve avere il suo.
Si parla di pace, ma
da ciò che ho scritto è evidente che ci può essere una pace giusta e una
ingiusta. La pace giusta è di solito condivisa da più persone di quella
ingiusta, che di solito è imposta con la violenza e genera risentimento e
voglia di rivalsa. La pace giusta deve essere difesa dall’arbitrio dei gruppi
più potenti, ma è più stabile perché è condivisa da molti; quella
ingiusta è sempre precaria, perché esposta alla reazione dei più. La pace
giusta è quella che dà alla società il suo.
Si sostiene che la politica ha
un valore religioso, ma naturalmente ci si riferisce, oggi, alla
politica volta ad una pace giusta. Non è sempre stato così, ne dobbiamo essere
consapevoli. Tutto sommato ci è andata bene, per il tempo e il posto in cui
siamo nati e viviamo. Ad altri storicamente, e anche nei nostri stessi tempi, è
andata molto peggio. Ma che accade quando l’ordine giusto è minacciato? Bisogna
difenderlo con coraggio. I conflitti insorgono: occorre affrontarli. Spesso in
religione si è tentato solo di sopirli o di negarli, quando addirittura non si
è parteggiato per un ordine ingiusto ma conveniente per l'organizzazione
religiosa. Questa è la religione che è stata definita come un anestetico per
chi sta peggio. Oggi è diverso, certo. C'è unadottrina sociale che
insegna autorevolmente i principi della pace giusta.
Come affrontare i conflitti
sociali avendo come obiettivo una pace giusta, che comprende anche riconoscere
agli altri, anche nei conflitti, il bene fondamentale, quello della vita, per
cui non si ammette con leggerezza di farli fuori a fini di pace sociale?
Nel secolo scorso c’è chi ha
escogitato una via veramente nuova: lateoria e la pratica della nonviolenza,
che è metodo di lotta sociale basato sull’idea di non fare del
male agli altri (un altro dei principi di giustizia formulati dagli
antichi).
62. La giustizia come metro dei
sistemi sociali
Ci sono diversi metodi per
misurare gli effetti dei sistemi sociali.
Si possono valutare, ad
esempio, secondo i morti che producono.
Se una potenza regionale cambia
politica, si potranno contare i morti in più che ci saranno, specialmente se
diventa meno sensibile al valore della giustizia. Se lo fa una potenza globale
le conseguenze saranno molto maggiori. Ma accade anche su scala molto più
piccola ed anche molto piccola. Si è osservato, ad esempio, che una
classe scolastica in cui prende piede il bullismo tra ragazzi può fare morti e
che quindi questa non è più una cosa da ragazzi, ma veramente
molto seria. In Italia da poco ci hanno fatto addirittura una legge sopra, per
combattere il bullismo informatico, quello praticato mediante i
telefonini, in danno dei minori.
Un metro abbastanza efficiente
per valutare i fatti sociali, in particolare le organizzazioni, è quello della
giustizia. Anche in questo caso può essere impiegato su piccola scala, ad
esempio nel caso di una parrocchia.
La giustizia è un valore
sociale e ha a che fare con l’etica, vale a dire con i criteri che in società
si scelgono per definire il bene e il male e per orientare al bene. Ma vi
possono essere etiche ingiuste, come avviene nei regimi politici totalitari,
classisti o in quelli schiavisti. La giustizia è un valore meno malleabile
dell’etica. Finché gli altri esistono, sorge un problema etico, che consiste
nel decidere come comportarsi con loro, che può essere risolto in modo giusto
o ingiusto. Un’etica ingiusta suona come
paradossale. Se però consideriamo che una delle esigenze della giustizia è il
non fare male agli altri, come ritenevano gli antichi
giuristi, allora un’etica come quella proposta dal fascismo storico, che si
proponeva la guerra, risulta ingiusta, perché fa male agli
altri. Se l’ambiente naturale, che serve a tutti per vivere, è minacciato dalle
attività umane e una grande potenza decide di ignorarlo perché fare
diversamente comporterebbe una riduzione del suo benessere sociale, questo
è ingiusto perché fa male agli altri, propone un'etica
ingiusta come quella che dice la "mia nazione viene prima di
tutto". Ragionare in questo modo, in un mondo interconnesso su scala
globale come il nostro, rende impossibile la sopravvivenza di tutti. E quelli
che sopravvivono, perché riescono con la forza a mettere sotto i piedi gli
altri, si ritrovano in ambiente degradato, che fa male anche a loro.
In una
parrocchia bisognerebbe praticare la giustizia, perché quest'ultima è anche un
valore religioso. Uno dei principi della giustizia è dare a ciascuno il
suo. Se comprate l’Osservatore romano, il quotidiano edito dal papato,
nell’intestazione trovate scritto, in latino, proprio quel principio, “unicuique
suum”, a ciascuno il suo. Ma se troppa gente non trova più in una
parrocchia quello che avrebbe dirittodi trovare, vale a dire il
suo in questo senso, allora significa che qualche cosa non va.
Non è giusto. Una parrocchia dovrebbe essere un sistema
sociale inclusivo fondato sulla giustizia. A lungo abbiamo avuto problemi in
questo campo, da noi alle Valli, e dall'ottobre 2015, con l'arrivo di un nuovo
pastore, si sta cercando di cambiare. Lediversità che c’erano
ancora negli anni ’80 sono state ritenute ad un certo punto come cattive e
si è cercato di ridurle, costruendo una certa etica piuttosto esigente. L’etica
non dovrebbe esserlo? Dipende da che cosa esige. L’altro giorno, qui a
Roma, al raduno di un movimento religioso che ha molto successo in
società, si è proposto il modello delle diversità riconciliate.
Ci si riconcilia quando si dialoga e si trova un modo di convivenza, che è
anzitutto coesistenza. L'etica dell'uniformità,
mediante riduzione della diversità, e quella dellariconciliazione delle
diversità possono essere entrambe esigenti, vale a dire
molto impegnative, ma, innanzi tutto sono diverse e
hanno effetti sociali diversi. Ma non solo sono diverse,
sono anche incompatibili,alternative, o l'una o l'altra.
Bisogna scegliere. E non basta essere in buona fede, quasi sempre lo si è
in religione, perché la scelta siagiusta; occorre anche tenere
conto realisticamente degli effetti sociali che vengono prodotti, come dovrebbero
fare i politici di governo quando scelgono una certa politica e allora
dovrebbero tener conto dei morti in più che faranno.
Ogni etica sociale è collegata
ad un assetto politico, perché è chi comanda in società che fa le regole.
Questo accade nel grande come nel piccolo. Se si vuole che la riconciliazione
prenda piede in una società, occorre aumentare il livello di giustizia
conformandovi l’etica.
Nelle scritture sacre vi sono delle storie di tremenda violenza. La
violenza è un fatto umano. Ad un certo punto i profeti immaginarono che
dall’Alto si sarebbero stroncate le guerre, ma
questo non è mai diventato realtà, se non per breve tempo. Se uno immagina di
essere,oggi, alle porte di Gerico e che il Cielo gli ordini di urlarle e
di cantarle contro, contro la città pagana e infedele,
perché poi le sue mura crolleranno e si potrà, e anzi si dovrà, sterminare (nel
senso di rendere uniforme o escludere) tutto ciò che di vivente c’è dentro, e
ci costruisce un’etica sopra sviluppando una politica corrispondente, poi avrà
più o meno ciò che ha immaginato, più o meno, intanto
però avrà una situazione di conflitto insanabile, in cui lui urla contro gli
altri, che rimangono a guardarlo dietro le mura. Il fascismo volle la guerra,
l’ebbe, ma non andò come immaginava dovesse andare. Così va la
storia umana. Si miete ciò che si è seminato, ma non sempre si raccoglie ciò
che si immaginava di ricavare.
Adesso si sta cercando di
rendere la parrocchia un ambiente molto più accogliente per gli altri,
cambiando atteggiamento verso di loro. E’ una scelta etica, naturalmente, che è
in linea con le regole dettate da chi comanda ora nelle nostre collettività
religiose e che ci spinge a una diversità riconciliata. Ma è cosa
che ha a che fare con la giustizia, perché accogliendo,
quindi includendo, dà a ciascuno il suo, una parte del bene
che si può trarre dalla vita religiosa e che non è giusto riservare ad una
piccola minoranza: non è per questo che pensiamo di essere stati mandati al
mondo intorno. Ma durerà poco, forse quanto il tempo assegnato al nuovo
pastore che ci è stato mandato, nove anni, dei quali è trascorso già un anno e
mezzo, se a questa esigenza di giustizia non corrisponderà una nuova
organizzazione sociale, per metterla al riparo della volubilità umana. E’ a
questo che servono le istituzioni, anche una come la parrocchia: a dare
continuità alle società umane consentendo loro di rigenerarsi periodicamente.
Da qui l’esigenza di attivare processi democratici, gli unici a poter produrre
questo risultato includendo. Le carenze in questo campo hanno
consentito che, all’inizio degli anni ’80, tutto cambiasse piuttosto
rapidamente quando cambiò il pastore. All’epoca c’era molta partecipazione in
parrocchia, i più anziani ne parlano e nelle interviste raccolte nel
libro di Bonomo sul quartiere risulta molto chiaramente, ma non c’era una
tradizione democratica che consentisse di fare resistenza, quando
sarebbe stata necessario farla, per dialogare in condizione di pari dignità e
impedire i problemi che poi si produssero. Si determinò un conflitto latente
che venne risolto non apertamente, ma con il ritiro dei dissenzienti, e che
quindi venne deciso secondo il principio d’autorità, obbedendo. L’obbedienza:
la più subdola delle tentazioni, nelle cose sociali. L’obbedienza, in
religione, è dovuta solo al Cielo. Per tutto il resto vale la libertà
di figli.
63. Non rassegnarsi
Un tempo la religione venne
accusata di spingere alla rassegnazione, alla rinuncia all’impegno sociale per
il cambiamento. L’accusa era vera: la religione è stata anche questo. Una fede
così non merita di essere mantenuta, giustamente la si è combattuta. Non fa
bene la gente. E’ facilmente strumentalizzabile da oligarchie che riescano a
conquistare il dominio della società: quando pochi fanno prepotenza ai più e
non accettano di essere messi i questione. Tutto ciò che fa male, abitudini,
concezioni, movimenti, partiti, religioni, ma anche modi di consumare, di agire
sul mercato, di sfruttare l’ambiente va combattuto per cambiarlo. Non sono convinto
che ogni religione faccia bene alla società. Si dice che ne è necessaria
l’incessante riforma, se si vuole che orienti al bene. Non basta la buona fede,
la convinzione sincera di mirare al bene. Occorre valutarne realisticamente gli
effetti. In ciò che fa male va cambiata: nella nostra lo si è fatto molte volte, niente è più esattamente
come era alle origini e ciò ha fatto bene alla nostra religione. Recentemente,
intorno all’anno 2000 e in occasione del Grande Giubileo di fine millennio,
questo processo ha preso il nome di purificazione
della memoria, a cui siamo stati spinti da san Karol Wojtyla, ed è
sostanzialmente un processo di riforma: significa valutare criticamente il male
che s’è fatto in religione, ma non per condannare coloro che lo fecero e che
non ci sono più, ma per non farcene incauti discepoli.
La storia della nostra fede
deve convincerci che la religione può anche non spingere alla rassegnazione.
Viviamo una fase storica in cui essa ci spinge all’impegno sociale e cerca di
convincerci che c’è da fare e che la nostra azione sociale può cambiare il
mondo. In passato questa fu la convinzione di minoranza di gente di fede, ora
lo si vorrebbe sentire comune. Insomma, questo non è il tempo del dopolavoro religioso, che è
quando si va in chiesa terminato tutto ciò di altro in cui si è coinvolti e
allora si vuole solo avere un po’ di tregua da tutti gli affanni, stare con gli
amici più cari per passare qualche ora lieta immaginando un mondo diverso.
E’ proprio tutto ciò che
facciamo nel mondo, a partire dallo studio e dal lavoro, ma anche come agenti
nel mercato, che si vorrebbe fosse coinvolto nel nostro impegno sociale: siamo
spinti a non dimenticare il mondo, ma a conoscerlo molto meglio, per fare
resistenza al male e creare il bene sociale, quello che nella dottrina,
sull’insegnamento di una tradizione molto antica, viene definito bene comune. Si veniva accusati di
somministrare droghe sociali a gente in catene, per far dimenticare la loro
condizione; si agisce invece proprio nel senso opposto. Si è spinti all’azione
solidale, per venire incontro ai sofferenti e sollevarli. E’ l’esempio che ci
viene dato dai tanti religiosi impegnati nelle parti più disperate del mondo.
Ma è un lavoro di tutti e, in particolare, di noi che viviamo inseriti nella
società che (ancora) domina il mondo, l’Occidente che fa ciò che vuole, con le
buone o con le cattive. E che ora è spinto emotivamente ad usare le cattive, la
forza delle armi, anche in Europa.
Ma per fare ciò che oggi si
vorrebbe da noi, in particolare da noi laici, occorre un impegno molto più
intenso e costante di quello della religione dopolavoro. Come orientarsi
in società se non facciamo uno sforzo per capirla realisticamente, a partire
dal quartiere in cui viviamo. Non si resiste da soli, occorre organizzare una
forza sociale, perché è dalla società che viene il male che ci minaccia.
La religione può divenire rapidamente inutile quando si decide che capire non è più importante
e ci si barrica in una serra religiosa, rassegnandosi al male che c’è fuori
e illudendosi, così facendo, di immunizzarsene. Prendere in mano un libro, ad
esempio un libro di storia, e provare a rendersi
conto di ciò che sta succedendo, e
in particolare dell’origine dei mali sociali e dei risultati dei tentativi che
in passato si sono fatti per rimediare,
è molto più impegnativo che rispondere SI’ o NO a certe offerte
commerciali che talvolta ci vengono
da chi oggi comanda in società e ha interesse prevalentemente ad indurci a
tracciare un segno sul suo simbolo in una scheda elettorale, proponendoci uno scambio tra consenso e favori sociali alla categoria.
Richiede uno studio, che per essere efficace deve essere
collettivo, per considerare le cose da diversi punti di vista ed averne quindi
una visione più affidabile e innanzi tutto realistica, e la disponibilità a
mettersi in gioco partecipando, innanzi tutto riconoscendo
che, di fronte ai mali sociali, siamo sempre in debito di partecipazione verso
gli altri. Che abbiamo fatto, ad esempio, per
la parrocchia nell’ultimo anno?
64. Dignità
L’idea che l’essere umano abbia
un particolare valore tra i viventi, per cui gli debba essere riconosciuta una dignità, è molto importante nella cultura
democratica contemporanea e ha origine religiosa secondo la nostra fede. La si
esprime anche dicendo che l’essere umano è una persona. Su di essa nel secolo scorso, negli anni bui
dei totalitarismi fascisti europei, è stata costruita una ideologia politica
che è stata sviluppata in modo originale dai cristiano-democratici europei e
che, nella Nuova Europa sorta dopo i rivolgimenti politici e costituzionali
prodottisi nel corso della Seconda Guerra Mondiale, è chiaramente avvertibile
in alcune nuove costituzioni, quindi nelle leggi fondamentali, di alcuni stati,
tra le quali quella italiana, e in
quella dell’Unione Europea. Ai tempi nostri questo personalismo contrasta
nettamente con l’impostazione competitiva,
secondo le leggi di mercato, dell’economia capitalista globale alla quale si è
consentita mano libera nel mondo, secondo la quale ognuno e ogni cosa hanno un prezzo, non c’è alcun valore a prescindere dal mercato in cui
si vende e si compra, e tutti lottano egoisticamente per spuntare i prezzi
migliori secondo il proprio interesse, chi vende i prezzi più alti e chi compra
i prezzi più bassi e alla fine pesce grosso mangia pesce piccolo. In passato,
quando si sviluppò, tra le due Guerre mondiali del secolo scorso, contrastava
anche con ogni ideologia di tipo totalitarista, sia politica che religiosa,
secondo la quale si pensasse che una qualche autorità fosse autorizzata a fare
dell’essere umano ciò che voleva assegnandogli valore. Per questo motivo essa
inizialmente fu vista con sospetto nella nostra confessione religiosa,
organizzata come una specie di impero religioso assoluto, e ancora oggi
ciclicamente si levano al suo interno voci contrarie nei nostri ambienti
religiosi. Proprio recentemente si è sviluppata una polemica del genere sul
quotidiano Avvenire.
Il movimento democratico
moderno partì dall’idea che gli esseri umani fossero creati uguali: essa fu
espressa nella Dichiarazione di
indipendenza dei rivoluzionari nord
americani, nel 1776, dalla quale nacquero gli Stati Uniti d’America, che si
apre con questa frase:
Riteniamo verità evidenti che tutti gli
esseri umani sono stati creati uguali,
dotati dal loro Creatore di certi inalienabili Diritti, e tra questi quello
alla Vita, alla Libertà e alla ricerca della Felicità”.
Tutta la storia successiva di
quel movimento è consistita in uno sviluppo di quell’idea e, in particolare, in una lunga
serie di lotte sociali con tutte le strutture ideologiche e
politiche che vi si opponevano. Dal punto di vista degli esseri umani che
volevano conquistare la dignità di
persone, questo processo sociale appare come una liberazione, connotato quindi da principi di libertà. Quest’ultima è
stata una difficile conquista nella nostra confessione religiosa.
L’altro giorno su una rivista
che ricevo ho trovato notizia di un saggio di prossima pubblicazione del prof.
Alberto Monticone, storico esponente del laicato di fede italiano, dal titolo Essere laici. Quale spiritualità laicale?.
Secondo Monticone questo spiritualità è
una devozione-programma che si affida alla libertà interiore, alla libertà spirituale, alla libertà di coscienza e di intelligenza delle
persone.
C’è chi prega “Fa
di me ciò che vuoi, sono tua proprietà”: io mai e poi mai lo farò. Non è
vero che siamo stati chiamati amici,
non servi o peggio schiavi? E che seguiamo una verità che ci farà liberi? Sono cose
che vanno prese sul serio.
L’idea che ogni essere umano
sia persona e che abbia una propria dignità inviolabile è un principio rivoluzionario, nel vero senso
della parola, capace di cambiare il mondo. Viene messa alla prova ogni giorno,
nella nostra vita quotidiana: non sempre si è all’altezza dei grandi principi
proclamati. Arriva gente dall’Africa sui barconi: che ne facciamo? “Rimandiamoli a casa loro”, dicono
alcuni. Se
però riconosciamo ai nuovi arrivati la dignità di persona, questa è anche casa loro.
Quella dignità dissolve infatti la condizione di straniero. Possiamo rimandarli a casa loro, una casa che in realtà non hanno più altrimenti non
sarebbero mai partiti, solo non riconoscendo loro la dignità di persona. Ma lo
stesso problema si ripropone ogni volta che, profittando di condizioni sociali
che ci sono favorevoli, facciamo degli altri ciò che vogliamo, ad esempio ci
serviamo del loro lavoro pagandolo secondo certe condizioni di mercato loro
avverse, vale a dire troppo poco. “Il
lavoratore ha diritto ad una
retribuzione proporzionata alla quantità
e qualità del suo lavoro e in ogni caso
sufficiente ad assicurare a sé e alla
famiglia una esistenza libera e dignitosa” è scritto nell’art.36 della nostra
Costituzione. E’ chiaro che l’economia italiana
non funziona secondo questo principio: chi crede ancora nella nostra
Costituzione lotterà per cambiare l’economia, chi non vi crede brigherà per
cambiare la Costituzione. Dico brigherà perché
cose come quelle vanno fatte senza troppo clamore, sotto traccia, sotto-sotto,
pezzetto per pezzetto, perché contrastano con gli interessi dei più: li si deve
far trovare davanti al fatto compiuto e far loro capire che la resistenza è
inutile e impossibile, che ogni procedura democratica può essere aggirata,
perché il mercato è il mercato ed esso è l’unico vero dio e le sue leggi sono
le uniche veramente inviolabili, non possono essere sottoposte a referendum
popolare e anche se si sono raccolte le firme necessarie per indirlo bisognerà
sempre ricominciare da capo, e comunque sarà sempre tutto inutile. Le lotte
sociali democratiche esigono invece di essere fatte apertamente e con
cognizione di causa, dopo avere capito bene le questioni che si pongono, perché
devono coinvolgere quei più, le masse. Pagare con giustizia il lavoro è anche
un principio religioso: violarlo rientra nei peccati più gravi, quelli di cui
si insegna che gridano. Il grido degli oppressi sale al
Cielo e viene ascoltato, è scritto. Ma, come è stato detto durante la nostra
Resistenza storica, dal gruppo di Barbareschi e Olivelli, non ci sono liberatori, ma persone che si liberano.
Fede e politica a volte sono
viste come cose distinte. Ma è attraverso la politica che si trasforma la
società e questo ha anche un valore religioso, perché è nella società che ci
vive e manifesta la dignità di persone che la fede invoca. Occorre quindi anche
costruire una specifica spiritualità, come sostiene il prof. Monticone. E’ cosa
di cui si dovrebbero occupare i laici in una parrocchia, con l’aiuto dei preti.
Innanzi tutto cercando di capire: non è scontato che si abbia una
visione realistica della società e dei
suoi moti sociali. E poi cercando di cambiare, a partire dalle realtà di
prossimità. Quando ci si tiene sui massimi sistemi le cose, paradossalmente, si
fanno più facili. Se si volesse, ad
esempio rivoluzionare l’urbanistica della nostra via Val Padana, per
renderla conforme alla dignità di persona di chi abita nel quartiere, le cose
si farebbero più difficili. Perché l’ovale davanti dello slargo avanti alla
chiesa parrocchiale deve essere sequestrato dalle autovettura private, usandolo
come parcheggio? Non potrebbe farsene
una piazza costruendo una continuità urbanistica con il vicino giardino al
centro del viale? Però una ventina di persone dovrebbero parcheggiare un po’
più lontano da casa. Provate a proporre
una cosa simile e le avrete accanitamente contro. Non c’è nessuna conquista
sociale senza una lotta. Questo è vero,
ad esempio, per i principi di civiltà proclamati nell’enciclica Laudato si’. Ma se anche quelli che
parcheggiano nell’ovale si convincessero che loro stessi e le loro famiglie
vivrebbero meglio? Convincere è una parte importante di ogni programma
realmente democratico. Si contrappone al fascinare,
al modo dell’industria commerciale, che è invece la strategia generalmente
seguita da chi comanda oggi in politica, e consiste nel procedere per comunicati commerciali che cercano di far leva sulla pancia della gente, invece che sulla testa. Come quando si sostiene,
spregiando i principi di quell’enciclica, “la
mia nazione prima di tutto” e i più vengono indotti a credere che da questo
ne avranno un vantaggio perché saranno abbandonati solo gli altri, salvo poi a dovere prendere atto che loro stessi e i
loro figli stanno facendo la stessa
fine. Accade nell’Italia di oggi. Abbiamo occhi preoccupati solo per chi arriva
sui barconi e non per i nostri figli che, anche loro, stanno partendo verso
settentrione, e c’è chi non li sopporta più e vorrebbe rimandarli a casa loro.
65.Non siamo formiche
Da ragazzo mi piaceva osservare le formiche. Costruiscono delle
società complesse. Hanno precisi ruoli sociali a cui corrispondono
caratteristiche fisiche e fisiologiche. La maggior parte sono operaie
e fanno la spola tra l’ambiente e il formicaio portando qualcosa. Ci sono
quelle che fanno la guardia al formicaio e hanno testa e tenaglie più grosse.
Dentro il formicaio ce n’è una che produce le uova. I maschi durano pochissimo,
giusto il tempo per fare quello che devono. Le femmine vanno a rinchiudersi nel
fondo di un formicaio e trascorrono tutta la vita producendo uova, assistite
dalle altre formiche. Femmine e maschi nascono con le ali. Quando una femmina
inizia a fare uova e diventa regina nel formicaio se le
strappa, non le servono più. La maggior parte delle formiche non sono né maschi
né femmine: non serve loro esserlo per fare ciò che devono. Dicono che le
formiche usino poco gli occhi: è la chimica che le guida nel mondo circostante.
Le formiche sono sempre in attività, dentro e fuori il formicaio, non oziano
mai. Tengono nei formicai degli altri insetti, gli afidi, dai quali ricavano
una sostanza nutriente, e questo richiama un po’ le nostre abitudini di
allevatori. Le formiche nascono e muoiono e sono sempre in giro a fare
qualcosa. A volte ci danno fastidio e le combattiamo. Dentro casa ci riesce di
averne ragione, fuori è molto più difficile, come ben sa chi ci ha provato. La
strategia è quella di trovare e bloccare tutte le uscite di un formicaio.
All’aperto è lavoro quasi impossibile. Poi, in una certa stagione, nascono le
regine, volano via e fondano nuovi formicai.
Ad un certo punto, dopo aver
guardato per un po’ le formiche, mi chiedevo: ma a che serve tutto questo?
Il mondo animale è organizzato un po’ tutto come il formicaio. Gli
animali superiori conoscono il gioco e l’ozio. I carnivori sono quelli che
sembrano avere più tempo libero. Mangiano cose, gli altri animali, che nutrono
velocemente. Da un certo punto di vista sembra che tutto sia organizzato in
modo che tutti mangino tutti. C’è questa catena alimentare che fa risparmiare
energia. Tutti cercano di non farsi mangiare, con diverse strategie, o che,
comunque, di loro ne sopravviva sempre a sufficienza perché la specie continui.
Questo continuo cercarsi per mangiarsi rende la natura piuttosto violenta, su
piccola e su grande scala. Anche le formiche lo sono. Alcune specie fanno
schiavi. Tutte attaccano e smembrano altri insetti. La visione idilliaca che
abbiamo della natura è un po’ irrealistica. E quando guardo i gigli del
campo e gli uccelli del cielo, secondo
l’esortazione evangelica, non sono mica poi tanto tranquillizzato, appunto per
tutta questa violenza che vedo nella natura e che coinvolge anche loro. Le
società umane sono organizzate in modo da porvi in qualche modo rimedio e
questo le distingue nettamente da tutte le altre società dei viventi. Questo
però ha un costo in termini ambientali. Le nostre società sono molto meno
violente, ma consumano molta più energia e, soprattutto, molto più ambiente.
Dove vivono di solito gli altri primati, vale a dire i viventi che dal punto di
vista biologico ci sono più simili? Non hanno tutte le nostre
pretese. Ma le nostre non sono solo velleità. Sperimentiamo la gioia
del vivere che negli altri viventi, tutti impegnati a mangiarsi tra
loro e a non farsi mangiare, non è particolarmente evidente. Chi ci indica la
strada del ritorno verso la natura ci vuole ricacciare in quello che, da un
punto di vista umano, è un inferno in terra.
Questo sforzo di ridurre la violenza
della vita sociale è una invenzione specificamente umana. In natura nessun
vivente ci ha mai pensato e ci pensa. Ci si mangia a vicenda senza tanti
problemi, senza remore morali: la morale della natura è appunto quella di
mangiarsi gli uni gli altri. I carnivori diventano vegetariani solo per estrema
necessità, se non c’è nient’altro di meglio da mangiare, e i vegetariani
rimangono sempre tali, per ciò che so. Del resto di vegetali c’è n’è tanti in
giro. Ognuno rimane ciò che è e non si preoccupa della sofferenza degli altri
che ammazza. Gli umani vorrebbero essere diversi.
Tutta la nostra ingegneria
sociale è volta a questo: a ridurre la violenza tra gli umani. E le guerre? Ci
sono sempre, ma si cerca di regolarle, di contenerle. C’è anche un diritto di
guerra. Anche i guerrieri più accaniti della storia dell’umanità, i mongoli, ad
un certo punto crearono una società globalizzata, veramente
molto estesa, pacificata. Nel Duecento ci capitò dentro Marco Polo e ne rimase
meravigliato.
C’è però un settore della
nostra organizzazione sociale che si vuole regolato dalla legge della giungla,
quella per la quale tutti mangiano tutti e cercano di non farsi mangiare:
è l’economia. Dicono che questo ordine sia razionale, fa risparmiare energia. Ma
dà gioia? Non la dà. Ci spinge a farci come le formiche. Provate a vedere la
cosa sotto questo punto di vista: non è che in tante cose, nelle nostre vite,
ci siamo fatti formiche? E non parlo delle virtù proposte dall’apologo
della formica e della cicala. Dico proprio formiche,
con quella vita che ho descritto sopra. Tutti incastrati in un’organizzazione
sociale, nei propri ruoli strumentali alla produzione, in cui la vista, che ci
dà tanta gioia, conta poco e molto di più la chimica.
La gioia è fondamentale
nella vita religiosa. La religione attira ancora perché dà gioia, e la gioia dà
senso alla vita. Questa importanza che dà alla gioia della vita la pone in
rotta di collisione con l’economia basata sulla legge della giungla. Era scuro
in volto il nostro Francesco quando ha incontrato il potente signore d’oltre
oceano che gli ha detto che guiderà il suo popolo secondo la legge della
giungla. Dicono che quest’ultimo non sia un appassionato lettore di libri.
Francesco gliene ha regalati alcuni. Parlano della necessità di non seguire la
legge delle giungla nelle faccende umane, se non si vuole la catastrofe
ambientale e sociale. L’americano ha detto “li leggeremo”,
ma non credo che sia un plurale di maestà, come quelli che una volta usavano i
sovrani. Ha poco tempo uno come lui, dominatore del mondo. Beh, spero che chi
li leggerà gliene faccia un sunto affidabile che poi lo invogli alla lettura
personale.
Sotto certi aspetti una
parrocchia potrebbe essere vista come un formicaio: tante persone operose che
vanno e vengono in un posto con tante stanze, e ciascuna ha il suo da fare. Ma
non è governata secondo la crudele legge della natura. Risuonano canti e
campane e non è come accade agli uccelli, che cantano per sfidarsi e marcare il
loro spazio, anche se a noi sembrano tanto carini: è la gioia della vita che si
vorrebbe evocare e suscitare. Un prete che fu tra noi diversi anni fa,
osservava sconsolato che la gente usciva dalla Messa ingrugnata, scura in
volto. Voleva migliorare la situazione, ma, come ho detto, alla fine vidi anche
lui scuro in volto è se ne andò. Tutto il lavoro religioso, a ben pensarci, è
volto a diffondere quella che il nostro Francesco ha chiamato la gioia
del Vangelo, scrivendoci sopra anche un’esortazione, che non sarebbe male
tenere a mente.
66. Magistero
costituzionale
Qualche giorno fa a Genova e
sabato scorso a Roma, in visita al Presidente della Repubblica, papa Francesco
ha sviluppato un magistero costituzionale, ricordandoci alcuni dei valori più
importanti della nostra Costituzione, in particolare quello del lavoro come
fondamento della dignità sociale e della laicità delle istituzioni pubbliche, e
l’importanza di collaborare alla costruzione della democrazia politica rafforzando i legami tra la gente e le
istituzioni, perché da questa
tenace tessitura e da questo impegno corale si sviluppa la vera democrazia.
Riporto di seguito il testo dell’intervento del Papa. Lo storico Alberto
Melloni ha segnalato la grande rilevanza di quel magistero per la vita pubblica
italiana e ha ricordaro come in altre
occasioni critiche per l’Italia vi siano stati interventi simili. Aggiungo che,
a mia memoria, mai i papi hanno sviluppato un magistero centrato sui valori
democratici repubblicani. E, quanto alla laicità, si sono sempre mostrati
piuttosto diffidenti e sospettosi, in quanto essa è un limite interno anche al
loro potere religioso, non solo a quello che esercitano di fatto nella società
civile: mai hanno parlato, a mia memoria, di laicità addirittura amichevole. Di solito subivano la laicità, cercando di delimitarla
puntigliosamente, specialmente all’interno dell’organizzazione religiosa e si
capiva bene che avrebbero preferito gente più docile, mentre secondo il principio di laicità ci si propone di non
esserlo.
VISITA UFFICIALE DEL SANTO PADRE AL
PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ITALIANA
SERGIO MATTARELLA
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Palazzo del Quirinale
Sabato, 10 giugno 2017
[da
http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2017/june/documents/papa-francesco_20170610_visita-quirinale.html]
Signor
Presidente,
La ringrazio per le cordiali
espressioni di benvenuto che Ella mi ha rivolto a nome dell’intero popolo
italiano. Questa mia visita si inserisce nel quadro delle relazioni tra la
Santa Sede e l’Italia e vuole ricambiare quella da Lei compiuta in Vaticano il
18 aprile 2015, poco tempo dopo la Sua elezione alla più alta carica dello
Stato.
Guardo all’Italia con speranza.
Una speranza che è radicata nella memoria grata verso
i padri e i nonni, che sono anche i miei, perché le mie radici sono in questo
Paese. Memoria grata verso le generazioni che ci hanno preceduto e che, con
l’aiuto di Dio, hanno portato avanti i valori fondamentali: la dignità della
persona, la famiglia, il lavoro… E questi valori li hanno posti anche al centro
della Costituzione repubblicana, che ha offerto e offre uno stabile quadro di
riferimento per la vita democratica del popolo. Una speranza, dunque, fondata
sulla memoria, una memoria grata.
Viviamo tuttavia un tempo nel quale
l’Italia e l’insieme dell’Europa sono chiamate a confrontarsi con problemi e
rischi di varia natura, quali il terrorismo internazionale, che trova alimento
nel fondamentalismo; il fenomeno migratorio, accresciuto dalle guerre e dai
gravi e persistenti squilibri sociali ed economici di molte aree del mondo; e
la difficoltà delle giovani generazioni di accedere a un lavoro stabile e
dignitoso, ciò che contribuisce ad aumentare la sfiducia nel futuro e non
favorisce la nascita di nuove famiglie e di figli.
Mi rallegra però rilevare che
l’Italia, mediante l’operosa generosità dei suoi cittadini e l’impegno delle
sue istituzioni e facendo appello alle sue abbondanti risorse spirituali, si
adopera per trasformare queste sfide in occasioni di crescita e in
nuove opportunità.
Ne sono prova, tra l’altro,
l’accoglienza ai numerosi profughi che sbarcano sulle sue coste, l’opera di
primo soccorso garantita dalle sue navi nel Mediterraneo e l’impegno di schiere
di volontari, tra i quali si distinguono associazioni ed enti ecclesiali e la
capillare rete delle parrocchie. Ne è prova anche l’oneroso impegno dell’Italia
in ambito internazionale a favore della pace, del mantenimento della sicurezza
e della cooperazione tra gli Stati.
Vorrei anche ricordare la fortezza
animata dalla fede con la quale le popolazioni del Centro Italia colpite dal
terremoto hanno vissuto quella drammatica esperienza, con tanti esempi di
proficua collaborazione tra la comunità ecclesiale e quella civile.
Il modo col quale lo Stato e il
popolo italiano stanno affrontando la crisi migratoria, insieme allo sforzo
compiuto per assistere doverosamente le popolazioni colpite dal sisma, sono
espressione di sentimenti e di atteggiamenti che trovano la loro fonte più
genuina nella fede cristiana, che ha plasmato il carattere degli italiani e che
nei momenti drammatici risplende maggiormente.
Per quanto riguarda il vasto e
complesso fenomeno migratorio, è chiaro che poche Nazioni non possono farsene
carico interamente, assicurando un’ordinata integrazione dei nuovi arrivati nel
proprio tessuto sociale. Per tale ragione, è indispensabile e urgente che si
sviluppi un’ampia e incisiva cooperazione internazionale.
Tra le questioni che oggi
maggiormente interpellano chi ha a cuore il bene comune, e in modo particolare
i pubblici poteri, gli imprenditori e i sindacati dei lavoratori, vi è quella
del lavoro. Ho avuto modo di toccarla non teoricamente, ma a
diretto contatto con la gente, lavoratori e disoccupati, nelle mie visite in
Italia, anche in quella recentissima a Genova. Ribadisco l’appello a generare e
accompagnare processi che diano luogo a nuove opportunità di lavoro dignitoso.
Il disagio giovanile, le sacche di povertà, la difficoltà che i giovani
incontrano nel formare una famiglia e nel mettere al mondo figli trovano un
denominatore comune nell’insufficienza dell’offerta di lavoro, a volte talmente
precario o poco retribuito da non consentire una seria progettualità.
È necessaria un’alleanza di sinergie
e di iniziative perché le risorse finanziarie siano poste al servizio di questo
obiettivo di grande respiro e valore sociale e non siano invece distolte e
disperse in investimenti prevalentemente speculativi, che denotano la mancanza
di un disegno di lungo periodo, l’insufficiente considerazione del vero ruolo
di chi fa impresa e, in ultima analisi, debolezza e istinto di fuga davanti
alle sfide del nostro tempo.
Il lavoro stabile,
insieme a una politica fattivamente impegnata in favore della famiglia,
primo e principale luogo in cui si forma la persona-in-relazione, sono le
condizioni dell’autentico sviluppo sostenibile e di una crescita armoniosa
della società. Sono due pilastri che danno sostegno alla casa comune e che la
irrobustiscono per affrontare il futuro con spirito non rassegnato e timoroso,
ma creativo e fiducioso. Le nuove generazioni hanno il diritto di poter
camminare verso mete importanti e alla portata del loro destino, in modo che,
spinti da nobili ideali, trovino la forza e il coraggio di compiere a loro
volta i sacrifici necessari per giungere al traguardo, per costruire un
avvenire degno dell’uomo, nelle relazioni, nel lavoro, nella famiglia e nella
società.
A tale scopo, da tutti coloro che
hanno responsabilità in campo politico e amministrativo ci si attende un
paziente e umile lavoro per il bene comune, che cerchi di rafforzare i
legami tra la gente e le istituzioni, perché da questa tenace tessitura e
da questo impegno corale si sviluppa la vera democrazia e si avviano a
soluzione questioni che, a causa della loro complessità, nessuno può pretendere
di risolvere da solo.
La Chiesa in Italia è
una realtà vitale, fortemente unita all’anima del Paese, al sentire della sua
popolazione. Ne vive le gioie e i dolori, e cerca, secondo le sue possibilità,
di alleviarne le sofferenze, di rafforzare il legame sociale, di aiutare tutti
a costruire il bene comune. Anche in questo, la Chiesa si ispira
all’insegnamento della Costituzione pastorale Gaudium et spes del
Concilio Vaticano II, che auspica la collaborazione tra comunità ecclesiale e
comunità politica in quanto sono, entrambe, a servizio delle stesse persone
umane. Un insegnamento che è stato consacrato, nella revisione del Concordato
del 1984, nell’articolo primo dell’Accordo, dove è formulato l’impegno di Stato
e Chiesa «alla reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e il bene
del Paese».
Questo impegno, col richiamo al
principio della distinzione fissato nell’art. 7 della Costituzione, esprime e
ha promosso al tempo stesso una peculiare forma di laicità, non
ostile e conflittuale, ma amichevole e collaborativa, seppure nella rigorosa
distinzione delle competenze proprie delle istituzioni politiche da un lato e
di quelle religiose dall’altro. Una laicità che il mio predecessore Benedetto XVI definì
“positiva”. E non si può fare a meno di osservare come, grazie ad essa, sia
eccellente lo stato dei rapporti nella collaborazione tra Chiesa e Stato in
Italia, con vantaggio per i singoli e l’intera comunità nazionale.
L’Italia ha poi il singolare onere ed
onore di avere, nel proprio ambito, la sede del governo universale della Chiesa
Cattolica. È evidente che, nonostante le garanzie offerte con il Trattato del
1929, la missione del Successore di Pietro non sarebbe facilitata senza la
cordiale e generosa disponibilità e collaborazione dello Stato italiano. Se ne
è potuta avere una ulteriore dimostrazione nel corso del recente Giubileo
straordinario, che ha visto tanti fedeli venire a Roma, presso le tombe degli
Apostoli Pietro e Paolo, nello spirito della riconciliazione e della
misericordia. Nonostante l’insicurezza dei tempi che stiamo vivendo, le
celebrazioni giubilari hanno potuto svolgersi in maniera tranquilla e con
grande vantaggio spirituale. Del grande impegno assicurato dall’Italia al
riguardo la Santa Sede è pienamente consapevole e sentitamente grata.
Signor Presidente,
sono certo che, se l’Italia saprà
avvalersi di tutte le sue risorse spirituali e materiali in spirito di
collaborazione tra le sue diverse componenti civili, troverà la via giusta per
un ordinato sviluppo e per governare nel modo più appropriato i fenomeni e le
problematiche che le stanno di fronte.
La Santa Sede, la Chiesa Cattolica e
le sue istituzioni assicurano, nella distinzione dei ruoli e delle
responsabilità, la loro fattiva collaborazione in vista del bene comune. Nella
Chiesa Cattolica e nei principi del Cristianesimo, di cui è plasmata la sua
ricca e millenaria storia, l’Italia troverà sempre il migliore alleato per la
crescita della società, per la sua concordia e per il suo vero progresso.
Che Dio benedica e protegga l’Italia!
Parole a braccio del Papa rivolte ai
bambini nei Giardini del Quirinale
Cari ragazzi e ragazze, grazie tante
di essere qui. Grazie tante per il vostro canto e anche per il vostro coraggio.
Andate avanti con coraggio, sempre su, sempre su! E’ un’arte salire sempre. E’
vero che nella vita ci sono difficoltà - voi avete sofferto tanto con questo
terremoto - ci sono cadute, ma mi viene in mente quella bella canzone che
cantano gli alpini: “Nell’arte di salire il successo non sta nel non cadere ma
nel non rimanere caduto”. Sempre su, sempre quella parola “alzati”, e su! Che
il Signore vi benedica!
67. Religione e democrazia da poco sono tra loro
contemporanee
Religione e democrazia possono essere viste come forme di organizzazioni
sociali fondate su determinati valori. L’attrito tra di esse è determinato dal
fatto che solo di recente sono divenute contemporanee, da poco più di due
secoli. Prima è nata la religione e poi la democrazia come noi la intendiamo.
Per di più quest’ultima ha subito rapidi cambiamenti, cercando includere sempre
più persone. Anticamente era basata sull’idea di cittadinanza, vale a dire
sulla particolare dignità riconosciuta a certe persone nel contesto civile e
ciò significava escludere chi cittadino
non veniva riconosciuto, vale a dire gli stranieri, gli schiavi, e, in
genere, le donne. L’idea di democrazia contemporanea propone una democrazia
universale, che include tutti. In
questa universalità si è avvicinata ad alcune concezioni religiose.
In
religione si pensa spesso che l’antichità sia una conferma di autenticità,
valore ed efficacia. Questo è paradossale, perché sappiamo che il progresso è
andato in genere dal passato al futuro, non all’indietro. Così appunto la pensano
i democratici, che hanno alle spalle sistemi politici non democratici dai quali
la democrazia è emersa combattendo.
Le
religioni appaiono in genere strutturate per sistemi politici del passato. E’
il caso della nostra confessione religiosa, organizzata come un impero feudale.
Le democrazie vorrebbero religioni più adatte ai loro ideali. E’ cosa che si
tentò di fare durante i processi democratici che si produssero nella Francia di
fine Settecento, ma non funzionò. Attraverso le religioni ci colleghiamo agli
avi e vorremmo che i nostri posteri pensassero a noi come noi pensiamo a chi ci
ha preceduto. E’ esperienza comune aver appreso gran parte di ciò che si sa e
che è utile in società dai genitori, ma è anche l’identità sociale che è legata
a loro. Parliamo di patria e richiamiamo l’idea di un padre. L’archetipo, il modello più
antico, di società civile è la tribù,
piuttosto vicina alle esperienze sociali che osserviamo in altri primati, i
viventi che dal punto di vista biologico ci somigliano di più. Nelle società
tribali sono sorte le più antiche religioni.
L’idea che le potenze soprannaturali alle quali si rivolgono le
religioni fossero compassionevoli verso l’umanità è uno sviluppo tutto sommato
piuttosto recente. Le religioni più antiche si affannavano a accattivarsi il
favore di potenze capricciose e crudeli. Nelle religioni compassionevoli
troviamo l’origine delle idee di base delle democrazie. Ecco il collegamento
ancora vitale.
Accordare religioni compassionevoli e democrazia ha creato problemi per
la politica che c’era in mezzo. Infatti la politica si era sacralizzata secondo quelle
religioni, vale a dire che proponeva il proprio potere come assoluto, quindi insindacabile, come le
potenze soprannaturali alle quali le religioni si rivolgevano. E la politica
sacralizzata non era democratica: dominavano dinastie di sovrani. In democrazia
si vorrebbe che tutti divenissero sovrani. E’ questo quello che si
propone proclamando che la democrazia appartiene al popolo.
Agli
inizi del Novecento l’idea che democrazia e religione potessero andare
d’accordo fu considerata eretica in Italia. Ma non era considerata tale, ad
esempio, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti d’America. Non c’è una
incompatibilità assoluta, ma tutto dipende da che politica tenta la mediazione.
Sabato scorso, visitando il Quirinale, il Papa ha parlato di
collaborazione e amicizia tra religione e repubblica democratica. Occorre
costruire relazioni virtuose, ha detto. Quella è la via che va seguita anche in
realtà sociali come le parrcchie, sperimentando una democrazia che abbia nella
religione una risorsa, non un problema.
68. Dialogo come metodo e mentalità
E’ da un bel po’ che non
partecipo ad assemblee di istituzioni di partecipazione della Diocesi, quelle
in cui i laici dovrebbero dare una mano come consulenti. Devo dire che quelle
esperienze non furono esaltanti. Ci si convergeva da estranei e si stringevano
alleanze per le nomine. Non c’era molto altro. Mi parevano dominate dai gruppi.
Del resto le parrocchie tendono a diventare piccoli mondi isolati e nel lavoro
collettivo gli isolati contano poco o nulla.
Ci sono istituzioni da cui
partono direttive d’azione e i gruppi maggiori vogliono avervi voce, mandare
gente propria. Per farlo bisogna accordarsi con gli altri, se non si ha la
forza sufficiente. Il tempo quindi viene impiegato in queste trattative. Lo si
fa in cenacoli riservati, mentre sul palco parla qualche esperto. Ai tempi
nostri di solito gli esperti spiegano come vanno le cose, e ognuno più o meno
lo sa già, ma non danno soluzioni. Sembra che la cultura non se ne senta più
responsabile, lo osservò Zygmunt Bauman, ma anche lui fu piuttosto sintetico
nelle proposte operative, anche se ne fece.
Il problema è che, quando ci si
incontra per quelle faccende, si è e si rimane estranei, perché il tempo è poco
e, per di più, non si è veramente interessati agli altri. In religione, da noi,
si preferisce passare il tempo tra gli amici propri. Non conoscendosi, riesce
difficile sviluppare il dialogo, che è un modo di mettere in relazione i punti
di vista e le storie delle persone. Presuppone una mentalità, quella di
essere interessati agli altri. Spesso si è impegnati, invece, a fare
proselitismo, che significa aggregare gli altri al proprio gruppo,
assimilandoli. Nel dialogo gli altri rimangono tali, ma è possibile farsene
degli amici. Il lavoro collettivo è più produttivo se collaborano amici, se si
collabora da amici. Allora non prevale la logica dello scambio, per cui si è
disposti a dare esattamente quanto si riceve o si prevede di ricevere.
Si potrebbe pensare che,
in religione, con tutto il parlare di amore che si fa, sia più
facile intendersi, ma non è così. In religione, in genere, ci si odia
ferocemente. Del resto la lunga storia della nostra fede ce lo conferma.
La pace è diventata un valore realistico, da
perseguire anche nella vita reale, molto di recente nelle nostre concezioni
religiose. A che cosa è dovuto tutto questo odio? In parte viene
naturale, è il nostro istinto di antiche belve che si fa sentire. In questo ci
manifestiamo simili agli altri viventi, come lo siamo nella biologia e nella
fisiologia. In parte è dovuto proprio alla religione, quando si pensa di avere
un filo diretto con il Cielo e si sacralizzano le
proprie concezioni, vale a dire che non si accetta che vengano poste in
discussione. L’idea che, in società, vi siano valori non
negoziabili è espressione di questo modo di pensare. Se non si negozia
si va allo scontro frontale. In una mentalità di dialogo non vi sono valori non
negoziabili, perché è ammessa la discussione su tutto. Ma il dialogo è
possibile quando ci si accorda su questo principio: che tutti siano uguali in
dignità. L’altro va rispettato in questa dignità che ci si riconosce
reciprocamente. Questo poi comporta dei limiti sia nella dialettica, sia nelle
relazioni concrete, in ciò che si fa agli altri. Nel pensiero di Ghandi [Mohandas Karamchand Gandhi, mahatma, grande
anima, capo spirituale e politico indiano vissuto tra il 1869 e
il 1948], i primi rientrano nell’idea di nonmenzogna, gli altri
nella nonviolenza.
In religione ci si propone, in
linea di principio, una grande apertura verso gli altri. Vorremmo fare
dell’intera umanità un’unica famiglia. Bello. Poi però qualche volta si parte
male, pensando di inaugurare una sorta di casting, di selezione per
scegliere chi può partecipare ai nostri eventi religiosi. E’ questo che succede
quando si sbotta che non si vuole “abbassare l’asticella” (l’ho
sentito dire da un esponente in un nostro gruppo) o “fare un
compromesso al ribasso” (l’ho sentito dire da un’esponente di un
gruppo che a quell’altro si oppone). Poiché queste espressioni, simili
nel contenuto, sono venute da gente di opposti schieramenti
ecclesiastici, credo che si tratti di una mentalità piuttosto diffusa. Chi l’ha
detto che la religione deve essere, per la gente comune, una gara di salto in
alto? E che cos’è poi questo snobistico disprezzo per gli altri, come se ci
fosse un basso in cui far rimanere confinati quelli che non
saltano abbastanza in alto? Uno come Ignazio di Loyola [vissuto nel
Cinquecento; è il fondatore dei Gesuiti] consigliava invece di abbassarsi il
più possibile e di far mostra di ritenere gli altri sempre migliori di sé
stessi, tacendo di ciò di cui di loro non si poteva parlar bene. Il nostro
padre Francesco ci dà ogni giorno degli esempi di questo modo di fare con gli
altri. Non sarebbe male prendere lezione da lui, che, in definitiva, è quello
che è. Invece vedo che alcuni storcono il naso e, a mezza voce, dicono di
rimpiangere quelli di prima. Ma non è che questi ultimi poi la pensassero
diversamente. Perché: gli umili saranno innalzati. È scritto.
E’ umile chi vuole alzare l’asticella e
rifiutare di trattare con gli altri se sono troppo in basso?
Tutti questi problemi che
ho descritto fatalmente si ripropongono anche in realtà di prossimità come i
consigli pastorali parrocchiali. E questo anche se ci si dovrebbe conoscere
molto meglio, perché si hanno più occasioni per frequentarsi. Ma questo non
accade anche nei condomini? Eppure sappiamo che le assemblee di condominio non
sono, di solito, esattamente un modello di dialogo e di rispetto della dignità
degli altri. La prossimità aiuta, ma occorre un cambio di mentalità.
C’è una difficoltà a
sviluppare un dialogo costruttivo e deriva in particolare dai confusi concetti
teologici che noi laici spesso abbiamo in testa. La teologia è una cosa seria.
Raramente però un laico ha la possibilità di una sufficiente formazione
teologica, ma, in definitiva, non gli è nemmeno necessaria. Uno come Giuseppe
Dossetti la riteneva addirittura controproducente. Viviamo in un mondo plasmato
dall’ingegneria (delle costruzioni, meccanica, idraulica, elettronica,
telematica, biologica ecc.), ma non abbiamo bisogno di prendere una laurea in
ingegneria per viverci. In religione è indispensabile una buona spiritualità,
che si acquisisce con la pratica liturgica, la frequenza al magistero e la
meditazione personale sulle Scrittura. Dovremmo concentrarci su questa faccenda
dell’amore, che è agàpe, il lieto convito a cui tutti devono
trovare posto. Questa è una buona base per una convivenza religiosa.
Dal pensiero religioso ho
sintetizzato alcune regole che mi porto sempre dietro:
Fuggi il male
Segui con fermezza il bene
Ama gli altri come fratelli
Sii premuroso nello stimare gli altri
Sii impegnato e non pigro
Allegro nella speranza
Paziente nelle tribolazioni
Perseverante nella preghiera
Sii pronto ad aiutare i tuoi fratelli
quando hanno bisogno
Fai di tutto per essere ospitale
Chiedi a Dio di benedire quelli che
ti perseguitano; di perdonarli non di castigarli;
Sii felice con chi e’ nella gioia,
piangi con chi piange;
Vai d’accordo con gli altri
Evita le discussioni sulle parole e
le chiacchiere inutili
Non inseguire desideri di grandezza,
volgiti piuttosto verso le cose umili
Non ti stimare sapiente da te stesso
Non rendere a nessuno male per male
Preoccupati di fare il bene dinanzi a
tutti
Se possibile, per quanto dipende da
te, vivi in pace con tutti
Non vendicarti
Non lasciarti vincere dal male, ma
vinci il male con il bene
Sii paziente e generoso
Non essere invidioso
Non vantarti
Non gonfiarti di orgoglio
Non cercare il tuo interesse
Non cedere alla collera
Dimentica i torti
Non godere dell’ingiustizia
La verità sia la tua gioia
Tutto scusa
Di tutti abbi fiducia
Tutto sopporta
Non perdere mai la speranza.
Con Google potrete trovare da
dove le ho prese: è anche questo un esercizio spirituale.
Vedete che non ci sono i
comandamenti “Non abbassare l’asticella”,“Non fare compromessi
al ribasso”.
Spesso si ha l’idea che sia in
atto un conflitto all’ultimo sangue tra ortodossi, quelli della propria parte,
ed eretici, quelli dell’altra. Si preferirebbe che questi ultimi sparissero.
Abbiamo la scomunica facile, noi laici, e questo anche se i nostri capi
religiosi fanno diversamente. Ora si vorrebbe scomunicare i corrotti, ho letto,
ma non si è presa la cosa tanto alla leggera, pubblicando presto presto
la bolla, il decreto che la commina: ci si è fatta una
commissione sopra, che sta studiando la cosa. Noi, per faccende infinitamente
meno importanti, andiamo invece per le spicce. Ma chi siamo noi per
scomunicare? No, lo dico sul serio, non come fa il nostro padre Francesco,
che, se volesse, potrebbe scomunicare chi crede debba esserlo! Chi siamo noi
per alzare le asticelle, far saltare i compromessi, indicare agli altri la
porta in uscita e via dicendo?
In un consiglio pastorale
parrocchiale ci si dovrebbe riconoscere amici, volerlo veramente
essere, cercare di esserlo, sforzarsi in questo. Ricordiamo ciò che ci ha diviso
solo per proporci di non dividerci più. Dobbiamo fare memoria delle
esperienze di divisione per imparare l'unità tra noi. Questa è memoria
purificata, secondo l'insegnamento di san Karol Wojtyla. La
nostra miserella teologia da incolti teniamola da parte e piantiamola con l’ecclesialese di
cui ci riempiamo la bocca per non dire nulla.
In parrocchia abbiamo un
problema: includere. Chi? Tutta la gente del quartiere
che si riconosce nella nostra fede. Ma perché non pensare addirittura più in
grande? Perché non pensare addirittura a chi non si è mai riconosciuto o non si
riconosce più nella nostra fede? Questo è il nostro dovere, ce lo dicono
chiaramente i nostri maestri. Ma se non riusciamo a includere nemmeno tutti
quelli che vivono la nostra fede, come possiamo pensare di andare oltre?
Cominciamo a fare pratica di inclusione e di dialogo, il resto verrà, e non
sarà nemmeno tutta opera nostra, perché il Cielo, in definitiva, c’è.
69. Interpretare il mondo contemporaneo
Il mondo in cui viviamo può
essere letto e capito, come un libro. I buoni lettori hanno quindi più risorse
per viverci dentro perché a questo sono abituati. Ma a leggere si impara, non
è un’abilità innata. Chi insegna a leggere il mondo, oggi? Questo è
appunto il nostro problema principale.
Le religioni sono state
storicamente chiavi di lettura dei mondi sociali. Insegnavano alla gente a
leggerli e quindi a viverci meglio. Con la modernità, diciamo negli ultimi
cinquecento anni, lo hanno fatto sempre peggio. Questa è stata una vera
tragedia perché, in questo modo, i mondi sociali sono cominciati a divenire
incomprensibili a molti. Le esperienze religiose hanno iniziato a distaccarsi
dalla realtà e a rifugiarsi nell'immaginazione. Da esperienze sociali hanno
preso a trasformarsi in esperienze psicologiche, interiori. E’ l’idea della
religione come medicina dell’anima. Ogni religione, e in particolare quelle
maggiori, quelle storiche, molto antiche, ha avuto un suo modo per trasformarsi
così. Nella nostra è stata la sua antica organizzazione feudale a spingere
verso quel modello: la politica diventava democratica e minacciava la stabilità
del potere religioso, così si è assecondata l’interiorizzazione per bloccare
quell’evoluzione sociale. Si è puntato sullo star bene piuttosto
che sul vivere bene. Una volta che il risultato che ci si attende è
prevalentemente interiore si può dar libero sfogo al sogno. Si costruiscono
mondi immaginifici al modo in cui lo si fa nei videogiochi. Ci si pensa
onnipotenti come le potenze celesti. Il confronto con la realtà non c’è più.
Quello della religione diventa un mondo separato in cui si entra sognando. Si
possono fare belle esperienze, dicono, ma è quello che succede anche assumendo
stupefacenti. La religione così intesa è veramente una droga sociale,
assimilabile ad esempio all’LSD, lo stupefacente dei sogni formidabili, che si
diffuse tra gli occidentali a partire dagli anni Sessanta. Questa è una
religione psichedelica, vale a dire che induce stati di
coscienza alterati e che introduce in un mondo fantastico, in cui si sta
bene. Ma questo, come sempre accade con le droghe, non è veramente vivere.
Si vive solo nel mondo vero, reale. Altrimenti si sogna.
Il mondo così come veramente è
non teme la religione psichedelica. Teme invece la nostra religione se si
presenta come interpretazione realistica della società, se insegna a leggere il
mondo. E’ appunto quello che sta accadendo tra noi, ora. Un’enciclica come
la Laudato si’, del 2015, ne è un esempio molto chiaro. Questo tipo
di religione non spinge verso mondi psichedelici, ma verso la realtà sociale
così com’è, per cambiarla e vivere meglio.
Un tempo i nostri capi
religiosi vollero farsi imperatori e prìncipi al modo di quelli civili. Ora,
invece, è all’organizzazione delle Nazioni Unite che si ispirano. Nella nostra
organizzazione religiosa c’è tutto il mondo: è per questo che può capirlo
realisticamente. Vedete che il nostro padre Francesco ci è venuto
dall’altro capo della Terra? Basta entrare in una delle tante università
religiose di Roma per incontrarsi con gente di tutto il mondo. Anche i docenti
vengono da ogni parte dell’umanità.
Di fronte ai grandi fenomeni
sociali che hanno modificato il nostro vivere sociale molti si trovano
impauriti e non capiscono. Perché non posso chiudere le porte della mia nazione
come chiudo con le mandate le porte di casa mia, la sera? E, magari, se
provassero a immaginare da dove sono venuti i loro avi, scoprirebbero che sono
venuti da molto, molto lontano. L’umanità ha sempre girato molto: tutti sono
stati spinti dalle circostanze a uscire da casa propria. Noi tutti
che abitiamo oggi l’Europa siamo originari dell’Africa, ci dicono gli
antropologi confortati dai genetisti. Il sanscrito, l’antica lingua dell’India,
ha radici comuni con l’italiano: come è accaduto?
Si pensa, ad esempio, che più
gente arriva da noi, meno lavoro c’è, perché i nuovi arrivati rubano il
lavoro a quelli che c’erano prima. Ma non è così che funziona. Ce lo confermano
le scienze sociali. Più gente lavora, più lavoro c’è. E i sistemi sociali più
potenti della Terra sono oggi anche i più popolosi. La carenza di lavoro non
dipende dalla gente che arriva, ma dallo sfruttamento ingiusto del lavoro. E’
cosa che non potrebbe essere realizzata senza la nostra collaborazione, di noi
consumatori. Il lavoro non c’è perché noi consumiamo male. E la stessa cosa che
accade con il voto. Com’è, è scritto in un libro che sto leggendo, che la
grande maggioranza della popolazione vota secondo gli intessi dell’1% più ricco
che detiene quote molto rilevanti della ricchezza sociale, tra il 30 e quasi il
50% di quella totale, a seconda delle nazioni? Consumare meglio aiuterebbe a
vivere meglio, perché ci sarebbe più lavoro, ed essendovi più lavoro, più gente
lavorerebbe e allora ci sarebbe ancora più lavoro. Queste argomentazioni le
potete leggere nell’enciclica Laudato si’.
Così, venire in parrocchia non
significa rifugiarsi in un mondo di sogno, come quando
si entra in un posto come Disneyland. Significa non accontentarsi
dei mondi psichedelici in cui l’economia che sfrutta
e ruba lavoro e anche le fedi di tipo psichedelico vorrebbero
rinchiuderci per dominarci meglio. Significa capire che non basta stare
meglio, ma che occorre vivere meglio, e che per farlo bisogna
imparare a leggere il mondo così com’è, per cambiare quello che non
va. Capire>criticare>cambiare: questo è il percorso della liberazione
sociale. Alla critica sociale non siamo più tanto abituati in religione. I
nostri capi l’hanno temuta, ora però ci spingono verso quell’impegno. Che è una
via di laicità perché comporta di desacralizzare ogni
oggetto sociale di conoscenza: non c’è alcun mondo sociale che può invocare
l’esenzione alla critica. Perché, come si dice, la società deve sempre essere
riformata, che significa cambiata per migliorarla. Questo vale anche per la
stessa parrocchia. A volte si concepiscono le organizzazioni sociali come
stampelle per le psicologie individuali e allora le si sacralizza,
cercando di sottrarle ad ogni critica. Ma la società funziona solo se viene
costantemente riformata, altrimenti delude. Non riesce a mantenere le sue
promesse e allora, per resistere al cambiamento, spinge verso mondi
psichedelici. Le religioni del miracolo e delle esperienze
psichiche aumentate sono un po’ questo. D’altra parte è così facile
lasciarsi andare! Ma dove è scritto che si debba
fare così? Non è per esperienze psichedeliche che siamo stati mandati fino
ai più lontani confini.
70. Giustizia sociale come conversione. Papa
Francesco: lottare nei luoghi dei “diritti
del non ancora”. Note sul discorso di Papa Francesco ai
sindacalisti della CISL, il 28 giugno 2017
Economia di mercato: no. Diciamo
economia sociale di
mercato.
Sindacato è una bella parola che
proviene dal greco “dike”, cioè giustizia, e “syn”, insieme: syn-dike,“giustizia insieme”. Non c’è
giustizia insieme se non è insieme agli esclusi di oggi.
Non c’è una buona società senza un buon
sindacato, e non c’è un sindacato buono che non rinasca ogni giorno nelle
periferie; non svolge la sua funzione essenziale di innovazione sociale se
vigila soltanto su coloro che sono dentro,
se protegge solo i diritti di chi
lavora già o è in pensione.
Lottare nei luoghi dei “diritti del non
ancora”: nelle periferie esistenziali, tra gli scartati del lavoro.
Convertirsi: cioè fare un passo in
meglio.
Il 28-6-17 il nostro Padre
Francesco, incontrando a Roma i sindacalisti della CISL, ha parlato di economia
e società, di giustizia sociale, di sindacalismo buono e corrotto, della
necessità di un sindacalismo buono per cambiare in meglio la società attraverso
lotte sociali, della necessità di lottare anche per chi i diritti civili non li
ha ancora, in primo luogo per i giovani senza lavoro, del legame tra lavoro e
democrazia e di un capitalismo che induce in peccato, e in uno dei più grossi,
perché disconosce la natura sociale dell’economia e dell’impresa.
Vedremo come i giornali
riporteranno le sue parole oggi. Ieri quelli che pubblicano su internet e
quelli televisivi sono stati un po’ superficiali, si sono concentrati sulla sua
critica alle pensioni d’oro, che sono quelle troppo alte, che
perpetuano una ingiusta diseguaglianza sociale. Ognuno di noi, naturalmente, ha
pensato a quelle degli altri e tutti, in definitiva, a quelle dei parlamentari.
Ma, tutto sommato, questo tema non era al centro delle argomentazioni di quel
discorso.
Persona e lavoro
devono sempre andare insieme, ha sostenuto Francesco all’inizio, nel senso
che il lavoro non deve diventare disumano e che ogni persona deve avere un
lavoro. Il lavoro è importante perché l’individuo si faccia persona.
Nel lavoro si coopera con gli altri, ci si apre alla
società. Ma il lavoro non è tutto. Anche il riposo è importante. Ricordiamocelo
ora che cominciamo a vedere esercizi commerciali aperti giorno e notte, senza
giorni di festa, senza mai interruzioni. Il nostro Padre Francesco ha parlato
addirittura disana cultura dell’ozio. Ma oltre al riposo c’è
lo studio: lo studio è il solo “lavoro” buono dei bambini e dei
ragazzi, ha detto Ma non lavoriamo quando siamo malati, non lavoriamo
da vecchi, e anche questo è un diritto. Ci sono le pensioni, per quelli che
sono malati o troppo vecchi per lavorare. Ma devono essere pensioni giuste.
Altrimenti si perpetuano le diseguaglianze sociali, diventano perenni. E’ a
questo punto che ha criticato le pensioni d’oro, che creano
scandalo in un tempo in cui c’è tanta gente che la pensione non l’ha o ce l’ha
insufficiente. Le pensioni troppo alte, come quelle troppo povere, sono un’offesa
al lavoro, proprio perché perpetuano le diseguaglianze del
lavoro. Il lavoro, quindi, nella concezione del nostro Padre Francesco,
dovrebbe avere la funzione anche di ridurre le diseguaglianze sociali, in
particolare elevando quelli che stanno peggio. E ha anche ricordato che, a
volte, per i malati, che tendono ad essere scartati dal mondo del lavoro,
lavorare è parte della terapia: si guarisce lavorando con gli altri,
insieme agli altri, per gli altri.
Non è ragionevole, sostiene il
nostro Padre Francesco, che in una società gli anziani siano costretti a lavorare
troppo a lungo, mentre i giovani rimangono disoccupati. Quando i
giovani sono fuori dal mondo del lavoro, alle imprese mancano energia,
entusiasmo, innovazione, gioia di vivere, che sono preziosi beni
comuni che rendono migliore la vita economica e la pubblica felicità,
ha detto. Il lavoro dei giovani non fa bene solo ai giovani stessi, ma a tutta
la società. Occorrerebbe, quindi, ha proposto, un nuovo patto sociale che
riduca le ore di lavoro di chi è nell’ultima stagione lavorativa, per creare lavoro
per i giovani che hanno il diritto-dovere di lavorare.
Il lavoro rientra nei fatti
economici e in quelli dell’impresa. E’ il mercato che deve dominare tutto? No!,
sostiene il nostro Padre Francesco. Economia di mercato, no! Economia sociale di
mercato, invece. Il capitalismo del nostro tempo ha
dimenticato la natura sociale dell’economia, dell’impresa, è
per questo che disprezza il sindacato. L’economia ha dimenticato la natura
sociale che ha come vocazione, la natura sociale dell’impresa, della vita, dei
legami e dei patti. E’ per questo che occorre un lotta per
affermarla: questo è il compito del sindacato. La sua azione, se fa bene il suo
lavoro, migliora la società. Non c’è una buona società senza un buon
sindacato, e non c’è un sindacato buono che non rinasca ogni giorno nelle
periferie, che non trasformi le pietre scartate dell’economia in
pietre angolari. Non si tratta di scontri tra interessi privati, dei
datori di lavoro e dei lavoratori, ma di una questione di giustizia
sociale. Lo si capisce pensano da dove viene la parola sindacato.
Dice Francesco: Sindacato è una bella parola che proviene dal greco
“dike”, cioè giustizia, e “syn”, insieme: syn-dike,“giustizia insieme”.
Non c’è giustizia insieme se non è insieme agli esclusi di oggi. Il
sindacato nasce e rinasce tutte le volte che, come i profeti biblici, dà voce a
chi non ce l’ha, denuncia il povero “venduto per un paio di sandali”
(cfr Amos 2,6), smaschera i potenti che calpestano i diritti dei
lavoratori più fragili, difende la causa dello straniero, degli ultimi, degli
“scarti”: in questo svolge una funzione profetica. Dice Francesco: “[il
sindacato] deve vigilare sulle mura della città del lavoro, come
sentinella che guarda e protegge chi è dentro la città del lavoro, ma che
guarda e protegge anche chi è fuori delle mura. Il sindacato non svolge la sua
funzione essenziale di innovazione sociale se vigila soltanto su coloro che
sono dentro, se protegge solo i diritti di chi lavora già o è in
pensione. Questo va fatto, ma è metà del vostro lavoro. La vostra vocazione è
anche proteggere chi i diritti non li ha ancora, gli esclusi dal lavoro
che sono esclusi anche dai diritti e dalla democrazia”. In definitiva
occorre lottare. Se la società non apprezza il sindacato,
forse è perché non lo vede lottare abbastanza, in particolare nei
luoghi dei “diritti del non ancora”, nelle periferie
esistenziali, tra gli scartati del lavoro; non lo vede lottare tra gli
immigrati, i poveri, che sono sotto le mura della città; oppure non lo capisce
semplicemente perché a volte – ma succede in ogni famiglia – la corruzione è
entrata nel cuore di alcuni sindacalisti. Nelle nostre società capitalistiche avanzate, ammonisce Francesco, il
sindacato rischia di smarrire questa sua natura profetica, e diventare troppo
simile alle istituzioni e ai poteri che invece dovrebbe criticare. Il sindacato
col passare del tempo ha finito per somigliare troppo alla politica, o meglio,
ai partiti politici, al loro linguaggio, al loro stile. E invece, se
manca questa tipica e diversa dimensione, anche l’azione dentro le imprese
perde forza ed efficacia.
Dimenticare o negare la natura
sociale dell’economia e del lavoro è un peccato, e uno dei più grossi, sostiene
il nostro Padre Francesco. Allora, non è solo questione di lottare, ma anche
di convertirsi. Significa fare un passo in meglio.
Non c’è giustizia insieme se non è
insieme agli esclusi di oggi: è sbagliato pensare solo al proprio interesse privato, non è
il mercato che deve decidere tutto, lì dove i più grossi e potenti prevalgono
sui più deboli. E’ attraverso le lotte sindacali che la situazione viene
riequilibrata, perché insieme si ha più forza. Se l'economia, con la legge del
più forte, minaccia la dignità del lavoro, con la forza del numero e della
solidarietà occorre cambiare l'economia. Ma occorre lottare anche per chi i
diritti non li ha ancora, gli esclusi dal lavoro che sono esclusi anche dai
diritti e dalla democrazia.
I primi commentatori hanno
notato che l’apprezzamento di Francesco per il lavoro del sindacato va
controcorrente. I sindacati si sono fatti più deboli, hanno meno presa sui
lavoratori, anche perché il lavoro si è fatto più precario, meno garantito,
addirittura svalutato, e chi ce l’ha teme di perderlo, di essere
preso di mira in quanto lavoratore sindacalizzato. Ma è proprio l’eclisse del
sindacato uno dei fattori che ha svalutato il lavoro.
Le idee esposte dal nostro
Padre Francesco ieri sono dagli anni ’70 parte del magistero sociale, della
dottrina sociale della Chiesa. Le ritroviamo, ad esempio, in un’esposizione
estesa e sistematica nell’enciclica Lavorando [l’essere
umano deve procurarsi il pane quotidiano …] , di san Karol
Wojtyla, diffusa nel settembre 1981.
[testo sul Web:
http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/encyclicals/documents/hf_jp-ii_enc_14091981_laborem-exercens.html ]
Come scrisse il Wojtyla nel finale di quel documento,
l'enciclica avrebbe dovuto essere diffusa il 15 maggio 1981, ma il 13 maggio ci
fu l’attentato in piazza San Pietro e poté essere riveduta dal Papa solo dopo
la sua degenza ospedaliera. Andare contro l’economia egemone può essere molto
rischioso.
Di nuovo, nelle parole di
Francesco di ieri, c’è sicuramente la considerazione del dovere di lottare,
come sindacato, da lavoratori sindacalizzati, anche per chi il lavoro non ce
l’ha, per gli esclusi. Ma come dev’essere questa lotta? La lotta è necessaria e
doverosa quando le giuste pretese di una parte sociale vengono rigettate
dall’altra. Non ci si può rassegnare all’ingiustizia. La parte forte rifiuta di
ascoltare, di sentire ragioni. Ha dimenticato la natura sociale dell’economia.
La legge del mercato è a favore dei più forti? Nelle società democratiche ci
sono strumenti legali per non accettare questa posizione. I deboli possono
farsi forti facendo massa e agendo in modo solidale. Le libertà civili servono
anche a questo, a non finire schiavi del mercato. C’è la libertà di parola, di
manifestazione, c'è la politica democratica, c’è lo sciopero. In Italia lo
sciopero è un diritto sociale riconosciuto dalla Costituzione. E in
Costituzione c’è anche la natura sociale dell’economia e della proprietà
privata. L’impresa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in
modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana; in base
alle leggi, deve essere indirizzata e coordinata a fini sociali (art.41
Costituzione). La proprietà privata deve essere resa accessibile a tutti e deve
esserne assicurata la funzione sociale (art.42 Costituzione). Il lavoratore ha
diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo
lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia
un’esistenza libera e dignitosa (art.36 Costituzione). L’organizzazione
sindacale è libera (art.39 Costituzione) e lo sciopero è un diritto
(art.39 Costituzione), anche se la legge può regolarne l’esercizio. Queste sono
leggi fondamentali della Repubblica.
L’evoluzione sociale recente
richiederebbe modifiche costituzionali per rinforzare la natura sociale
dell’economia e del lavoro, ma in genere le proposte vanno in direzione
opposta. Si è di solito d’accordo nel notare che il lavoro si è svalutato e
ha perso garanzie. Si giustifica questo con le leggi del mercato:
queste leggi però sono incostituzionali e, in particolare dall’inizio
dell’attuale fase recessiva, nel 2008, hanno fatto e stanno facendo disastri
sociali. In Costituzione non ci sono principi per essere consumatori
responsabili. Alla fine degli anni ’40 del secolo scorso, in un’Italia tanto
più povera di oggi, non ci si pensava. I consumatori, in genere
inconsapevolmente, sono complici dell’ingiustizia sociale.
Il lavoro che c’è da fare, da
fedeli che vogliano rendere ragione delle loro convinzioni religiose, è quello
di ragionare sui temi richiamati dal nostro Padre Francesco ieri. Condividiamo
la sua posizione? Se sì, perché? Se no, perché? Si tratta di temi sociali e
politici sui quali non siamo obbligati a pensarla come un papa. La nostra
posizione su di essi ha comunque un significato religioso. Farsi complici di
ingiustizie sociali è peccato: questo è magistero etico, sul quale il Papa
insegna da papa, autorevolmente. Del resto possiamo facilmente evocare
fondamenti biblici: nelle note dell’enciclica Lavorando che
ho citato prima ve ne sono diversi. Dunque, riparare alle ingiustizie sociale
richiede propriamente una conversione. Specialmente quando si
pensa che siano ingiusti l’esclusione, l’emarginazione, l’essere senza diritti,
in particolare senza lavoro.
*************************
DISCORSO DEL SANTO
PADRE FRANCESCO
AI DELEGATI DELLA
CONFEDERAZIONE ITALIANA SINDACATI LAVORATORI (CISL)
Aula Paolo VI
Mercoledì, 28 giugno 2017
dal
Web: http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2017/june/documents/papa-francesco_20170628_delegati-cisl.html
Cari fratelli e sorelle,
vi do il benvenuto in occasione del
vostro Congresso, e ringrazio la Segretaria Generale per la sua presentazione.
Avete scelto un motto molto bello per
questo Congresso: “Per la persona, per il lavoro”. Persona e lavoro sono due parole che possono e devono stare insieme.
Perché se pensiamo e diciamo il lavoro senza la persona, il
lavoro finisce per diventare qualcosa di disumano, che dimenticando le persone
dimentica e smarrisce sé stesso. Ma se pensiamo la persona senza lavoro,
diciamo qualcosa di parziale, di incompleto, perché la persona si realizza in
pienezza quando diventa lavoratore, lavoratrice; perché l’individuo si fa persona quando
si apre agli altri, alla vita sociale, quando fiorisce nel lavoro.
La persona fiorisce nel lavoro. Il lavoro è la forma più comune di cooperazione
che l’umanità abbia generato nella sua storia. Ogni giorno milioni di
persone cooperano semplicemente lavorando: educando i
nostri bambini, azionando apparecchi meccanici, sbrigando pratiche in un
ufficio... Il lavoro è una forma di amore civile: non è un amore romantico né
sempre intenzionale, ma è un amore vero, autentico, che ci fa vivere e porta
avanti il mondo.
Certo, la persona non è solo lavoro… Dobbiamo
pensare anche alla sana cultura dell’ozio, di saper riposare. Questo non è pigrizia,
è un bisogno umano. Quando domando a un uomo, a una donna che ha due, tre bambini:
“Ma, mi dica, lei gioca con i suoi figli? Ha questo ‘ozio’?” – “Eh, sa, quando
io vado al lavoro, loro ancora dormono, e quando torno, sono già a letto”.
Questo è disumano. Per questo, insieme con il lavoro deve andare anche l’altra
cultura. Perché la persona non è solo
lavoro, perché non sempre lavoriamo,
e non sempre dobbiamo lavorare. Da bambini non si lavora, e non si deve
lavorare. Non lavoriamo quando siamo malati, non lavoriamo da vecchi. Ci sono
molte persone che ancora non lavorano, o che non lavorano più. Tutto questo è vero e conosciuto, ma va
ricordato anche oggi, quando ci sono nel mondo ancora troppi bambini e ragazzi
che lavorano e non studiano, mentre lo
studio è il solo “lavoro” buono dei bambini e dei ragazzi. E quando non sempre e non a tutti è
riconosciuto il diritto a una giusta pensione – giusta perché né troppo povera
né troppo ricca: le “pensioni d’oro” sono un’offesa al lavoro non meno
grave delle pensioni troppo povere, perché fanno sì che le diseguaglianze del
tempo del lavoro diventino perenni. O
quando un lavoratore si ammala e viene scartato anche dal mondo del lavoro in
nome dell’efficienza – e invece se una persona malata riesce, nei suoi limiti,
ancora a lavorare, il lavoro svolge anche una funzione terapeutica: a volte si
guarisce lavorando con gli altri, insieme agli altri, per gli altri.
E’ una società stolta e miope quella che costringe gli anziani
a lavorare troppo a lungo e obbliga una intera generazione di
giovani a non lavorare quando dovrebbero farlo per loro e per
tutti. Quando i giovani
sono fuori dal mondo del lavoro, alle imprese mancano energia, entusiasmo,
innovazione, gioia di vivere, che sono preziosi beni comuni che
rendono migliore la vita economica e la pubblica felicità. È allora urgente un nuovo patto sociale umano, un nuovo patto
sociale per il lavoro, che riduca le ore di lavoro di chi è nell’ultima
stagione lavorativa, per creare lavoro per i giovani che hanno il diritto-dovere
di lavorare. Il dono del lavoro è il primo dono dei padri e delle madri ai
figli e alle figlie, è il primo patrimonio di una società. È la prima dote
con cui li aiutiamo a spiccare il loro volo libero della vita adulta.
Vorrei sottolineare due sfide epocali che oggi il movimento
sindacale deve affrontare e vincere se vuole continuare a svolgere il suo ruolo
essenziale per il bene comune.
La prima è la profezia, e riguarda la natura stessa
del sindacato, la sua vocazione più vera. Il sindacato è espressione del profilo
profetico della società. Il sindacato nasce e rinasce tutte le volte
che, come i profeti biblici, dà voce a chi non ce l’ha, denuncia il povero
“venduto per un paio di sandali” (cfr Amos 2,6), smaschera i
potenti che calpestano i diritti dei lavoratori più fragili, difende la causa
dello straniero, degli ultimi, degli “scarti”. Come dimostra anche la grande
tradizione della CISL, il movimento sindacale ha le sue grandi stagioni quando
è profezia. Ma nelle nostre società
capitalistiche avanzate il sindacato rischia di smarrire questa sua natura
profetica, e diventare troppo simile alle istituzioni e ai poteri che invece
dovrebbe criticare. Il sindacato col passare del tempo ha finito per somigliare
troppo alla politica, o meglio, ai partiti politici, al loro
linguaggio, al loro stile. E invece, se manca questa tipica e diversa
dimensione, anche l’azione dentro le imprese perde forza ed efficacia. Questa è
la profezia.
Seconda sfida: l’innovazione. I profeti sono delle
sentinelle, che vigilano nel loro posto di vedetta. Anche il sindacato deve
vigilare sulle mura della città del lavoro, come sentinella che
guarda e protegge chi è dentro la città del lavoro, ma che guarda e
protegge anche chi è fuori delle mura. Il sindacato non svolge la sua
funzione essenziale di innovazione sociale se vigila soltanto su coloro che
sono dentro, se protegge solo i diritti di chi lavora già o
è in pensione. Questo va fatto, ma è metà del vostro lavoro. La vostra
vocazione è anche proteggere chi i diritti non li ha ancora, gli
esclusi dal lavoro che sono esclusi anche dai diritti e dalla democrazia.
Il capitalismo del nostro tempo non comprende il valore del
sindacato, perché ha dimenticato la natura sociale dell’economia,
dell’impresa. Questo è uno dei peccati più grossi. Economia di mercato: no.
Diciamo economia sociale di mercato, come ci ha
insegnato San Giovanni Paolo
II: economia sociale di mercato. L’economia ha dimenticato la natura
sociale che ha come vocazione, la natura sociale dell’impresa, della vita, dei
legami e dei patti. Ma forse la nostra società non capisce il sindacato anche
perché non lo vede abbastanza lottare nei luoghi dei “diritti del non
ancora”: nelle periferie esistenziali, tra gli scartati del lavoro. Pensiamo al 40% dei giovani da 25 anni
in giù, che non hanno lavoro. Qui. In Italia. E voi dovete lottare lì! Sono periferie esistenziali. Non lo vede lottare
tra gli immigrati, i poveri, che sono sotto le mura della città; oppure non lo
capisce semplicemente perché a volte – ma succede in ogni famiglia – la
corruzione è entrata nel cuore di alcuni sindacalisti. Non lasciatevi bloccare
da questo. So che vi state impegnando già da tempo nelle direzioni giuste,
specialmente con i migranti, con i giovani e con le donne. E questo che dico
potrebbe sembrare superato, ma nel mondo del lavoro la donna è ancora di
seconda classe. Voi potreste dire: “No, ma c’è quell’imprenditrice,
quell’altra…”. Sì, ma la donna guadagna di meno, è più facilmente sfruttata…
Fate qualcosa. Vi incoraggio a continuare e, se possibile, a fare di più. Abitare
le periferie può diventare una strategia di azione, una priorità del
sindacato di oggi e di domani. Non c’è
una buona società senza un buon sindacato, e non c’è un sindacato buono che non
rinasca ogni giorno nelle periferie, che non trasformi le pietre
scartate dell’economia in pietre angolari. Sindacato è una bella
parola che proviene dal greco “dike”, cioè giustizia, e “syn”, insieme: syn-dike,“giustizia
insieme”. Non c’è giustizia insieme se non è insieme agli esclusi di oggi.
Vi ringrazio per questo incontro, vi
benedico, benedico il vostro lavoro e auguro ogni bene per il vostro Congresso
e il vostro lavoro quotidiano. E quando
noi nella Chiesa facciamo una missione, in una parrocchia, per esempio, il
vescovo dice: “Facciamo la missione perché tutta la parrocchia si converta,
cioè faccia un passo in meglio”. Anche voi “convertitevi”: fate un passo in
meglio nel vostro lavoro, che sia migliore. Grazie!
E adesso, vi chiedo di pregare per me,
perché anch’io devo convertirmi, nel mio lavoro: ogni giorno devo fare meglio
per aiutare e fare la mia vocazione. Pregate per me e vorrei darvi la
benedizione del Signore.
[Benedizione]
71. Le
culture, veri miracoli dell’umanità
Le culture umane sono un vero
miracolo, un evento prodigioso.
Cultura significa complesso di
costumi, conoscenze, tecnologie, concezioni sul mondo, metodi di relazioni
sociali e comprende anche le religioni. Le culture sono in continuo mutamento,
per adattarsi alle condizioni delle società umane che le esprimono. Ci
consentono di superare i nostri limiti individuali e di specie.
Come persone abbiamo angusti
limiti cognitivi, possiamo intrattenere vere relazioni con più o meno duecento
nostri simili, che corrispondono all’incirca a una famiglia allargata di una
volta. Del resto è questo l’ambito sociale dei viventi che ci sono più simili.
La nostra mente, che governa le relazioni sociali, si è formata circa
duecentomila anni fa, è uno strumento biologico molto, veramente molto più
antico di ogni nostra civiltà. Le più antiche vengono situate intorno ai
diecimila anni fa. La storia viene fatta iniziare intorno ai cinquemila
anni fa, con la pratica della scrittura. Quindi i limiti che abbiamo come
individui corrispondono a quelli che abbiamo come specie.
Come riusciamo a far funzionare società che globalmente
comprendono circa otto miliardi di individui? E’ appunto questo il miracolo ed
è prodotto dalle culture. Tra i fenomeni culturali le religioni sono tra più
potenti strumenti di integrazione sociale. Mediante la spiritualità consentono
di collegare la persona alle società più vaste, che rimarrebbero inconoscibili
al singolo per i suoi limiti cognitivi. E anche di collegare passato e futuro,
dando una direzione all’evoluzione sociale. E, infine, di pensare una
paternità/maternità condivisa, sia come genitori sia come figli, e quindi ad
una famiglia umana.
Ci si può occupare di un’altra
persona come fanno un padre o una madre, biologici o adottivi? E’ occupazione
che richiede di spendersi totalmente per l’altro. Anche i genitori non lo fanno
per l’intera loro vita con la stessa intensità. In questi giorni è stata
ricordata la figura di un maestro straordinario, Lorenzo Milani, il quale, in
definitiva, si occupò, esercitando anche una vera e propria paternità
spirituale e civile, di poche decine di ragazzi. Come estendere quell’intensità
ad otto miliardi di persone? E’ appunto l’opportunità che ci è data dalla
cultura di una società.
Ecco perché, nella formazione
religiosa e nelle relazioni che si hanno in religione, è importantissimo quel
lavoro che si definisce mediazione
culturale.
72.Partire da lontano per capire i vicini
Ma che ci serve ragionare su fatti di
duecentomila anni faper lavorare in parrocchia? Ma anche solo diecimila anni
indietro non sono troppi? Non basta guardare ciò che si ha intorno?
Non basta.
Non è così che si ragiona in
religione.
C’è una parte delle Scritture
che mi ha sempre terrorizzato. E’ dove si legge di com’era prima che
arrivassero gli esseri umani. Si comincia veramente da molto lontano. Da un
universo informe che man mano diventa più simile a quello che ci è
familiare. Ci sono state ere in cui non c’eravamo! Poi comincia a girare
gente simile a noi, ma le civiltà vengono dopo. Tornare indietro non si può. E’
scritto che degli angeli sbarrano la strada, con spade fiammeggianti.
Il tempo, il nostro tempo, ha una direzione, un orientamento, va avanti. C’è un
prima, c’è sempre un dopo diverso dal prima, e noi che brulichiamo in
mezzo, un po’ come gli altri viventi. Brulicare? Per gli esseri
umani si capisce che non si tratta solo di questo. Ad un certo punto è scritto
delle nazioni. Ce n’è un lungo elenco, veramente difficile da
ricordare. La gente si disperde per tutta la
terra, ma ormai ha un’organizzazione politica. La storia sacra comincia più o meno quattromila anni fa tra l’attuale
Iraq e l’attuale Egitto, nel corso di una lunga migrazione, da Meridione a
Settentrione e poi da Oriente a Occidente e di nuovo verso Meridione.. Più o meno nello stesso periodo si
pensa che i Latini siano scesi in Italia. Facevano parte di popoli che
gli studiosi chiamano indoeuropei e che
erano migranti. Parlavano lingue che avevano
caratteristiche comuni. Nell’Enciclopedia Treccani se ne elencano dodici rami:
Indiano (sanscrito e altre lingue), Iranico, Tocario, Armeno, Albanese, Greco,
Italico, Celtico, Germanico, Baltico, Slavo, Hittito. C’è anche una certa
parentela tra i parlanti quelle lingue? Le indagini genetiche cominciano a
darci risposte. Ci consentono di ricostruire lunghissime migrazioni di popoli
dal luogo originario, in Africa, a oriente della Valle del Rift, dalle
parti tra la Tanzania, l’Uganda e l’Etiopia. Ma al centro della storia sacra ci
sono i semiti, che parlavano lingue di una diversa famiglia. Gli
Hittiti compaiono in Gen 15,20. Vengono riferiti loro discorsi in Gen 23.
Ma non è sicuro che si tratti degli Hittiti che parlavano indoeuropeo. La
loro civiltà infatti si diffuse più tardi. Tra tutte queste civiltà antiche,
ognuna con la sua cultura, non è facile raccapezzarsi. Perché, poi
è diventato più semplice? Assolutamente no. Quando la storia, quindi
le culture umane, fanno la comparsa nelle Scritture, tutto si
complica. Di quella storia bisogna però raggiungere una memoria
affidabile e quelle culture vanno capite, a partire dalle
loro lingue. Le Scritture sono fatte per essere lette e capite, ma
non sono una lettura facile: vengono da varie culture, molto
antiche, e molte generazioni ci hanno lavorato sopra per trasmetterne una
memoria affidabile. Ma lo hanno fatto secondo le proprie culture,
quindi, studiando, si può riconoscere la mano e il pensiero di chi ha
collaborato nella tradizione.
Che cosa sono quattromila
anni, sui circa duecentomila della nostra specie? Non tutto ciò che è
importante per noi è compreso negli ultimi quattromila anni. La nostra mente,
ad esempio. E’ più o meno quella di duecentomila anni fa. Così come il nostro
corpo. Le culture, invece, si sono evolute sempre più rapidamente,
in particolare negli ultimi due secoli, ma in modo veramente frenetico negli
ultimi cinquant’anni. Questo crea dei problemi. E’ come se il tempo
accelerasse. E indietro non si può tornare. Ricordate, ci sono quegli angeli a
chiudere la strada.
Oggi siamo preoccupati delle
migrazioni umane. Perché? Possiamo considerare gli esseri umani dei migranti
nati. E’ invece la rapidissima evoluzione delle culture che costituisce un
bel problema. Ne va infatti della nostra vita. Per consentire la sopravvivenza
di un’umanità di circa otto miliardi di persone occorre integrarle così
rapidamente come evolvono. Capire per trasformare per sopravvivere:
ecco che cosa c’è da fare, ma molto più velocemente di prima.
E la religioni? Fanno parte di
quelle culture che evolvono, si sono evolute anch’esse, alcune molto
rapidamente, in particolare la nostra, che è stata quella praticata dai
dominatori del mondo, gli europei. Ci sono segni che il loro, il nostro,
dominio stia tramontando. Si sta affacciando nel mondo, tra i dominatori, la cultura cinese, che è in
cerca di una neo-religione; oggi è ancora piuttosto europeizzata.
Forse, nell’era della fine, anche l’evoluzione della religione degli europei si
farà più lenta. Ma per ora condivide quella, velocissima, delle culture che li
caratterizzano.
Ma c’è qualcosa che rimane?
E’ appunto questo il problema
della mediazione culturale. Non si tratta, come sostengono i
reazionari, di adattare la religione ai gusti dei
contemporanei. Si tratta di riconoscere nella religione ciò che è espressione
di culture sorpassate dall’evoluzione sociale e ciò che non lo
è, ma appartiene alla struttura originaria della fede.
Quando cambia quest’ultima si passa ad un’altra religione. Il resto può
evolvere senza problemi. E se non si riesce a farlo, la religione diventa
cultura inutile e passa tra le cose che vengono superate. Nessuno oggi,
nell’Europa di oggi, si sente, in genere, obbligato a sterminare i vinti, come
troviamo prescritto in alcuni passi delle Scritture, molto antichi. Così, ai
tempi nostri, in Europa, riteniamo barbaro punire con la morte gli eretici o i
blasfemi. Nelle Scritture lo troviamo invece prescritto, anche qui in passi
antichi. Ma molto a lungo in Europa la si è pensata così, fino a circa tre secoli
fa: è stato l’emergere delle democrazie moderne ad aver cambiato, tra gli
europei, quelle concezioni. Sterminare i vinti e massacrare eretici e blasfemi
non rientrano, evidentemente, nella struttura originaria della nostra fede. Ci
siamo convinti che si poteva farne a meno. Ci ha convinti un lavoro di
mediazione culturale.
Una cultura si può
anche immaginare. L’immaginazione dà una certa libertà. I
rivoluzionari in genere immaginano, poi progettano e
infine agiscono. Ma fino a che punto è utile immaginare in
religione? Le Scritture sono piene di sogni e di sognanti.
Ma che succede a quelli che immaginando finiscono per
vivere in un sogno? Ci sono quelli che, ad esempio, sognano di
riportare indietro la storia e di far rivivere culture del passato, recente o
meno recente. Che succede poi, nel confronto con la realtà?
Ad altri piace immaginarsi un
passato, liberamente interpretato, da calare nel presente. Allora non è neanche
il passato che si vuole fare tornare, ma è un neo-passato che
si vuole costruire.
Si tratta di esperienze
realmente vissute in religione, tante volte.
Non c’è mediazione culturale se
non si resta ancorati alla realtà. Abusando dell’immaginazione si pensa di
sopprimere uno dei poli da mediare.
Nell’immaginazione le cose sembrano
facili, perché, nel sogno, si superano i limiti della realtà sociale in cui si
opera. Ma quando poi ci si sbatte contro? Non si è fatto lo sforzo di capirla e
i sogni funzionano solo nel tempo dei sogni, che è limitato. Si costruiscono
così Disneyland religiose, belle per esperienze forti limitate.
Allora c’è il mondo del sogno, quello della religione, e quello reale: si va
dall’uno all’altro, ma lo stacco c’è, si avverte, le
regole per vivere nei due mondi sono diverse. La cultura però è una sola,
quella reale, l’altra è solo sogno. La religione in questo modo diventa psichedelica, perché
introduce in realtà di sogno, che realtà però non sono e
presto svaniscono. Non è questo che, oggi, mi pare ci venga chiesto
come fedeli.
Tornare indietro non si
può! Ci sono quegli angeli, di cui ho scritto sopra, che lo
impediscono. Non si può essere reazionari in religione. E dove c’è, nei
fondamenti della nostra religione, l’autorizzazione a vivere realtà psichedeliche?
Non è vero che siamo stati mandati per il mondo a incontrare tutte
le genti? Anche alle Valli è così. Conosciamo la gente tra la quale viviamo,
qui nel nostro quartiere? Capiamo la loro cultura? E’ questo il nostro
problema, che è poi il problema di sempre dell’umanità, da quando c’è la storia e
ci sono le culture. I nostri limiti cognitivi di specie ci rendono
difficile incontrare moltitudini: ma la spiritualità è
un mezzo potente per riuscirci. Nella comune spiritualità riusciamo a incontrare gente
che nella nostra vita non riusciremo mai a conoscere. La spiritualità
religiosa, allora, non è necessariamente evasione dalla realtà, ma
può essere un mezzo molto efficace per immergervisi e capirla veramente.
Accostando grandi maestri di spiritualità si ha la sensazione di uscire dalla
cecità, di vedere finalmente le cose come sono. Come è scritto: “Si
aprirono i loro occhi”.
Restare ancorati alla realtà
non è sempre facile, perché è in genere è faticoso, richiede un impegno
costante, un’etica, e può anche essere doloroso. La realtà infatti in
genere è meno bella di come vorremmo, delude i nostri sogni. Di una parte del
male che in essa c’è siamo corresponsabili; questo la rende, oltre che
dolorosa, disonorevole. Si rivive l'esperienza della narrazione biblica della
cacciata dal Paradiso terrestre. Tra cinquant'anni, probabilmente, gli storici
tratteranno gli europei di oggi, per come si sono condotti con i migranti, come
i peggiori criminali sociali del passato. Però noi, adesso, ci consoliamo con
un’altra narrazione, in cui noi siamo poveri e buoni, e per questo incolpevoli,
e gli altri sono gli aggressori. Eroici, siamo: è stato detto.
Davvero ci crediamo? Qualche eroe c’è veramente. Ed è ogni persona che riesce a
salvare una vita a rischio della sua. E’ benedetto chi fa così. Ha un posto nel
Regno, è scritto. In religione si pensa che non ci sia segno di benevolenza
più grande. Incontrare veramente la gente, capire veramente
le culture umane, spinge in genere a quel cambiamento profondo di mentalità che
definiamo conversione e che può essere espresso anche
con le antiche parole metànoia (greco antico, la lingua
delle Scritture originate dalle nostre prime collettività di fede) o teshuvah (ebraico,
la lingua delle Scritture più antiche). E’ questo che poi spinge a salvare le
vite degli altri.
73. Come si è popolo in
religione?
Che cos’è un popolo?
E’ una questione molto
importante, perché, in religione, riteniamo di essere un popolo.
La risposta che si dà rileva
anche in sede locale, in una realtà come la parrocchia.
Nel pensiero giuridico il
popolo è gente soggetta ad un’autorità politica riconosciuta ed effettiva in un
determinato territorio. Per circa mille anni, dall’Undicesimo secolo e fino al
Concilio Vaticano 2° (1962-1965) la nostra gerarchia del clero ha voluto essere
quell’autorità, in religione. Nel primo millennio, dal Quarto secolo della
nostra era, quell’autorità è stata invece impersonata da monarchi civili, a
partire dagli imperatori romani con potere politico sacralizzato secondo
la nostra fede. La conquista dell’autorità propriamente politica da parte del
papato romano si ha tra l’Ottavo e l’Undicesimo secolo. Alla fine del processo,
il papato romano si presenta e vuole farsi accreditare dagli altri monarchi
civili come suprema autorità politico-religiosa. Questo storicamente ha
generato conflitti politico-religiosi per tutto il Secondo millennio e, tutto
sommato, anche ai nostri giorni. Un conflitto di questo tipo è quello che si
nota tra l’autorità del Papa attualmente regnante e il presidente statunitense
Donald Trump, che diffondono magisteri antitetici. In epoca contemporanea
scontri del genere ci sono stati con il liberalismo, il nazionalismo italiano
di impronta cavouriana-mazziniana, il cristianesimo-democratico e,
particolarmente acceso e irriducibile, con il socialismo e ancor più con il
comunismo di tipo marxista leninista, in particolare con quello, di tipo neo-religioso,
diffuso dal regime sovietico.
In sostanza, per circa mille
anni, il papato romano si è fatto insegnare l’autorità politica dalla cultura
dei propri tempi. Questo è accaduto anche quando iniziarono a svilupparsi
processi democratici, dal Settecento. L’apprendimento della democrazia è stato
però particolarmente faticoso, travagliato, controverso ed è ancora in corso.
Le democrazie contemporanee
teorizzano la sovranità del popolo. Si tratta di una
rivoluzione culturale di grande rilevanza nella storia dell’umanità. Il popolo
è definito dalla soggezione ad un’autorità politica, ma quest’ultima la si
vuole nelle mani del popolo.
La riflessione sul popolo e sul
suo ruolo nelle dinamiche religiose è stata al centro del dibattito svoltosi
tra i saggi riuniti a Roma nel Concilio Vaticano 2°. Non è stata detta una
parola definitiva. Si è lavorato anche su dogmi, sulle concezioni ritenute
fondamentali per definire la fede. Il risultato è stato un compromesso: è stata
mantenuta l’antica struttura feudale del potere del clero, affiancando i laici,
vale a dire il resto del popolo come consulenti e forza
operativa nella vita civile. Questo ha generato notevoli tensioni che si sono
manifestate in particolare nel decennio seguente quel consesso, negli anni ’70,
nella fase attuativa. Nel lungo pontificato di Karol Wojtyla si sospese
d’autorità il dibattito, per quanto quel Papa avesse chiara consapevolezza della
latenza del problema, in particolare della necessità di ridefinire il ruolo del
papato. L’accettazione della democrazia politica nell’organizzazione delle
società civili, venuta nel 1991 con l’enciclica Il Centenario, di
quel Papa, conseguì a un decennio di sperimentazione in Polonia di un’azione
politico-religiosa in cui i laici erano stati fondamentali, realizzando il
passaggio da un regime di totalitarismo di tipo sovietico marxista leninista ad
una democrazia di tipo Occidentale, realizzata a partire dal 1990, con la
presidenza di stato del cattolico Lech Walesa, strettamente legato al Wojtyla.
Tuttavia il modello di integrazione che aveva funzionato nella Polonia degli
anni ’80 non lo ha fatto più bene in regime democratico: si ebbe l’affermazione
di un nazionalismo sacralizzato, con sostanziale strumentalizzazione politica
della fede. La società polacca, nel complesso, appare ampiamente laicizzata,
molto distante dagli ideali religiosi nella vita pratica, al mondo delle altre
società civili dell’Europa settentrionale.
Negli sviluppi dell’attuazione
dei principi del Concilio Vaticano 2°, si è riconosciuto:
-che clero e laici fanno parte di un
medesimo popolo;
-che entrambi hanno diritto ad
avere voce.
Tuttavia, in genere, la voce
del popolo è silenziata da quelle dei centri di potere del clero. Tutto
il potere politico-religioso è in fondo rimasto al clero. Negli istituti di
partecipazione, i vari consigli che si sono fondati, il
ruolo dei laici, in genere, non va oltre quello di docenti e
di consulenti.
Ai tempi nostri le democrazie
occidentali manifestano una crisi generalizzata. E’ stato osservato che il
potere politico si è trasferito ad entità diverse da quelle costituzionali.
Niente di soprannaturale, anche se spesso soggetti come il mercato vengono
presentati con caratteristiche di quel tipo. La globalizzazione, l’unificazione
totale dei modi di produrre e di commerciare, ha richiesto accordi
sovranazionali i quali hanno definito un’autorità politica globale che è la
risultante delle potenze economiche che controllano i mercati e i flussi
finanziari. La creatura, originata da accordi tra stati, è sfuggita al
controllo di questi ultimi. Il nostro stile di vita in Occidente, ma in genere
anche nelle altre parti del mondo, dipende dal mantenimento di quell’assetto
politico, che però impedisce di realizzare giustizia sociale perché consente
una sorta di extraterritorialità del capitale: significa
che chi ha risorse da investire può rapidamente sganciarsi da ogni situazione
di crisi sociale e industriale, mettendosi al riparo, con i propri soldi,
altrove. Da questo deriva la crisi dello stato del
benessere, quello che correggeva le diseguaglianze con prestazioni
pubbliche di benessere, come sanità e previdenza sociale. Ha sempre meno
risorse.
La crisi delle democrazia
occidentali non favorisce certo l’acculturazione alla democrazia in religione.
Si comincia a pensare di poterne fare a meno. In religione di praticano poco i
processi democratici e, soprattutto, non si è sviluppata, o non a sufficienza,
una spiritualità adeguata. Coesistono, principalmente,
spiritualità del passato. Quando si passa alla pratica, a cercare di
impersonare quella spiritualità sorgono problemi.
Ad esempio: il Papa regnante
vive in un albergo, in un bell’albergo in Vaticano, ma pur sempre in un
albergo. Questo urta molti. La spiritualità del Papa-Re è ancora molto diffusa.
Ma è in genere il modello dell’episcopato monarchico che non soddisfa più. La
linea infatti è data, in genere, dalla Conferenze episcopali,
organismi che risentono di processi democratici.
In un documento come
l’enciclica Laudato si’ il laicato è stato molto di più di
un’accolita di consulenti. Lo ha riconosciuto espressamente il suo autore. Dal
laicato sono emersi i principi di azione sociale, che poi si sono innestati in
una nuova spiritualità nella quale si avverte l’impostazione del Papa regnante.
Il compito del popolo di fede, oggi, non solo
quindi del laicato, è di continuare in quella direzione, sperimentando il nuovo
prima di teorizzarlo e teorizzandolo mentre lo si sperimenta.
74. Popolo sognato
La teologia, in genere, non ha
un’immagine realistica del popolo, ed essa è la parte più importante della
formazione dei nostri capi religiosi. Eppure, teorizzando, dà molta importanza
al popolo in tema di verità: in sostanza esso avrebbe un intuito
innato per individuarla, anche se poi c’è sempre necessità di qualcun altro che
gliela spieghi.
Nella Costituzione La
gioia e la speranza, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965) si legge: «L'universalità
dei fedeli, che hanno l'unzione ricevuta dal Santo (cf. 1 Gv. 2,
20 e 27), non può ingannarsi nel credere, e manifesta questa sua singolare
proprietà mediante il soprannaturale senso della fede di tutto il popolo,
quando "dai Vescovi fino agli ultimi fedeli laici" (S.
Agostino, De Praed. Sanct. 14, 27) esprime l'unanime suo
consenso in cose riguardanti la fede e i costumi». Se ne è anche scritto come
di infallibilità del Popolo di Dio (ad esempio nella Dichiarazione circa
la Dottrina cattolica sulla Chiesa per difenderla da alcuni errori d'oggi,
diffusa nel 1973 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede).
Mille anni di crudele polizia
ideologica religiosa (modello di tutte le altre inquisizioni politiche)
potrebbero però convincerci del contrario: questi sono fatti. Se è necessario
trucidare la gente per mantenere la disciplina dottrinale, non è proprio
evidente che verità e popolo vadano naturalmente d’accordo.
Ma che cos’è la verità? E’ una domanda che risuona anche nelle
Scritture. Di fatto sembra che non sia mai stato facile stabilirlo. Se ne è
discusso molto per tutti i due millenni della storia della nostra fede. Spesso
non ci si è intesi e allora ci si è anche combattuti. Accade anche ora, ma i
limiti all'accanimento contro gli altri imposti nei sistemi democratici
impediscono esiti tragici.
C’è un verità che riguarda
anche il popolo. Qui bisogna scegliere: averne una visione affidabile,
corrispondente alla sua realtà, o immaginarsela per progettare qualcosa di
diverso. Da chi è fatto il popolo che rileva per la fede? Oggi, in genere, si
pensa che sia l’intera umanità, su tutta la Terra. Se ne vorrebbe fare una sola
famiglia. In passato se ne ebbero altre concezioni, più limitate. E’ un po’
quello che accade ai tempi nostri con i migranti indesiderati, quelli che
vengono dalle nostre parti senza permesso. E’ gente di cui dobbiamo occuparci?
Una risposta, che è quella che è venuta l’altro giorno da uno dei capi politici
italiani, e prima di lui da altri come lui, è che “Noi non abbiamo il
dovere morale di accoglierli, ripetiamocelo. Ma abbiamo il dovere morale di
aiutarli. Aiutiamoli
a casa loro”. Che significa: respingerli. Di
parere diverso è il nostro Padre Francesco, che ci esorta invece ad accoglierli.
Entrambi ritengono che si debba aiutarli, ma, è chiaro, una cosa è darsi da
fare subito, su gente che si ha vicina, su persone concrete, con necessità
immediate, altra programmare di farlo da lontano. Da vicino le persone
sono veramente persone. Da lontano le persone diventano gente e
poi popolo, e popolo di cui, per la lontananza, si tende ad
avere una visione confusa, come appunto accade quando si guardano le cose da
lontano. E, aggiungo, quando ci si comincia a fare sconti sui doveri morali è
poi tutta una china che va verso quella direzione e, in fondo, ripete la
tragica situazione che troviamo all’inizio della storia sacra
con quel “Dov’è tuo fratello?”.
Nella nostra
confessione la verità è stata legata storicamente all’autorità,
non al popolo. Si è pensato che la verità, scesa del
Cielo, fosse proclamata in modo affidabile, ma anche obbligatorio,
dall’autorità religiosa costituita, che a metà Ottocento è stata poi definita
inderogabilmente nel papato, dal punto di vista dogmatico e giuridico. Vale a
dire che si ritiene fondamentale, per la fede, credere che il papato
possa dire in merito una parola definitiva. E questo nonostante la catena
infinita di errori che il papato imperiale, come ogni
altra autorità politica, ha commesso storicamente in ogni campo dello scibile
umano, a volta correggendosi e a volte no. Insomma si confida che in materia di
fede, quando usa certe formule solenni e impegna la propria
autorità sacrale, il papato non sbagli. La decisione di quella svolta
dogmatica venne in tempi turbolenti, nel corso di un travagliato Concilio
Vaticano 1°, quando, in fondo, la fiducia dei nostri capi religiosi nella
capacità del popolo di intuire la verità era veramente ai minimi. Infatti
sembrava che stesse per crollare un mondo. E’ un po’, in fondo, anche la situazione
dei tempi nostri.
In genere
l’autorità religiosa si è ritagliata il proprio
popolo a misura delle definizioni di verità di volta in volta
escogitate. Il suo popolo era quello che subiva il fascino della verità
proclamata d’autorità e come gregge seguiva il suo pastore e
la sua voce, senza porre problemi. Ma questo modo di procedere non ha
funzionato più tanto bene quando si è trattato di interloquire in processi
democratici. Questo si è reso necessario più o meno dall’Ottocento, in Europa,
con la metamorfosi, e talvolta il crollo, delle monarchie europee con cui
il papato si era federato, con concordati o accordi simili. Questo in
particolare in rapporto con i movimenti nazionalistici italiani
prima e con il Regno d’Italia poi.
Innanzi tutto, con la
fondazione dell’Azione Cattolica, all’inizio del Novecento (ciò che c’era prima
nel laicato italiano era piuttosto diverso), si è tentato di costituire un
corpo politico coerente agli ordini del papato. Poi, dal secondo dopoguerra, si
è accettata una collaborazione politica dei laici con sempre maggiore
autonomia, nelle istituzioni pubbliche civili, fino alla formale accettazione
della democrazia politica nel 1991. In questa fase sono tornati utili il lavoro
sistematico di formazione del laicato fatto nei decenni precedenti e il
ripianare i contrasti con la componente cattolico-democratico del laicato, con
la mediazione di Alcide De Gasperi, Amintore Fanfani, Aldo Moro. Negli anni a
seguire, quindi negli anni ’90, si è provato a riprendere il controllo diretto
del popolo che politicamente serviva, senza la mediazione dei
cattolico-democratici, ma non è andata bene e ora non si sa più che fare. La
lunga sfiducia manifestata sotto il regno religioso di Karol Wojtyla verso il
laicato adulto italiano, vale a dire relativamente autonomo,
quello che Fulvio De Giorgi ha paragonato in un suo fortunato libro al brutto
anatroccolo, con il tentativo di silenziare il libero dibattito sulla
maggior parte delle questioni per sospetto di deviazione in senso liberale o
marxista, e ciò più o meno fino all’inizio del regno del nostro
Padre Francesco, ha privato, in fondo, la gerarchia di un vero e proprio popolo.
Del resto non se ne è curata a sufficienza la formazione, non si è assecondata
una tradizione democratica, timorosi di perderne il controllo.
Ora spesso si avverte, da come
ne parlano, che i nostri capi religiosi non conoscono a sufficienza il loro
popolo, impegnati come sono in prevalenza, per la gran parte della loro
giornata che è di ventiquattro ore come quella di tutti noi, nell’amministrazione del
clero e dei religiosi degli istituti di vita consacrata, e dei beni
e aziende che al clero e agli istituti di vita consacrata fanno riferimento.
Francesco vorrebbe che avessero l’odore del gregge, vale a dire che
avessero maggiore dimestichezza con la gente, ma anche questa è una metafora
che presenta qualche rischio. Quando si parla di pastori ci
si riferisce ai capi, che dovrebbero essere come il Buon Pastore,
un pastore veramente particolare, che non sfrutta economicamente il gregge.
Ma pensare poi al popolo come a un vero e proprio gregge,
con la spiritualità, diciamo, della pecora, non aiuta. Le
persone non sono pecore, non vanno dove si dice loro di andare: bisogna
convincerle e spesso vogliono partecipare alle scelte. Noi laici
non siamo e non vogliamo essere pecore e, dico chiaramente quello che
gran parte di noi pensa e non si azzarda in genere a dire, non
riteniamo la docilità al modo di pecore una virtù. Tra pastore e gregge
non ci può essere dialogo. Tra persone sì. Ma la partecipazione
e il dialogo, che è innanzi tutto confronto tra diverse
argomentazioni, richiedono un tirocinio che in religione in genere non si fa o
si fa troppo poco. In Azione cattolica, ad esempio, si fa.
Il gregge ideale
venne talvolta individuato nel mondo contadino. Accadde nell’Ottocento. Le
popolazioni cittadine erano invece esposte, si riteneva, alle subdole insidie
delle nuove ideologie che si venivano affermando. I pastori dovevano
proteggere gli uni e gli altri, contadini e cittadini, con atteggiamento intransigente,
senza possibilità di mediazioni di qualsiasi genere. Si riteneva che non
si dovesse, non si potesse, ma in definitiva non si
volle fare diversamente. Ruppero con il nuovo stato nazionale
italiano. Questa fu fondamentalmente la posizione del papato dal 1870 alla
fondazione dell’Azione Cattolica nel 1906. Fu la privazione della democrazia
per i fedeli cattolici: una tragedia culturale e politica durata circa
cinquant'anni, e anni cruciali per la vita politica italiana. Ma il mondo
contadino serviva a poco, al dunque, perché era una forza sociale subalterna e
finché fosse rimasta tale, sebbene, almeno fino agli inizi del Novecento molto
numerosa, molto più di oggi. Questo richiese la collaborazione delle classi
colte e un lavoro di formazione sistematico tra la gente, a partire dai più
piccoli: fu affidato all’Azione Cattolica. In Italia, si era iniziato
spontaneamente a svolgerlo, da parte dei laici, nella seconda metà
dell’Ottocento, ma erano sorti, verso la fine del secolo, gravi dissidi tra
correnti intransigenti politicamente contrarie
all’integrazione nel nuovo stato nazionale italiano e correnti democratiche.
L’enciclica Le novità, del 1891, dalla quale si fa iniziare
la dottrina sociale contemporanea, venne dopo almeno due decenni di iniziative
sociali di laici e preti. Esse si manifestavano periodicamente in
un’istituzione nazionale che era l’Opera dei Congressi, sede di incontro per
coloro che in quelle azioni sociali erano impegnati. Non riuscendo a
controllare la situazione, il papato ripartì da capo con l’Azione Cattolica, ad
inizio Novecento, dopo aver posto termine d’autorità a ciò che c’era prima.
Fino al 1958, quando terminò il regno religioso di Eugenio Pacelli, la
struttura era centrata su un potere religioso-politico sacralizzato e
centralizzato, il papato romano, regnante religioso alla cui maestà la
gente si accostava al modo in cui faceva con i regnanti civili, con
lo stesso timoroso e sottomesso ossequio, e su masse politicamente e
sistematicamente formate a seguire gli indirizzi politici del papato nelle
questioni civili (per sostenere i diritti della Chiesa). Una
soluzione che ebbe notevole successo e che consentì un ruolo determinante dei
cattolici nella fase politica successiva alla caduta del fascismo. Dal ‘58 si
attivarono processi democratici e si ebbe una progressiva desacralizzazione del
potere politico del papato, sostituita dal fascino personale del
regnante. Si cominciò con il Papa-buono, Angelo Roncalli, e poi con
la spettacolare e lunga esperienza di Karol Wojtyla. In questa fase la
relazione mediatica tra regnante e masse fu molto importante e la gente fu
spinta a diventare popolo del Papa: un papismo ingenuo, non
sacralizzato, in cui la personalità e la vita del regnante erano molto
importanti e conosciute fin nei minimi dettagli (cosa inimmaginabile riferita
ai papi sacrali regnanti fino al 1958). Dagli anni
’80 il lavoro di formazione del laicato progressivamente si fece meno efficace
e i processi democratici annichilirono. Si riteneva, in definitiva, che fosse
sufficiente l’immedesimazione emotiva del popolo con
il regnante, che, nei grandi eventi di massa, appariva così efficace. Questo ha
creato un vuoto, una distanza, tra pastori e gregge,
per cui ci si conosce poco. Per la gente comune c’è stata, dunque, e a
lungo, prevalentemente la spiritualità-spettacolo, di massa, senza
vera partecipazione, ma solo presenza; per una stretta cerchia
di consulenti c’è stata la possibilità di avvicinare i capi
religiosi ma senza alcuna vera condivisione di responsabilità. Della partecipazione,
in fondo, si diffidava e non si sapeva nemmeno come gestirla: per questo
divenne carente anche la formazione. Dal 2005, in Italia, si è tentato di
rimediare: è del marzo di quell’anno la Lettera ai fedeli laici -
“Fare di Cristo il cuore del mondo” dellaCommissione
Episcopale per il laicato della Conferenza
Episcopale Italiana, nella quale si legge:
“A volte, può essere che il laico
nella Chiesa si senta ancora poco valorizzato, poco ascoltato o compreso.
Oppure, all’opposto, può sembrare che anche la ripetuta convocazione dei fedeli
laici da parte dei pastori non trovi pronta e adeguata risposta, per
disattenzione o per una certa sfiducia o un larvato disimpegno. Dobbiamo
superare questa situazione. Una cosa è certa: il Signore ci chiama; chiama
ognuno di noi per nome.
[…]
È indispensabile uscire da quello
strano ed errato atteggiamento interiore che faceva sentire il laico più
“cliente” che compartecipe della vita e della missione della Chiesa.
[…]
Se lo Spirito Santo è il
protagonista ultimo della vita personale, così come lo è della vita della
Chiesa, non si può ritenere che ci sia un’isola spirituale, cioè la comunità
ecclesiale in cui affidarsi alla guida dei pastori, e uno spazio operativo,
cioè il mondo, dove si è soli con la propria autodeterminazione. La
responsabilità laicale comincia nel partecipare attivamente là dove si assumono
i grandi orientamenti delle scelte cristiane sotto la guida di pastori; la
fedeltà a Cristo e alla Chiesa continua là dove si vive immersi nel mondo e
nella relativa autonomia dei suoi ambiti. Parte integrante di questa sintesi di
vita del laico è la capacità di raccordare sapientemente il suo essere e
servire nella Chiesa, con il compito di animare cristianamente la realtà del
mondo.
[…]
In questo momento storico, in cui si
va plasmando la complessa fisionomia di una nuova civiltà planetaria; mentre la
comunità cristiana italiana si prepara a celebrare nel 2006 a Verona il suo
quarto Convegno ecclesiale nazionale, che ruoterà intorno a tali problemi, c’è
bisogno di una nuova primavera del laicato, che possa letteralmente rianimare,
in forme significative e comunicabili, tutti gli ambiti di vita in cui un
fedele laico può essere apostolo: nell’evangelizzazione e santificazione,
nell’animazione cristiana della società, nell’opera caritativa; nell’azione
pastorale della Chiesa, così come nella famiglia e nella vita pubblica; in
forme individuali e associate; delineando un nuovo stile di vita, segnato dalla
conversione dell’intelligenza e degli affetti, in cui l’intera rete delle
relazioni con se stesso, con gli altri e con il creato sia abitata dal soffio
dello Spirito. Ma per fare ciò bisogna ovviamente pregare, riflettere, estrarre
dal nostro tesoro «cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52): essere cioè veri
cristiani.”
Da allora però non si è fatta
molta strada.
Venuto meno un
regnante religioso con la personalità e l’indole adatte agli eventi
spirituali spettacolari, ci si è avveduti che la gente è preda del populismo,
che è quando ci si fa massa dietro a colui che conferma la gente nelle sue
paure o nelle sue tentazioni. Ma anche l’immagine del popolo che danno
i populisti è poco aderente alla realtà. Il populismo,
come certi fatti religiosi, è solo incantamento e, in genere, ha le gambe
corte, come si dice delle bugie, e disillude presto. Rimangono le persone con i
loro problemi di vita e accostarle costa fatica, ma alla fine produce, crea
relazioni più significative. Nel contesto dell’individualismo dei nostri
giorni, in cui sembra che ognuno viva per sé, o al massimo in famiglia,
possiamo figurarci un popolo disperso. Le scorciatoie
mediatiche per radunarlo si sono dimostrate piuttosto inefficaci: al massimo
fanno convergere una folla, che rapidamente si disperde, nel giro di qualche
ora o al più di qualche giorno. Eppure, come si sostiene fin dall’antichità,
gli esseri umani sono viventi sociali. E’ sufficiente creare delle
opportunità e si stabiliranno nuove relazioni. Ma bisogna accettare le persone
per quelle che sono, vale a dire esseri umani, non pecore, gregge.
Sì, in effetti noi laici abbiamo avuto l’impressione di essere stati poco valorizzati, ma
anche più di questo: sappiamo di contare poco o nulla. Si parla di noi laici,
nei convegni che fanno sulle nostre vite i nostri capi
religiosi, ma ci è abbastanza chiaro che di noi, di quelle nostre vite, non
sanno molto e, in più, decidono sulla base di molti partiti presi di dubbio
fondamento. Così, si coesiste ignorando tutto ciò, facendo finta che tutto vada
come deve. Quindi poi esistono due mondi, affiancati non integrati: quello
delle vite dei laici e quello del clero e dei religiosi. Ci si accosta perché
si ha bisogno gli uni degli altri, ma c’è poco più di questo. Potrebbe essere
diverso? Potrebbe. Perché no? Ma certe cose occorre inventarsele, e prima
ancora sperimentarle. Non sarà dall’ambigua teologia pastorale corrente,
piena di distinguo e di riserve, per cui con una mano sembra che si dia ma con
l’altra sicuramente si riprende, che verranno le soluzioni. Se il principio
rimarrà “tutto il potere al clero”, non si andrà molto avanti.
Il gregge rimarrà tale e tanti saluti a tutto…
75.
Grandi orizzonti
Quando fu eletto papa Karol
Wojtyla, nell’ottobre del 1978, ci trovammo in mezzo alla grande storia. Questo
mentre il laicato italiano era prevalentemente occupato in faccende di
rilevanza molto minore, nazionale. I movimenti della destra religiosa, quelli che volevano
riportare le nostre collettività di fede ai tempi del papa Eugenio Pacelli, a
prima del Concilio Vaticano 2°, battagliavano con i cattolico-democratici
accusandoli dell’apparente dispersione della gente di fede, in particolare
della crisi del nostro associazionismo. Si proseguì così per gran parte degli
anni ’80, finché il mondo cambiò e sulle nostre collettività di fede scese una
lunga era glaciale, in cui tutto fu silenziato, sospeso. Tutto fu sostituito
dalla stupefatta adesione al magistero religioso e politico del Wojtyla,
attorno al quale si costruì la leggenda che fosse l’artefice principale del
crollo dell’impero sovietico. Come resistergli?
Di quella storia fui
testimone: ho l’età per esserlo e mi interessava molto.
Il lungo regno religioso del
Wojtyla fu caratterizzato da un attivismo politico internazionale intensissimo,
al modo dei Papi della prima metà del secondo Millennio. Egli, profondo
conoscitore della situazione politica dell’Europa orientale caduta sotto il
dominio del sistema sovietico, aveva intuito la metamorfosi incipiente dei
comunismi dell’Europa orientale, analoga e parallela a quella che si stava
producendo anche in quelli dell’Europa occidentale. All’inizio degli anni ’80
ci credevano in pochi. Egli si illudeva
che ciò avrebbe aperto opportunità alla vita di fede: come ora sappiamo, in
questo si sbagliava.
Per capire il senso dei suoi
orizzonti si possono leggere le sue encicliche politiche, la “Il Redentore
dell’uomo”, la “Lavorando” e la “Il Centenario”, quest’ultima per commemorare il secolo dalla prima
enciclica della dottrina sociale
contemporanea, la “Le novità”, del
1891. Erano grandi orizzonti, anche se centrati
prevalentemente sull’Europa. Wojtyla previde che nel giro di pochi anni
l’Europa si sarebbe unificata, sarebbe stata rimossa quella che Winston Churchill
chiamò “cortina di ferro”, il confine
corazzato e non oltrepassabile che
divideva le nazioni europee dominate dal capitalismo di tipo Occidentale da
quelle dominate dall’economica collettivistica sul modello sovietico.
Il Wojtyla non mancò certo di
criticare il consumismo occidentale e lo sfruttamento dei lavoratori in
ambiente capitalista. Ma, come osservano i suoi biografi [chi voglia
approfondire può leggere di Andrea
Riccardi, Giovanni Paolo II, la biografia],
egli fondamentalmente apparteneva al mondo comunista; il suo assillo principale
era di ricongiungere quel mondo, il suo mondo, all’altra parte dell’Europa, che
era dominata dal capitalismo, ciò che non poteva farsi senza abbattere
l’economia comunista e i sistemi politici comunisti: era per questo che, presentandosi per la prima volta dopo la sua elezione ai
fedeli in piazza San Pietro (tra i quali c’ero anch’io), ci disse di venire da un paese
lontano, “lontano,
ma sempre così vicino per la comunione nella fede e nella tradizione cristiana.” Scrive Riccardi nel libro che ho citato (pag. 159):
“A Cracovia si soffriva la forzata lontananza dal
cuore dell’Europa, proprio nella città che era divenuta un punto di rifugio della cultura polacca nel
clima asburgico e nel contatto
con quella austro-tedesca. Un papa di Cracovia non è distante dal resto
dell’Europa. Ma il papa viene da lontano non per la distanza geografica o
culturale, ma perché appartiene al mondo comunista.
[…]
L’utopia
europea di Giovanni Paolo II si radica nella sua cultura che guarda all’Europa
da quella particolare giuntura tra mondi che è la Polonia. Nell’enciclica
Slavorum Apostoli [=Apostoli degli slavi; ci si riferisce ai
santi Cirillo e Metodio], Giovanni Paolo
II si definisce «il primo papa chiamato alla sede di San Pietro dalla Polonia
e, dunque, dal mezzo delle nazioni slave». Il papa parla spesso di un’Europa
che respira con «due polmoni», alludendo alla tradizione occidentale e orientale (a questa espressione
- disse a padre Duprey - lo aveva familiarizzato un suo professore di
seminario). L’immagine dei «due polmoni» è del russo Viaceslav Ivanov, vicino a
Solov’ev, esule a Roma, professore di letteratura russa al Pontificio Istituto
Orientale. Ivanov, accostatosi al cattolicesimo senza abiurare l’ortodossia,
morì a Roma nel 1949. E’ significativo che Giovanni Paolo II abbia ricevuto nel
maggio 1983 i partecipanti a un convegno
su questo intellettuale russo. In
quell’occasione ricorda le parole di
Ivanov in una lettera del 1930, in cui affermava di aver sofferto per la divisione «dall’altra
metà di questo tesoro vivente di santità e grazia, e di respirare, per così
dire, come un tisico con un solo polmone». Un cattolico, per il papa, «deve
avere due polmoni, cioè quello orientale e occidentale.”
Questo suo problema principale, riunire le due parti d’Europa
portando l’oriente verso l’occidente,
portò Wojtyla a non comprendere l’evoluzione del socialismo dell’Europa
occidentale, in particolare di quello italiano, e a diffidare di quello
dell’America Latina. Trattò le questioni relative, per ciò che riguardava le
collettività di fede, tagliando corto, senza accettare nessuna mediazione,
costruendo un’angusta gabbia ideologica in cui volle rinchiudere la ricerca
teologica, in particolare con l’imposizione normativa del suo Catechismo
della Chiesa cattolica, del
1992-1997. A ciò si accompagnò una politica di severa polizia ideologica verso
i dissenzienti tra il clero e i religiosi.
L’azione politica del papa Wojtyla ebbe
risvolti spettacolari in Polonia, con l’azione del partito-sindacato Solidarnosc, che in fondo trovò il suo programma nelle
encicliche Il Redentore dell’uomo e Lavorando. Le urgenze degli eventi polacchi portarono il Wojtyla piuttosto vicino
all’amministrazione del presidente statunitense Ronald Reagan, espressa dalla destra politica. Ma vi furono
contatti, e forse intese, anche con il comunista Michail Gorbacev, presidente dell’Unione Sovietica e ultimo
segretario del Partito comunista dell’Unione Sovietica, negli anni ’80
impegnato in una profonda riforma del sistema sovietico, caratterizzata dai due
principi della glasnost, che
significa trasparenza, e della perestroika, che significa rinnovamento, ricostruzione. Il Gorbacev
decise di non far intervenire le forze militari del Patto di Varsavia,
l’alleanza tra gli stati comunisti dell’Europa orientale dominati dai
sovietici, per bloccare gli sviluppi politici che si stavano rapidamente
manifestando, e questo consentì la caduta dei regimi comunisti dell’Europa
orientale e la riunificazione dell’Europa, in particolare della Germania, della
quale fu protagonista il democristiano Helmut Kohl. La Germania riunificata fu
il principale motore della costruzione dell’Unione Europea, che comprende anche
stati che furono sotto il dominio dei sovietici e del comunismo di ispirazione
marxista-leninista-staliniana, e ne è rimasta lo stato guida, con la
democristiana Angela Merkel. Il disegno politico del Wojtyla si è così
compiuto, anche se ciò che si sta manifestando negli stati dell’Europa orientale
appare molto diverso dai suoi auspici religiosi.
Mentre il Wojtyla era impegnato
in questo grande disegno politico, che comprendeva anche la progettazione di un
futuro democratico per gli stati usciti dai sistemi politici comunisti, secondo
gli indirizzi dell’enciclica Il
Centenario, le collettività di fede italiane svolsero ruoli marginali e
prevalentemente centrati sui rivolgimenti italiani. I reazionari cercarono di
accaparrarsi il favore del Papa, con un certo successo. Gli altri si chiusero
in difesa, in particolare nella nuova Azione Cattolica uscita dall’attuazione
del Concilio Vaticano 2° e intorno ad alcuni capi religiosi preminenti, come
l’arcivescovo di Milano Carlo Maria Martini. Dagli anni ’90 si ebbe la
dispersione culturale e personale di tutto un mondo, quello del
cattolicesimo-democratico, che era stato protagonista della travagliata marcia
del cattolicesimo italiano verso la democrazia, da metà Ottocento fino
all’inizio degli anni ’80. E questo proprio durante il regno di uno dei papi più politici
di sempre.
Dall’inizio del regno del
nostro Padre Francesco, ci vengono esortazioni
a riprendere quel processo di acculturazione e sviluppo verso la democrazia. L’altro ieri,
in un’intervista, ha criticato le visioni distorte
di America, Russia, Cina e Corea del
Nord. Questo implica un apprezzamento per la visione europea, non compresa tra quelle altre, negative. Ha detto che se
non rafforziamo l’unità europea non conteremo nulla. Questo lo pensano in
molti. In questa visione si va contro i nostri populismi nazionali,
marcatamente anti-europeisti. Anche Francesco viene di lontano, ma questa
volta veramente di lontano. Sia in
senso geografico che culturale. Sotto quest’ultimo profilo, nelle sue parole si
sente l’eco delle molte voci che il Wojtyla volle silenziare d’autorità. Che
fare, dunque?
Mi piacerebbe che, questa volta,
ai grandi orizzonti del Papa ne corrispondessero anche di
nostri. Un lavoro che richiede di osservare, capire, progettare collettivamente e che può farsi anche a
partire da realtà di prossimità come la parrocchia.
Ai tempi del Wojtyla i fatti
europei degli anni ‘80 ci colsero di sorpresa e, tutto sommato, non ci videro
come protagonisti. Lo furono, invece, gli Stati Uniti d’America, ma non come
azione di massa, come era avvenuto a cavallo tra gli anni ’60 e i ’70 con la
stagione dei diritti civili, ma prevalentemente come politica
presidenziale, supportata da vari centri d’azione amministrativa e militare,
ciò che si ripercosse con tutta evidenza, e negativamente, su ciò che si produsse, su come l’evoluzione
dal comunismo al capitalismo si realizzò in Europa Orientale e anche in Russia.
Ora che invece l’Europa Unita,
fra tante visioni distorte delle
altre potenze mondiali, può diventare potenza
umanitaria, il germe di un mondo nuovo, in fondo secondo gli auspici del
nostro Padre Francesco, potremmo diventare molto più attivi, noi laici di fede,
innanzi tutto cominciando a familiarizzarci con società e politica, in modo,
innanzi tutto, da non ricadere nel desolante populismo subalterno, quello che rischia di farci diventare docile massa di manovra per ambiziosi
spregiudicati, quello che vuole confermarci in tutte le nostre paure e
tentazioni, rendendo ragionevole il diventare infami, abbandonando al proprio destino chi sta peggio, ripetendoci
che non c’è altra via d’uscita e che non dobbiamo vergognarcene, perché o noi o loro. Non si tratta più, come ai
tempi del Wojtyla, del riunificare l’Europa per l’Europa stessa, ma di potenziare il processo di unità europea per
creare un agente di massa sufficiente per iniziare a riformare il mondo intero.
76. Noi e il
mondo
Nel
1982 fu pubblicata un’edizione in quattro volumi degli scritti di Enrico
Bartoletti, segretario generale della Conferenza Episcopale italiana negli anni
’70, cruciali per l’attuazione dei principi enunciati durante il Concilio
Vaticano 2° (1962-1965). Andai alla presentazione dell’opera, e un amico mi prestò una copia di quei libri. Confesso che sono rimasti sempre con
me. In questo momento ho tra le mani il quarto volume, intitolato La Chiesa nel mondo.
L’ultimo Concilio produsse un grandioso mutamento di prospettiva nelle
nostre relazioni religiose con il
mondo, vale a dire con tutto ciò che c’è fuori degli spazi
liturgici. Come sempre accade in queste cose, prima venne la
sperimentazione, la pratica, e poi ci
si ragionò sopra in teologia.
A che
cosa serve lo stare insieme, in religione?
A
rendere presenti realtà soprannaturali, ci insegnano i teologi. Non accade solo
nella liturgia, non è faccenda solo da preti. Il nostro lavoro di fedeli in
società non è indifferente, non serve solo ad acquisire meriti personali: si è segno di realtà soprannaturali e loro strumento. Ci sono un metodo e una via che conducono ad esse e tutti i fedeli
ne fanno parte e ne sono, quindi corresponsabili.
Per
certi versi, nei secoli precedenti le società religiose secondo la nostra fede
venivano viste come un mondo a parte. Un sopra-mondo
nel quale era molto visibile il
clero, organizzato al modo di un impero religioso con una propria gerarchia
molto ben definita. Di questa organizzazione era membri a pieno titolo i membri
degli istituti di vita consacrata, monaci e monache, frati e suore, con loro
speciali ordinamenti. Poi c’erano tutto gli altri, semplicemente soggetti al
potere altrui, ma solo per una parte delle loro vite, perché per il resto erano
sudditi dei sovrani civili. La presenza
di tutti questi altri non caratterizzava l’insieme: ci fosse o non ci fosse, in
fondo, era indifferente. Potevano esserci o non esserci, ma quel sopra-mondo andava avanti lo stesso. Si
cercava di coinvolgerli come sudditi religiosi, perché la missione consisteva, in
definitiva, in questo. O anche in questo? Il bene principale era considerato
infatti mantenere integra l’organizzazione gerarchica, il suo spazio di libertà
nei confronti dei sovrani civili, l’integrità dei suoi beni, la maggiore
esenzione possibili dagli altri poteri, sotto i profili politico, fiscale,
giurisdizionale. Questo, naturalmente,
per portare tutti al Cielo. La
sola via per ottenere quella salvezza era quella di farsi
sudditi religiosi. Ancora ai tempi nostri vi è traccia di questa concezione,
quando si dice la Chiesa fa, la Chiesa
dice, e
si intende riferirsi al papa e ai vescovi, e qualche volta anche ai preti e ai
religiosi. In questa concezione sono molto importanti i diritti dell’organizzazione
religiosa, intesi come il complesso di libertà,
proprietà ed esenzioni riconosciute dalle autorità civili. Si viene a patti con
i sovrani civili, attraverso concordati, o altri accordi simili tra autorità religiose
e civili, si stabilisce una sorta di condominio
sui sudditi, e, una volta raggiunte
queste intese, non si sta a sindacare, dal punto di vista religioso, le
politica dei sovrani civili ai quali in questo modo ci si è federati. Decidono
la guerra? In questo caso i diritti che si rivendicano sono solo: l’esenzione di preti e religiosi dal combattimento e la libertà di assistere spiritualmente i combattenti e, in genere, i morenti, compresi i
condannati dalle corti militari secondo il diritto di guerra (negli opposti
eserciti belligeranti, nel caso di conflitti tra nazioni che seguissero la
nostra fede). Lorenzo Milani, negli anni ’60, in una polemica con i cappellani militari, i preti inquadrati militarmente nel
nostro esercito, fece notare che ai preti e ai religiosi il Concordato stipulato nel 1929 con il Regno d’Italia, e
rimasto in vigore in epoca repubblicana, riconosceva il diritto all’obiezione di coscienza che invece costava il carcere ai nostri fedeli
che lo invocavano. Questo rende bene l’idea della situazione dell’epoca.
Di
solito, quando si racconta degli eventi del Concilio Vaticano 2°, e nella
prassi parrocchiale lo si fa piuttosto di rado, si inizia con il dire che fu
richiesto un maggiore impegno dei laici. Questo essenzialmente perché dei laici
oggi si ha bisogno per integrare il lavoro dei preti, che sono sempre meno.
Così però finisce che i laici appaiono come arruolati
nei ranghi parrocchiali o di altri settori
dell’organizzazione religiosa come una specie di preti onorari, o di vice preti, al modo in cui accadeva nel
West, in Nord-America, in cui lo sceriffo
per certe emergenze poteva nominare
dei vice.
In
realtà l’impegno nuovo dei laici progettato dai saggi dell’ultimo Concilio
conseguì ad una nuova idea della missione religiosa, che troviamo in
particolare in due documenti molto importanti approvati e diffusi dal Concilio
Vaticano 2°, le Costituzioni Luce per le
genti e La gioia e la speranza. Si ritenne che per la fede non potesse
essere indifferente come andava il mondo, anche dopo aver sistemato le
questioni dei diritti dell’organizzazione religiosa.
Occorre infatti: consociare le forze, risanare le istituzioni e le condizioni del
mondo, se ve ne siano che provocano al peccato, così che tutte siano
rese conformi alle norme della giustizia e, anziché ostacolare, favoriscano le
virtù (Cost. Luce per le genti, n.36).
Ed è qui che entrano in campo i laici in una nuova posizione, con una nuova dignità. Servono per questo lavoro di
trasformazione del mondo secondo i principi di fede, che, nel gergo teologico, viene espresso
con “trattare le cose temporali [vale
a dire del mondo] ordinandole secondo i
principi di fede” (Cost. Luce per le genti n. 31). Devono essere competenti, certo, per questo devono essere formati
adeguatamente, certo, ma il loro compito non si esaurisce
nell’essere consulenti. Devono anche lavorare nella
società, in spirito di dialogo fraterno
con le altre sue componenti (Cost. La
gioia e la speranza n. 92) per il
conseguimento del bene comune (Cost. La
gioia e la speranza n. 73).
Perché:
Le gioie e le speranze, le tristezze e le
angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che
soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei
discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel
loro cuore. (Cost. La gioia e la speranza n. 1).
e:
Nessuna ambizione terrena spinge la Chiesa;
essa mira a questo solo: continuare, sotto la guida dello Spirito consolatore,
l'opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel mondo a rendere testimonianza
alla verità a salvare e non a
condannare, a servire e non ad essere servito (Cost. La Gioia e la speranza n.3)
pertanto:
Per svolgere questo compito, è dovere
permanente della Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla
luce del Vangelo, così che, in modo adatto a ciascuna generazione, possa
rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso della vita presente
e futura e sulle loro relazioni reciproche. Bisogna infatti conoscere e
comprendere il mondo in cui viviamo, le sue attese, le sue aspirazioni e il suo
carattere spesso drammatico. (Cost. La Gioia e la
speranza n.4)
Quindi non “ci sono anche i laici, troviamo loro da fare”, ma “c’è un lavoro in società da fare in cui i
laici sono indispensabili”. Il nuovo
ruolo dei laici avrebbe richiesto anche modifiche organizzative, che però non
si riuscì, in gran parte, non dico a realizzare, ma proprio a progettare. Come
è evidente dalla lettura della Costituzione Luce
per le genti, le nostre collettività religiose sono rimaste ancora
organizzate come un impero religioso feudale, secondo l’impostazione data loro
tra l’Undicesimo e il Sedicesimo secolo,
e questo pur nel contesto di una
diversa teologia.
Secondo le statistiche del 2014, i battezzati nella nostra confessione religiosa
sarebbero un miliardo e trecento milioni, circa il 17% della popolazione
mondiale. dei quali circa un milione sono
preti, diaconi, monaci e monache, suore e frati, in questa quota compresi il
papa e i vescovi. E’ una popolazione mondiale più o meno uguale a quella
dell’attuale Repubblica popolare cinese. I due sistemi politici, quello nostro
eligioso e quello cinese presentano qualche somiglianza, anche se il secondo è
molto più complesso. Fondamentalmente in entrambi il potere scende dall’alto.
Non vi è ammessa la democrazia come la si intende in Europa. Nel primo, però, è
tollerata nei sudditi una maggiore libertà ideologica, salvo che per i
funzionari del clero e dei religiosi. Quando si viaggia su quei numeri, quella
della democrazia è una vera sfida. Come tenere tutto insieme? Senza poi poter
contare su di un apparato poliziesco come quelli degli stati.
Certe volte si ha l’impressione che i nostri
capi religiosi, tutti appartenenti al clero, vadano per la loro strada, come
nei secoli passati. Parlano di noi, ma senza di noi. Noi parliamo loro della
società e di noi, ma quelli sentono solo quello che vogliono sentire. Poi
legiferano, ma noi obbediamo quello a cui ci sentiamo di obbedire. Noi e loro,
poi, facciamo come se tutto andasse come deve. Perché, se si dovesse cambiare
veramente, nulla sarebbe più come prima, nelle loro vite e nelle nostre vite, e
per noi laici sarebbe molto più impegnativo di adesso. Così, in genere,
ripieghiamo nel ruolo di sudditi, che fu del passato. Così però la religione
diventa insignificante e inutile, un po’ la ciliegina
sulla torta delle nostre vite per il
giorno della festa, come lamentano i nostri critici. Continuiamo a fare massa
per garantire i diritti della nostra organizzazione religiosa, le sue libertà, le sue proprietà e le sue esenzioni, e anche un ingente e automatico
flusso di finanziamenti pubblici che, solo, consente di tenere in vita
l’organizzazione religiosa. Ma, fatto questo, non ci sentiamo veramente
impegnati a molto di più. E i principi
di condivisione delle gioie, speranza, dolori, tristezze e angosce?
Il lavoro di trasformare il mondo secondo i principi di fede? Ci passiamo un po’
sopra, non è così? Ecco che poi, ad esempio, sentiamo proclamare nella nostra
politica il proposito “aiutiamoli a casa
loro”, che significa in definitiva respingere, e non ci sentiamo interpellati
religiosamente, in questo non nostro rifiuto dell’impegno etico di condividere sofferenze altrui.
Va bene, questa è l’analisi. Che si fa?
Proviamo a sperimentare dei cambiamenti.
Quello che appare tanto difficile nel piccolo regno vaticano, nel quale la
Curia appare come prigioniera del proprio ruolo storico e delle alte muraglie
dietro cui è arroccata, può essere più facile in una realtà di prossimità come
una parrocchia. Impariamo a praticarvi la democrazia, che non è solo metodo di
conta per decidere chi ha vinto, ma
anche e soprattutto sistema di valori.
Impariamo a rendere conto pubblicamente di ciò che facciamo. Se si
progetta, poi si facciano bilanci dei risultati. Si discutano apertamente le
modifiche da fare. In ogni cosa, anche a partire dai più giovani, si attivi la
corresponsabilità. Contrastiamo la clericalizzazione dei laici. Rendiamo
pubblici i conti della gestione e l’inventario.
77. Che portiamo al mondo?
Ho menzionato un libro di scritti di Enrico
Bartoletti che avevo tra le mani, intitolato La Chiesa nel mondo,
l’ultimo di un’opera in quattro volumi, del 1982. Bartoletti morì nel
1976, da segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana,
l’istituzione che riunisce i vescovi italiani. Lo era diventato nel 1972. Si
era agli inizi della fase di attuazione del Concilio Vaticano 2° (1962-1965),
al quale Bartoletti aveva partecipato. Chi ha studiato il suo lavoro concorda
che il suo ruolo fu molto importante. Egli lo definì come quello di traghettare
la Chiesa Italiana sulla sponda del Concilio. Fu scelto come segretario
generale perché aveva iniziato a farlo con sapienza e efficacia già durante il
Concilio, a Lucca, dove faceva il vescovo e poi anche dopo, in
particolare nel progettare il rinnovamento della catechesi. La raccolta di
scritti a cui faccio riferimento inizia con un intervento del gennaio 1962
al Movimento dei Laureati Cattolici, un’organizzazione di
Azione Cattolica che oggi, con maggiore autonomia organizzativa, si chiama MEIC
- Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale. Il Concilio era stato
indetto pochi giorni prima. Dalla lettura si capiscono le attese che si ebbero
verso il Concilio. Il discorso comincia appunto con il riferirsi ad un carico
di speranze e di attese. Ma Bartoletti chiarì anche che non si
trattava di un inizio di una nuova stagione, ma della presa
d’atto di un inizio che c’era già stato, già si
viveva. Era un fatto buono? Bartoletti riteneva di sì. Occorreva però
ripensare il modo di stare insieme e, innanzi tutto, le ragioni e il senso
dello stare insieme, in religione: quindi serviva una adeguata teologia.
Che cos’è la teologia?
E’ ragionare sulla nostra fede collettiva, sulla religione e sulla
liturgia, sullo stare insieme nella fede. Spesso si ha presente prevalentemente
quella che si occupa di esporre le verità individuate e ritenute come
fondamentali e come tali anche proclamate dall’autorità religiosa: la teologia
dogmatica. Questo perché i catechismi, specialmente quelli per la
formazione degli adulti, vi fanno molto riferimento. Ma la dogmatica non
è tutto. Si tratta anche di capire il senso religioso di ciò che si fa. E’ per
questo che praticamente ogni attività umana ha una sua teologia. C’è, ad
esempio, una teologia del lavoro, ma anche, ne ha parlato il nostro Padre
Francesco qualche giorno fa in un intervento che ho trascritto su questo blog,
una specie di teologia dell’ozio. Se ragioniamo sul senso dello stare
insieme in religione i due aspetti sono presenti entrambi: la dogmatica e
la riflessione religiosa sul lavoro che si fa. Che relazioni ci sono tra di
loro, qual è la più importante? Nasce prima la seconda: i dogmi,
infatti, le concezioni ritenute fondamentali e caratterizzanti della fede, ne
sono sviluppi. Nella nostra confessione vengono proclamati d’autorità dai
concilio e dai papi. Individuato un dogma, si cerca di farlo entrare nella tradizione e di trovargli anche
precedenti in quella passata. Quindi l’altra teologia vi è soggetta. Ma ci sono
anche sviluppi nei dogmi, successivi alla loro proclamazione, per approfondirne
la comprensione. Ci lavorano la teologia dogmatica e l’altra teologia. E’
quello che è accaduto proprio nel Concilio Vaticano 2° su diversi temi, in
particolare sulle ragioni, il senso e il modo di essere delle nostre
collettività di fede. Tra le leggi date dal Concilio vi
è infatti una grandiosa Costituzione dogmatica sulla Chiesa,
denominata Luce per le genti dalle prime parole del suo
testo: “Cristo è luce delle genti: questo santo Concilio,
adunato nello Spirito Santo, desidera dunque ardentemente, annunciando il
Vangelo ad ogni creatura, illuminare tutti gli uomini della luce del Cristo che
risplende nel volto della Chiesa”. Questa è dogmatica. Poi c’è
la riflessione sul senso religioso del lavoro che si fa collettivamente: ad
essa è dedicata un’altra grandiosa Costituzione, quella denominata La
gioia e la speranza, che inizia così: Le
gioie e le speranze, le tristezze e
le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro
che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei
discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel
loro cuore. L’intera mia
vita di fede, così come quella dei miei coetanei credenti, è stata
centrata su quei documenti. La prima vera acculturazione a quei testi la
ebbi con la lettura degli scritti di Bartoletti, raccolti dal suo segretario
Pietro Gianneschi, che oggi è parroco nella parrocchia di San Vito, nella
diocesi di Lucca. E’ lui che mi prestò i volumi di
cui ho scritto ieri e oggi.
Disse
Bartoletti ai Laureati Cattolici, in quell’intervento del 1962:
“[…] il
Concilio sarà altresì, una nuova Pentecoste; più volte il Santo Padre ha
parlato di ringiovanimento della Chiesa, di purificazione
interiore, cioè, e conseguentemente di rinnovamento
delle sue strumentazioni apostoliche, in faccia alla realtà nuova
del mondo moderno da evangelizzare ed assumere.
E li esortò
a prepararsi al Concilio:
[…]Prepararsi
a comprendere la vastità dell’impegno della Chiesa intera, che si mette a
confronto con la realtà del mondo, così vasta e sconcertante.
Prepararsi a
percepire i due termini di confronto, nella loro piena accezione, e nella loro
dimensione esistenziale.
Prepararsi,
soprattutto, a realizzare quell’incontro, salvifico tra la Chiesa e il mondo
che non può avvenire senza di noi o fuori di noi, essendo tutti, in maniera
diversa, compresenti all’una e all’altra realtà, sì da costituire naturale
elemento di congiunzione e strumento di penetrazione.
Prepararsi; in
modo da dare ciascuno modestamente il proprio contributo, oltreché di
preghiera, anche di studio e di esperienza cristiana, presentando difficoltà e
insuccessi, offrendo disponibilità e collaborazione.
Quindi c’era nelle
sue parole l’idea di un Concilio che non fosse solo un congresso di dignitari
religiosi, ma che coinvolgesse tutte le persone di fede perché dessero anche
un contributo di studio e di esperienza cristiana. Perché, in
fondo, che cosa si porta innanzi tutto al mondo, da persone di
fede, nell’incontro? Portiamo noi stessi in quanto partecipi di
un’unità soprannaturale, di cui ci sforziamo di farci tramite verso gli
altri, verso il mondo, perché “Per analogia con Gesù Cristo - lui solo
dà una giusta nozione della Chiesa che è il suo corpo e la sua
manifestazione terrestre - il divino è in esse sempre legato all’umano. Fino
alla fine dei tempi la Chiesa rimane mistero di Dio e opera dell’uomo, un unico
ministero di luce e d’ombre [Hans Kung, Il Concilio e il
ritorno all’unità, 1961, citato da Bartoletti nel discorso ai Laureati
Cattolici del 1962].
Proseguì
Bartoletti:
[…] è
possibile fissare un momento storico della vita della Chiesa; per questo è
doveroso, per noi cristiani, confrontarla col mondo e vedere i suoi rapporti
con esso.
E’ chiaro, la
Chiesa non è il mondo e non è del mondo; ma pure vive nel mondo - Chiesa
peregrinante - e vi è immersa secondo il piano stesso di Dio, come in cosa che
le appartiene, appartenendo a Cristo, che la riconduce a sé.
Ché, anzi, il
mondo è nella Chiesa attraverso di noi, che del mondo portiamo la cultura e la
mentalità, i problemi e le istanze, il male da redimere, il bene da
soprannaturalizzare [=rendere manifesto il senso religioso del bene
che c’è],
Chiesa
di uomini e Chiesa anche di peccatori, che cerchiamo in lei redenzione e
salvezza.
Per questo il
cammino della Chiesa è tanto difficile nei secoli: essa deve stabilire il suo
incontro col mondo, senza restare “mondanizzata”[livellata ad un
gruppo sociale tra i tanti e come tanti], portare la nostra
debolezza, senza per questo rimanerne indebolita; attraversare la nostra
opacità, senza per questo perdere la sua lucentezza.
Sta di fatto
che il volto della Chiesa, adeguatamente considerato in un momento della sua
storia, è la risultante di questa duplice componente: il dono permanente di Dio
e la risposta degli uomini.
La realtà e
la vita della Chiesa, oggi, scaturisce da una sorgente che è in Dio e nell’atto
costitutivo di Cristo; ma è anche frutto della sua storia precedente, come dei
rapporti che essa assume col mondo attuale, in una convergenza della libera
cooperazione dei suoi membri all’azione liberissima e sempre nuova dello
Spirito Santo.
Sono passati
cinquantadue anni dalla fine del Concilio Vaticano 2°. E allora? Che ne è stato
delle attese e speranze che ne accompagnarono l’annuncio?
Si è, in
fondo, ancora appena agli inizi del lavoro che si era progettato. Ma non solo.
Quello che si stava realizzando ha spaventato. Ad un certo punto si è sospesa
d’autorità l’evoluzione. Ciò accadde durante il lungo regno religioso di san
Karol Wojtyla. Così, l’organizzazione delle nostre collettività religiose non è
molto cambiata da com’era negli anni Cinquanta: vi si sono solo affiancate altre
componenti che fanno prevalentemente vita propria. La teologia si è molto
rinnovata e ha visto anche la comparsa di una generazione di teologhe. Ma la
formazione religiosa delle masse è ancora piuttosto carente: e, in fondo,
sembra che a volte si preferisca che rimangano quello che sono, masse appunto,
che vanno dove si dice loro e fanno ciò che si richiede loro, secondo quello
che è scritto nel foglietto che viene distribuito
nei grandi eventi che i nostri capi religiosi
periodicamente organizzano. Nelle parrocchie la situazione non è poi molto
diversa da quella di sessant’anni fa e, in fondo, sono proprio i laici ad
essere riottosi al cambiamento. I preti, i quali una volta erano tanto
partecipi della vita sociale della nazione, spesso si sono spiritualizzati, non
riescono a spiegare bene il senso religioso della vita civile, e se
vengono da altre nazioni conoscono poco i fedeli. Si sono scoraggiate le
sperimentazioni, timorosi di perderne il controllo. L’altro giorno a Roma è
morto Giovanni Franzoni, che fu benedettino, abate della comunità monastica di
San Paolo fuori le mura e che partecipò con il rango di vescovo al Concilio
Vaticano 2°, il più giovane tra i saggi che vi presero parte. Le sue
sperimentazioni religiose furono duramente represse, perse tutto come maestro e
capo religioso, salvo l’affetto della sua comunità di base e
di molti altri che lo stimavano. Una storia che lo accomuna a molti altri
brillanti sperimentatori sulla via tracciata dai
saggi del Concilio, come ad esempio il teologo Kung citato da Bartoletti.
I documenti
del Concilio sono poco conosciuti. Si è spesso insegnato a diffidarne pregiudizialmente,
propinandoli con un'avvertenza simile a quella che si legge sui pacchetti di
sigarette: "può nuocere grandemente alla salute dello
spirito". Lo avverto tutta la volta che provo a parlarne. Si è spinti
ad accontentarsi di compendi di dogmatica. Ma è
proprio dalla formazione e dalla sperimentazione che bisognerebbe ripartire. Un
maggior impegno dei laici richiede, in particolare, lo sviluppo di
procedure democratiche anche nelle collettività religiose: consiglio, nella
formazione, di partire da una specie di teologia della democrazia.
Ci può essere? Certo, perché possiamo trovare il senso religioso di ogni nostro
bene.
78. Costruire democraticamente le basi
della convivenza in religione
Mi ha sempre stupito il
malanimo con cui si sta insieme in religione. Ci si guarda in cagnesco e ci si
sopporta a stento. Si sta prevalentemente con quelli della propria fazione.
Praticamente in tutti gli ambienti che ho osservato è così. Fioriscono i
pettegolezzi. E’ un male antico: se ne parla già nelle Scritture che risalgono
alle prime nostre collettività di fede. Tra laici va peggio perché, in genere,
si sa troppo poco di tutto. Viene a mancare una base comune. E’, questo della
nostra incultura religiosa, un problema veramente generale, che periodicamente
viene stigmatizzato. C’è proprio una letteratura che riporta gli strafalcioni e
le baggianate che circolano. Tra i sapienti non è che le relazioni personali
siano migliori: ci si detesta, però, sapendo bene perché, avendo chiare e
distinte le ragioni per cui lo si fa. Ha quindi ragione il nostro parroco,
quando sostiene che il vero problema è proprio quello di cominciare a volersi
bene. E’ paradossale che sia così difficile in una fede in cui si parla tanto
di agàpe, di benevolenza conviviale.
Ciascuno entra in religione
con la sua verità. Non ha poi tanta voglia di ascoltare quelle degli altri. Ma
c’è poi la verità? Come dubitarne? Sarebbe sorprendente
che fosse diverso, dopo la serie infinita di conflitti su questioni di verità.
Ai tempi nostri si è però più prudenti e si pone l’accento sulla ricerca della
verità, di generazione in generazione. Possiamo confidare, quindi, che la
verità ci sia, ma non è nelle nostre mani, non la possediamo, non possiamo
farne ciò che vogliamo, ne possiamo solo diventare discepoli. Infatti la verità
è di origine soprannaturale: così si pensa in religione. Ne abbiamo varie
formulazioni, definizioni, che abbiamo tramandato nei due millenni della nostra
storia, e praticamente ogni generazione di teologi ci ha messo mano,
soprattutto nell’interpretazione e nelle rifiniture. Scrivono anche che ci sia
una gerarchia delle verità, quindi un loro ordine per cui non hanno
lo stesso grado di resistenza alle obiezioni e alle integrazioni. Ad esempio ne
tratta un documento del Concilio Vaticano 2°, il Decreto sull’ecumenismo Ristabilire
l’unità: “[…]nel dialogo
ecumenico i teologi cattolici, fedeli alla dottrina della Chiesa,
nell'investigare con i fratelli separati i divini misteri devono procedere con
amore della verità, con carità e umiltà. Nel mettere a confronto le dottrine si
ricordino cheesiste un ordine o «gerarchia » nelle verità della dottrina
cattolica, in ragione del loro rapporto differente col fondamento della fede
cristiana. Così si preparerà la via nella quale, per mezzo di questa
fraterna emulazione, tutti saranno spinti verso una più profonda cognizione e
più chiara manifestazione delle insondabili ricchezze di Cristo.”
Ma parlare di verità complica un po’ le cose. Può
sembrare che mettere una qualche verità un po’ più
giù in classifica sia relativizzarla. Oh, ecco il relativismo!
Se però, per farci un’idea, parliamo di definizioni, l’ansia
diminuisce. Ho letto che anni fa san Karol Wojtyla parlò di epilessia a
proposito di certi episodi evangelici che raccontavano di gente con la bava
alla bocca, scossa da convulsioni e via dicendo. Aggiunse che, in quelle
condizioni, si poteva essere più esposti all’azione dei demòni, questo
naturalmente per spiegare il contesto scritturistico, in cui si parlava di gente
invasa da quegli esseri soprannaturali. Parlava un papa, ma questa cosa
dell’epilessia che renderebbe più vulnerabili ai demòni non mi convince tanto.
Non ne parlerei neanche come di una verità. Del resto il
santo non era un medico, ma un filosofo e teologo. Non mi faccio problemi a
dissentire su quel tema. Do per certo, invece, che il Maestro si dedicasse a
risanare gli ammalati e che collegasse questa sua azione benefica al suo
insegnamento religioso.
Ma in parrocchia non dobbiamo
rifare un Concilio. Si è già provveduto. Né, preti a parte, siamo teologi.
Abbiamo di solito un’immagine un po’ approssimativa delle verità della
fede. Le conosciamo, non dico attraverso compendi, ma spesso
attraverso sintesi di riassunti di compendi, per di più lette chissà quando.
Infatti non di rado ce ne usciamo con opinioni discutibili, sulle quali però in
genere, per amor proprio innanzi tutto, non accettiamo discussioni. E lacarità e umiltà consigliate
sopra, dove sono? Siccome sappiamo poco di tutto, allora cerchiamo di tirare i
preti dalla nostra parte; loro naturalmente resistono, e allora critichiamo
anche loro. Fosse poi solo per le questioni che ammettono più opinioni! Ma
sulla carità, come si fa a dissentire? Qui siamo veramente
molto in alto nella gerarchia delle verità. Un papa ci
dice: siate caritatevoli, soccorrete i fratelli in pericolo. Dico
un papa. Fa il suo mestiere. E lo fa in linea con le Scritture e la Tradizione,
il Magistero di sempre. Dov’è il tuo fratello? Ma a noi, a volte,
pare eretico quando dice così. Quand’è però che i papi hanno mai detto qualcosa
di diverso? E’ eretico rispetto all’opinione comune che consiglia di ributtare
a mare i sofferenti. Ecco che allora abbiamo rifatto in quattro
e quattr’otto un Concilio, inaugurato una nuova dottrina, quella che approva
chi sbotta “E che, sono il guardiano di mio fratello?”.
In parrocchia dovremmo morderci la
lingua tutte le volte che, da laici!, ci viene di scomunicare qualcun altro, di
lanciargli conto l’antica invettiva “Anàtema!”, vale
a dire “Maledetto!”, come i saggi (si fa per dire) degli
antichi Concili, che avevano la scomunica facile, ma comunque erano sapienti.
Il passo successivo è infatti quello di indicare la porta in uscita a chi
disapproviamo in quel modo.
La gran parte del lavoro che da
laici facciamo in parrocchia non mette in questione definizioni cruciali per la
fede e questo, in particolare, quando programmiamo il lavoro da fare in
società, ad esempio nel quartiere. Al fondo di quelle che appaiono controversie
su verità in genere possiamo facilmente individuare ragioni
politiche. E’ per questo che, in definitiva, ci si divide in religione. Ma la
politica ha vie di risoluzione che sono diverse da quelle della teologia, che
si occupa di definizioni relative a verità di vario livello. La base è
accordarsi, con una specie di costituzione, sul mantenimento
di un ambiente di agàpe. In democrazia si esprime la stessa cosa
dicendo che occorre rispettare la dignità e la libertà degli altri. Ogni potere
abbia un limite, in estensione e durata. Nessuno deve cadere completamente in
mani altrui. Nessuno deve essere costretto a svelarsi completamente, se non nel
Sacramento della Confessione. Sia sempre consentito il dialogo e di seguire vie
diverse se non pongano in pericolo l’agàpe. Ogni giudizio sia
sempre collegiale, ammettendo più voci. Non si disprezzi mai
chi è con carità e umiltà alla ricerca del vero e si sforza sinceramente di
capire. Si sappia distinguere l’errore dall’errante, perché quest’ultimo è
persona umana che mai e poi mai può essere privata, per qualsiasi motivo, della
sua dignità.
Naturalmente in questo lavoro la presidenza dell’apostolo
è molto importante. Deve sapere mantenere un ambiente pluralistico. Ma con il
tempo, con il consolidarsi di tradizioni democratiche, bisogna anche suscitare
una resistenza collettiva alle degenerazioni che possono esserci, come in ogni
collettività umana, quindi produrre una vera e propria tradizione in quel
senso. E’ una conquista culturale. A volte si è troppo clero-dipendenti. E’ problema
che si manifesta anche su scala maggiore. Cambia un papa e cambia il mondo
religioso. Allora c’è la tentazione di colpire il pastore per disperdere il
gregge. Ma, in fondo, è proprio il gregge che deve uscire da quella sua
condizioni di gregge, per farsi collettività umana. A questo appunto servono i
processi democratici, su grande e piccola scala.
79.
Sperimentare nuove forme di democrazia
La democrazia come oggi la
intendiamo, vale a dire come ordinamento
per l’universale partecipazione al potere politico sulla base di un
sistema di valori umani, è esperienza piuttosto recente, risale infatti a circa
due secoli fa, a partire dall’Europa. Se
ne sono avuto diverse concezioni, tutte molto diverse da quelle più antiche, ad
esempio da quelle dell’antica Atene, dell’antica Roma o dei Comuni medioevali.
Dalla fine della Seconda guerra mondiale si collegano democrazia e pace, nel
senso che si ritiene che un ordine internazionale possa essere fondato solo su
basi democratiche. Quest’idea è ancora più recente di quelle su cui si fonda la
concezione moderna della democrazia: all’inizio non c’era e, anzi, le potenze
democratiche si erano dimostrate storicamente piuttosto bellicose. Essa origina
sostanzialmente dal pensiero cattolico. La troviamo nel primo documento nel
quale il papato romano aprì alle concezioni democratiche, dandone anche una
prima ideologia sua propria, il radiomessaggio natalizio del 1944 del papa
Eugenio Pacelli, in cui si legge, nel paragrafo intitolato Il problema della democrazia:
“[…] sotto il sinistro bagliore della guerra che li avvolge, nel cocente
ardore della fornace in cui sono imprigionati, i popoli si sono come
risvegliati da un lungo torpore. Essi hanno preso di fronte allo Stato, di
fronte ai governanti, un contegno nuovo, interrogativo, critico, diffidente.
Edotti da un'amara esperienza, si oppongono con maggior impeto ai monopoli di
un potere dittatoriale, insindacabile e intangibile, e richieggono [=richiedono] un sistema di governo, che sia più
compatibile con la dignità e la libertà dei cittadini.
Queste moltitudini, irrequiete, travolte dalla guerra fin negli
strati più profondi, sono oggi invase dalla persuasione — dapprima, forse, vaga
e confusa, ma ormai incoercibile — che, se non fosse mancata la possibilità di
sindacare e di correggere l'attività dei poteri pubblici, il mondo non sarebbe
stato trascinato nel turbine disastroso della guerra e che affine di evitare
per l'avvenire il ripetersi di una simile catastrofe, occorre creare nel popolo
stesso efficaci garanzie.
In tale disposizione degli animi, vi è forse da meravigliarsi se
la tendenza democratica investe i popoli e ottiene largamente il suffragio e il
consenso di coloro che aspirano a collaborare più efficacemente ai destini degli individui
e della società?
Fu il punto di arrivo di una lunga evoluzione,
mediata dall’azione politica dei cattolico-democratici, in particolare nella
fase di ripensamento della politica europea prodottasi durante la Seconda
Guerra Mondiale (1939-1945). All’inizio del secolo, invece, il papato, con le
encicliche Le gravi controversie sulle
questioni sociali (del 1901) e Fin dal principio (1902) aveva
condannato il pensiero e la politica democratici, considerando come eresia
l’idea che potessero accordarsi con l’azione sociale ispirata dalla fede,
vietando addirittura ai sacerdoti di
impegnarsi i movimenti democratici-cristiani e ai seminaristi di acculturarsi alla
democrazia.
Dal Settecento i processi democratici
prendevano come loro soggetto attivo di riferimento il popolo. C’era la
convinzione che i sovrani degli antichi regimi non facessero gli interessi del
popolo, non esprimessero la volontà del popolo. Si pensò di cambiare la
situazione mediante nuove istituzioni che prevedessero una partecipazione del
popolo, essenzialmente mediante elezioni di rappresentanti in organi più
ristretti ai quali poi era attribuito di stabilire leggi uguali per tutti.
Questo sistema richiedeva maggiori spazi di libertà per la gente, che si voleva
elevare dalla condizione di suddita a quella di cittadina. Nei primi ambienti
democratici contemporanei, tuttavia, questa partecipazione aveva dei limiti
piuttosto ristretti, a paragone con gli spazi che oggi sono consentiti. I
periodi rivoluzionari avevano coinvolto le masse, ma al dunque, quando si trattò
poi di prendere decisioni politiche nella gestione ordinaria delle nazioni,
tutto andò diversamente. I sistemi elettorali posero in genere gravi limiti
alla partecipazione delle classi più povere e incolte. Queste ultime erano però
quelle che più risentivano dei disordini internazionali, in particolare delle
guerre. La politica era fatta tuttavia dalla classi dominanti che non temevano
le guerre, pensando di ricavarne profitti. Sembrava che un ordine pacifico
internazionale fosse utopia da filosofi: l’aveva teorizzato, ad esempio, il
filosofo illuminista Immanuel Kant (1724-1804), in un suo libretto intitolato La pace perpetua. Fatalmente ogni popolo
sembrava finire per questionare con gli altri, in controversie non risolvibili
che con la guerra, non essendovi un’autorità superiore universalmente
riconosciuta. Ma chi era il popolo?
Se ne ebbe a lungo un’immagine vaga e intellettualistica. Lo si concepì come un
organismo che abitava la storia, un po’ come gli individui che lo componevano.
Non se ne percepiva il pluralismo interno: fu lo sviluppo del pensiero
sociologico, a partire da metà Ottocento, a metterlo in luce.
Il pensiero cattolico, che non aveva il
problema di definire il popolo come nuovo sovrano sociale in quanto
riconosceva la sovranità, il potere
supremo, ad un ordine soprannaturale del quale il papato era il rappresentante
nel mondo, riuscì a rendersi conto di quel pluralismo, innanzi tutto perché
iniziò a viverlo, nelle tante iniziative sociali che si svilupparono dalla metà
dell’Ottocento, sugli esempi che venivano da altre parti d’Europa e, in
particolare, per iniziativa del socialismo. Troviamo descritta questa realtà
nella prima enciclica sociale dell’era contemporanea, la Le
novità del papa Vincenzo
Gioacchino Pecci, del 1891. Quest’ultima era volta essenzialmente a far
prendere al papato il controllo di quel vasto e vivace movimento per
indirizzarlo politicamente secondo gli interessi del papato in quel momento. E’
proprio per questo che inizialmente se ne vietarono gli sviluppi democratici-cristiani: la politica, in
particolare la gestione delle relazioni con il Regno d’Italia da poco fondato,
competevano al papato. In questa concezione i movimenti presenti nella
società erano apprezzati in particolare nel loro effetto di critica sociale contro l’ordine liberale-borghese
dominante. A cavallo tra Ottocento e
Novecento il papato aveva in corso con il
Regno d’Italia la cosiddetta questione romana, vale a dire la
rivendicazione del papato della restituzione del suo piccolo regno nel Centro
d’Italia, comprendente anche Roma. La cosa non era più fattibile e alla fine il
papato, nel 1929, contrattò con il Mussolini, che in quegli anni egemonizzava
politicamente il Regno d’Italia, risarcimenti, altre restituzioni e un piccolo
regno di quartiere a Roma, e considerò la faccenda conclusa onorevolmente così.
Durante il fascismo il potenziale di critica sociale del movimento cattolico fu
silenziato. In particolare ciò riguardò la nuova Azione Cattolica, fondata nel
1903 con una struttura di partito popolare che rapidamente realizzò una
vastissima azione di educazione sociale delle masse, comprese quelle femminili.
A differenza dei movimenti che l’avevano storicamente preceduta, radunati
nell’Opera dei Congressi sciolta d’autorità del papato nel 1904, l’Azione
Cattolica non aveva l’obiettivo della critica sociale. Venne concepita come
strumento sociale e politico sotto lo stretto controllo del papato, in un’epoca
in cui si cominciò a pensare a sanare la frattura con il Regno d’Italia. Sotto
il fascismo italiano la critica sociale in Azione Cattolica fu ammessa, in
genere, solo nelle organizzazioni intellettuali,
come la FUCI, gli universitari
cattolici, e i Laureati Cattolici. E tuttavia, l’esperienza del fascismi
storici europei e gli sviluppi che avevano preso gli eventi bellici dal 1943,
con la prospettiva imminente di un nuovo ordine europeo, fecero recuperare al
papato l’idea di una critica sociale mediante una società con ordinamento
pluralistico, per ripristinare un ordine pacifico tra le nazioni. Si ritenne
infatti che questa critica sociale in ambiente pluralistico sarebbe valso a
contenere l’aggressività dei poteri politici dominanti. Questa intuizione si
rivelò fondata. La nostra nuova Europa, che ha realizzato il periodo di pace
internazionale più a lungo vissuto sul continente storicamente, si fondò
proprio su questo, sull’idea di popoli animati da formazioni
sociali che consentissero l’emergere degli interessi anche degli strati più
umili della popolazione, quelli che in genere venivano ignorati o al più
strumentalizzati e che erano contrari allo sviluppo delle guerre. Questo è il
sistema politico centrato sul principio
di sussidiarietà, che è quando il potere politico non cerca di comprimere o
strumentalizzare le realtà sociali più piccole, ma anzi le aiuta e le promuove,
consentendone l’azione sociale, intervenendo solo quando la società non riesce
a esprimere ciò che serve per il bene comune. Bisogna dire che, però, quando, a
partire dagli anni ’70, la critica sociale interessò la stessa organizzazione
religiosa, essa fu di nuovo scoraggiata. In un ambiente politico come quello
italiano in cui tanta importanza aveva assunto l’azione sociale di quelle formazioni sociali animate dalla nostra
fede questo aprì la strada al populismo,
che oggi è appunto il principale problema della politica italiana. Il populista
conferma la gente nelle sue paure e nelle sue tentazioni, la spinge all’azzardo morale, a farsi ragione da sé a
spese degli altri, confermando che questa è l’unica soluzione. Lo fa per montare sulle spalle della gente e
spingersi in alto, al potere. La gente però rimane in basso, perché non è più
capace di critica sociale e decide senza ragionare, ma emotivamente, divenendo
succube del populista. Una volta al potere il populista continuerà sulla stessa
via, potendo però contare su una disponibilità di mezzi molto superiore. E’ per
questa via che in Italia si sviluppò il fascismo storico, che, nella sua forma
matura, si presentò come un populismo e richiedeva anzitutto conformismo.
I sociologi ci avvertono che ai tempi nostri il potere politico è
cambiato. Non è più accentrato negli stati o in istituzioni pubbliche
sovranazionali. E’ in primo luogo un fatto dell’economia, la quale, favorita da
un complesso sistema di accordi internazionali, ha preso il controllo delle
società globalizzate. Si è riprodotta una divisione tra classi sociali analoga
a quella osservata nell’Ottocento: dall’economia globalizzata riceviamo tutti i
beni materiali della vita e una buona parte di quelli immateriali, ma essa ci
domina in un sistema di scambi diseguali, che finisce per favorire un’esigua
minoranza. Da qui diseguaglianze sociali molto accentuate, e sempre più
accentuate. L’economia ci spinge al conformismo, minacciando che in caso
facessimo diversamente non arriverebbe più ciò che ci serve per vivere. Spinge
a fare ognuno per sé e in questo modo, avendo di fronte non società ma
individui socializzati, ci domina meglio, confermandoci in tutte le nostre
paure e tentazioni: ed è una forma di populismo dai mille volti. Siccome ci
siamo convinti che ognuno debba fare per sé per salvarsi, non abbiamo argomenti
per rimproverare i padroni dell’economia quando, in tempi di crisi, tolgono le
tende e fuggono con il loro tesoro, lasciando tra noi solo macerie materiali e
umane.
Questo nuovo sistema è intrinsecamente disordinato, caotico, preda degli
appetiti egoistici dei gruppi economici maggiori, in grado di condizionare
ormai intere nazioni. E allora da questo disordine è riemerso il pericolo di
una guerra guerreggiata molto estesa,
non più solo dei conflitti limitati che furono caratteristici dell’epoca della guerra fredda (1945-1991) tra statunitensi e sovietici.
Anche l’Europa ne risulta coinvolta.
La soluzione è riprendere a contrastare i
populismi di ogni tipo attraverso la critica sociale condotta in formazioni
sociali pluralistiche, secondo l’intuizione del pensiero sociale cristiano. E’
molto importante l’educazione alla politica, fin da molto piccoli, con forme di
tirocinio. Si tratta di rinsaldare quel sistema di limiti e valori che
costituisce l’essenza della democrazia avanzata contemporanea. Far uscire la
gente dallo stato di massa, soggetta
acriticamente all’influsso di ogni specie di populismo. E’ una nuova democrazia che occorre progettare e realizzare, o meglio
una democrazia adeguata ai nostri tempi, che vanno anzitutto ben compresi.
80.
Capire la democrazia
Il pensiero sociale ispirato ai
valori della nostra fede è arrivato a collegare pace e democrazia: si ritiene
che il mantenimento della pace possa avvenire solo in un ordinamento
democratico. Eppure questo nesso tra pace e democrazia è divenuto evidente solo
in Europa a partire dalla caduta dei fascismi storici, dal 1945. Prima, e
altrove anche successivamente, le democrazie non si sono mostrate
particolarmente pacifiche e pacificanti. Un esempio di democrazia abbastanza
bellicosa sono gli Stati Uniti d’America, la prima delle democrazie
contemporanee, instaurata nei 1789, con l’entrata in vigore della Costituzione
approvata nel 1787.
Democrazia significa governo
del popolo, ma che cos’è il popolo e come fa a governare? Di fatto il potere
rimane nelle mani di una minoranza, per quanto legittimata da elezioni. E che cosa ci assicura che il popolo e i suoi rappresentanti prenderanno decisioni
giuste? Le masse possono trasformarsi in belve, sotto l’influsso di chi riesce
a dominarle. Lo avevano capito anche gli antichi greci, che furono i primi
teorizzatori della politica. Infatti diffidavano della democrazia. Alcuni di
loro avrebbero preferito dare il potere a dei sapienti.
Erano democrazie i Comuni
medievali, diffusisi in Europa nel Secondo millennio della nostra era e fino al
Trecento, ed erano molto bellicosi.
C’è qualcosa che è cambiato
nell’Europa (Occidentale) del Secondo dopoguerra, per cui le democrazie sono
divenute pacifiche? E’ successo proprio questo: è cambiato qualcosa nella
concezione e nella pratica della democrazia. Ed è stata molto importante
l’influenza delle ideologie e delle politiche sviluppate dai cattolici. La
crisi delle democrazie europee è coeva dell’eclisse del pensiero e pratica
della democrazia tra i cattolici: sono fatti avvenuti nella stessa epoca e
certamente collegati.
Parlo di pensiero cattolico, perché riconosco una
specificità reale, che è nei fatti, non si tratta di mettere un’etichetta su
cosa che si è formata in altro ambiente.
All’origine delle democrazie
contemporanee, dal Settecento, vi è l’idea di popolo e di legge: il
popolo si dà le sue leggi, è quindi sovrano,
e le impone a tutti. Attraverso delle procedure il popolo detta le sue
leggi: secondo questa concezione è in
questo che consiste la democrazia. Si sostituisce agli antichi sovrani
dinastici, quel complesso di autorità monarchiche (regna uno solo) o al più
oligarchiche (il potere è del re e di un senato che con lui collabora) di prima, il popolo, vale a dire i suoi eletti. La
legge del popolo limita tutti, si impone su tutti senza distinzione: è uguale per tutti. Si
è uguali perché tutti soggetti alla legge del popolo. Ma si è anche liberi, perché non si è più soggetti
all’arbitrio altrui ma alla legge a cui tutti sono soggetti, che definisce i
diritti e i doveri di tutti. Per tenere in piedi il sistema occorre anche
imporsi doveri sociali, perché altrimenti non si sarebbe popolo, ma solo massa
che si muove qua e là, a seconda delle emozioni che spazzano la gente come
tempesta e la spingono. Ma anche questi doveri sono stabiliti dalla legge del
popolo. Di fatto le leggi vengono scritte a fatte approvare da chi riesce a dominare
le masse e così ad accaparrarsene i
consensi e il voto. In questo modo il potere del popolo, la democrazia,
si può fare dispotica quanto il potere delle antiche monarchie. Il popolo può
essere un sovrano dispotico. Si dice popolo, ma sono gli strati sociali
dominanti che legiferano: le guerre sono catastrofi per le masse di quelli che
stanno peggio, perché da questi ultimi sono combattute nei posti più pericolosi
e i vantaggi che dalle guerre si ricavano rapinando le ricchezze altrui sono ripartiti in modo diseguale; tuttavia i
conflitti vengono decisi da chi riesce a fare le leggi, da quegli strati
dominanti che delle guerre possono beneficiare. Quindi le democrazie, secondo
questo modello, non sono in genere
pacifiche.
Il pensiero sociale cattolico,
che poi si tradusse in una dottrina sociale, non parte dall’idea di popolo sovrano. Nessuno può farsi sovrano, né uno solo, né pochi, né la
maggioranza. Perché l’unico sovrano è in Cielo. L’atto di costituirsi sovrano è in fondo sempre un arbitrio. Nasconde una
prepotenza nei confronti degli altri esseri umani e del Cielo. Per cui, in
definitiva, il lavoro politico del credente è sempre un rovesciare i potenti dai troni. La dottrina sociale non vede il
popolo, ma, più realisticamente, un
insieme di formazioni sociali nelle quali ognuno
ricava il senso della propria vita. Questo brulicare di formazioni, delle quali il papato aveva fatto esperienza nella
seconda metà dell’Ottocento, descrivendola poi nella prima enciclica sociale,
la Le novità, del 1891, costituisce un
sistema di limiti sia verso l’alto, che verso gli individui, che intorno. A
nessuna sovranità deve essere permesso di
abrogarlo. Ma anzi i poteri pubblici devono sorreggerlo, aiutarlo nel suo
espandersi e, innanzi tutto, lasciare le formazioni sociali libere di operare
per il bene universale, di tutti. Il principio di sussidiarietà. Perché appunto
è questo, il bene universale, che distingue quelle esperienze sociali da altre
tese a realizzare interessi privati,
particolari, come le società che gestiscono imprese: ci si aiuta come fratelli nell’interesse di tutti,
Se uno cade, è sostenuto dall'altro. Guai a chi è
solo; se cade non ha una mano che lo sollevi (Eccl 4,9-10). E altrove: il
fratello aiutato dal fratello è simile a una città fortificata (Prov
18,19). [enciclica Le
novità, n.37],
per un fine
“universale, perché è quello che
riguarda il bene comune, a cui tutti e singoli i cittadini hanno diritto nella
debita proporzione.” [enciclica Le
novità, n.37]. E’ un fine virtuoso
proprio perché ha di mira il bene comune, universale.
E’ una visione di una società che cresce
liberamente dal basso, che non viene egemonizzata
all’alto, da un qualche sovrano, sia pure esso il popolo. E’ questo
pluralismo incomprimibile, che i cattolico-democratici sono riusciti a inserire
nella nostra Costituzione all’art.2, il limite più efficace a quella
degenerazione del potere che porta alle guerre. In questa visione l’autorità
opera secondo il principio di sussidiarietà, che le vieta di inglobare
tutta la società civile e di normarla dispoticamente a prescindere da essa. In
una società brulicante di formazioni sociali virtuose e costantemente attive è
difficile che gli interessi delle masse degli strati sociali inferiori possano
venire completamente oscurati da chi detiene il potere, e che si decida di far
guerra contro l’interesse dei più. L’interesse per la pace che è dei più
contrasta efficacemente gli interessi bellicosi dei pochi. La politica delle
masse non si manifesta saltuariamente di elezione in elezione, lasciando poi
fare ai pochi che riescono a raggiungere il potere, ma è lavoro di continua
generazione della società integrando gli individui che sempre richiede nuovi
spazi e occasioni di bene ed è dunque azione continua in società. E’ limite che
così si manifesta continuamente in società e che obietta a chi, giunto in alto,
invita gli altri a farlo governare senza creare ostacoli, fino alle prossime
elezioni. Questo
pluralismo è l’antidoto più efficace ad ogni potere che tenda a degenerare e a
farsi assoluto, secondo la tentazione che è di ogni potere, anche in ambiente
democratico, se non lo si contiene con limiti efficaci. Ma come evitare che il
pluralismo sfasci la società? Occorre diffondere e sostenere un sistema di
valori, primo tra tutti quello dell’agàpe,
secondo il quale si ritiene che si debba far posto a tutti come in un lieto
convito. Agàpe viene tradotto in italiano con carità ed è per questo che nel pensiero
sociale cattolico si sostiene che la politica
è una manifestazione di carità molto importante. Questa ideologia, di
matrice sicuramente cattolica, il capolavoro dottrinale del papato romano dalla
fine dell’Ottocento nonostante l’indole generalmente reazionaria dei singoli
papi, è alla base dell’ordinamento politico della nostra nuova Europa. Ecco
perché è così importante che i cattolici riprendano a ragionare e a fare di
tirocinio di democrazia.
81. Comprendere gli esseri umani
Siamo stati abituati ad ascoltare molti pregiudizi sulla nostra fede,
come quello che non comprenderebbe a fondo gli esseri umani. Invece è proprio
il contrario ed è un vero miracolo: una dottrina proclamata da una schiatta di
veterani reazionari da sempre, per scelta estranei alla vita dei più, che
coglie così bene nel segno. Vi si può vedere addirittura un segno
soprannaturale. Ne rimango sempre stupefatto. Va bene, non hanno inventato
nulla, hanno imparato dalla vita, ma non è da tutti farlo. C’è qualcosa di più
della semplice osservazione, come potrebbe fare un antropologo che gira per le
varie società umana, prende appunti, fa domande, vede come fanno quelli in
mezzo ai quali è capitato e poi ci ragiona su. Come lo possiamo chiamare?
Compassione, empatia, simpatia, misericordia… Non è mai uno sguardo distaccato
quello religioso perché prende le mosse da una conversione. Quando lo spirito,
che è in noi e che non è solo la nostra mente, ci porta a desistere dai nostri
istinti di antiche belve e ad accostarci agli altri in modo nuovo. E’ un comandamento nuovo che si segue
e che avvince, ma non come le altre regole a cui si è soggetti e che pesa obbedire: è un giogo leggero, anche se ne può andare di
mezzo la vita. Perché chi perde la propria vita seguendo il comandamento nuovo
la salverà, come è scritto.
E’
un papa reazionario, Achille Ratti, ad avere collegato politica e carità, in un
discorso agli universitari della FUCI tenuto il 18 dicembre 1927:
I giovani talora si
chiedono se, cattolici come sono, non debbano fare alcuna politica. Ed ecco
che, dedicando il loro studio ai suddetti argomenti, vengono a porre in se
stessi le basi della buona, della vera, della grande politica, quella che è
diretta al bene sommo e al bene comune, quello della polis, della civitas, a quel pubblico bene, che è
la suprema lex a cui
devono esser rivolte le attività sociali. E così facendo essi comprenderanno e
compieranno uno dei più grandi doveri cristiani, giacché quanto più vasto e
importante è il campo nel quale si può lavorare, tanto più doveroso è il
lavoro. E tale è il campo della
politica, che riguarda gli interessi di tutta la società, e che sotto questo
riguardo è il campo della più vasta carità, della carità politica, a cui si
potrebbe dire null'altro, all'infuori della religione, essere superiore. È
con questo intendimento che i cattolici e la Chiesa debbono considerare la
politica; poiché la Chiesa e i suoi rappresentanti, in tutti i gradi di tal
rappresentanza, non possono essere un partito politico, né fare la politica di
un partito, il quale per natura sua attende a particolari interessi, o se pur
mira al bene comune, sempre vi mira dietro il prisma di sue vedute particolari.
Atteggiamento questo tanto più raccomandabile a giovani universitari che devono
consacrarsi alla propria preparazione, senza la quale la loro futura attività
non può essere né illuminata, né benefica. Come nel loro presente periodo essi
attendono allo studio delle future professioni e non le esercitano, così anche
per ciò che riguarda il viver sociale; essi devono ora attenersi al loro
programma di preparazione, perché, quando prenderanno il loro posto nella
società, possano poi dare a questa anche il contributo della buona, cristiana
politica.
Abbiamo riflettuto bene su ciò che comporta? E’ la base di una vera e
propria rivoluzione. Tradurre l’agàpe in realtà sociale: niente di meno! Fare posto
a tutti, perché si sa che la vita non è vita umana se si rinuncia ad anche uno
solo degli altri intorno a noi.
Parliamo di popolo e ci sentiamo spaesati. Ma chi è questo popolo, riusciamo a figurarcelo? Se però
parliamo di mondi sociali, di un insieme di relazioni che creano il senso
della vita e che si cercano e si conoscono continuamente tra loro e danno senso
alla vita proprio nel cercarsi e incontrarsi, allora è diverso, perché vi è
rappresentata la nostra vita. Siamo noi. Si parte dalle famiglie, al loro
meglio naturalmente, quando non sono ancora sfigurate dalle convenzioni sociali
e nascono da un cercarsi e un conoscersi, per incontrarsi, e allora sono
innanzi tutto luoghi dell’anima, mondi
vitali, come scriveva mio zio Achille. Perché non dovrebbe essere in tutto
così? Questa l’utopia religiosa. Utopia però sarebbe un posto che non c’è, in
un tempo che non viene mai. Ma tra gli esseri umani questo c’è già, lo si vive.
Ma intorno c’è anche una realtà sociale che fa resistenza. Perché? La realtà
dell’agàpe ci è stata rivelata,
ci si è imposta ad un certo punto, da un certo momento. Ci distoglie dalle
nostre antiche e crudeli consuetudini naturali, pe cui pesce grosso mangia
pesce piccolo. Non sono d’accordo con chi dice che le fedi religiose sono più o
meno tutte uguali. Ma è vero che più o meno in tutte quelle che mi sono note si
coglie questa aspirazione verso l’agàpe. Ma poterla chiamare per nome? Nella nostra
fede lo facciamo. Non è questa una
grande responsabilità? Perla preziosa, tesoro nascosto, la definiamo con tanti paragoni. Si è spinti a
lasciare tutto per conseguirla. E più si avanza negli anni, se si riesce anche
ad avanzare in saggezza, questo diventa sempre più evidente.
Non
siamo macchine animate, pensanti: c’è in noi una realtà spirituale, che non è
fantasia, ma, appunto, realtà, che
ciascuno sperimenta. E’ attraverso lo spirito che entriamo in relazione con gli
altri e costruiamo l’agàpe in senso anche religioso. I problemi sociali nascono più o meno tutti
quando quella realtà viene negata, con vari argomenti e per varie ragioni. Ma
fondamentalmente accade quando si vuole poter fare degli altri ciò che si
vuole, farne docili strumenti della propria volontà. Qui viene però
l’irriducibile obiezione religiosa che ha anche un valore politico. I papi
storicamente immaginarono di essere plenipotenziari religiosi, vicari, in quel senso. Ma non riuscì
loro granché bene. Furono storicamente sovrani mediocri, alcuni migliori degli
altri, ma in genere mediocri. Penso che si possa trasferirli dai loro troni
agli altari solo con una buona dose di immaginazione. Furono sovrani come tanti
altri del loro tempo e anche prima e dopo di loro. Gli esseri umani posti sul
trono in genere deludono, e ci si può fare poco, salvo prevedere procedure per
la loro sostituzione senza esiti drammatici.
A questo appunto serve la democrazia, a porre un limite a qualsiasi
potere. Ma i papi, nell’indicare una
sovranità celeste, nel relativizzare ogni altra sovranità, anche quella che si
pretendeva fosse del popolo, funzionarono. Nessuno deve essere completamente in
mani altrui. E ciò che non è agàpe vale poco. Pervicacemente i papi da fine
Ottocento proclamarono questa dottrina, che, nell’opera ostinata del
cattolicesimo democratico, sovvertì, alla caduta dei fascismi storici, la
bellicosa Europa di prima, creando un’Europa di pace, la nostra nuova Europa,
fondata sul principio di sussidiarietà.
Eccolo definito da un papa:
80. È vero certamente e ben dimostrato dalla storia, che, per la
mutazione delle circostanze, molte cose non si possono più compiere se non da
grandi associazioni, laddove prima si eseguivano anche delle piccole. Ma deve
tuttavia restare saldo il principio importantissimo nella filosofa sociale: che
siccome è illecito togliere agli
individui ciò che essi possono compiere con le forze e l'industria propria per
affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta
società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è
questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della
società; perché l'oggetto naturale di
qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera
suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle e
assorbirle.
81. Perciò è necessario che l'autorità suprema dello stato,
rimetta ad associazioni minori e inferiori il disbrigo degli affari e delle
cure di minor momento, dalle quali essa del resto sarebbe più che mai distratta
; e allora essa potrà eseguire con più libertà, con più forza ed efficacia le
parti che a lei solo spettano, perché essa sola può compierle; di direzione
cioè, di vigilanza di incitamento, di repressione, a seconda dei casi e delle
necessità. Si persuadano dunque fermamente gli uomini di governo, che quanto più
perfettamente sarà mantenuto l'ordine gerarchico tra le diverse associazioni,
conforme al principio della funzione suppletiva dell'attività sociale, tanto
più forte riuscirà l'autorità e la potenza sociale, e perciò anche più felice e
più prospera la condizione dello Stato stesso.
82. Questa poi deve essere la prima mira, questo lo sforzo dello
Stato e dei migliori cittadini; mettere fine alle competizioni delle due classi
opposte, risvegliare e promuovere una cordiale cooperazione delle varie
professioni dei cittadini.
[Dall’enciclica Il quarantennale, del 1931, diffusa dal papa Achille Ratti,
regnante in religione come Pio 11°]
Che cosa potrebbe esserci di più distante dal fascismo italiano
totalitario, che imperava nel 1931? Eppure solo due anni prima, nel 1929, il
papato aveva concluso un compromesso proprio con il capo del fascismo che venne
immortalato mentre, nel palazzo del Laterano, firmava i documenti dei Patti
Lateranensi.
E’
per questo che noi cattolici non abbiamo mai avuto veramente cuore di separarci
dai nostri papi, pur come essi sono, con i loro limiti umani, che tanto più
vengono in evidenza negli esseri umani, ed anche nei sovrani religiosi, quanto più
si giunge in alto. Sì, ci sono state anche altre grandi anime che si sono spese in quella stessa direzione. Ma in
fondo è proprio la dottrina sociale, il lavoro organizzato
dai nostri papi, ad aver prodotto, con una svolta cultura importantissima, con
riflessi politici, giuridici, istituzionali, sociali, la straordinaria realtà
sociale della nostra nuova Europa, un fatto unico nella storia dell’umanità,
mai visto prima. Non è un caso, credo,
che l’Unione Europa sia attualmente guidata dalla Germania governata da
democristiani. Ora è in crisi, certo, ognuno è tentato di fare per sé, il
miracolo sembra dissolversi. Si preferirebbe lasciare i sofferenti al loro
destino, non si pensa si avere bisogno, non ci si sente diminuiti se mancano
all’appello. Non è forse perché la capacità politica dei cattolico-democratici
è venuta progressivamente meno e, allora, la politica è vista come lotta di
tutti contro tutti per far prevalere gli interessi dei più forti, gli altri
abbiano le briciole, stiano indietro e spilucchino ciò che cade dalle tavole
dei ricchi? Uno spirito religioso si sente rimordere dentro. Ma se uno vuole
farsi macchina sociale, antica belva, perché, nel suo spirito, non vede altra
soluzione e, inoltre, i populisti gli confermano che effettivamente non c’è
altra soluzione che essere, farsi, cattivi? Ed ecco che anche oggi, però, ci
giunge la voce di un papa, il quale, pur con tutti i suoi limiti che egli
nemmeno nega, tanto che non manca mai di chiederci di pregare per lui, ci
richiama l’anima e lo spirito, l’agàpe
e l’insegnamento del nostro antico Maestro, la giusta via. Dal male nasce solo
il male: oggi tocca ad altri, domani toccherà a noi, come accade in natura
quando le bestie invecchiano e allora vengono lasciate indietro e muoiono,
sopraffatte da bestie più feroci di loro o semplicemente dalla natura, senza
più nessuno a dare aiuto.
Democrazia, carità, pace, persona e mondi
vitali: tutto il nostro pensiero sociale ruota intorno a questo. Quando c’era
il conflitto tra socialismo e capitalismo se ne parlava come di una terza via, una specie di via
di mezzo, ma non è così: è veramente un’altra
via. Lì dove i mondi vitali, invece di confliggere, come vorrebbe la
crudele legge della natura, si cercano, si incontrano, e nell’incontro, nella
relazione, non nel conflitto, crescono e si arricchiscono.
82. Fare politica in spirito di carità
Quando il papa Achille Ratti, regnante in
religione come Pio 11°, nel 1927 diceva
agli universitari cattolici della FUCI, la Federazione Universitaria Cattolica
Italiana, queste parole:
I giovani talora si
chiedono se, cattolici come sono, non debbano fare alcuna politica. Ed ecco
che, dedicando il loro studio ai suddetti argomenti, vengono a porre in se
stessi le basi della buona, della vera, della grande politica, quella che è
diretta al bene sommo e al bene comune, quello della polis, della civitas, a quel pubblico bene, che è
la suprema lex a cui
devono esser rivolte le attività sociali. E così facendo essi comprenderanno e
compieranno uno dei più grandi doveri cristiani, giacché quanto più vasto e
importante è il campo nel quale si può lavorare, tanto più doveroso è il
lavoro. E tale è il campo della
politica, che riguarda gli interessi di tutta la società, e che sotto questo
riguardo è il campo della più vasta carità, della carità politica, a cui si
potrebbe dire null'altro, all'infuori della religione, essere superiore.
non pensava alla politica democratica, a quella che oggi dobbiamo
praticare in Italia.
In Italia si era all’epoca del
fascismo storico trionfante e da tempo si stava trattando per superare la questione romana, le pretese rivendicate
dal papato sulla città di Roma e sull’Italia dopo la conquista militare del suo
piccolo regno nell’Italia centrale, nel 1870, da parte del Regno d’Italia. A
breve sarebbero stati compiuti due atti formali che avrebbero spinto i
cattolici italiani alla collaborazione con le istituzioni del regime fascista
italiano, in particolare nel sistema delle Corporazioni che organizzava,
inquadrandole nel sistema statale, le forze del lavoro. Si tratta dei Patti Lateranensi, conclusi nel 1929 dal
rappresentante del papa Ratti e dal capo del governo Benito Mussolini, in
rappresentanza del Regno d’Italia, e dell’enciclica Il quarantennale, del 1931, in occasione dei quarant’anni dalla
prima enciclica sociale
contemporanea, la Le novità, del papa Vincenzo Gioacchino
Pecci.
Tuttavia presto gli universitari
cattolici e gli aderenti al movimento di Azione cattolica denominato Laureati Cattolici, sorto tra i fucini
laureati, i rami intellettuali dell’Azione Cattolica, colsero l’opportunità
del collegamento tra politica e carità, che rendeva lecito dal punto di vista
dottrinale conciliare quelle due dimensioni, per progettare un
futuro dell’Italia diverso da quello prospettato dal fascismo e, in
particolare, una politica democratica. Bisogna ricordare che quest’idea era
stata scomunicata all’inizio del secolo, dallo
stesso papa della Le novità, il Pecci, con l’enciclica Le gravi [controversie] sociali, del 1901. Lo stesso magistero
papale virò verso questa concezione democratica a partire dal 1944, quando, constatando
la rovina dell’Italia causata dalla guerra mondiale in cui dal 1940 il
Mussolini aveva portato la nazione al seguito del despota nazista Adolf Hitler,
il papa Eugenio Pacelli, nel radiomessaggio natalizio del 1944, incoraggiò i
cattolici sulla via della democrazia. La piena accettazione delle democrazia
come regime politico maggiormente conforme allo spirito di carità si ebbe però
molto più tardi, con l’enciclica Il
centenario, diffusa nel 1991 dal papa Karol Wojtyla in occasione dei cento
anni dall’enciclica Le novità. Tra il
1891 e il 1991 si è avuto un completo ribaltamento del magistero papale sulla
democrazia, condannata addirittura come eretica all’inizio e alla fine proposta
come regime politico più conforme alla dignità umana. Con il Wojtyla si ebbe
invece una ripresa della polemica con il socialismo, che era molto forte
nell’enciclica Le novità. Ma quanto a
questo la situazione storica era molto diversa: nel 1891 il socialismo era in
forte espansione, in particolare tra gli operai europei, mentre nel 1991 era in
crisi terminale.
Che significa questo nesso tra
politica e carità, che secondo il magistero ci deve essere? Dipende da che cosa
si intende per politica e per carità. Politica significa governo della società. Carità, in senso religioso secondo la nostra
fede, è far posto agli altri in un
benevolo convito dove ce n’è per tutti. In spirito di carità religiosa non è
lecito fare esclusioni: tutti significa tutti.
Prefigura un nuovo ordine mondiale. C’è appunto questo in due documenti normativi
molto importanti in religione, le Costituzioni Luce per le genti e La
gioia e la speranza diffusi dal
Concilio Vaticano 2°, tenutosi a Roma tra il 1962 e il 1965. Tra quei due poli
c’è la democrazia, che significa governo del popolo, ma anche per
il popolo e mediante il popolo. E’ appunto questa la
definizione che ne diede il presidente statunitense Abramo Lincoln in un
celebre discorso tenuto a Gettysburg nel
1863, durante fine la Guerra civile tra gli stati del nord e quelli del sud, inaugurando
un cimitero militare:
[…]we here highly resolve that these dead shall
not have died in vain—that this nation, under God, shall have a new birth of
freedom—and that government of the people, by the people, for the people, shall
not perish from the earth.
Siamo fortemente
determinati a far sì che questi morti
non siano morti invano, che questa nazione, al cospetto di Dio, abbia
una rinascita di libertà, e che il governo del popolo, mediante il popolo e per
il popolo non scompaia dalla terra.
Nella concezione fascista il
popolo era il popolo italiano,
intesa come gente che era nata da italiani da generazioni e che per questo
aveva un po’ la stessa faccia. Si pensava ad una razza fascista, una variante
umana italica, che in realtà non è
mai esistita. L’altro giorno un politico, parlando di sostenere le famiglie
italiane, ha detto che bisogna farlo perché la
nostra razza non scompaia: non se ne
è reso conto, perché è una persona che politicamente vuole collocarsi in ambito
democratico, ma ha sviluppato un’idea fascista. C’è questa concezione al fondo
della decisione di attribuire la cittadinanza italiana a persone che abbiano
nonni italiani, anche se non hanno altro legame con l’Italia, e addirittura di
farle votare alle nostre elezioni politiche. L’altro giorno si è saputo che il
ministro australiano Matt Canavan si è dovuto dimettere perché ha scoperto di
avere anche la cittadinanza italiana e in Australia non si
può essere ministri avendo la doppia cittadinanza. Nel 2007 sua madre, nata da
italiani, chiese e ottenne la cittadinanza italiana, così sembra che si
diventato cittadino italiano, a sua
insaputa, anche il figlio, appunto Matt Canavan, all’epoca venticinquenne.
Ma è davvero andata così? Davvero non c’è stato necessità di altro? Sulla
stampa sono state riportate queste dichiarazioni del ministro dimissionario: “Non sono nato in Italia, non ci sono mai
stato e per quanto ne sappia non ho neanche mai messo piede nel consolato o
nell’ambasciata italiana. Sapevo che mia
madre fosse diventata cittadina italiana, ma non avevo idea di esserlo anch’io,
né avevo mai chiesto di diventarlo”. Ecco dunque un signore australiano che è
diventato italiano senza aver altro
legame con l’Italia che i suoi nonni, per diritto
di sangue. E da noi ci sono tantissimi ragazzi che sono nati in Italia, parlano
italiano, hanno studiato in Italia, pensano in italiano, agiscono come
italiani, amano l’Italia e gli italiani,
vorrebbero con tutte le loro forze essere cittadini italiani e non possono
diventarlo perché sono nati da stranieri. Per condanna di sangue sono esclusi, l’Italia non è loro, né per
loro, né mediante loro. Non potranno votare da noi e se vanno in visita alla
Camera dei deputati con la loro classe scolastica, come è accaduto, vengono
cortesemente accompagnati alla porta. Il Canavan vi sarebbe invece ammesso,
caso mai gli capitasse di passare per l’Italia, perché è anche cittadino italiano.
Avrebbe probabilmente bisogno dell’interprete per farsi capire bene, perché
l’italiano che sa risale all’infanzia, se mai la madre gli ha parlato nella
nostra lingua.
“Noi il popolo degli Stati Uniti”, con si apre la Costituzione
degli Stati Uniti d’America, entrata in vigore nel 1789, uno degli atti
fondamentali della prima rivoluzione democratica moderna, quella statunitense,
insieme alla Dichiarazione di Indipendenza nel 1776. Quel noi non comprendeva la
popolazione schiava, composta di genti africane deportate in America, che
viveva negli Stati Uniti, una parte rilevante della popolazione residente. Ma
neanche tutto il resto del mondo. Ma, con tutto ciò, era un atto lungimirante,
che poteva prefigurare una rivoluzione molto più vasta, globale: in qualche
modo i rivoluzionari statunitensi avevano parlato a nome dell’intera umanità,
non solo di un popolo, ma di tutti
i popoli della Terra, quando avevano
proclamato, nella loro Dichiarazione di indipendenza:
Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per
sé stesse evidenti; che tutti gli uomini
sono stati creati uguali, che essi sono stati dotati dal loro Creatore di
alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la
ricerca della Felicità; che allo
scopo di garantire questi diritti, sono creati fra gli uomini i Governi, i
quali derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni
qual volta una qualsiasi forma di Governo tende a negare tali fini, è Diritto
del Popolo modificarlo o distruggerlo, e creare un nuovo Governo, che si fondi
su quei principi e che abbia i propri poteri ordinati in quella guisa che gli
sembri più idoneo al raggiungimento della sua sicurezza e felicità.
Non si può rivendicare il diritto alla democrazia senza riconoscerlo a tutti. Ne siamo
consapevoli?
Settant’anni di democrazia avanzata hanno
inciso meno profondamente nella cultura popolare dei vent’anni del fascismo
storico. Perché? La vera ragione è molto dura da accettare, specialmente per
noi cattolici. E’ che fascismo e dottrina sociale si erano profondamente
integrati e questo ha determinato una vera e propria tradizione, di genitori in figli, che è giunta anche tra noi. E
qualche volta, quando si parla del buon
cattolico, non ci si rende conto di tratteggiare la figura del fascista cattolico, approvata dal
magistero ai tempi della compromissione con il regime fascista storico, a
cavallo tra gli anni Venti e Trenta. Lo si fa il più delle volte senza
rendersene conto, ripetendo atteggiamenti che si sono imparati da piccoli, dai
nostri genitori, i quali a loro volta li hanno imparati dai loro. Questa
ideologia di conciliazione tra fede e fascismo si è radicata fortemente nelle nostre genti di
fede al tempo in cui l’Azione Cattolica, la potente agenzia culturale e
politica (oltre che naturalmente
religiosa) creata dal papato nel 1906, si fascistizzò, ad eccezione dei suoi rami intellettuali, della FUCI e dei Laureati Cattolici. Abbiamo, così, in
qualche modo, succhiato il
clerico-fascismo con il latte delle nostre madri. Sarebbe
possibile realizzare una tradizione
democratica nella fede altrettanto
forte? Perché no? Tutto però dipende da che cosa, e soprattutto da chi,
consideriamo per popolo.
83. Noi popolo
A chi pensiamo quando parliamo di "popolo"? È importante
saperlo in un sistema politico come quello italiano che dà la
"sovranità" al popolo.
In diritto si parla di popolo riferendosi alla gente che
sta sotto un potere pubblico, che si impone senza bisogno di consenso. Vi hanno
mai chiesto se volevate essere italiani? Eppure, vivendo in Italia, siete
soggetti alle leggi italiane. Siete popolo. Ma se siete anche
"cittadini" rimanete parte del popolo italiano anche andando
all'estero. In Italia c'è anche gente che fa parte del popolo, perché vive e
lavora stabilmente da noi, è soggetta alle leggi italiane, ma non ha la
"cittadinanza". Avere la cittadinanza significa poter partecipare,
quando si hanno diciotto anni, alle procedure democratiche delle istituzioni
pubbliche, quelle che esercitano i poteri pubblici. Un sistema politico è tanto
più democratico, secondo la concezione che ai tempi nostri si ha della
democrazia, quanto più la cittadinanza è estesa al popolo, quanto più si riduce
il numero di quelli che sono popolo ma non cittadini. Nell'antica Atene, dove
vennero ideate le "parole" della democrazia, non era così: i
cittadini erano una minoranza, vale a dire tutti quelli che, non avendo
l'obbligo di lavorare, avevano tempo di discutere dei problemi dello stato. A
quell'epoca lavorano quasi solo gli schiavi. Il lavoro era un lavoro schiavo.
La democrazia italiana di oggi dovrebbe essere invece "fondata sul
lavoro". È scritto nell'art.1 della nostra Costituzione. Che significa?
Significa impegnarsi a non escludere i lavoratori dalle procedure democratiche.
Questo però richiede che il lavoro non sia lavoro schiavo. È quindi un
"impegno" perché si è visto storicamente che l'economia, lasciata a
sé stessa genera lavoro schiavo.
Di
popolo però si può parlare anche in altro senso. Come di gente che, non solo è
soggetta ad uno stesso potere pubblico, ma che è legata anche da altro, ad
esempio da una lingua e da altre tradizioni culturali, modi di vita, modi di
pensare, anche idee religiose. Era così che lo intendeva il rivoluzionario
italiano dell'Ottocento Giuseppe Mazzini, al quale sono intitolate tante vie e
piazze in Italia. Il suo motto fu "Dio e popolo". Fino al 1861,
quando fu proclamata l'unità nazionale sotto il Regno d'Italia, e sotto la
monarchia dinastica dei Savoia, non ci fu "un" popolo italiano inteso
come soggetto ad un unico potere pubblico, ma più popoli italiani, sotto
diverse autorità pubbliche, ed anche ad un'autorità straniera, quella
dell'Impero di Austria e Ungheria. Mazzini però ed altri intellettuali e
rivoluzionari della sua epoca, pensavano che ci fosse una unità di cultura,
intesa come storia,stili di vita, modi di pensare che faceva degli italiani un
solo popolo anche se al momento erano sotto varie autorità pubbliche. Questo,
nella sua visione, esigeva l'unità nazionale. Era, per lui, anche un problema
di dignità. Come si canta nel nostro inno nazionale, scritto e musicato da
rivoluzionari mazziniani, gli italiani erano "calpesti e derisi"
proprio perché non erano "popolo", perché erano divisi.
84. Serve un governo del popolo?
La democrazia ê governo del popolo. Ma serve? Le imprese, ad
esempio, non sono dirette con criteri democratici, eppure sono prese spesso a
modello quando si pensa come gestire al meglio gli affari pubblici.
Se consideriamo realisticamente noi stessi, capiamo che sappiamo
fare bene poche cose. Questo anche se in un certo campo arriviamo ad essere
degli esperti. Come possiamo "governare"? Gli altri però sono nelle
nostre stesse condizioni. Che cambia mettendosi insieme? Sono obiezioni alla
democrazia che furono poste fin da quando su questi temi si cominciò a
ragionare sistematicamente, nell'antica Grecia di circa 2500 anni fa.
Si pensò, allora, che fosse
meglio che lo stato fosse retto da competenti: si pensò ai filosofi, che
nell'antichità si intendevano un po' di tutto. Ma, al dunque, fu sempre la
forza a prevalere. All'origine di ogni potere politico c'era sempre un atto di
violenza. Poi il potere tendeva a perpetuarsi e a trasmettersi in una piccola
cerchia. In particolare si cercava di tramandarlo in famiglia, di genitore in
figlio, quindi di renderlo potere dinastico. Del resto il governo monarchico
era una tradizione molto antica. Ancora oggi l'idea di fare unità politica
intorno ad una persona convince. Ma non regge ad una critica razionale. Perché
i singoli rimangono sempre persone limitate: in genere, finiscono con il
deludere. E, di solito, non vanno al potere dei sapienti. La storia rende
chiaro, poi, che la capacità di governo non si trasmette di genitore in figlio
e non si accompagna automaticamente alla sfrontatezza e alla violenza di quelli
che con la forza ambiscono a conquistare il potere. Per impratichirsi nel
governo occorre tempo, ma il protrarsi di un governo tende a produrre una
degenerazione, in particolare una commistione di interessi privati e pubblici.
Più si resta al potere, più si diventa dipendenti dal potere e non lo si vuole
lasciare. Si ricorre ad ogni mezzo per non esserne esclusi. Le monarchie
dinastiche europee dal Medioevo cercarono di accreditarsi come volute dal
Cielo, ma anche prima c'era stato un impiego della religione a sostegno del
potere pubblico. A volta si divinizzavano i sovrani, ma in un ambiente di
religione politeistica questo aveva conseguenze meno serie: il sovrano era solo
un dio tra molti altri, e nemmeno il più potente. La gente si accostava al
sovrano-dio con lo stesso spirito con cui lo faceva con gli altri cercando di
ingraziarsene i capricciosi favori. Se però l'autorità celeste è una sola e per
di più è per definizione sommo bene, l'effetto di consolidamento del potere è
molto maggiore, e i sudditi non devono solo obbedire, ma anche amare il
sovrano. In questo quadro la democrazia viene considerata un'empietà. È in
fondo questo il vero motivo per il quale si vorrebbe che la Chiesa non fosse
democratica, ed effettivamente non lo è. Poi però si deve constatare che questi
sovrani voluti dal Cielo, civili o religiosi che siano, non sono granché.
Ancora oggi ci sono monarchie politiche dinastiche, sebbene contino poco nel
governo dello stato, affidato a istituzioni democratiche. A parte dare
spettacolo, con fastose cerimonie pubbliche di tanto in tanto, i monarchi di
oggi fanno ben poco e, individualmente, non si distinguono molto dai loro
sudditi. Non sono sapienti, ma non sono nemmeno competenti in qualche cosa,
salvo l'etichetta di corte. Hanno il problema di come passare il molto tempo
libero che hanno e spesso hanno sviluppato le abitudini di vita dei grandi
ricchi tra i quali si sono formati.
Ma il "popolo" è
meglio di loro? Se lo consideriamo solo come insieme di gente che è soggetto ad
un potere pubblico, sicuramente no. Perché questa è una posizione puramente
passiva. Diventa migliore quando si manifesta capace di critica sociale, a
cominciare dall'autocritica. La critica induce a migliorarsi, ma è cosa che si
impara. Uno come Giuseppe Mazzini (1805-1872) pensava, e infatti lo scrisse,
che gli italiani fossero democratici per indole, per natura capaci quindi di
migliorarsi mediante critica e autocritica. Così ribatteva a chi lo metteva in
guardia che in realtà non era così. Gli obiettavano che era meglio procedere
per gradi: conquistare l'unità nazionale sotto la monarchia Savoia, che dal 1948
si era fatta "costituzionale", concedendo uno Statuto e accettando di
condividere il potere con istituzioni democratiche, poi educare la gente alla
democrazia, quindi farne "popolo" di cittadini da popolo di
sudditi che era, poi, infine, proclamare la repubblica. Mazzini premeva invece
per avere subito la repubblica per far fare precocemente tirocinio di
democrazia alla gente. Pensava infatti che le dinastie regnanti dell'epoca, al
di là dei periodici conflitti per ragioni di espansione territoriale, al dunque
si sarebbero coalizzate contro i loro popoli, per mantenere il loro dominio
dinastico su di essi. E in questo non sbagliava.
Se il popolo si impegna nel
governo democratico, divenendo capace di critica e autocritica sociale e
accettando i limiti democratici ad ogni potere, in durata ed estensione, può
essere un governante migliore di quando il potere finisce stabilmente nelle
mani di pochi o di uno solo, perché più gente significa più risorse umane, più
competenza, poter vedere le cose da più punti di vista e quindi meglio,ma
soprattutto cercare di non trascurare nessuno. Per riuscirci il popolo deve
proporsi di non essere un despota. Infatti nella nostra Costituzione, nello
stesso articolo, il primo dei "principi fondamentali", in cui si
attribuisce al popolo la "sovranità", vale a dire il poter più alto,
si pone ad esso il limite della legge. Quello del popolo, se vuole essere
democratico, non deve mai essere un potere "assoluto", vale a dire
illimitato. I "populisti", quelli che cercano di ingraziarsi
emotivamente il popolo per montargli sulle spalle e dominarlo, lo propongono
invece come illimitato, contrapponendo democrazia e popolo. Ma la legge della
storia è questa: il popolo che vuole farsi despota, cade in mano ai despoti.
Quelli che si lasciano fascinare dalle parole d'ordine dei populisti di oggi,
come "meno tasse!" e "aiutiamoli a casa loro!",
costruiscono il nido del despota.
85. Diventare popolo?
L'unità nazionale si fece tra
il 1848 e il 1870 e ai moti e alle vere e proprie guerre per realizzarla
parteciparono molti cattolici. Vi si opponevano le monarchie che dominavano
all'epoca gli Stati italiani, tra le quali l'Impero di Austria e Ungheria e il
Regno pontificio, ad eccezione di quella dei Savoia del Regno di Sardegna, con
capitale Torino. Dall'altra parte del fronte c'erano altri italiani, oltre che
i militari e funzionari austro-ungarici, e questi nemici erano, in
massima parte, cattolici. Giuseppe Mazzini, l'apostolo dell'unità nazionale,
aveva scelto come motto quello di "Dio e popolo", e voleva costruire
il nuovo stato unitario come una repubblica animata da valori umanitari. La
scritta "Dio e popolo" era al centro del tricolore che fu adottato
come bandiera della Repubblica romana, nel 1849, quando per alcuni mesi ebbe
successo una rivoluzione democratica a Roma. In quell'occasione Mazzini
partecipò con Aurelio Saffi e Carlo Armellini all'organo provvisorio di
governo del nuovo stato. Il papato non riuscì a fornire una teologia che
indirizzasse tutti i cattolici, in questa tumultuosa fase politica, per
costruire una pace democratica nei tempi nuovi, che la storia spingeva verso il
superamento della frammentazione istituzionale italiana. I moti per
l'unificazione nazionale non erano irreligiosi, ma divennero anticlericali per la
strenua opposizione del papato. Quest'ultimo, addirittura, dopo la
proclamazione del Regno d'Italia, nel 1861, vietò ai cattolici la
partecipazione alla vita democratica del nuovo stato nazionale. E, in un
drammatico concilio tenutosi nel 1870, l'anno della conquista militare del
Regno pontificio da parte delle truppe del Regno d'Italia, rafforzò il divieto
proclamandosi infallibile nella materia di fede: e la conquista di Roma, con la
perdita della sovranità politica del papato, la poneva in questione, perché
riguardava anche la missione del papato. Fatto sta che, come osservò lo
scrittore e politico Massimo D'Azeglio, fatta l'Italia bisognava fare gli
italiani. In questo il papato si pose di traverso, realizzando una vera e
propria tragedia nazionale, privando il nuovo stato dell'apporto dei
cattolici, che proprio in quegli anni, dall'unità nazionale in poi, avevano
cominciato ad esprimere numerosissime e vivaci iniziative sociali, in
particolare a beneficio degli strati meno ricchi del popolo. In un certo senso,
quello del "fare gli italiani" è un problema ancora attuale, sebbene
in un senso diverso da come veniva inteso a metà dell'Ottocento. Non si
tratta infatti di aderire ad un modello politico ideale di italiano, quindi di
adeguare la realtà ad una teoria, ma di riscoprire le ragioni di essere popolo,
e,innanzi tutto, di scegliere come esserlo e con chi.
Come ho accennato negli
interventi precedenti ci sono infatti vari modi di essere popolo. Un popolo
democratico è qualcosa di più di gente soggetta ad un potere pubblico su un
certo territorio. In democrazia il popolo esprime la cittadinanza, vale a dire
una partecipazione al governo. Si parla in proposito di "sovranità",
intesa come potere supremo, ma bisognerebbe trovare un'altra espressione per definire
il potere democratico. Infatti, in democrazia, nessun potere, nemmeno quello
del popolo, è veramente "sovrano", vale a dire illimitato. Nelle
democrazie contemporanee il potere supremo, la "sovranità", è
limitato da un sistema di principi umanitari che valgono anche se non
espressi in leggi formali e addirittura contro le leggi formali, fondando il
diritto personale e comunitario di resistenza. È su queste basi che, tra il
1945 e il 1946, poterono celebrarsi processi giudiziari in sede internazionale
contro alcuni del più alti capi del governo tedesco dei tempi in cui la
Germania era stata governata da un regime nazional-socialista, vale a dire dal
fascismo di Adolf Hitler. Questa idea, che nessun popolo possa finire
completamente in mani altrui, fossero anche quelle di capi legittimati dallo
stesso popolo, fa parte della dottrina sociale della Chiesa ed è molto antica,
risalendo al pensiero medievale, come filosofia istituzionale. Ma i suoi
fondamenti sono ancora più antichi e li troviamo nei Vangeli. Nelle varie
encicliche sociali del papa Karol Wojtyla ne possiamo leggere un'ampia e
sistematica esposizione. La "costituzione" dell'Unione Europea si
basa su di essa. Non appena i cattolici, dopo la Seconda guerra mondiale,
furono liberati dai vincoli clericali che ostacolavano la loro piena
partecipazione alle democrazie europee, essi idearono un nuovo mondo, e
parteciparono in ruoli determinanti alla sua realizzazione. Poteva accadere
prima, fin dall'Ottocento? Le risorse culturali c'erano. Mancava la democrazia.
Il nesso tra valori e democrazia è fortissimo. Certi valori richiedono un
ambiente politico democratico per affermarsi. Mazzini se ne rendeva conto e
contestava vivacemente quelli che pensavano che democrazia significasse solo
anarchia. Oggi però il populismo corrente contesta appunto alla democrazia la
mancanza di valori e propone di fare a meno di essa. A ognuno dovrebbe
essere consentito di esprimere preferenze via internet, poi si fa il conto: ma
questa non è democrazia, è un sondaggio. Che cosa manca? Manca l'impegno
personale. Che cosa si mette di sé, infatti, in questa procedura? Si è disposti
a rischiare la propria vita o, comunque, ciò che di più importante si è o si
fa? E mancano anche il dialogo e l'intesa con gli altri: il farsi partito, il
modo in cui si dà ordine e prospettiva all'impegno politico collettivo. È per
questa via che il Mazzini indusse moti popolari molto potenti, basati su un
coinvolgimento etico e personale fortissimo, che furono determinanti nel
realizzare l'unità nazionale. Questa è politica che cambia le cose. Il
populismo invece è solo un inganno, per strumentalizzare il voto popolare e
saltare sulle spalle di un popolo. Non cambia veramente nulla per il popolo, se
non l'identità di chi è riuscito a dominarlo, domandolo. Per questa via la
democrazia perde senso, rimane solo vuota procedura.
86. La società costruita
Nell'organizzazione della
società non c'è nulla di naturale: è integralmente una costruzione umana. È per
questo che cambia continuamente e, in genere, abbastanza rapidamente. Il bene e
il male che c'è dipendono da questo assetto della società. Senza un ordine la
società non potrebbe esistere, non ci sarebbe più. Esso deriva dalle relazioni
tra i gruppi sociali, e, al livello minore, tra le persone. Le consuetudini
sociali sono le più antiche leggi umane. È come quando tante persone percorrono
una certa via in un bosco e allora a terra si crea un sentiero visibile, che
viene percorso quando si vuole arrivare da una certa parte. Quando sulle consuetudini
si crea un accordo esplicito, nasce la legge come la intendiamo. Ma una legge
può anche essere imposta dal gruppo sociale che riesce a imporsi sugli altri.
Nasce un'autorità pubblica. Queste leggi, imposte da un'autorità, sono più
resistenti al cambiamento, perché sono legate alla forza del gruppo sociale che
le ha rese obbligatorie e che si occupa di punire chi non le segue. Si crea
così una tradizione normativa. Per dare più forza a queste leggi le si può
collegare ad un'autorità celeste e allora la violazione diventa anche un atto
empio. Le violazioni più gravi lo sono ancora, ad esempio il furto o
l'omicidio. In religione si sta in questi giorni discutendo se rendere tale
anche il delitto di corruzione politica. Ma le leggi umane rimangono integralmente
una costruzione sociale che dipende dal rapporto di forza tra i gruppi della
società.
Quando emergono nuovi gruppi
sociali, cambiano le norme. È accaduto con l'affermarsi dei ceti popolari,
degli strati più umili della società, nel corso del Novecento. Erano, e sono,
quelli che stanno peggio. Chi stava meglio in società era una piccola
minoranza. Sembrava che il Cielo volesse così. Reagire a questo stato di cose
sembrò in origine un atto empio. È per questo che in religione spesso si
ostacolò il processo di cambiamento sociale in senso più giusto. In particolare
questa fu, a lungo, la posizione del papato. Nell'enciclica Le novità, diffusa
nel 1891 dal papa Vincenzo Gioacchino Pecci, regnante in religione come Leone
13*, si insegnava che la diseguaglianza tra i gruppi sociali non poteva essere
superata, quindi che era "naturale", ma che i più ricchi e i padroni
dell'economia non dovevano infierire su chi stava peggio. Poi la dottrina
sociale cambiò molto e nell'enciclica Lavorando, diffusa nel 1981
dal papa Karol Wojtyla, regnante in religione come Giovanni Paolo 2*, per molti
versi si insegnano idee opposte. Anche la Chiesa come gruppo sociale cambia? È
certamente così. Nelle sue dinamiche sociali ha seguito quelle delle altre
società. I suoi capi hanno esercitato l'autorità recependo il modo di comandare
delle altre autorità. I papi, in particolare, concepirono sé stessi come
imperatori, ma dagli anni Sessanta vorrebbero essere qualcosa di diverso.
Il male che c'è in una società,
quello collettivo e quello personale dipende in gran parte da come è stata
costruita l'organizzazione sociale. I più interessati al cambiamento sono
quelli che stanno peggio, che di solito sono la maggioranza. Senza correttivi,
tendono infatti a prevalere minoranze di privilegiati che per varie ragioni
hanno raggiunto posizioni di forza. In ambente democratico, in cui
prevalgono le maggioranze, queste ultime dovrebbero poter riuscire a cambiare
le cose, ma storicamente non è stato così facile. Questo perché la cultura, che
spiega come vanno le cose, è in genere controllata da chi sta meglio e
quindi dà molte buone ragioni per lasciare tutto com'è. il primo passo per
suscitare un movimento popolare di riforma è di far prendere alla gente
coscienza del fatto che certe sofferenze non sono ineluttabili, ma la
conseguenza di un certo ordine sociale, che come è stato costruito può essere
cambiato, e anche abbattuto se veramente malvagio.
87. Pensare come popolo
Per fare politica, quindi per
governare la società, bisogna pensare in termini collettivi, sia che lo si
voglia fare con metodi democratici sia che lo si voglia fare in altro modo.
Questo, il pensare sociale, ci viene oggi più difficile. Siamo stati diseducati
a farlo, la società è stata intenzionalmente disarticolata. È un processo che
si è sviluppato in tutto il mondo Occidentale a partire dagli scorsi anni '80 e
che ha avuto nel capo del governo inglese Margaret Thatcher, in carica dal 1979
al 1990, l'ideologa più lucida, coerente e determinata. Sosteneva che la
società non esiste e che esistono solo gli individui. In questa concezione
ognuno vale per sé stesso o, come si dice ora in Italia, "uno vale
uno". Questo modo di pensare impedisce alle masse di quelli che in società
stanno peggio di cambiare le cose a loro favore democraticamente. Esse hanno di
fronte i privilegiati che controllano il corso degli eventi politici da
posizioni di forza raggiunte storicamente, di solito attraverso il controllo
dell'economia, e possono prevalere solo con il numero, facendosi popolo da insieme
caotico di individui che sono. Una persona da sola non conta nulla e la prima
strategia di chi controlla il potere da un punto di forza è quella di
disarticolare le opposizioni, di scoraggiarle, disperderle e dissolverle, in
modo che tornino masse di individui scollegati. Perché, per fare politica, non
basta pensare in molti in uno stesso modo e avere interessi comuni, ma occorre
essere legati da un patto d'unità d'azione a cui essere strenuamente fedeli. E
bisogna avere un progetto non solo per sé stessi e per il proprio gruppo, ma
anche per tutti gli altri, compresi quelli che ci si oppongono. Infatti la
società c'è ed è la rete di relazioni che ci consente di sopravvivere in tanti
in un mondo che si è fatto molto complesso e che esprime stili di vita con
molta sofisticata tecnologia dentro. In un progetto totalitario l'obiettivo
principale sarà il dominio della società, in modo da rendere stabile il proprio
potere. In un'ottica democratica si cercherà invece di organizzare la politica
in modo che nella società la maggior parte possibile della gente, nonostante le
sue diversità, possa beneficiare delle attività collettive e, innanzi
tutto, far valere i propri problemi di vita. Si cercherà quindi di individuare,
in ogni momento storico, quale sia il "bene comune", che comprende
anche la pace sociale e internazionale, in modo che non sia messa in pericolo
la vita della gente. In una visione non democratica, quando un gruppo
riesce a conquistare il potere prevalendo sugli altri, si avrà invece di mira essenzialmente
il benessere del ceto dominante, mentre quello degli altri verrà considerato
quel tanto che basta ad ottenerne il consenso sociale che serve a disarticolare
ogni opposizione. È appunto a questo che servono le politiche
"populiste", che ebbero nel fascismo mussoliniano un esempio
importante. Ma storicamente è una linea che era stata seguita anche dai
monarchi dinastici dell'epoca dell'assolutismo regio, fin da tempi
molto antichi. Nell'antica Roma, dopo la decadenza delle istituzioni repubblicane,
nel primo secolo dell'era antica, il favore delle masse veniva conquistato con
sistematiche elargizioni e spettacoli pubblici, "pane e circo" si
diceva. In questo modo, di fronte al potere populista non democratico, le masse
rimangono plebe informe, tumultuante per avere di più, ciascuno in lotta con
gli altri. Farsi popolo richiede un'etica diversa e, innanzi tutto, un'etica,
un senso del dovere per il quale si diviene insensibili alle lusinghe populiste
e capaci di resistere alla violenza esercitata dal potere non democratico
quando il populismo non funziona. Nelle drammatiche violenze di questi giorni
in Venezuela assistiamo alla degenerazione di una democrazia verso l'autocrazia
violenta dopo il fallimento di politiche populiste.
L'idea che in politica si
debba seguire il "bene comune" è centrale nella dottrina sociale
della Chiesa. Questo significa che l'egoismo sociale è riprovato. Questo
condanna molte delle parole d'ordine populiste di oggi come l'idea che si
debbano "rottamare" persone, o l' "aiutiamoli a casa loro"
e, infine, il "meno tasse". Il pensiero sociale sviluppato in
religione dagli anni Sessanta, dall'ultimo Concilio ecumenico, in cui gli
affari sociali ebbero grande considerazione, ritiene che nessuno debba essere rottamato,
che ognuno debba essere aiutato nel momento e dove si trova in difficoltà e che
in società si debbano trovare le risorse necessarie per il benessere di tutti,
a prescindere dalla distribuzione delle risorse che si ottiene nei rapporti di
forza del mercato, il che richiede un adeguato livello di imposizione fiscale
e, soprattutto, imposte che non gravino su tutti in modo eguale, ma di più sui
ceti privilegiati. Infatti il privilegio, nella maggior parte dei casi, deriva
da posizioni di forza sociale ingiustificate dal punto di vista razionale e di
equità, per cui alcuni vogliono di più e facendo forza sugli altri, ma
anche sfruttando le opportunità offerte dal sistema sociale, riescono ad
ottenere ciò che vogliono. Nel gergo, si dice che occorre quindi una "politica
dei redditi", espressione che oggi suona strana, perché si ritiene sacro,
e quindi intangibile, ciò che ciascuno riesce a conquistare in società, ma che
è un fattore essenziale della democrazia, che rapidamente degenera nel caso
dell'aggravarsi di generalizzate diseguaglianze ingiustificate. Lo strumento
fiscale serve anche a temperarle. Il populismo corrente non ha un
progetto di politica dei redditi e, in merito, ha presentato come un grosso
successo l'aver tagliato un po' le pensioni di alcuni vecchi parlamentari di
lungo corso, disponendo che fossero ricalcolate secondo i diversi criteri
vigenti per i parlamentari attuali: un risparmio tutto sommato irrisorio,che
non tocca gli squilibri molto più rilevanti che ci sono in società, in un tempo
in cui è enormemente aumentato, in particolare nel settore privato, il rapporto
tra stipendi dei più alti dirigenti e quelli di base e in cui i risultati dei
dirigenti vengono valutati tanto più positivamente, con aumenti di
stipendi e premi, quanto più si riesce a risparmiare sui costi del lavoro,
quindi sul numero e gli stipendi degli addetti. Una misura che, tra l'altro,
come è stato osservato giustamente nel dibattito parlamentare, apre la via al
ricalcolo di tutte le pensioni dei più anziani, che sono state determinate con
criteri molto più favorevoli di quelli stabiliti per chi oggi ancora lavora.
88. La felicità di tutti
Le scienze sociali e della
mente ci avvertono che gli esseri umani sono viventi in relazione. Questo è
anche il più profondo insegnamento della nostra fede. Quindi la nostra felicità
dipende dai nostri rapporti con chi ci sta intorno e la condanna più dura è
quella alla solitudine, se la vita, in quel momento, non è riempita dal
soprannaturale, dal rapporto con il fondamento che vive. Non è avendo di più
che si è più felici: spesso lo dimentichiamo. Ma, oggi più che in tempi
passati, è la nostra stessa sopravvivenza che dipende dagli altri, e, ai tempi
nostri, anche da gente che vive dall'altra parte del mondo. Sulle cose di
nostro uso comune c'è quasi sempre un'etichetta o una scritta in una parte
nascosta che dice dove sono state fatte. Gran parte di esse sono state prodotte
in Oriente. Una guerra da quelle parti, dall'altra parte del globo, potrebbe
privarci delle cose che ci servono quotidianamente o potremmo essere costretti
a pagarle molto di più. Le vite di tutti sono interconnesse. Che succederebbe
se tutto procedesse caoticamente, senza alcun ordine, solo secondo i rapporti
di forza bruta? La società da cui dipendiamo per la sopravvivenza non potrebbe
esistere. E infatti un'ordine c'è, disciplinato da una fitta rete di accordi
internazionali, che fa sì che merci dall'altra parte del mondo possano arrivare
fino a noi. Questi trattati sono stati costruiti dalla politica. Dunque, se vogliamo
"fare politica" dobbiamo occuparcene, almeno a grandi linee e il
destino di popoli lontani non ci può essere indifferente. E per loro è lo
stesso.
Spesso la politica è
presentata come una via per avere di più, e invece dovrebbe servire a vivere
meglio. Per questo è necessariamente legata ad un'etica. Se è lotta di
tutti contro tutti, per accaparrarsi un di più di risorse scarse, diventa
inefficace e produce solo caos, in cui si vive peggio e addirittura si rischia
di soccombere. È per questo che il mercato, in cui tutti competono con tutti,
deve avere correttivi politici e non può fornire l'etica di una società, ma
solo quella di un suo settore. Ma, in realtà, è proprio vero che il
mercato è quella specie di giungla come ci viene presentato, in cui i grossi
cercano di mangiare i piccoli e, comunque, di fare fuori i più deboli? No, non
è così. Tanto che è proprio in una società di mercanti che è nata, nell'antica
Grecia, la più antica democrazia. Il mercato è un'istituzione che consente
l'incontro e gli scambi, in sicurezza e anche a livello internazionale, tra
genti che appartengono a sistemi politici diversi. E l'etica del capitalismo,
in cui la produzione e gli scambi lasciano molto spazio all'autonomia privata,
è appunto un'etica, vale a dire un sistema di limiti che ciascuno riconosce al
proprio arbitrio e ai propri appetiti. Altrimenti diviene impossibile il
commercio e rimane solo la rapina, per cui i forti profittano dei più deboli e
li spogliano dei loro beni. Diverrebbe così impossibile lo stesso capitalismo
se le vite e i beni fossero costantemente minacciati e nessuno potesse fidarsi
degli altri. Questa condizione di insicurezza farebbe regredire la nostra
civiltà a livelli primordiali, che non consentirebbero la sopravvivenza di otto
miliardi e oltre di persone sul nostro pianeta. L'idea che si debbano
"rottamare" i meno idonei sorse dalla seconda metà dell'Ottocento,
sulla suggestione della scoperta dell'evoluzione naturale delle specie
animali secondo la lotta per la sopravvivenza, con la seguente selezione degli
organismi più adatti alle condizioni ambientali. Si pensò che ciò che si era
prodotto in milioni di anni nel mutamento delle specie viventi potesse essere
applicato alla rapidissima evoluzione sociale degli umani. È il "darwinismo
sociale", dal cognome dello scienziato Charles Darwin che nell'Ottocento
studiò l'evoluzione delle specie. Ecco poi l'idea che la guerra sia
un'igiene del mondo, diffusa nel secolo scorso dai futuristi e ripresa dal
fascismo mussoliniano. Salvo poi constatare che la guerra è solo un immenso
spreco di umanità, in cui spesso sono proprio i migliori a soccombere sul campo
di battaglia. Era cosa nota da secoli, ma certe conquiste culturali vanno
rinnovate di generazione in generazione.
Si sostiene che i meno idonei
in società dovrebbero essere rottamati per dare una specie di giustificazione
alla propria crudeltà, a tutte le sofferenze che si producono e si ignorano
negli altri. Si vorrebbe accreditare l'idea che questo sia
"naturale", per scaricarsi la coscienza. Si ragiona in questo modo
quando si dice che dovremmo selezionare i migranti per bisogno, tenendoci solo
quelli che ci servono. Non si tiene conto che oggi tocca a loro e domani,
affermato quel bestiale principio, potrebbe toccare a noi. E, del resto, già
sta accadendo ai nostri figli che sono andati all'estero, perché da noi non
abbiamo saputo costruire le condizioni per un loro impiego.
La società costituisce ormai,
a livello mondiale, un tutto integrato e inscindibile, da cui dipendono la
nostra felicità e la nostra sopravvivenza. Non possiamo ragionevolmente pensare
di poter sopravvivere in un nostro piccolo mondo separato, in cui ci sono solo
quelli che ci vanno a genio. Dobbiamo pensare alla felicità di tutti e dobbiamo
farlo razionalmente, programmando e costruendo relazioni. È questa anche la
realtà dell'agàpe religiosa, che significa benevolenza per far posto a tutti,
nessuno escluso. È questo che è al fondo della dottrina sociale, che contrasta
duramente con la crudele ideologia dei rottamatori sociali. Nella visione del
pensiero sociale animato dalla nostra fede la politica è agàpe. E, più o meno
dagli anni Trenta del secolo scorso, si ritiene anche che sia un compito di
tutti, non solo di quelli che si trovano al comando. Questo ora rende possibile
costruire una teologia della democrazia, vale a dire rendere esplicito il senso
religioso della democrazia come oggi là si intende, piena di valori umanitari,
non solo procedura in cui vince la maggioranza. Una democrazia di tutti: questo
è l'obiettivo che ci viene indicato dal nostro pensiero sociale ed esso è in
grado di rivoluzionare il mondo in cui viviamo, nel quale c'è ancora tanta
sofferenza. A questo si contrappongono i populismi correnti che sono
profondamente antidemocratici e mirano a disarticolare le masse, rendendole
schiave delle loro paure e delle loro tentazioni, per poi dominarle salendo
loro sulle spalle e mantenendole schiave, come tutti i populismi hanno sempre
fatto. Il paziente e pertinace lavoro di formazione sociale che in religione si
va facendo sulle masse dal secolo scorso è teso invece a suscitare una realtà
di popolo impegnato nell'agàpe, per trasformare la società avendo di mira la
vera felicità. Laddove i populisti gridano "Avete ragione di avere
paura!", la dottrina sociale esorta e incoraggia, invece, con un "Non
abbiate paura!".
89. La politica e i valori
La politica democratica, in una
democrazia popolare quali sono le democrazie dei nostri tempi, è quella che
consente e richiede la partecipazione di tutti al governo della società. Questo
richiede che sia piena di valori. Non si tratta infatti solo di dominare, ma
anche, attraverso l'esercizio dell'autorità, e questo è appunto il governo,
migliorare la vita di tutti. Ma come farlo senza stabilire dei principi che orientino
in questo lavoro? Se invece la politica è solo dominio, allora non ha bisogno
di tener conto di tutti, le basta creare le condizioni sufficienti per
conquistare e mantenere il potere. In questo caso si comanda nell'interesse
proprio e del proprio ceto, vale a dire di quelli che, dominando la società,
vogliono avere o mantenere una posizione favorevole. Chi governa in questa
prospettiva è tendenzialmente un conservatore, perché, conquistato il dominio
sulla società, non ha alcun vantaggio a cambiare. In politica l'orientamento
conservatore è di solito definito "di destra", perché, nel Parlamento
nazionale, fin da quando ne esiste uno, dalle prime elezioni politiche tenutesi
nel Regno d'Italia dopo la sua fondazione, avvenuta nel 1861, i conservatori si
collocavano nei banchi di destra. Questo accadeva già nella Camera dei Deputati
del Regno di Sardegna, trasformatosi nel 1861 in Regno d'Italia, dopo
l'annessione di gran parte dei territori italiani. Non è detto però che un
conservatore sia contrario al progresso, e quindi anche a cambiamenti piuttosto
intensi. Storicamente, anzi, abbiamo assistito a movimenti politici
conservatori che proponevano politiche volte al progresso, sia tecnologico che
sociale. La tendenza conservatrice, quindi, riguarda essenzialmente solo
l'assetto sociale, in particolare nel contrastare l'emersione politica di altri
gruppi sociali che rivendicano vantaggi analoghi a quelli dei ceti dominanti.
Quando a voler emergere sono i ceti popolari posti in società in posizione generalmente
subalterna, allora questa tendenza politica è definita di sinistra, perché
storicamente i parlamentari che l'hanno impersonata si collocavano nei banchi
di sinistra del Parlamento. In Italia questa tendenza politica è stata
storicamente manifestata dai mazzinianesimo, vale a dire dai seguaci del
politico rivoluzionario repubblicano Giuseppe Mazzini (1805-1872), dal
socialismo, nei diversi partiti che storicamente lo espressero, a partire dal
1892, con la costituzione del Partito dei Lavoratori Italiani, ma anche dal
cattolicesimo democratico sulla base dei principi di giustizia sociale
insegnati nella dottrina sociale a partire dall'enciclica Le novità,
diffusa nel 1891 dal papa Vincenzo Gioacchino Pecci, regnante in religione con
il nome di Leone 13^.
I processi democratici furono
animati e diretti inizialmente, da metà Settecento, dai ceti che controllavano
le nuove tecnologie di produzione e di commercio, detti "borghesi",
nei confronti della nobiltà federata con i sovrani dinastici assoluti, la cui
ricchezza era essenzialmente basata sulla proprietà terriera. Successivamente
furono progressivamente sempre più influenzati da forze politiche di sinistra,
nell'emergere alla politica delle classi popolari, dovuto principalmente
all'azione delle forze socialiste, ma anche, e questo molto sensibilmente dagli
anni '40 del Novecento, di quelle del cattolicesimo democratico ispirato alla
dottrina sociale. Questo allargamento della base sociale dei processi
democratici ha anche prodotto una notevole estensione dei valori democratici,
al centro dei quali, per l'azione determinante di esponenti cattolici e
socialisti nella progettazione della nuova Costituzione repubblicana entrata in
vigore nel 1948, vennero a situarsi quelli della persona umana e del lavoro. Essi,
in questa concezione politica, sono strettamente collegati attraverso l'idea di
" dignità", che riassume un sistema di limiti etici a ciò che si può
fare agli e degli altri. Il lavoro deve essere rispettoso della dignità della
persona e, così, diviene essenziale per rafforzare e manifestare la dignità
della persona. Si tratta di dignità che si vuole di tutti, quindi nella sua
massima estensione. Per capire la differenza tra politiche di destra e di
sinistra è molto importante studiare come si pongono su quei temi.
Storicamente si manifestarono,
in particolare in Italia con il fascismo storico, politiche populiste. Nel
populismo le minoranze dominanti, in genere in quanto controllano l'economia,
prendono atto della forza delle masse e concludono con esse un patto di dominio
e protezione: le masse accettano di rimanere ordinatamente sottomesse e in
cambio hanno prestazioni sociali, in genere in danno di un qualche nemico
temuto dalla gente. In questo quadro le risorse per le politiche sociali non
derivano da un riequilibrio delle diseguaglianze sociali, ma da strategie di
potenza consentite dalla forza delle masse. Il fascismo mussoliniano le cercò
mediante le guerre coloniali e, da ultimo, con la guerra imperialista al
seguito della Germania dominata dal fascismo di Adolf Hitler. Queste politiche
populiste vengono inquadrate solitamente in quelle di destra, perché si
oppongono agli ideali e ai progetti di quelle di sinistra.
Ai tempi nostri la politica è
generalmente orientata in senso populista. È quindi conservatrice, ma tenta di
avere un vasto consenso sociale prospettando prestazioni sociali. È piuttosto
vaga quanto all'individuazione delle fonti delle risorse necessarie, che non si
ritiene debbano conseguire a un riequilibrio delle diseguaglianze sociali. La
prima prestazione sociale promessa è, in Italia, il contrasto all'immigrazione
dalle nazioni povere dell'Africa e dall'Asia, ma anche quella di negare i
diritti di cittadinanza alla gente straniera che già di fatto fa parte del
nostro popolo, avendo acquisito cultura e stili di vita di carattere europeo.
Ha quindi carattere xenofobo, parola che significa avversione verso lo
straniero. Ragionandoci sopra si capisce che gli impegni xenofobi non
potranno essere mantenuti e, quindi, sono più o meno a costo zero: richiedono
solo periodiche manifestazioni di rigore verso la gente che vorrebbe vivere tra
noi, per convincere i cittadini che sia possibile risolvere il problema delle
migrazioni mediante respingimenti di massa. Si tratta di misure contrastanti
con la dignità della persona e del lavoro e, in questo, riconoscibili come non
appartenenti ad ideologie di sinistra. Il populista di oggi mira a far votare
per lui, poi si vedrà. Propone un cambiamento di chi comanda, ma non
dell'assetto sociale. Quindi è un conservatore, perché non ha un progetto
alternativo di società, anche se, nei discorsi che fa, appare un
rivoluzionario. Spesso è molto bellicoso con chi nella società sta peggio e non
pensa possa votare per lui, o perché non ne ha diritto o perché gli è
irriducibilmente avverso. Il più importante capo politico populista del mondo è
oggi il presidente statunitense Donald Trump. Tutti gli altri populisti del
mondo gli fanno in genere eco. Fa eccezione l'odierno Venezuela, che ha
sviluppato un populismo di altro segno, sul modello staliniano. Il principale
esponente che nel mondo si oppone ideologicamente al populismo del tipo
trumpiano è papa Francesco. La dottrina sociale, con la sua etica molto
esigente, è infatti all'antitesi del populismo.
90. Cambiare le persone al comando o le
politiche?
Questa serie di riflessioni estive
possono servire a dare un orientamento su come affrontare i problemi politici
nell'Italia di oggi, come siamo esortati a fare dai nostri vescovi. Hanno
quindi una particolare attenzione agli insegnamenti di quel vasto corpo di
documenti del magistero che contiene la dottrina sociale religiosa. La
politica, quindi il governo della società, può essere una manifestazione
dell'agàpe della fede, termine del greco antico che traduciamo in italiano con
"carità" o "amore", ma che ha in realtà un senso sociale
molto più intenso, facendo riferimento ad un lieto convito in cui c'è posto per
tutti e in cui non manca nulla a nessuno.
Di questi tempi ci viene
proposto di cambiare classe politica, quindi le persone che comandano in
politica, in Parlamento, nel Governo, negli altri posti dai quali si dà la
linea all'azione sociale. L'idea è che cambiando le persone cambierà anche la
politica è che, si sottintende, cambierà in meglio. Tuttavia può essere
osservato che nel 2013 c'è già stato uno spettacolare cambio di classe
politica: quelli di prima si sono ritirati e al comando c'è veramente gente
nuova. Basta considerare le biografie degli attuali ministri, ma anche quelle
dei parlamentari. Il mutamento è stato particolarmente accentuato nelle
amministrazioni comunali di alcune grandi città, come Roma. Tuttavia,
nonostante la "rottamazione" di tanta parte dei politici del passato,
le politiche attuate non hanno presentato che mutamenti di dettaglio, piccole
rifiniture. In passato le alternative non furono solo tra classi politiche, ma
tra progetti politici ed erano veramente più impegnative, coinvolgendo
addirittura lo schieramento internazionale dell'Italia rispetto ai due grandi
blocchi all'epoca dominanti, quello dei capitalismi, guidato dagli Stati Uniti
d'America, e quello dei comunismi, guidato dall'Unione Sovietica. In mezzo
c'era un coordinamento di nazioni "non allineate" promosso dalla
Jugoslavia.
Il confronto, e anche lo
scontro, tra disegni politici molto divergenti si risolse, in Italia, in ambito
democratico, non nel caos, ma, nel dialogo culturale e sociale, in particolare
nel Parlamento, con un conseguente risultato dialettico, per cui le due linee
finirono per integrarsi, riconoscendo e inglobando gli elementi positivi
ciascuna dell'altra. Questo è appunto il metodo raccomandato nella dottrina
sociale della Chiesa, nella quale si prende realisticamente atto delle
divisioni sociali, ma si invita a superarle nel dialogo, accentuando ciò che è
il fondamento comune della convivenza civile. Un sistema di valori condivisi
sorresse questa dinamica di dialogo: si trattava dei valori
costituzionali, con al centro quelli della persona umana e del lavoro. È
appunto lo smarrimento di questo orientamento verso i valori che crea tanti
problemi nella politica di oggi e impedisce di proseguire nella progettazione e
attuazione di un mondo nuovo, vale a dire il lavoro iniziato dalle forze
politiche dalle quali originò, nel 1948, dopo il lavoro dell'Assemblea
Costituente, la nostra Repubblica democratica.
Non basta cambiare le persone,
occorre cambiare il progetto politico, se si vuole veramente cambiare una
società in cui c'è troppa sofferenza. E innanzi tutto occorre averne uno. Ma,
appunto, questo è un problema, oggi, perché i candidati a posti di comando non
si azzardano ad essere troppo espliciti, rimanendo sulle generali, a livello
degli slogan, che hanno la consistenza degli annunci pubblicitari. In effetti i
candidati sono spesso consigliati dagli stessi specialisti in psicologia della
decisione che strutturano gli annunci pubblicitari commerciali. Cercano di
indurci a preferirli alle elezioni con le stesse tecniche.I loro appelli
cercano di attivare la nostra mente più antica, quella che viene guidata dalle
emozioni, che si basa sulla prima impressione è che ci serve a fare velocemente
le scelte quotidiane ripetitive, dove è superfluo esercitare la nostra facoltà
critica, ragionarci tanto sopra. È stato dimostrato che, raggiunto quel livello,
poi la coscienza critica che dovesse attivarsi successivamente, secondo la
parte della nostra mente più evoluta, farà fatica a imporsi. Si rimane ancorato
alla prima impressione, al primo giudizio emotivo, superficiale. Ma quando si
tratta di fare scelte che implicano il futuro nazionale, è giusto fare così?
Non si dovrebbe perdere un po' più di tempo per attivare la razionalità delle
persone? Se però si punta solo a convincere gli elettori a tracciare un segno
sulla scheda, non serve. Non è nemmeno necessario perdere tempo a ragionare
ordinatamente e informandosi da fonti affidabili sui mali sociali e sulle
soluzioni, come ad esempio si fa nell'enciclica Laudato si' del
2015. Non occorre avere un progetto di cambiamento. Ci si penserà quando si
sarà al potere. Ma, allora, potrebbe essere troppo tardi. Fatalmente, non
essendo preparati, si farà come quelli di prima, si seguirà la tradizione. Ecco
dunque che gente nuova fa le cose di sempre.
Per cambiare veramente occorre
un nuovo progetto di società, altrimenti è scontato che si continuerà a fare
come prima. Un criterio molto importante per valutare le proposte politiche e
chi si presenta come candidato è quindi quello di individuare il progetto di
società che c'è dietro, al di là degli slogan, delle parole d'ordine. Spesso i
politici di oggi fanno appello alla fiducia verso di loro, dovremmo fidarci.
Uno slogan di una pubblicità commerciale di alcuni anni fa diceva "La
fiducia è una cosa seria, che si dà alle cose serie". È proprio vero.
Nella politica decidiamo a chi affidare le vite nostre e dei nostri cari.
Dovremo scegliere persone serie. È una persona seria il nostro Padre Francesco
che ha scritto una lunga enciclica per spiegarci i mali d'oggi è le possibili
soluzioni, acquisendo il parere di molti esperti; non mi pare che si dimostrino
tali quelli che vanno per slogan tipo "rottamiamoli",
"aiutiamoli a casa loro", e "meno tasse".
91. Partecipare al governo democratico
Nella Costituzione è scritto
che la sovranità appartiene al popolo, con il limite delle leggi che la
regolano, ma in genere ciascuno pensa si contare poco, come singolo, nel
governo della società. E in effetti è così, infatti la democrazia si esprime in
azioni collettive e quindi i cittadini non contano come individui ma nella
misura in cui sanno farsi popolo, quindi ad esprimere una forza
collettiva.
Ma come?, noi "siamo"
già "popolo", siamo italiani, viviamo in Italia dove la gran parte di
noi è nata, parliamo italiano, vestiamo secondo la moda corrente in Italia, e
via dicendo e precisando, in che senso dovremmo "farci" popolo?
Questo è appunto il grande problema, e anche l'impegno, principale delle
democrazie popolari, in cui il popolo non soltanto "è", ma anche
"decide". Per essere "popolo che decide", per influire
collettivamente sul governo della società, occorre fare unità nella gente al di
là di quella che è manifestata da una certa somiglianza di elementi culturali,
che, in fondo, è minimamente "decisa" dalla gente è in massima
parte subìta, per cui uno nasce e si ritrova in un certo ambiente sociale e si
uniforma ad esso, facendo come gli altri. È per questo che ai rivoluzionari
italiani del Risorgimento si presentò l'esigenza, dopo essere riusciti a
"fare" l'Italia, unificando le genti stanziate in Italia sotto un'unica
autorità politica, sotto un sovrano italiano, la dinastia dei Savoia, di
"fare" gli italiani. Infatti dal 1848 la monarchia Savoia era del
tipo "costituzionale", vale a dire che riconosceva limiti al potere
del monarca e ammetteva la partecipazione democratica dei sudditi al governo
dello stato, in particolare mediante l'azione politica di un Parlamento in cui
la Camera dei deputati era eletta dai cittadini maschi e con certi requisiti di
istruzione o di reddito. Quindi non bastava più, per essere popolo, essere
sudditi di un unico re, occorreva un popolo con capacità politica. Ci si
accorse che l'Italia era ancora "fatta" di popoli diversi, che
addirittura parlavano lingue diverse e comunque avevano culture diverse:
integrarli non si presentava facile. È un lavoro che fu in gran parte portato a
termine solo negli anni Sessanta del secolo scorso, con quel potente strumento
di integrazione culturale costituito dalle reti televisive pubbliche della Rai
e con la realizzazione della scolarizzazione pubblica di massa, in particolare
con la riforma della scuola media inferiore, che risale sempre agli scorsi anni
Sessanta. La formazione è indispensabile per dare al popolo la capacità
politica. Fin dall'Ottocento lo si era capito e ne aveva scritto, ad esempio,
il rivoluzionario repubblicano Carlo Cattaneo (1801-1869), uno dei capi della
rivolta milanese del 1848 contro gli occupanti austro-ungarici. Per fare
politica non è sufficiente conoscere i problemi propri e di quelli che vivono
nelle immediate nostre vicinanza, bisogna capire la storia in cui si vive, ed
avere una prospettiva molto più ampia.
Uno strumento molto potente per
conquistare una capacità politica sono le encicliche sociali dei nostri
papi, in particolare a partire dalla La pace in terra,
diffusa nel 1963, dal Papa Angelo Roncalli, regnante in religione come Giovanni
23^. Esse sono strettamente connesse con l'attualità, non si tengono sulle
generali, e hanno una visione veramente globale. Non sono sempre facili da
leggere, richiedono quasi sempre degli approfondimenti, ed è bene tenere a
portata di mano, affrontandone lo studio, il libro di storia di terza media o
un Smart-phone che possa consultare Wikipedia e l'enciclopedia Treccani in
lìne.
Per farsi popolo democratico
occorre elevarsi sopra il proprio particolare. Altrimenti si rimane solo
fazione politica, in lotta con le altre per avere di più delle risorse
nazionali. Oggi la politica democratica è diffamata dalle fazioni politiche con
l'accusa di corruzione e di inconcludenza; ma la gran parte dei problemi della
politica democratica sono causati dallo spirito di fazione, per l'incapacità di
elevarsi al di sopra dei propri interessi particolari. Al centro degli
insegnamenti della dottrina sociale della Chiesa vi è invece l'esortazione a
farlo. Questo perché, se non si riesce a farlo, la società vive nel disordine
della lotta di tutti contro tutti, e allora prevale il più forte, finché rimane
tale, ad imitazione della crudele legge della natura. Ciò contrasta con la
dignità degli esseri umani come persone, per natura soggetti di diritti
universali, inviolabili e inalienabili ( così si legge nell'enciclica La
pace in terra, sopra citata, n.5). C'è un limite alle pretese
politiche di fazione ed esso deriva da ciò che costituisce come persona
l'essere umana: in religione lo si ritiene di origine soprannaturale. Quindi un
buon inizio di politica democratica è quando non si tiene conto solo di ciò che
è bene per la propria fazione, ma anche delle esigenze umane delle persone che
la pensano diversamente da noi e sono diverse da noi. Le divisioni della
società, se non risolte tenendo conto del bene di tutti, distruggono la
società. Questa è stata un'importantissima conquista culturale nel nostro
pensiero religioso e ha portato, con l'azione determinante di gente della
nostra fede, alla realizzazione della nostra nuova Europa, che ha consentito
una lunghissima era di pace e di prosperità, senza precedenti nella storia
dell'umanità.
92. Vivere la politica democratica
Parlo con la gente intorno a me
e sento che è delusa della politica democratica. Mi pare anche che ne abbia
perso dimestichezza. La vive al modo di sudditi e allora rivendica
miglioramenti per sé, senza preoccuparsi degli altri e della società intorno.
Non sente la politica come propria. Le riescono difficili i temi che
tratta e non intravede soluzioni. Anzi, peggio, sospetta che ogni soluzione che
viene proposta nasconda un imbroglio, in particolare che chi comanda in
politica non le dica tutta la verità. Sospetta anche che i "politici"
non siano capaci di vero altruismo e che quando parlano di
"sacrifici" da fare escludano sempre sé stessi e i propri favoriti.
Si è quindi di fronte, per quello che mi appare, ad una spettacolare
"crisi di legittimazione" della politica, analoga a quella che iniziò
a manifestarsi negli anni '80 del Novecento, e alla quale si tentò con scarso
successo di porre rimedio.
Delegittimata dalla sfiducia
della gente, la politica, allora, cerca di stare a galla con metodi
antidemocratici, in particolare con strategie populiste. Nel populismo
l'adesione della gente non viene ottenuta consapevolmente, ma suscitando
reazioni collettive di tipo emotivo, confermando le persone nelle loro paure e
nelle loro tentazioni, deprimendone il senso critico, presentando la situazione
in cui si trovano come senza altra via di uscita che quella di abbandonare una
parte dei sofferenti o di riuscire ad accaparrarsi risorse pubbliche a
preferenza di altri, e infine garantendo ai propri seguaci che questo lavoro
"sporco" sarà fatto senza che essi debbano insozzarsene le mani e le
coscienze. Basta tracciare un segno nel posto giusto sulla scheda elettorale.
Poi la gente dovrà lasciare mano libera agli eletti fino alle elezioni
successive, non creare problemi, non impicciarsi, non essere mai forza critica,
non manifestarsi più come popolo, perché, in fondo, in democrazia il popolo si
potrebbe esprimere solo in occasione delle elezioni, o, al massimo,
partecipando a periodici sondaggi, di cui la politica sarebbe libera di tener
conto o meno. Questa però non è democrazia, come oggi la si intende. E non lo è
perché è troppo povera di valori e di responsabilità critica collettiva e
personale. Non consente alle persone di farsi un'idea realistica del loro tempo
e punta a far sovrastimare la gravità di certi problemi, quelli che appunto
servono a suscitare adesione emotiva, irrazionale e poco informata. I casi
tipici sono quelli dell'immigrazione e dell' "Unione Europea". Sembra
che tutti i nostri guai originino da lì e invece sono provocati dall'assetto
irrazionale della nostra economia, che la politica non sa e non vuole cambiare,
perché manca di un progetto. Così si limita ad esortare a cambiare le persone,
con argomenti populisti: ma si è poi visto che i populisti al potere non
riescono a cambiare granché, perché, come ho detto, non lo sanno fare
e,soprattutto, nemmeno vogliono farlo.
La politica democratica è
innanzi tutto un sistema di valori: se lo si dimentica si finirà prima o poi
nelle mani dei populisti, o peggio. E poi è un sistema di limiti: bisogna
sospettare di chi pretende di avere mani libere. Il primo limite è quello dei
valori: bisogna delegittimare chi ci spinge all'azzardo morale, ad esempio a
respingere i migranti sofferenti abbandonandoli, contro il nostro dovere, in
inferni sociali. L'altro limite è quello della critica sociale, che in
democrazia deve essere costante, non di elezione in elezione. Tenta di
sottrarsene chi si esime dall'obbligo politico di presentare progetti compiuti
di riforme sociali ai cittadini, che possano essere compresi e criticati, ma si
limita a slogan come "rottamiamoli", meno tasse",
"aiutiamoli a casa loro", "fuori dell'Europa".
L'epoca che stiamo vivendo non
è la peggiore che la nazione abbia passato. Ve ne fu una molto più grave
durante la Seconda guerra mondiale, nella quale ci aveva trascinato il
populismo mussoliniano. A quei tempi si fu veramente smarriti. È allora che, in
Italia, ci si convertì alla democrazia, come popolo; quella democrazia della
quale oggi in genere si diffida. Fu la nostra Chiesa a prendere un'iniziativa,
nella linea dei precedenti interventi sociali, ma iniziando essa stessa dal
riconoscimento delle colpe collettive, mutando sensibilmente i precedenti
orientamenti verso la politica democratica. Fu un lavoro collettivo, che vide in
prima fila l'Azione Cattolica, dalla quale scaturì molta della classe di
governo della Repubblica democratica. Fu manifestato al mondo nei radiomessaggi
natalizi del papa Eugenio Pacelli, regnante in religione come Pio 12^, tra il
1941 e il 1944, ancora con il regime fascista egemone, documenti che vi invito
a cercare mediante Google digitando a "radiomessaggio Natale” e l'anno, ad
esempio “1941”. Ebbero il valore di vere e proprie encicliche. Sono tutti
pubblicati su www.vatican.va. Si era nel mezzo del disastroso conflitto
mondiale: furono rivolti ai "desolati senza speranza" e contenevano
un invito alla conversione ad un nuovo ordine sociale internazionale che
rivoluzionasse i sistemi totalitari, ma anche quelli dominati dal capitalismo
dalla faccia feroce, e che fosse finalmente rispettoso della dignità umana. Un
progetto compiuto di società, pieno di valori, che, con il contributo
determinante dei cattolici-democratici, fu realizzato democraticamente nella
nostra nuova Europa, a tutt'oggi diretta, in fondo, da una leader
cristiano-democratica. Quando gli italiani, tra il 1946 e il 1948, e per la
prima volta anche le donne, si trovarono a decidere tra monarchia e repubblica
e poi tra democrazia popolare, democrazia liberale o democrazia sovietica, tra
allineamento con nazioni occidentali o con l'Unione sovietica, scelsero tra
quel progetto e altri progetti di società molto articolati, non su slogan
populisti come quelli che erano stati proposti per un ventennio dal fascismo
mussoliniano.
93. Fare la propria parte
È indifferente, per un cittadino
italiano, vivere in Italia o altrove? Non dico dal punto di vista del clima,
dell'ambiente naturale, degli stili di vita e anche degli amici che si
frequentano. Mi riferisco ai propri doveri sociali. Sarebbe lo stesso vivere
all'estero? Se il mondo va come va e non c'è nulla da fare per cambiare come
va, in fondo è lo stesso. Se poi una persona considera solo sé stessa,
come individuo, è molto evidente la sproporzione tra le forze del singolo e le
forze sociali che determinano la storia. Eppure queste ultime sono appunto
"sociali", vale a dire umane, e la storia, fenomeni naturali a parte,
è integralmente una costruzione umana. Come è stata fatta, può dunque essere
cambiata. Procede per rapporti di forza, salvo in ciò in cui gli umani riescono
ad affrancarsi dalla legge della natura, che è appunto quella della forza, e la
legano a dei valori. Partecipare al governo della società, come si fa in
politica, consente di affermarvi la propria volontà. Questo, fino a due secoli
fa, era prerogativa dei sovrani. La democrazia è un sistema di
istituzioni per consentire un'ampia collaborazione in quel lavoro,
tendenzialmente della maggior parte degli adulti di un popolo. Il cittadino ha
diritto di farlo nel sistema politico che lo riconosce come tale. Questo però
lo costituisce in una posizione di responsabilità, perché se può indurre
un cambiamento e nella misura in cui può farlo. ha anche il dovere di
farlo per il meglio. Perché deve? Perché in società si è tutti
dipendenti da tutti per la propria sopravvivenza e quindi nessuno ha interesse
ha far andare peggio le cose, o addirittura a distruggere la società da cui
dipende, In democrazia nessuno può ragionevolmente chiamarsi fuori, esonerarsi
dalla responsabilità. Nella misura in cui uno è venuto meno al proprio dovere
politico è responsabile della rovina della società, vale a dire di un
bene molto importante. Ha promosso i valori? Si è adoperato a concorrere a
limitare l'arbitrio altrui? Ha cercato di informarsi bene della situazione, o è
stato troppo superficiale? Nei limiti della propria competenza, e aiutandosi
con la competenza altrui, ha fatto proposte realistiche, buone per tutti, e ha
cercato di affermarle in società? Ha studiato bene le proposte altrui, e
valutandole criticamente, ha individuato quelle che meglio corrispondono ai
valori mettendosi di traverso per ostacolare le altre?
Se uno interagisce in società
solo per fare i propri interessi e quelli della propria fazione, non vuole e
non fa il bene di tutti. Questo comporterà la rovina e la distruzione della
società e dei valori e la ripresa della legge della giungla. È così che
agiscono le mafie, che sono tra le maggiori cause dei problemi sociali
italiani, in particolare cause di spreco immane di risorse sociali. Nei
contesti sociali in cui le mafie sono riuscite a dettare legge, la società dei
valori scompare e in certi casi vengono vanificati i diritti politici dei
cittadini e non si riescono più ad organizzare le elezioni locali. Le mafie,
allora, impongono un duro servaggio.
Ciascuno è parte del sistema
democratico di valori e di limiti, con il voto e con tutte le altre attività
sociali con le quali si può attivare il controllo democratico, ad esempio nella
cultura, nelle manifestazioni pubbliche, nello sciopero, ma anche nelle azioni
che fa come consumatore, lavoratore e datore di lavoro, fino ad arrivare
all'esercizio del diritto di resistenza, vale a dire a svolgere quel tipo di
opposizione sociale all'arbitrio altrui dalla quale è nata la nostra
Repubblica democratica.
La storia ci insegna che, dalle
origini e fino all'ultima campagna per referendum costituzionale e ad oggi,
quando abbiamo davanti elezioni politiche cruciali per la nostra
democrazia come poche altre, le masse coinvolte nei processi democratici hanno
contato, e molto, contribuendo a mantenere sostanzialmente integro, di
generazione in generazione, il sistema dei valori che è alla base della
nostra ideologia democratica, con al centro quelli della persona, del lavoro,
della dignità dell'una e dell'altro. Le scelte politiche che si
prospettano di qui a poco non sono banali, e non riguardano solo l'identità
anagrafica dei politici di comando, ma coinvolgono pesantemente quei valori,
dei quali occorre innanzi tutto acquisire piena consapevolezza. Siamo ancora
all'altezza di quei valori? Ad esempio, la persona, il lavoro. la pace, sono
ancora per noi valori e valori importanti?
L'impegno che il nostro dovere
ci richiede va ben oltre il tracciare un segno su una scheda elettorale. Siamo
di fronte a scelte che indubbiamente richiederanno un cambiamento dei nostri
stili di vita, se vogliamo salvare la società dalla quale dipende la nostra
sopravvivenza. Ne ha scritto il nostro Padre Francesco nell'enciclica Laudato
si'", Altrimenti, che succederà? Altrimenti la società che ci ha
finora garantito un lungo periodo di pace e un discreto benessere, per cui ad
esempio i problemi dell'alimentazione insufficiente e dell'abbandono nella
malattia, nell'età anziana e nell'infanzia non sono generalizzati,
cambierà e saranno molto di più i "sommersi", il cui numero è già ora
in aumento; le relazioni umane incattiviranno; non ci si farà più scrupolo ad
abbandonare i sofferenti e ci si dovrà augurare di riuscire ad avere sempre
forze e le alleanze sociali sufficienti a rimanere tra i "salvati".
Come pensiamo debba essere il nostro prossimo futuro sociale? Nelle pubblicità
politiche correnti in questi giorni non viene precisato. Si fanno promesse,
certo, in particolare promesse di cambiamento di ciò che va male, ma non
si spiega come si pensa di mantenerle. Chi le fa dunque, non avendo precisi
progetti di cambiamento, se prevarrà si ritroverà probabilmente a fare come in
passato, seguendo una tradizione amministrativa. Cambieranno i capi, ma non le
politiche. È questo che in genere accade con i populisti. Le cose, quindi, non
miglioreranno. Migliorare richiederebbe infatti cambiamenti, perché c'è
tanta gente che in una società ricca sta sempre peggio e questo è paradossale,
irragionevole, segnala qualcosa che va corretto, ma in genere i cambiamenti
vengono prospettati proprio in danno di chi in società sta già peggio, a cui si
chiede di accettare "sacrifici",perché è lì che si vuole
"risparmiare"; questo in una società tra le più ricche del mondo
Occidentale, il quale a sua volta è, per ora, la parte più ricca del mondo
intero. Il trattamento del lavoro è molto peggiorato negli ultimi vent'anni e
questo colpisce la dignità delle persone il cui lavoro si è trovato ad essere
svalutato. Ma disumanizza l'intera società. È facile osservare che questo è
iniziato da quando, all'inizio degli anni '80 del secolo scorso, la forza delle
organizzazioni che tradizionalmente avevano promosso l'affermarsi della dignità
dei lavoratori si è indebolita. Fu l'epoca in cui il populismo all'epoca
corrente nel mondo Occidentale cominciò a presentare la tutela del lavoro come
un ostacolo all'arricchimento individuale. Gli slogan erano "Meno società!
Meno tasse!". A distanza di trent'anni possiamo studiare gli effetti
sociali di questa politica, che sono andati, mi pare, in danno dei più e
a vantaggio di minoranze di privilegiati. Le diseguaglianze sociali sono
enormemente aumentate, ma questo non ha aumentato il benessere collettivo né
quello individuale dei ceti non favoriti, che comprendono la gran parte dei
lavoratori e di chi lavoratore non può più esserlo, per disoccupazione
sopravvenuta, malattia o vecchiaia, o non è mai stato. Del resto
era irrealistico pensare che, scatenando la lotta di tutti contro tutti, abrogando
le regole che impedivano che la competizione sociale incrudelisse, togliendo ai
poteri pubblici sempre più risorse a beneficio di organizzazioni private,
potesse andare diversamente. Ma certamente è ancora possibile che vada
addirittura peggio. Basta unirsi al coro intonato dai populisti che oggi
gridano "Meno società! Meno tasse!" e seguirli, facendo come
dicono.
Questi che ho indicato sono i
temi politici veramente cruciali di oggi. Ma in genere nel ragionare di
politica si perde molto tempo sul tema dell' "aiutiamoli a casa
loro", il quale, benché tutto sommato marginale rispetto a quegli altri
nel senso che non mette in pericolo la sopravvivenza della società, pone in
questione il valore della dignità della persona umana, sulla quale i populisti
ci spingono ad incrudelire con il pretesto che si debba salvarci la vita senza
tener conto di quelle degli altri. O noi, o loro. Non ci sarebbe alternativa.
Attenti, però! Oggi tocca a disperati africani, ma presto potrebbe toccare
anche ai nostri figli e a noi stessi se, in politica, abbandoniamo la fedeltà
ai valori. Siamo proprio sicuri di poterci sempre salvare con le nostre sole
forze di fronte ad ogni rovescio della vita? Basta poco, molto poco, ai più per
passare nella parte dei sommersi. Basta ad esempio trovarsi nella fascia d'età
degli ultrasettantentenni, quando presto si diventa sempre più fragili.
94. La dottrina sociale: una grande
opportunità
La dottrina sociale, vale a dire gli
insegnamenti su come realizzare società conformi al l'etica religiosa, è stata
sostanzialmente accentrata dai papi nell'era moderna, a partire dal regno
del papa Giovanni Maria Mastai Ferretti, in religione Pio 9^ (papa dal 1846 al
1878), cioè da quando il papato decise di organizzare una forza di popolo per
sostenere le proprie politiche, in particolare nell'Italia dei moti
nazionalistici e, successivamente, negli sviluppi del nuovo regno unitario,
istituito nel 1861. I papi furono, in genere, mediocri capi politici
(fatta eccezione per San Karol Wojtyla con riguardo ai moti politici
democratici nella Polonia degli anni 80), ma eccezionali maestri di politica. I
radiomessaggi, le encicliche, le esortazioni e le lettere apostoliche in
materia sociale diffuse dal papato a partire dal 1941, in particolare,
costituiscono, nel complesso, uno dei più completi manuali di democrazia
correnti, l'unico con quella estensione e attenzione alla concreta prassi della
storia, e inoltre continuamente aggiornato, fino all'enciclica Laudato
si', diffusa nel 2015 dal papa attualmente regnante Jorge Mario Bergoglio,
Francesco in religione. Si tratta di documenti in genere poco conosciuti. Per i
più richiedono un aiuto per avvicinarli, come l'ho avuto io per tutta la mia
vita, fin da universitario. Questo soprattutto per inquadrare il contesto storico
e culturale in cui si inseriscono. La dottrina sociale è diffusa dal papato,
per un ordine che viene di volta in volta dal papa regnante che ne firma i
testi, ma naturalmente è stata sempre un lavoro collettivo, in cui i papi hanno
svolto generalmente il ruolo di committenti, ispiratori, coordinatori, capi
redattori e poi di divulgatori. Il nostro Padre Francesco ne ha parlato proprio
in questi termini per quanto riguarda la genesi dell'enciclica Laudato si, nella
quale tanta parte hanno avuto diverse scienze.
Partita da posizioni
francamente reazionarie, la dottrina sociale, in una lunga evoluzione
prodottasi nel contatto vivo con la gente, ha superato l'iniziale diffidenza
per la democrazia che caratterizzò la sua impostazione dal papato di Mastai Ferretti
a quello del papa Achille Ratti, che regnò in religione dal 1922 al 1939 come
Pio 11^. Essa non usò mai argomenti populisti. Questo ne fa un tesoro
prezioso,una perla rara, nel desolante contesto politico italiano attuale, nel
quale le maggiori forze politiche usano disinvoltamente il populismo. La
ragione è che la dottrina sociale moderna, fin dalle sue origini, si presentò
come forza critica, in particolare prima nei confronti del nazionalismo
italiano, poi nei riguardi dello sviluppo del nuovo stato unitario, istituito
nel 1861, e quindi nei riguardi del liberalismo, del socialismo, del
nazionalismo, del capitalismo liberistico, dell'individualismo, del
collettivismo, dell'imperialismo, del colonialismo, del razzismo, di ogni
specie di suprematismo di gruppi sociali su altri. La dottrina sociale nacque
come orientamento del popolo per organizzarlo a sostenere, in particolare in
Italia e in ambiente democratico-liberale, le politiche del papato in un'epoca
in cui esso era in polemica con le politiche di buona parte degli Stati
europei, per varie ragioni. Essa, proprio in quanto forza critica, fa costante
riferimento alla coscienza e alla ragione e in questo, oltre che che al
rapporto con la fede, può individuarsi una sua continuità, pur nella sua evoluzione.
La dottrina sociale non è solo teologia, anche se la teologia come riflessione
sui doveri sociali che la fede comporta, indubbiamente la caratterizza. Essa si
presenta essenzialmente come analisi critica del proprio tempo, del quale cerca
di avere una visione realistica, ma anche come rassegna critica delle diverse
soluzioni possibili ai mali sociali. Originariamente il papato immaginò
di poter dare autonomamente indicazioni normative per una completa
ristrutturazione degli assetti sociali, quindi di poter esso stesso ricavare,
con la teologia, le soluzioni di volta in volta necessarie, fin nei dettagli.
Dsgli anni Sessanta capì invece di dover accettare una collaborazione più
ampia, in particolare sulla base delle scienze sociali e della concreta
esperienza politica svolta dai laici di fede. Ma già in precedenza aveva posto
l'accento sulla necessità di laici di fede veramente competenti nelle questioni
sociali e scientifiche promuovendone la formazione mediante le proprie
organizzazioni di universitari.
Un documento molto importante
di quell'impostazione, di importanza veramente epocale, fu la lettera
apostolica Octogesima Adveniens- Approssimandosi
l'Ottantesimo [anniversario dell'enciclica Le novità, diffusa
nel 1891 dal papa Leone 13^], diffusa nel 1971 dal papa Montini, in religione
Paolo 6^, che vi invito a cercare su Web e a leggere attentamente. Per la prima
volta si accetta l'idea che in politica la fede possa esprimersi in diversi
orientamenti, che però devono passare al vaglio critico della coscienza
religiosa e della ragione. Si esortano i fedeli a collaborare alla
realizzazione di una nuova democrazia. Un lavoro che è ancora in
corso. Da allora è passata più di una generazione. Purtroppo è stato carente il
lavoro di formazione. Questo ha esposto la gente di fede al pericolo, alla
tentazione, e alla colpa sociale, di prestare fede alle politiche populiste. La
nostra gente non appare più capace di essere veramente forza sociale critica e
l'esperienza segnala che ha crescente difficoltà ad intendere gli insegnamenti
della dottrina sociale.
95. Prepararsi alla cittadinanza
La politica è una manifestazione della carità
in senso religioso, ci insegnano. E, allora, che dobbiamo pensare di una
persona che se ne esce con un "Io, non mi occupo di politica"?
Si pensa, però, che della
politica debbano occuparsi i "governanti". Li dovremmo accettare, e
subire, un po' come accade con la pioggia e il bel tempo: vengono e ci si
rallegra se non fanno danno. Ancora non abbiamo inventato metodi per mantenere
il bel tempo stabile. Poi ogni tanto la terra trema e anche in questo caso non
ci si può fare nulla, se non rimuovere le macerie e ricostruire. Però in
politica è molto diverso e tanto più nei regimi democratici. Non occorre fare
una rivoluzione violenta per cambiare, ma per cambiare in meglio non è
sufficiente recarsi ogni tanto ai seggi elettorali. E, innanzi tutto, cambiare
è possibile, perché la società intorno a noi è integralmente una costruzione
umana e come è stata fatta può essere mutata. Nella storia dell'Italia
democratica è avvenuto molte volte. La prima volta è stato nel giugno del 1946,
quando si dovette scegliere tra Repubblica e Monarchia ed eleggere un'assemblea
con il compito di scrivere e approvare una Costituzione, in sostituzione delle
norme fondamentali sul funzionamento dello stato impartite nel 1848 dalla
dinastia monarchica dei Savoia (lo "Statuto Albertino", imposto dal
re Carlo Alberto accogliendo richieste sostenute da un imponente moto
popolare). Più recentemente si è avuto nel 2013, quando, a seguito di elezioni
politiche, si ê prodotto un significativo mutamento del ceto parlamentare, in
gran parte rinnovato. Non è vero, quindi, quello che sento dire non di rado,
che "Sono sempre gli stessi!". Tra queste due epoche ci sono stati
molti altri cambiamenti nella politica nazionale, che negli anni '70 ha dovuto
fronteggiare anche tentativi di colpi di stato di opposta tendenza. In
queste fasi le masse sono state determinanti, e non solo con il voto. La
concreta possibilità di indurre collettivamente dei cambiamenti politici pone i
cittadini in una condizione di responsabilità. Da un punto di vista etico,
quindi anche della morale religiosa, vale a dire di ciò che si deve fare in
quanto giusto, anche l'omissione, il semplice non fare, che in genere significa
anche un "lasciar fare", è colpa. "Non fare" quando
"si può" fare e nei limiti in cui si può. Questo insegnamento ci
viene dal magistero in modo pressante, in particolare riguardo alla politica,
dagli scorsi anni Sessanta. Lo troviamo, ad esempio, nella lettera apostolica
Octogesima Aveniens - Avvicinandosi l'ottantesimo [anniversario
dall'enciclica Le novità, del 1891], diffusa nel 1971 dal papa
Giovanni Battista Montini, regnante in religione come Paolo 6^. Scrisse in quel
documento:
"47. [...] Occorre
inventare forme di moderna democrazia non soltanto dando a ciascun uomo la
possibilità di tenersi informato e di esprimersi, ma impegnandolo in una
responsabilità comune. I gruppi umani così si trasformano a poco a poco
in comunità di partecipazione e di vita. La libertà, che si afferma troppo
spesso come rivendicazione di autonomia opponendosi alla libertà altrui, si
sviluppa così nella sua realtà umana più profonda: impegnarsi e prodigarsi per
costruire solidarietà attiva e vissuta.
[...]
48. È a tutti i cristiani che noi
indirizziamo, di nuovo e in maniera esigente, un invito all'azione. [...] Ê
troppo facile scaricare sugli altri la responsabilità delle ingiustizie, se non
si è convinti allo stesso tempo che ciascuno vi partecipa e che è necessaria
innanzi tutto la conversione personale".
Questa che ho citata è una delle più
belle e coinvolgenti definizioni della politica democratica in cui mi sia mai
imbattuto. Capite? La politica è molto più che accreditare proposte altrui
tracciando un segno su una scheda elettorale o di referendum. Occorre una
"conversione", vale a dire un profondo cambiamento di mentalità, che
è anche conversione alla democrazia. È tanto facile, oggi, accodarsi a chi
facilmente la diffama, innanzi tutti ai populisti di ogni colore, i quali sono
accomunanti da uno stesso rifiuto dei processi democratici e la cui
proposta si riduce in definitiva ad una sola: far fare tutto a loro,
rinunciando ad altra partecipazione che non sia quella di dar loro via libera.
Da dove inizia il nostro dovere
di cittadini? Dall'informarsi, dal capire il tempo in cui si vive. La prima
colpa la dovremmo, allora, riconoscere quando, da ragazzi, passando al primo
anno delle superiori, buttiamo o vendiamo i libri di storia del triennio delle
medie inferiori, uno strumento essenziale per capire. Così facendo, rinunciando
allo sforzo di capire, innanzi tutto facendo memoria, ci mettiamo nelle mani
della politica spregiudicata, a cui basta il nostro voto ma a cui di noi non
importa nulla. Per convincerci, se non ci fortifichiamo preparandoci, le basta
poco, quel tanto che è sufficiente al successo di una campagna pubblicitaria
commerciale, basata sull'emotività e su meccanismi logici elementari. Se io
dico, ad esempio: "la ricchezza prodotta nell'ultimo trimestre è aumentata
più delle aspettative e ciò è avvenuto dopo le riforme attuate
da un certo governo, quindi accade a causa di quelle
riforme", sostengo una cosa che potrebbe non essere vera, perché ciò che
viene prima non è sempre causa di ciò che
viene dopo, ma potrebbe essere vera però non fare onore a quel governo, se, ad
esempio, nelle altre nazioni vicine la ricchezza fosse aumentata di più. Questo
significherebbe che l'aumento più contenuto della ricchezza che si è avuto da noi
è colpa, non merito, di quel governo.
Da come viene posta la questione, cambia il risultato. E spesso viene posta nel
modo più conveniente a chi vuole il consenso della gente. Se uno è un cittadino
un po' superficiale, e non è mai bene esserlo nelle cose importanti, e non va a
verificare, corre il rischio di accreditare come un merito di un governo ciò
che invece potrebbe essere addirittura una colpa, o, forse, più probabilmente,
se l'entità della variazione è piccola e si riferisce ad un periodo molto breve,
ad esempio uno "0,qualche cosa" in un trimestre, non dipendere
dal!'azione di quel governo, ma da altri fattori.
Un buon cittadino deve
impegnarsi ad essere meno superficiale: ma questo, a ben considerare, dovrebbe
essere anche una qualità della persona religiosa, la quale vuole essere
addirittura capace di incontrare l'eterno lì dove apparentemente non c'è nulla,
perché, come è scritto, "Nessuno l'ha mai visto".
96. Fare politica
Non basta interessarsi di politica, occorre
"fare" politica. Ci insegnano che è anche un dovere religioso. Spesso
invece lo si ritiene una colpa in religione. Bisognerebbe tenere separate
politica e religione, si sostiene. Se esaminiamo i documenti della
dottrina sociale possiamo facilmente renderci conto che non è questo
l'insegnamento del magistero. Ad esempio, nella lettera apostolica Octogesima
adveniens - Approssimandosi l'ottantesimo [anniversario della prima
enciclica sociale moderna, la Rerum novarum - Le
novità, diffusa nel 1891 dal papa Leone 13^], del papa Giovanni
Battista Montini - Paolo 6^ in religione, diffusa nel 1971 leggiamo:
"L'attività economica rischia di
assorbire, se eccede, le forze e la libertà. È la ragione per cui si palesa
necessario il passaggio dall'economia alla politica. [...] ciascuno sente che nel
settore sociale ed economico , sia nazionale che internazionale, l'ultima
decisione spetta alla politica. Questo, in quanto è il,vincolo naturale è
necessario per assicurare la coesione del corpo sociale, deve avere per scopo
la realizzazione del bene comune.
[...]
È a tutti i cristiani che noi
indirizziamo, di nuovo e in maniera esigente, un invito all'azione [...] È
troppo facile scaricare sugli altri la responsabilità delle ingiustizie, se non
si è convinti allo stesso tempo che ciascuno vi partecipa e che è necessaria
innanzi tutto la conversione personale [...] nella diversità delle
funzioni,delle organizzazioni, ciascuno deve precisare le proprie
responsabilità e individuare, coscienziosamente,le azioni alle quali egli è
chiamato a partecipare. Nelle situazioni concrete e tenendo conto delle
solidarietà vissute da ciascuno, bisogna riconoscere una legittima varietà di
opzioni possibili. Una medesima fede cristiana può condurre a impegni diversi.
La Chiesa invita tutti i cristiani al duplice compito di animazione e di
innovazione per far evolvere le strutture e adattarle ai bisogni
presenti."
Un invito all'azione è
più di un invito a informarsi, anche se lo comprende, perché è
vano agire senza aver prima capito. La politica si fa collettivamente. Non è
politica l'opinione che uno ha della politica. In quanti bisogna essere
per fare politica? Direi almeno in due, purché si tratti
di un rapporto vero, umano, forte, non virtuale, come invece sono quelli che si
formano mediante internet. Si deve convivere, perché è appunto
nella convivenza che si affrontano realmente i problemi politici, vale a dire
quelli di governo delle società umane. Essi sorgono molto presto, fin da
bambini, nelle prime esperienze sociali, le quali, ognuno lo sa bene, contengono
quasi tutti i problemi politici delle società maggiori. È da quel momento che
occorre iniziare a fare politica e, quindi, che occorre
anche insegnare a fare politica. Ad esempio a
non dare ascolto a chi vorrebbe spingerci a dare il peggio di noi stessi. Così
poi, da adulti, ci si sarà fortificati e si saprà come reagire di fronte a
proposte analoghe. Non è in fondo questa la morale, il profondo insegnamento,
di un libro come Pinocchio, che è per i bambini, ma anche per
adulti ridivenuti bambini? Non è mai bene acciaccare al muro i grilli
parlanti. È in definitiva questo che si è fatto quando,
all'invito del nostro padre Francesco di accogliere, proteggere,
promuovere, integrare, i migranti e i rifugiati, gli si è replicato
con una specie di pinocchiesco "Chetati , grillaccio del
malaugurio!", invitandolo a farsi gli affari suoi e a rimanersene
chiuso in Vaticano, "perché non possiamo accogliere tutta
l'Africa". In effetti non tutta l'Africa è giunta da noi in
un anno, ma, è stato osservato, più o meno tante persone quante ne potrebbero
contenere due stadi di calcio. E non è nemmeno tutta l'Africa che si sta
spostando verso l'Europa, quindi dai posti più poveri del pianeta ad uno dei
posti più ricchi, e certamente il più sicuro per viverci. Ma indubbiamente vi
sono veramente molti sofferenti in viaggio: non li si dovrebbe carcerare
solo per questo, dice il nostro padre Francesco, ( "evitare ogni forma
di detenzione in ragione della loro condizione di migranti"), ma
le cronache ci dicono che in Libia, con i cui governanti abbiamo recentemente
raggiunto accordo riguardo alle migrazioni umane, è proprio questo che sta
accadendo, mentre l'Italia sta anche intervenendo militarmente laggiù. Sono in
questione principi umanitari molto importanti, ma anche prettamente religiosi.
Scrive il nostro padre Francesco, nel Messaggio per la Giornata mondiale
de rifugiati 2018: "Ogni forestiero che bussa alla nostra porta è
un'occasione di incontro con Gesù Cristo, il quale si identifica con lo
straniero accolto o rifiutato in ogni epoca (confronta Mt 25,35.43).
Nulla di nuovo per la verità.
L'attuale Papa non fa che ribadire, precisandolo, l'insegnamento del suo
predecessore Montini, il quale, nella lettera apostolica che ho sopra citato,
scriveva, nel 1971, in un tempo in cui i tra i migranti da proteggere vi era
ancora tanta gente nostra:
"Pensiamo altresì alla
situazione di un gran numero di lavoratori emigrati, la cui condizione di
stranieri rende ancora più difficile, da parte dei medesimi, ogni
rivendicazione sociale, nonostante la loro reale partecipazione allo sforzo
economico del paese che li accoglie. È urgente che nei loro confronti si sappia
superare un atteggiamento strettamente nazionalistico, per creare uno statuto
che riconosca il diritto all'emigrazione, favorisca la loro integrazione,
faciliti la loro promozione professionale e consenta a essi l'accesso a un
alloggio decente dove, occorrendo, possano essere raggiunti dalle loro
famiglie.
A questa categoria si
aggiungono le popolazioni che, per trovare lavoro, sottrarsi a una catastrofe o
a un clima ostile, abbandonano le loro,regioni e si trovano sradicate presso
altre genti."
Perché Pinocchio dà ascolto ai
cattivi compagni? Perché è solo di fronte a loro e, in fondo, sta bene cosi. Ne
ha avuto abbastanza dei grilli parlanti. Se ne va, allora, al Paese dei
balocchi, spregiando i suoi doveri. Era diventato umano, da burattino che
era, ma, così facendo. diventa addirittura animale, un somaro. Recupererà
l'umanità quando recupererà la capacità di misericordia, dandosi da fare per il
padre. Ma, e questo nel Pinocchio di Collodi non c'è, non ci
si può riuscire rimanendo da soli: da soli ci prende la paura e allora finiamo
nelle mani di chi si attacca alle nostre paure per spingerci al male, per
convincerci che non c'è altra strada per salvarci che essere cattivi, che
scegliere il pace, ad esempio sostiene che tutta l'Africa sta
venendo da noi e allora noi dovremmo, per non farci travolgere, per questo
negare la cittadinanza a chi cittadino lo è ormai di fatto, perché parla come
noi, pensa come noi, vive come noi, e dá il suo contributo al bene comune; e
negare qualsiasi impegno per quelli che soffrono nella migrazione, e sono anche
carcerati all'estero. La nostra salvezza dipende dalla pace, ma, questo ci
insegnano i nostri maestri religiosi, non c'è pace duratura senza fraternità
universale. Se oggi respingiamo chi invoca il nostro aiuto, poi introduciamo in
società un principio malvagio che ci si potrebbe ritorcere contro, quando
saremo noi ad essere nel bisogno. E a noi italiani sta già accadendo con
l'uscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea. La condizione dei nostri
giovani emigrati per lavoro in quella nazione si sta facendo precaria.
97.Informarsi, conoscere, capire
Di solito gli adulti pensano di saperne
abbastanza sulla società intorno. Quando però parlano tra loro scoprono tante
curiosità non appagate. Non è sempre chiaro come funzionano le cose. Dove e
come informarsi meglio?
Se una persona rimane da sola,
non sempre avverte la necessità di sapere di più. Questo accade anche se la
maggior parte delle relazioni che si hanno avvengono telematicamente, in gruppi
sociali collegati mediante applicazioni internet. Questo perché, aderendo ai
vari gruppi, ci si seleziona, si è molto simili in tutto, e ciò che si
sa In genere basta. A quei gruppi va bene una definizione delle
masse che le chiama "folle solitarie", perché, anche se si dialoga
convergendo in un'applicazione, non ci sono mai vere relazioni personali.
Queste ultime sorgono solo quando ci si incontra realmente, faccia a faccia.
Nel governo della società
occorre sapere di più e, innanzi tutto, conoscerla meglio. In un regime
democratico non è cosa da specialisti, ma compito, e addirittura dovere, di
tutti. Non solo di quelli che possono votare alle elezioni, ma di tutti quelli
che compongono la società e che con i loro comportamenti la determinano. Si
partecipa alla società fin da bambini e anche se non si è cittadini. E il
governo popolare di una società non si fa solo votando alle elezioni. Uno dei
modi più importanti in cui si partecipa alla società è da lavoratori e da
consumatori. Il lavoro comprende anche quello che si fa creando e organizzando
un'impresa, vale a dire una collettività
che si dedica alla produzione e al commercio. Il sistema sociale delle
relazioni tra lavoratori e e consumatori costituisce il mercato, che ai tempi
nostri è esteso a tutto il pianeta, vale a dire su scala "globale". È
regolato da norme giuridiche, parte delle quali sono di origine pubblica, sono
imposte dalle leggi degli stati e da accordi internazionali, e parte sono
concordate dai privati. Un esempio di queste ultime sono i contratti che
firmiamo quando compriamo un servizio telefonico, come un numero di telefono
cellulare.
Ai nostri tempi le relazioni
di mercato tendono a influenzare quelle politiche, che riguardano il governo
della società. La legge fondamentale del mercato è quella del più forte, che
non significa necessariamente il migliore. Gli operatori più forti sono in
grado di influenzare il mercato e addirittura di determinare il comportamento
dei consumatori, creando nuovi bisogni sociali. La politica regola il mercato
in modo che questa legge sia moderata da norme che impediscano ai più forti di
mangiarsi tutto. Se però la politica si fa più debole, e, in particolare, più
debole nei confronti del mercato, allora può accadere che i più forti sul
mercato divengano anche i più forti in politica. Essi però agiscono
essenzialmente nel proprio interesse, mentre in democrazia la politica dovrebbe
operare nell'interesse di tutti. Mirano al "profitto" che è la
differenza tra quanto si ricava dal commercio sul mercato dei prodotti e quanto
si è speso nella produzione (i costi). Chi opera sul mercato, anche i
consumatori, tende al profitto maggiore. E gli operatori più forti sul mercato
tendono a persuadere i consumatori che acquistando un certo prodotto avranno un
profitto, anche se magari esso non c'è, o è minore dei quello prospettato o ha
molte controindicazioni, ad esempio danni per la salute. Le norme della
politica servono anche a impedire che la pubblicità, che può essere molto
convincente, non inganni il consumatore. Se però il mercato prevale sulla
politica, anche questa attività regolatrice di farà più debole. Governi meno
attenti all'utilità pubblica si sono fatti, anzi, un vanto di aver
"deregolamentato". È accaduto, in particolare negli anni '80. I
politici più importanti che seguirono in quegli anni quella linea furono il
presidente statunitense Ronald Reagan e il primo ministro britannico Margaret
Thatcher. Essi confidarono nella capacità dell'economia di autoregolarsi e di
creare ricchezza per tutti, pur se ciascun operatore mirava solo al proprio
profitto, al proprio interesse.
La dottrina sociale dà invece
l'indicazione di regolare l'economia in modo che non danneggi il bene comune.
Assegna questo compito alla politica, che in democrazia è compito di tutti.
Leggiamo ad esempio nella
lettera apostolica Octogesima Adveniens - Approssimandosi
l'ottantesimo [anniversario dell'enciclica Rerum novarum - Le
novità, diffusa nel 1891 dal papa Leone 12^], diffusa nel 1971 dal
papa Giovanni Battista Montini, Paolo 6^:
46.L'attività economica [...] rischia
di assorbire, se eccede, le forze e la libertà. È la ragione per cui si palesa
necessario il passaggio dall'economia alla politica [...] ciascuno
sente che nel settore sociale ed economico, sia nazionale che internazionale,
l'ultima decisione spetta al potere politico".
L'appello alla politica chiama in
causa tutti noi che, nel partecipare alla società, ad esempio da consumatori,
siamo anche agenti politici. Siamo convinti che sia bene che la politica, vale
a dire ciascuno di noi, possa regolare i fatti economici o, invece, riteniamo,
come Reagan e Thatcher, che le leggi del mercato debbano fare il loro corso
fino alle ultime conseguenze e che la società debba fare un passo indietro?
Questo un primo tema su cui intendersi, innanzi tutto sulla base della nostra
concreta e quotidiana esperienza. L'alternativa è attualissima ed è
rappresentata oggi dalle linee del presidente statunitense Donald Trump e del
Papa Francesco. Quest'ultimo, nella sua enciclica Laudato si' del 2015, non fa
che ribadire l'insegnamento sociale dei suoi predecessori, in particolare gli
sviluppi della dottrina sociale dal 1941. Dobbiamo però vagliare razionalmente
le argomentazioni proposte, perché è da queste che, trattandosi di materia
sociale e non di dottrina di fede, deriva la loro autorevolezza. Ma come farlo
senza una sufficiente informazione, rimanendo soli o al più parti di folle
solitarie su internet? Il lavoro che c'è da fare ci spinge quindi ad incontri
reali e sistematici, per arrivare a persuaderci di un certo orientamento e a
determinarci di conseguenza. Un'attività che può senz'altro farsi in
parrocchia, fin dalla prima formazione alla fede, tenendo conto che la dottrina
sociale non è fatta per un pubblico di esperti, ma per tutti.
98. Usare l'intelligenza
Usare l'intelligenza fa parte
dei doveri politici di tutti. È una fatica che i populisti, quelli che
pretendono da noi mani libere confermandoci nelle nostre paure e
incoraggiandoci a cedere alle nostre peggiori tentazioni, vorrebbero
risparmiarci. Lasciando loro le mani libere, finiremmo poi nelle loro mani. E
in che mani! Gente che non sente scrupoli a usare le maniere forti con chi sta
peggio e che ci propone di fare lei in società, per conto nostro, il
lavoro sporco che ci ripugna, assicurandoci che non saremo tra quelli
abbandonati. Possiamo credere loro? Una volta introdotto un principio disumano,
di abbandonare i sofferenti al loro destino, quello poi si diffonde come un
cancro, guastando la società. E la sofferenza tocca a tutti. A quel punto si
vorrebbe solidarietà. Ma in nome di che? In un sistema in cui tutto ha un
prezzo, bisogna avere di che pagarlo. E se non se ne ha o non se ne ha
abbastanza? Potremmo scoprire che la società, caduta in mano ai populisti, non
è più "casa nostra". E che "casa nostra" è ormai solo la
nostra condizione di sofferenza e che noi siamo diventati, per la società
intorno, gli scarti da rimandare a mani vuote "a casa loro". Troppo
tardi, per noi, ci potremmo convincere che le cose sarebbero potute andare
diversamente, solo se avessimo, al tempo giusto, voluto seguire gli
insegnamenti dei nostri buoni maestri, come è ai tempi nostri il nostro Padre
Francesco, disinvoltamente svillaneggiato sui giornali della nostra destra.
Egli non fa che confermare l'insegnamento dei suoi predecessori. In politica
occorre usare l'intelligenza, la testa e non la pancia, la ragione e non
l'emotività. Questo per convincerci che non c'è alcuna via di salvezza per
l'umanità che quella di seguire la via dei veri valori, quelli che l'animo
religioso ritiene donati agli umani per virtù soprannaturale. Quelli che ci
portano a distaccarci dalle leggi violente della natura, dove prevale il più
forte. Se noi ci facciamo come bestie, rinunciando al l'intelligenza, avremo il
destino delle bestie. Ma un'umanità di otto miliardi di umani non può
sopravvivere se governata da bestie e riducendo a bestie gli umani.
Di questo si tratta per esteso
in molti documenti di quel magistero che viene indicato come dottrina sociale.
Leggiamo ad esempio nell'enciclica Pacemaker in terris - La pace sulla
terra, diffusa nel 1963 dal papa Giuseppe Angelo Roncalli, regnante in
religione come Giovanni 23^:
"4. Una deviazione, nella quale
si incorre spesso, sta nel fatto di poter regolare i rapporti di convivenza tra
gli esseri umani e le rispettive comunità con le stesse leggi che sono proprie
delle forze e degli elementi irrazionali di cui risulta l'universo; quando
invece le leggi con cui vanno regolati gli accennati rapporti sono di natura
diversa, e vanno cercate là dove Dio le ha scritte, cioè nella natura umana.
Sono quelle, infatti, le leggi
che indicano chiaramente come gli uomini devono regolare i loro vicendevoli
rapporti nella convivenza; e come vanno regolati i rapporti fra i cittadini e
le pubbliche autorità all'interno delle singole comunità politiche; come pure i
rapporti fra le stesse comunità politiche; e quelli tra le singole persone e le
comunità da una parte, e dall'altra la comunità mondiale, la cui creazione oggi
è urgentemente reclamata dalle esigenze del bene comune universale.
5. In una convivenza ordinata e
feconda va posto come fondamento il principio che ogni essere umano è persona
cioè una natura dotata di intelligenza e di volontà libera; e quindi un
soggetto di diritti e doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente
dalla sua stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali,
inviolabili e inalienabili.
Che se poi si considera la
dignità della persona umana alla luce della rivelazione divina, allora essa
appare incomparabilmente più grande, poiché gli uomini sono redenti dal sangue
di Cristo, e con la grazia sono divenuti figli e amici di Dio e costituiti
eredi della gloria eterna."
99. Uguali in dignità
Voglio ricordare questa
affermazione, che si legge al n.5 dell'enciclica La pace sulla terra -
Pacem in terris, diffusa nel 1963 dal papa Giuseppe Angelo Roncalli,
regnante in religione come Giovanni 23^:
"In una convivenza ordinata e
feconda va posto come fondamento il principio che ogni essere umano è persona
cioè una natura dotata di intelligenza e di volontà libera; e quindi un
soggetto di diritti e doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente
dalla sua stessa natura: diritti e doveri che sono perciò universali,
inviolabili e inalienabili."
Essa è molto importante perché
contiene la definizione di persona in senso insieme religioso,
filosofico, ideologico e politico. Quanto a quest'ultimo, esso
deriva dal fatto che, nell'impostazione del Roncalli, che è poi quella della
dottrina sociale moderna, il principio della dignità della persona deve
essere posto a base di una convivenza ordinata, che comprende
appunto ogni comunità politica, ad ogni livello. Si è parlato, a proposito
dell'orientamento espresso nell'enciclica che ho citato, di principio
personalistico. In politica esso trova un antecedente fondamentale in
questa affermazione contenuta nella Dichiarazione di indipendenza degli
Stati Uniti d'America, del 1776, nel punto dove si proclama:
"Consideriamo evidente [=che non
ha bisogno di essere provato] che tutti gli esseri umani siano stati
creati uguali, dotati dal loro creatore di alcuni inalienabili
diritti, e tra di essi quello alla vita, alla libertà e al perseguimento
della felicità".
Si tratta di un principio che
in Italia è attualmente legge fondamentale della Repubblica, agli articoli 2 e
3 della Costituzione. Inteso in tutta la sua estensione fonda un orientamento
di solidarietà umana che va molto oltre quello che consegue alla cittadinanza
di uno stato e ha di mira la pace universale, l'unica condizione in cui gli
esseri umani possono essere veramente felici. È appunto in questo modo che
viene insegnato nella dottrina sociale. Esso, mediante l'azione determinante
dei cattolici democratici è stato posto alla base della realizzazione del
processo di unificazione europea. Avendo perseguito con determinazione la
pace a livello continentale, proprio dove fin dall'antichità si era avuta una
serie praticamente ininterrotta di guerre, si è effettivamente prodotto un
periodo di pace molto lungo in Europa, come mai era accaduto prima, tanto che
oggi, in Italia, chi ha meno di ottanta anni o giù di lì non ha memoria personale
della guerra. Per un cittadino degli Stati Uniti d'America, ad esempio, è molto
diverso, perché la sua nazione ha vissuto pochi periodi di pace e anche oggi
vive il pericolo di diverse guerre contemporaneamente. Anche per l'Europa la
situazione sta però cambiando. Un focolaio di guerra è in atto, ad esempio,
in Ucraina tra stati in cui prevalgono i cristiani. Ma gli europei sono
impegnati in guerre in Afghanistan e in Siria e stanno intervenendo anche in
Libia.
È chiaro che l'affermazione
della dignità inalienabile degli esseri umani non ha mai impedito ai
democratici statunitensi, come ad altri democratici nel mondo, fatta eccezione
per la nostra nuova Europa, di fare guerra. L'apporto caratteristico del
pensiero sociale orientato dalla nostra fede è stato invece quello di inserire
la pace tra i diritti umani fondamentali. L'idea è che la dignità della persona
non sia compatibile con l'azzardo morale della guerra, con lo sterminio di
altri esseri umani. Questa dottrina politica è piuttosto recente anche in
religione. Gli stessi papi nel medioevo proclamarono delle guerre. Le ultime a
cui parteciparono come sovrani politici furono nel 1848 la prima guerra
d'Indipendenza italiana, con l'invio di un corpo militare nel lombardo-Veneto
contro gli austroungarici, al quale fu però impartito l'ordine di ritiro prima
che avesse impegnato il nemico (ordine che non fu obbedito dal capo della
spedizione), e nel 1849 e nel 1870 la difesa della città di Roma
rispettivamente dai rivoluzionari mazziniani e dall'esercito del Regno
d'Italia. La svolta si ebbe durante la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) e fu
preceduta dalla riflessione filosofica e politica del pensiero sociale
cristiano e preparata da una dichiarazione del papa Benedetto 15^ del 1917,
contenuta in una lettera ai capi delle nazioni in guerra, in cui definì la
guerra che si stava combattendo, la Prima Guerra Mondiale, una "inutile
strage".
La responsabilità delle
persone di fede è maggiormente coinvolta in politica proprio perché è con il
contributo determinante del pensiero religioso che nell'era contemporanea è
scaturita l'idea di realizzare in concreto una politica di pace a livello
mondiale come parte dei diritti umani inalienabili degli esseri umani. In
passato l'aveva proposta, ad esempio, il filosofo cristiano Immanuel Kant
(1724-1804), nel libro Per la pace perpetua, del 1795.
100. Veramente uguali
Si legge
nell’enciclica Pacem in terris - La pace
sulla terra, diffusa nel 1963 dal papa Giuseppe Angelo Roncalli, regnante in religione come Giovanni 23°:
“4. Una deviazione, nella quale si incorre spesso, sta nel fatto
che si ritiene di poter regolare i rapporti di convivenza tra gli esseri umani
e le rispettive comunità politiche con le stesse leggi che sono proprie delle
forze e degli elementi irrazionali di cui risulta l’universo; quando invece le
leggi con cui vanno regolati gli accennati rapporti sono di natura diversa, e
vanno cercate là dove Dio le ha scritte, cioè nella natura umana.
Sono quelle, infatti, le leggi che indicano chiaramente come gli
uomini devono regolare i loro vicendevoli rapporti nella convivenza; e come
vanno regolati i rapporti fra i cittadini e le pubbliche autorità all’interno
delle singole comunità politiche; come pure i rapporti fra le stesse comunità
politiche; e quelli fra le singole persone e le comunità politiche da una
parte, e dall’altra la comunità mondiale, la cui creazione oggi è urgentemente
reclamata dalle esigenze del bene comune universale.”
e poi:
“5. In una convivenza ordinata e feconda va posto come fondamento
il principio che ogni essere umano è persona cioè una natura dotata di
intelligenza e di volontà libera; e quindi è soggetto di diritti e di doveri
che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura:
diritti e doveri che sono perciò universali, inviolabili, inalienabili.
Che se poi si considera la dignità della persona umana alla luce
della rivelazione divina, allora essa apparirà incomparabilmente più grande,
poiché gli uomini sono stati redenti dal sangue di Gesù Cristo, e con la grazia
sono divenuti figli e amici di Dio e costituiti eredi della gloria eterna.”
Definire l’essere umano, ogni essere umano, persona nel senso sopra
precisato, significa proclamare il principio dell’uguaglianza in dignità tra
gli esseri umani. Nella visione della dottrina sociale esso non varia a seconda
dei rapporti stabiliti tra gli esseri umani. Nell’enciclica sono ricordati
tutti: a) quelli vicendevoli tra le persone, b) quelli tra le persone e le
autorità politiche; c) quelli tra le comunità politiche, d) quelli tra le
persone e la comunità mondiale ed e) quelli tra le comunità politiche e la
comunità mondiale. Il nostro magistero insegna che, in ognuna di quelle relazioni
sociali, si è sempre persona nello
stesso modo, con gli stessi diritti e doveri
universali, inviolabili, inalienabili. Una conseguenza è che, per la
dottrina sociale, se si finisce nelle mani di una comunità politica diversa da
quella di origine, non per questo si è meno persona
quanto a quei diritti e doveri fondamentali. Ai tempi nostri, tra le comunità
politiche più ricche del mondo, come è la società italiana, si dissente su
questa applicazione del principio di uguaglianza. Di fatto si vorrebbe limitare
quest’ultima ai cittadini, ma se questa eccezione riguarda i diritti
fondamentali, quelli che la dottrina sociale definisce universali, inviolabili e inalienabili, lo si fa non solo violando
l’etica religiosa, ma anche le norme fondamentali vigenti, a cominciare dalla
Costituzione della Repubblica, la quale all’art.2, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia
come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, richiedendo, contemporaneamente, indipendentemente dalla condizione di
cittadinanza, l’adempimento dei
doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. Ma la violazione riguarda anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione
Europea, anch’essa legge vigente in
Italia. Essa stabilisce l’inviolabilità della dignità umana estendendo esplicitamente,
in merito, ad ogni persona umana la
condizione di uguale dignità
sociale, anche con riferimento a
diritti fondamentali previsti espressamente dalla nostra Costituzione per i
cittadini (ma riconosciuti per via interpretativa anche agli stranieri dalla
giurisprudenza della Corte Costituzionale).
TITOLO III
UGUAGLIANZA
Articolo 20
Uguaglianza davanti alla legge
Tutte le persone sono uguali davanti alla legge.
Articolo 21
Non discriminazione
1. È vietata qualsiasi
forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il
colore della pelle o l'origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche,
la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di
qualsiasi altra natura, l'appartenenza ad una minoranza nazionale, il
patrimonio, la nascita, la disabilità, l'età o l'orientamento sessuale.
2. Nell'ambito
d’applicazione dei trattati e fatte salve disposizioni specifiche in essi
contenute, è vietata qualsiasi discriminazione in base alla nazionalità.
Articolo 22
Diversità culturale, religiosa e
linguistica
L'Unione rispetta la diversità
culturale, religiosa e linguistica.
Articolo 23
Parità tra donne e uomini
La parità tra donne e uomini deve
essere assicurata in tutti i campi, compreso in materia di occupazione, di
lavoro e di retribuzione.
Il principio della parità non osta al
mantenimento o all'adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore
del sesso sottorappresentato.
Siamo veramente convinti della pari dignità sociale delle persone? E se
sì, siamo disposti ad agire conseguentemente? E se non lo siamo, come la
mettiamo con la religione e la legge?
E’ diverso agire in un certo modo perché si è
convinti di fare il giusto o solo perché si temono le sanzioni per le
violazioni. Se poi si è partecipi di una democrazia di popolo, in cui si tiene
conto degli orientamenti della gente, potrebbe avvenire che le leggi, anche
quelle molto importanti, vengano sostanzialmente disapplicate. Durante il
regime fascista, quando vennero imposte per leggi discriminazioni sociali
contro gli ebrei, accadde che molta gente rifiutò di applicare quelle più dure.
Ora qualche volta sembra accadere l’opposto. Certe cose ripugnano, ma c’è che
si propone di farle per nostro conto, senza che personalmente ci si debba sporcare
le mani. Basta che si faccia fare a loro, senza legar loro le mani con
questioni di principio. Abbiamo istintivamente paura del diverso e loro ci
confermano che abbiamo ragione di temere.
Sì, è vero, i più di noi temiamo per il futuro. Ce lo dicono i
sociologi: viviamo una condizione di insicurezza sociale. Eppure le nostre
società sono tra le più ricche del mondo. Com’è che, in società tanto ricche,
c’è tanta gente che sta male e le autorità dichiarano di non avere di che
pagare i servizi sociali per la collettività? Si sta male e allora chi può, in
particolare i più giovani, emigrano. Lo possono fare liberamente nell’Unione
Europea, perché è un diritto che è stato loro riconosciuto. Non vengono
respinti, ma si trovano nella condizione di doversi trasferire all’estero. Non
li rimproveriamo per questo. In altre nazioni europee il fenomeno è stato molto
più imponente. Del resto il diritto di migrare è previsto da un’altra importante convenzione
internazionale che è diventata legge
dello stato, il Protocollo n.4 addizionale della Convenzione dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali:
art.2, comma 2: Ogni persona è libera di
lasciare qualsiasi Paese compreso il proprio”. I giovani europei migrano,
ma di solito non rischiano la vita se non lo fanno. Molti di quelli che,
rischiando la vita in lunghi viaggi per terra e per mare, giungono alle nostro
frontiere, o vengono intercettati mentre vi stanno arrivando, invece fuggono da
condizioni sociali tali a mettere in pericolo le loro vite. Da stati dove non è
possibile procurarsi ciò che è indispensabile per vivere, in cui le abitazioni
sono malsane, in cui non ci si può curare, in cui non ci si può procurare
un’istruzione sufficiente. E’ chiaro che usiamo due principi diversi per
valutare le condotte dei nostri cittadini che emigrano e quelle di quegli
altri. E’ in questione la vita, quindi si tratta di diritti fondamentali. Ma
quali sono le cause che costringono la gente a emigrare? Alcuni studiosi ci
dicono che le cause sono le stesse per i nostri cittadini e per quegli altri e
che è un’illusione pensare di risolvere il problema solo respingendo chi a
rischio della vita certa di arrivare da noi. Occorre riformare profondamente i
sistemi economici, sociali e politici che causano il problema. E occorre farlo
su scala globale, perché il problema si è fatto globale. Chi si trova in
condizione privilegiata, perché si è trovato inserito nella parte giusta del
mondo, o è riuscito ad esservi ammesso, rifiuta di doveri di solidarietà inderogabili per soccorrere quegli altri
che sono rimasti esclusi, che quindi risultano essere uno scarto del sistema. Ce ne ha
parlato il nostro Padre Francesco
nell’enciclica Laudato si’, del 2015.
O invece pensiamo che il mondo debba andare così come va, così come vengono i terremoti
e non ci si può fare nulla se non cercando di mettersi in salvo e di scampare
alla morte? Ma come la mettiamo con il fatto che i sistemi sociali sono
integralmente una costruzione umana? Hanno una storia, cambiano, possono
cambiare in un senso o nell’altro, in peggio o in meglio. E’ dalla metà degli
scorsi anni ’80 che stanno cambiando in senso sfavorevole ai lavoratori che
lavorano alle dipendenze altrui. In particolare si è passati da rapporti di
lavoro più stabili a rapporti meno stabili. E il potere di acquisto dei salari
è costantemente diminuito, salvo che per le categorie che si trovavano in
rapporti di forza favorevoli o che hanno potuto conservare meccanismi di
adeguamento automatico.
Tutte le questioni a cui ho accennato rientrano in quelle comprese nel
tema della giustizia sociale. Quest’ultimo è in
genere ritenuta collegato a quello della pace,
nel senso che storicamente non si è mai riusciti ad assicurare veramente la
pace senza creare condizioni di
giustizia sociale. Ecco come se ne parla nell’enciclica La pace sulla terra:
Secondo giustizia
51. I rapporti fra le comunità politiche vanno inoltre regolati
secondo giustizia: il che comporta, oltre che il riconoscimento dei vicendevoli
diritti, l’adempimento dei rispettivi doveri.
Le comunità politiche hanno il diritto all’esistenza, al proprio
sviluppo, ai mezzi idonei per attuarlo: ad essere le prime artefici
nell’attuazione del medesimo; ed hanno pure il diritto alla buona riputazione e
ai debiti onori: di conseguenza e simultaneamente le stesse comunità politiche
hanno pure il dovere di rispettare ognuno di quei diritti; e di evitare quindi
le azioni che ne costituiscono una violazione. Come nei rapporti tra i singoli
esseri umani, agli uni non è lecito perseguire i propri interessi a danno degli
altri, così nei rapporti fra le comunità politiche, alle une non è lecito
sviluppare se stesse comprimendo od opprimendo le altre. Cade qui opportuno il
detto di sant’Agostino: "Abbandonata la giustizia, a che si riducono i
regni, se non a grandi latrocini?".
Certo, anche tra le comunità politiche possono sorgere e di fatto
sorgono contrasti di interessi; però i contrasti vanno superati e le rispettive
controversie risolte, non con il ricorso alla forza, con la frode o con
l’inganno, ma, come si addice agli esseri umani, con la reciproca comprensione,
attraverso valutazioni serenamente obiettive e l’equa composizione.
Nell’enciclica Laudato si’, del nostro
padre Francesco, questo lavoro di realizzare la pace nella giustizia è
assegnato a tutti noi, a ciascuno di noi e noi nelle collettività di cui siamo
partecipi, nel quadro di uno sforzo di conversione:
218 Ricordiamo il modello di san Francesco d’Assisi, per proporre
una sana relazione col creato come una dimensione della conversione integrale
della persona. Questo esige anche di riconoscere i propri errori, peccati, vizi
o negligenze, e pentirsi di cuore, cambiare dal di dentro. I Vescovi
dell’Australia hanno saputo esprimere la conversione in termini di
riconciliazione con il creato: «Per realizzare questa riconciliazione dobbiamo
esaminare le nostre vite e riconoscere in che modo offendiamo la creazione di
Dio con le nostre azioni e con la nostra incapacità di agire. Dobbiamo fare
l’esperienza di una conversione, di una trasformazione del cuore».[ Conferenza dei Vescovi Cattolici
dell’Australia, A New Earth. The
Environmental Challenge (2002).]
219. Tuttavia, non basta che ognuno sia migliore per risolvere una
situazione tanto complessa come quella che affronta il mondo attuale. I singoli
individui possono perdere la capacità e la libertà di vincere la logica della
ragione strumentale e finiscono per soccombere a un consumismo senza etica e
senza senso sociale e ambientale. Ai problemi sociali si risponde con reti
comunitarie, non con la mera somma di beni individuali: «Le esigenze di
quest’opera saranno così immense che le possibilità delle iniziative
individuali e la cooperazione dei singoli, individualisticamente formati, non
saranno in grado di rispondervi. Sarà necessaria una unione di forze e una
unità di contribuzioni». Romano Guardini, Das Ende der Neuzeit, 72 (trad.
it.: La fine dell’epoca moderna,
66).La conversione ecologica che si richiede per creare un dinamismo di
cambiamento duraturo è anche una conversione comunitaria.
Ecco, politica è anzitutto costruire quelle reti comunitarie virtuose a cui
l’enciclica si riferisce. Ogni ideologia democratica è partita da questo.
FINE