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Azione Cattolica è azione nella società democratica
(26 settembre 2012)
Le associazioni e i
movimenti ecclesiali hanno sempre qualcosa che è comune a tutti e qualcos’altro
che è peculiare di ciascuno di essi. Qual è lo specifico dell’Azione Cattolica?
L’Azione Cattolica
nasce nel Novecento per confrontarsi con le democrazie popolari di massa da
persone di fede. Essa venne costituita dal papato, quindi dall’autorità
ecclesiale, sulla base di un vivace movimento sorto tra il laici cattolici
italiani nel corso dell’Ottocento. L’ “azione” che c’è nella sua denominazione
è dunque essenzialmente quella nella società.
Si tratta di
un’associazione di laici convinti della propria fede e persuasi che democrazia
ed esperienza religiosa non siano in antitesi. L’idea fondamentale alla base dell’esperienza
associativa è che i valori della fede possano plasmare la società civile
attraverso l’opera di laici che cooperano democraticamente con le altre forze
sociali, in un contesto istituzionale democratico. L’Azione Cattolica non ha
scopi puramente difensivi degli interessi della Chiesa come istituzione, né è
volta ad assoggettare la società civile al governo dell’autorità ecclesiastica.
Non mira a ritornare ai tempi passati, non è quindi una forza reazionaria. E’
non è nemmeno una forza conservatrice, perché, in particolare dopo il Concilio
Vaticano 2°, è impegnata nella riforma sociale secondo gli ideali evangelici:
in questo senso è un movimento che punta a un miglioramento, quindi a un
progresso, della società civile.
Nell’esperienza di
Azione Cattolica è molto importante l’approfondimento delle verità di fede come
parte di una spiritualità che cerca un’adesione consapevole e informata alla
religione professata. E tuttavia quello in Azione Cattolica è un impegno che
presuppone una formazione catechistica precedente. Non è quindi caratterizzata
da un percorso di iniziazione religiosa. Si entra già persuasi della propria
fede.
Gli associati
nell’Azione Cattolica partecipano alle attività liturgiche e di formazione
della Chiesa, ma ciò che caratterizza veramente il loro impegno, quello che è
loro peculiare, è l’impegno collettivo e individuale nella società in cui
vivono da laici, con piena cittadinanza. L’Azione Cattolica non è quindi
un’aggregazione che vuole costituire un’alternativa a quel tipo di impegno, un
mondo chiuso in sé stesso dove sviluppare la propria socialità e la propria
personalità. I momenti di incontro che si hanno nell’associazione sono diretti
a migliorare l’azione nella società che c’è fuori, in cui gli aderenti vivono,
da laici, nella famiglia, nel lavoro, nella cultura, nella politica.
Detto ciò, è chiaro
che nei gruppi spesso si sperimenta una certa distanza tra gli ideali
associativi e la realtà particolare. Accade anche a noi, in San Clemente Papa?
L’età media del nostro
gruppo è piuttosto alta: in che cosa ci differenziamo da un “gruppo anziani”?
Giovani e anziani
possiamo riscoprire di avere tra noi, nella nostra esperienza associativa, un
tesoro prezioso da preservare, che è quel modo di impegno nella società, da gente
di fede, di cui dicevo. Qualcosa che ci è proprio e che non ha attualmente
sostitutivi. Qualcosa che è ancora necessario alla Chiesa di oggi.
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3
Agire da gente di fede nella società democratica di oggi
(29 settembre 2012)
In una società
ordinata democraticamente le moltitudini dei cittadini hanno la possibilità di
influire di più sul corso delle cose. E ci sono valori da definire, perché,
quando si comanda in molti, bisogna trovare un accordo per rispettarsi a
vicenda e poi su quello che deve essere fatto e su come farlo, e infine per
stabilire come si forma la volontà di tutti, che necessariamente deve, alla
fine, essere unitaria. In una monarchia assoluta, come ce ne sono state in
passato e come ce ne sono ancora (poche,
non so se si arriverebbe a cinque volendo fare l’inventario), è diverso. Decide uno solo, o meglio, spesso, decide la
famiglia reale o la corte che ruota intorno ad essa e gli altri devono attuare,
con una discrezionalità più o meno ampia. Come una volta si provvedeva a
istruire e formare i giovani rampolli delle famiglie regnanti, così ora questo
lavoro si fa su più larga scala, perché vanno formate all’esercizio della
sovranità le masse dei cittadini. Il sistema dell’istruzione pubblica serve
anche a questo.
L’avvento, dalla fine
del Settecento, delle democrazie, non è stato indolore per la Chiesa cattolica,
mentre non vi sono stati problemi per altre Chiese cristiane, come quelle che
sorressero fin dagli inizi le idealità del nuovo stato federale uscito dalla
rivoluzione nordamericana contro il Regno Unito (“In God we trust – Confidiamo in Dio” fu ed è uno dei suoi motti). Quale ne è stata
la ragione? Il problema è che la Chiesa cattolica era (ed è ancora) ordinata
come una monarchia assoluta. E una di quelle monarchie assolute contemporanee
di cui dicevo l’abbiamo proprio qui a Roma ed è la Città del Vaticano, che la
Santa Sede ha ordinato come un vero e proprio stato, con una propria
costituzione, propri uffici e servizi amministrativi e giudiziari, una propria
polizia e un piccolo (ma molto motivato) esercito.
Con l’avvento, in
Europa, delle democrazie, i cattolici, laici e clero, si posero il problema di
come e su che basi influire in esse. I Papi, nell’Ottocento e fino a metà del
Novecento, considerarono con preoccupazione la politica democratica. Una
pronuncia in questo senso la troviamo ancora agli inizi del Novecento,
rispondendo a che pretendeva di conciliare democrazia e valori esplicitamente
cristiani. Diciamo così i Papi che non si fidavano tanto dei nuovi “sovrani”,
delle masse elevate alla cittadinanza, anche se anche gli antichi monarchi
assoluti avevano dato problemi. In Italia le cose furono complicate dalle
caratteristiche specifiche del nostro processo di unificazione nazionale che,
per il fatto che il Papa era sovrano temporale nel Centro Italia, e soprattutto
possedeva Roma, si svolse anche “contro” la Santa Sede, il cui stato, ad un
certo punto, fu invaso militarmente, con
morti e feriti (Nella Chiesa di San Luigi dei Francesi una lapide li
commemora). La prima presa di posizione pubblica di un Papa che in cui fu
dichiarato che la democrazia il regime politico preferibile risale al 1944
(radiomessaggio natalizio del Papa Pio XII): la trovate sul WEB al seguente indirizzo:
http://www.vatican.va/holy_father/pius_xii/speeches/1944/documents/hf_p-xii_spe_19441224_natale_it.html
La riflessione della Chiesa sui problemi
creati dall’avvento delle democrazie e sulle opportunità determinate
dall’elevazione di moltitudini alla sovranità, con piena cittadinanza, si è
espressa in quel vasto corpo di insegnamenti che va sotto il nome di “dottrina
sociale della Chiesa” e che si suole far partire dall’enciclica Rerum Novarum, del 1891, del Papa Leone
13°. La trovate sul WEB a questo indirizzo:
http://www.vatican.va/holy_father//leo_xiii/encyclicals/documents/hf_l-xiii_enc_15051891_rerum-novarum_it.html
Gli insegnamenti i questa materia vengono
promulgati con autorità dai pontefici e dai vescovi, ma hanno sempre avuto
l’ampia collaborazione dei laici nella loro ideazione e, più di recente, anche
nella loro formulazione. Infatti, quando si deve trattare del mondo fuori dei
templi, quello che nel gergo ecclesiale viene definito “il temporale”, gli
specialisti sono, in fondo, i laici. Questo è stato riconosciuto formalmente in
alcuni importanti documenti normativi del Concilio Vaticano 2°, ma era già una
realtà anche prima.
Oggi la dottrina sociale della Chiesa
cattolica comprende un corpo veramente molto esteso, tanto che se ne è fatto un
compendio, una sorta di testo unico, che sintetizza dichiarazioni solenni che
si sono avute in un arco temporale ormai più che centenario. Lo trovate sul WEB a questo indirizzo:
http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/justpeace/documents/rc_pc_justpeace_doc_20060526_compendio-dott-soc_it.html
Come risulta da quello che ho scritto prima,
il ruolo dei laici, per quanto riguarda l’azione nel sociale negli ordinamenti
democratici, è primario e comprende anche la fase ideativa. Non si tratta solo
di eseguire decisioni prese da altri. Il Papa e i vescovi ci chiedono
espressamente di collaborare con loro a capire i tempi in cui viviamo. Mi fece
molto impressione, quando il mio gruppo F.U.C.I. (gli universitari cattolici)
venne ricevuto dal cardinal Vicario Poletti), sentire che il mio vescovo
dichiarava che noi giovani eravamo i suoi occhi e le sue orecchie
nell’Università. Me ne sentii lusingato ma mi resi anche conto della mia
insufficienza. I tempi nuovi richiedono un impegno maggiore di noi laici: non
possiamo limitarci a farci trascinare da un clero eroico.
E il lavoro nella società richiede soprattutto
un impegno continuo. Le cose non possono essere pensate una volta per tutte. La
dottrina “sociale” della Chiesa, a differenza di quella “teologica”, è infatti soggetta necessariamente a continui
aggiornamenti, perché i nuovi problemi, in particolare nel mondo contemporaneo,
si producono continuamente. Ma su certe cose è necessario riflettere insieme. Nessuno,
come scrisse Hannah Arendt, da solo, senza compagni, arriva ad avere una
visione sufficientemente completa delle cose. Questa è appunto una delle ragioni per associarsi
nell’Azione Cattolica: dare continuità all’impegno di fede nella società civile
democratica e vedere le cose da più punti di vista.
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4
Libertà e democrazia come esperienze collettive di elevazione delle
moltitudini alla piena cittadinanza. Esse contrastano con la nostra esperienza
religiosa?
(30 settembre 2012)
Da Strada verso la libertà di Paolo
Giuntella, Paoline Editoriale Libri, 2004, a pag.36 (ancora disponibile in
commercio ad € 12,00) :
“…presentare una verità
che vi farà liberi come una religione repressiva è quanto di
meno evangelico si possa immaginare. I tarli dell’integralismo e della
mentalità normativa possono ridurre il Vangelo in polvere. No. Tutto al
contrario di quello che dicono i detrattori, il cristianesimo è una grande
esperienza di liberazione interiore. Le Beatitudini sono scritte in positivo, indicano
un modello, una strada: ‘Beati…’. Un’esclamazione di gioia, una speranza. Il
comandamento cardine del Nuovo Testamento, l’amore, indica la forza d’amare, non la forza di non fare. A me piace usare l’espressione
di Martin Luther King, la forza d’amare (che è poi una delle possibilità di tradurre
il vocabolo indiano non violenza;
l’altra è la forza della verità),
proprio perché c’è una proiezione dell’amore in fare, in azione, in forza,
appunto, e non in sdolcinatezza, in sentimentalismo. Dunque amore come energia
creativa, come forza della creatività, come costruire, tessere, unire: una
coppia di innamorati, un gruppo di persone (una comunità), un popolo, il genere
umano”.
Quando,
in occasione di incontri religiosi, si affronta il tema della libertà, molte
volte si comincia con l'elencarne i danni, si prosegue con il fissarne limiti
precisi e si conclude che la vera libertà sta nel decidere liberamente di
obbedire. Non è così? Questa impostazione crea qualche problema nel trattare
dell’esperienza religiosa nelle società ordinate come democrazie di popolo e,
in particolare, per stabilire se democrazia e religione possano andare
d’accordo. Un argomento in contrario viene tratto dal fatto che, pur se oggi
riconosce che la democrazia è il regime politico preferibile per la società
civile, la nostra Chiesa al suo interno non è
ordinata democraticamente e non vuole esserlo.
La libertà di tutti, dei popoli interi, è uno
degli aneliti fondamentali delle democrazie moderne e, in particolare, delle
democrazie di popolo contemporanee, che si propongono di elevare alla piena
cittadinanza le masse, senza distinzione tra le persone che le compongono.
E’ scritto nell’art.3, 2° comma, della nostra Costituzione, legge fondamentale
della Repubblica italiana:
“E’
compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale,
che, limitando di fatto la libertà e
l’uguaglianza dei cittadini,
impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione
di tutti i lavoratori all’organizzazione
politica, economica e sociale del Paese”.
In questa norma è chiaramente espresso
l’impegno democratico, che in Italia è un obbligo di legge per tutti, di
elevazione delle moltitudini alla piena cittadinanza, senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, condizioni
personali e sociali, che è come dire alla sovranità comune. Un bel rovesciamento di prospettiva rispetto, ad
esempio, alla condizione degli ultimi nelle monarchie feudali, nelle quali il
potere emanava dall’alto, e poi veniva, come dire, delegato in parte a persone
inserite in diverse posizioni decrescenti di una scala gerarchica in cui, più
in basso di tutti, c’erano moltitudini fatte di chi non contava nulla ed era
semplicemente dominato da quelli che stavano sopra!
In una preghiera di origine evangelica che
recitiamo ogni giorno nella liturgia delle Ore, ai Vespri, il Magnificat, c’è qualcosa che richiama
quell’idea. In greco fa kazèilen dinàsta
apò trònon/ kài ùpsosen tapinùs, che viene tradotto nella Bibbia CEI 2010
con ha rovesciato i potenti dai troni/ha
innalzato gli umili. La diversità di questa concezione rispetto a quella
democratica sta nel fatto che in quella biblica il risultato è soprannaturale mentre nell’altra è
prodotto da un’azione collettiva e consapevole, da una rivoluzione, dal basso. Rivoluzione ha significato spesso violenza
tra le persone e per questo motivo la Chiesa cattolica, tanto più in quanto
storicamente, fin dalla rivoluzione francese della fine del Settecento, ha
fatto le spese di simili moti, ha posto un’obiezione morale contro di essa. E
tuttavia in un ordinamento democratico contemporaneo certi cambiamenti, certe
riforme anche radicali, possono essere attuati senza violenza, anzi questa è
una delle caratteristica salienti dei regimi politici di questo tipo. Ciò
avviene perché, nella concezione contemporanea, la democrazia integra in sé
anche un sistema molto esteso di valori, che viene definito come quello dei diritti umani: non è fatta solo della
regola per la quale decide la maggioranza.
Molte cose sono infatti sottratte all’arbitrio delle maggioranze. Ad esempio il
principio supremo dell’uguaglianza tra le persone umane. Ed è proprio per
questo che ai tempi nostri l’azione democratica costituisce un’opportunità
importante anche per chi abbia una concezione religiosa della vita e, in base
ad essa, ritenga che le società umane di oggi possano essere migliorate. Uno
dei più importanti auspici che troviamo nella dottrina sociale della Chiesa
espressa dal Concilio Vaticano 2° in poi è quello che i laici cattolici,
cooperando con altre formazioni nella società civile, riescano a introdurre nei
principi fondamentali degli ordinamenti democratici valori tratti dalle idee religiose, mediati, quindi, come dire, tradotti
in modo che possano essere compresi e accolti anche al di fuori della Chiesa,
con l’impiego del discorso razionale e della cultura nel dialogo con le altre
componenti della società. Per riunire intorno ad essa le forze sociali, i
popoli e, al limite, l’intero genere umano, come scrisse Giuntella. Questo lavoro è centrale in Azione Cattolica. Esso
non è altro che l’espressione della missione della Chiesa nel mondo, tra le
genti.
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Fede religiosa, uguaglianza e democrazia: relazioni in veloce evoluzione
(1 ottobre 2012)
dal Catechismo della
Chiesa cattolica (1992) n.1934 e 1935 (nella Parte terza: La vita in Cristo; Sezione
seconda: La vocazione dell’uomo: la vita nello spirito; Capitolo secondo: La
comunità umana; articolo 3: La giustizia
sociale; paragrafo 2°: Uguaglianza e differenze tra gli uomini:
1934.
Tutti gli uomini, creati ad immagine dell’unico Dio e dotati di una medesima
anima razionale, hanno la stessa natura e la stessa origine. Redenti dal
sacrificio di Cristo, tutti sono chiamati a partecipare della medesima
beatitudine divina: tutti, quindi, godono di una eguale dignità.
1935.
L’uguaglianza tra gli uomini poggia essenzialmente sulla loro dignità personale
e si diritti che ne derivano:
“Ogni genere di discriminazione nei
diritti fondamentali della persona […]
in ragione di sesso, della stirpe, del colore, della condizione sociale, della
lingua o della religione, deve essere superato ed eliminato, come contrario al
disegno di Dio” [dalla Costituzione
pastorale Gaudium et spes del
Concilio Vaticano 2°, 29],
Dunque il principio dell’uguaglianza
universale degli esseri umani, fondamento delle democrazie popolari
contemporanee, è oggi legge anche della Chiesa cattolica, in quanto sancito
dalla Costituzione pastorale Gaudium et
spes, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), e dal Catechismo della chiesa cattolica, il quale è molto di più di un
semplice sussidio per l’iniziazione religiosa, ma è anche un documento
normativo, promulgato dal papa Giovanni Paolo 2° con la Costituzione Apostolica
Fidei depositum, dell’11 ottobre 1992 (alcune modifiche furono
apportate in occasione della pubblicazione dell’edizione tipica latina, il 15
agosto 1997).
La formulazione di quell’ideale di uguaglianza
sociale che troviamo nella Gaudium et
spes è simile a quella che si legge
nell’art.3, comma 1° della nostra Costituzione (deliberata dall’Assemblea
costituente il 22 dicembre 1947 ed entrata in vigore il 1 gennaio 1948), la cui
elaborazione iniziò durante i lavori della prima sottocommissione della
Commissione per la Costituzione dell’Assemblea costituente (luglio 1946 –
gennaio 1948) in cui i cattolici erano ben rappresentati, in particolare dai
democristiani Umberto Tupini, che la presiedeva, Giorgio La Pira (al quale si
deve la formulazione dell’art.2 della Costituzione), Giuseppe Dossetti, Aldo
Moro e Camillo Corsanego. E sostanzialmente essa richiama l’analoga
formulazione che troviamo nell’art.2, 1° comma, della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo
(approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10-12-1948):
1. Ad ogni
individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati nella presente
Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di
sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di
origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione.
Ora, vi propongo un lavoro comune, perché, in
tutta sincerità non ho la sapienza necessaria per fare asserzioni sicure sul
tema: cercate nella storia ormai bimillenaria della nostra Chiesa dichiarazioni
normative (atti dei papi, dei concili, dei vescovi) analoghe a quella che trascrivo nuovamente,
della Gaudium et spes, in
materia di uguaglianza: “Ogni genere di discriminazione nei diritti
fondamentali della persona […] in
ragione di sesso, della stirpe, del colore, della condizione sociale, della
lingua o della religione, deve essere superato ed eliminato, come contrario al
disegno di Dio”.
Vi sarò grato se mi farete conoscere il
risultato della vostra ricerca.
Intanto ricordo che il 12 marzo del 2000,
durante il Grande Giubileo dell’anno 2000,
il papa Giovanni Paolo 2° presiedette una solenne liturgia penitenziale
denominata Preghiera universale –
Confessione delle colpe e richiesta di perdono, che comprese la seguente
parte:
[…]
VI. CONFESSIONE DEI PECCATI CHE HANNO FERITO LA DIGNITÀ DELLA DONNA E
L'UNITÀ DEL GENERE UMANO
Un Rappresentante della
Curia Romana:
Preghiamo per tutti quelli che
sono stati offesi
nella loro dignità umana e i cui diritti sono stati conculcati;
preghiamo per le donne troppo spesso umiliate ed emarginate,
e riconosciamo le forme di acquiescenza
di cui anche cristiani si sono resi colpevoli.
Preghiera in silenzio.
II Santo Padre:
Signore Dio, nostro
Padre,
tu hai creato l'essere umano, l'uomo e la donna,
a tua immagine e somiglianza
e hai voluto la diversità dei popoli
nell'unità della famiglia umana;
a volte, tuttavia, l'uguaglianza dei tuoi
figli non è stata riconosciuta,
ed i cristiani si sono resi colpevoli di atteggiamenti
di emarginazione e di esclusione,
acconsentendo a discriminazioni
a motivo della razza e dell'etnia diversa.
Perdonaci e accordaci la grazia di guarire le ferite
ancora presenti nella tua comunità a causa del peccato,
in modo che tutti ci sentiamo tuoi figli.
Per Cristo nostro Signore.
R. Amen.
R. Kyrie, eleison; Kyrie, eleison; Kyrie,
eleison.
Viene accesa una lampada
davanti al Crocifisso.
…
Orazione
conclusiva
Il Santo Padre:
O Padre misericordioso,
tuo Figlio Gesù Cristo, giudice dei vivi e dei morti,
nell'umiltà della prima venuta
ha riscattato l'umanità dal peccato
e nel suo glorioso ritorno chiederà conto di ogni colpa:
ai nostri padri, ai nostri fratelli e a noi tuoi servi,
che mossi dallo Spirito Santo
ritorniamo a te pentiti con tutto il cuore,
concedi la tua misericordia e la remissione dei peccati.
Per Cristo nostro Signore.
R. Amen.
Il Santo Padre in segno di
penitenza e di venerazione abbraccia e bacia il Crocifisso.
BENEDIZIONE
E INVIO
12
marzo 2000
Il Santo Padre:
Il Signore sia con voi.
E con il tuo spirito.
Vi benedica il Padre che ci ha
generati alla vita eterna.
Amen.
Vi benedica il Cristo che ci ha
fatti suoi fratelli.
Amen.
Vi benedica lo Spirito Santo
che dimora nel tempio dei nostri cuori.
Amen.
Vi benedica Dio onnipotente,
Padre e Figlio e Spirito Santo.
Amen.
Fratelli e sorelle,
questa liturgia che ha celebrato la misericordia del Signore
e ha voluto purificare la memoria
del cammino dei cristiani nei secoli
susciti in tutta la Chiesa e in ciascuno di noi
un impegno di fedeltà al messaggio perenne del Vangelo:
mai più contraddizioni alla carità
nel servizio della verità,
mai più gesti contro la comunione
della Chiesa,
mai più offese verso qualsiasi
popolo,
mai più ricorsi alla logica della
violenza,
mai più discriminazioni, esclusioni,
oppressioni,
disprezzo dei poveri e degli ultimi.
E il Signore con la sua grazia
porti a compimento il nostro proposito
e ci conduca tutti insieme alla vita eterna.
Amen.
La proclamazione
dell’uguaglianza universale degli esseri umani è oggi quindi parte della
dottrina sociale della Chiesa, un principio promulgato con la massima autorità:
quella di un Concilio ecumenico e di un papa. Il papa Giovanni Paolo 2°, con le parole pronunciate nel 2000 al termine
della preghiera universale di confessione delle colpe e richiesta di perdono ha
anche assegnato a tutti noi fedeli, e in particolare a noi laici che operiamo nel “temporale”, cioè al di
fuori della sfera liturgica di competenza canonica dell’autorità ecclesiastica
e del clero, un compito molto chiaro, da
svolgere con determinazione e senza cedimenti
o arretramenti (“mai più…”),
anche in materia di realizzazione dell’uguaglianza sociale universale.
C’è ancora
molto da fare, sia dal punto di vista pratico che da quello teorico, ideativo.
Ma molto indubbiamente è stato fatto.
Considerate
ad esempio quante volte nel Catechismo della Chiesa cattolica (1992 –
1997) ricorre il tema dell’uguaglianza. E’ una ricerca che possiamo fare
agevolmente mediante l’indice tematico. Dunque il termine ricorre cinque volte
ai numeri:
n.369:
riguarda l’uguaglianza tra uomo e donna;
n.872: non riguarda l’uguaglianza nella società civile, ma il
contributo all’edificazione del Corpo di Cristo, quindi alla missione della
Chiesa;
n.1935
(sopra citato)
n.2273:
se ne parla con riguardo ai diritti del nascituro;
n.2377: se ne parla con riferimento alle pratiche di inseminazione e
fecondazione artificiali omologhe.
In sostanza il tema dell’uguaglianza è considerato nel
senso a cui vi si riferiva il citato brano della Gaudium et spes solo
nel n.1935, poche righe.
Molto di più
vi è nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa, pubblicato nel
giugno 2004, che raccoglie precedenti dichiarazioni del magistero dei pontefici
e dei concili. Si tratta di uno strumento molto utile per avere una visione
d’insieme e coordinata dei temi in esso trattati, tra i quali, appunto, quello
dell’uguaglianza e soprattutto per collegare certe importanti affermazioni alle
fonti da dove derivano.
1965 – 1992
– 1997 – 2000 – 2004: mi pare che si possa rilevare una veloce (tenendo conto
dei tempi occorrenti solitamente nelle cose di religione) evoluzione della
concezione delle relazioni della nostra fede con i temi dell’uguaglianza sociale
e, conseguentemente, della democrazia che anche su di essa di fonda.
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6
La libertà come opportunità religiosa in democrazia
(1 ottobre 2012)
Il nuovo colosso
Non come lo sfacciato gigante di bronzo della gloria greca,
piantato a soggiogare la terra da un confine all’altro,
qui sulle rive della terra d’Occidente si ergerà
una donna potente con una torcia, la cui fiamma
racchiude il fulmine, e il suo nome è
Madre degli Esuli. Dal faro che ha in mano
lampeggia il benvenuto a genti di tutto il mondo;
gli occhi suoi dolci dominano il ponte sospeso
che unisce due quartieri della città.
“Tenetevi pure, terre
antiche, il vostro fasto leggendario!” ella grida
con labbra silenziose. “Datemi
chi tra voi è esausto e povero,
le vostre masse che
si accalcano nell’anelito di libertà,
i miseri rifiuti della vostre popolose terre.
Mandatemi quelli che non hanno più casa e gli
sventurati,
innalzando la mia
luce mostrerò loro la porta d’oro!”.
Emma Lazarus, 1883 (traduzione mia)
Avvicinandosi dal
mare e dal cielo alla città statunitense di New York, risalta la gigantesca
statua eretta a fino Ottocento alla foce del fiume Hudson per celebrare
l’indipendenza degli Stati Uniti
d’America, conosciuta come la Statua
della Libertà: raffigura una donna coronata che innalza una torcia con il
braccio destro e nell’altro tiene un libro sul quale è incisa la data
dell’indipendenza americana dal Regno Unito, il 4 luglio 1776; ai suoi piedi vi
sono catene infrante; è la raffigurazione della Libertà che illumina il mondo.
Sul suo piedistallo sono incisi gli ultimi versi della poesia Il nuovo colosso, della poetessa
americana Emma Lazarus, che sopra ho evidenziato in neretto (l’antico colosso
greco menzionato nel primo verso della lirica era quello, raffigurante il dio Sole – Helios, eretto nel porto della città di
Rodi nel terzo secolo dell’era antica). Comunemente quel monumento è ritenuto
un simbolo degli Stati Uniti d’America, ed è vero, ma rappresenta anche
qualcosa di molto più profondo: infatti ricorda che la guerra di indipendenza
delle colonie nordamericane combattuta nel Settecento contro i britannici fu
una vera e propria rivoluzione, motivata non solo dalla volontà dei coloni di
comandare a casa propria, ma anche da quella di creare un mondo nuovo, con
altri principi rispetto a quelli che dominavano la monarchia europea che
pretendeva di continuare a dominarli; quel proposito che nella poesia è
espresso con il voler aprire la “porta
d’oro” a quelli che oltremare erano considerati rifiuti umani. La Libertà
simboleggiata in quella statua è quindi quella che è associata alla giustizia
sociale ed è molto di più del solo conquistare il potere di decidere che cosa
fare di sé e delle proprie cose, liberandosi in questo dal giogo altrui; non è
solo la liberazione da una lontana monarchia,
è liberazione dal giogo della
diseguaglianza e della discriminazione sociale e anelito ad un nuovo ordine
sociale, ad una nuova condizione di cittadinanza, per dare a tutti
l’opportunità della ricerca della felicità, poiché
gli esseri umani sono stati dotati dal Creatore di certi inalienabili diritti
(così è scritto nella Dichiarazione d’indipendenza americana). La Statua
della Libertà e la dichiarazione di
indipendenza che essa celebra manifestano una caratteristica delle democrazie
moderne che spesso non è bene intesa: esse sono fondate sul desiderio della
libertà dall’ingiustizia sociale e sull’affermazione di diritti umani sottratti
all’arbitrio umano, sia esso quello di un monarca come anche quello di una
maggioranza. Essa ha quindi sostanzialmente carattere religioso perché non
dipende dall’osservazione e accettazione di come vanno le cose di solito, e
infatti di solito vanno diversamente, ma da principi proclamati, attuati e
difesi come assoluti: nella Dichiarazione d’Indipendenza statunitense ciò è
detto chiaramente, vi sono infatti menzionati esplicitamente Dio e altri ideali
religiosi.
Quando si dice che il
cristianesimo è all’origine di importanti valori della nostra civiltà questo è vero anche per quanto riguarda le
democrazie contemporanee, anche se non bisogna dimenticare che esse si sono
spesso imposte contro gli insegnamenti e i divieti delle autorità
ecclesiastiche e che ciò risalta particolarmente nel caso della Chiesa
cattolica. Una delle epoche più problematiche sotto questo profilo fu quella
del ventennio fascista italiano. Ma oggi siamo in un’era diversa, qui in Italia
e ce ne dobbiamo rallegrare. Possiamo parlare di democrazia e religione senza
dover superare divieti della autorità civili
e di quelle religiose. Ci può sembrare una cosa ovvia, ma non lo è. E’ stata
una faticosa conquista, dalla quale non dobbiamo mai accettare di recedere.
Abbiamo quindi, ai tempi nostri, la possibilità, ma anche il compito e il
dovere, di approfondire il tema dell’influsso che come fedeli cattolici
possiamo esercitare per la crescita della società civile e in particolare per
la piena affermazione di quei diritti inalienabili, di quei valori, che sono all’origine delle
idealità democratiche. L’obiettivo, condivisibile anche con coloro che non
hanno le nostre convinzioni di fede, è quello di realizzare, mediante vite
buone, una società in cui sia veramente bello vivere, in libertà e giustizia.
Ciò è parte cruciale dell’impegno in Azione Cattolica.
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7
L’uguaglianza come pari dignità sociale è alla base delle
democrazie di popolo contemporanee
(3 ottobre 2012)
Nel Compendio della dottrina sociale della
Chiesa (2004) si legge una interessante citazione alla nota n.793, a
proposito dell’amicizia civile da
intendere come forma di fraternità alla base della pacifica convivenza sociale:
« “Libertà,
uguaglianza, fraternità’” è stato il motto
della Rivoluzione francese. In fondo
sono idee cristiane » ha affermato Giovanni Paolo II, nel corso del suo primo
viaggio in Francia: Omelia a Le Bourget (1º giugno 1980).
Quelle parole di un papa colpiscono tenendo
conto del carattere marcatamente anticlericale della Rivoluzione francese del
Settecento (1789-1799). E certamente esse non vollero intendere una
giustificazione delle violenze politiche di massa che quei moti espressero o
delle misure restrittive e delle espropriazioni adottate contro la Chiesa
cattolica di allora o degli altri
provvedimenti contro il clero cattolico, ma riconoscere che alcune delle
principali idealità di convivenza sociale manifestate da quei rivoluzionari di
allora corrispondevano anche a principi religiosi cristiani. Naturalmente ai
nostri tempi ci siamo abituati ad una libertà
di espressione del pensiero che nel
Settecento ci sarebbe costata cara. All’epoca non si potevano dedurre liberamente dai principi religiosi certe
conseguenze quanto a riforme sociali.
Quindi dobbiamo capire che certe cose vengono dette talvolta con il senno del poi. E, certo, giudicando con
quel senno del poi, ci possiamo dispiacere che la Chiesa cattolica abbia
espresso non di rado nei secoli passati posizioni arretrate rispetto ad altre
della sua contemporaneità, e lo riconosciamo perché poi ha appunto dichiarato pubblicamente di pentirsene. La
situazione ai nostri giorni è piuttosto cambiata. Mi riferisco ad esempio alla bioetica in cui il pensiero cattolico,
stimolato dal magistero, è all’origine di un importante e fecondo filone
speculativo che ha portato ad approfondire il tema di quando cominci l’umano
che deve essere riconosciuto nella dignità sua propria, o all’etica
dell’economia e dello sviluppo, come quella espressa nell’enciclica pontificia Caritas in veritate (2009), in cui si è presa consapevolezza
dell’esigenza che dall’interdipendenza umana planetaria discenda la necessità
di un nuovo spirito di fraternità globale.
Soffermandoci sul principio di uguaglianza, è
senz’altro vero che esso è alle fondamenta della democrazie popolari
contemporanee, per intenderci quelle basate sul suffragio universale (alle elezioni politiche votano tutti gli
adulti, maschi e femmine, senza distinzione di istruzione, reddito, condizione
sociale o di stirpe) e sui quei principi assoluti, proclamati solennemente
dalla Nazioni Unite nel 1948 nella Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo, che si indicano come diritti umani. Il principio di uguaglianza è uno di essi e viene
così enunciato in quella solenne Dichiarazione,
all’art.2:
1. Ad ogni individuo
spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati nella presente
Dichiarazione, senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di
opinione politica o di altro genere,
di origine nazionale o sociale, di
ricchezza, di nascita o di altra condizione.
2. Nessuna distinzione sarà inoltre stabilita sulla base dello statuto
politico, giuridico o internazionale del Paese o del territorio cui una persona
appartiene, sia che tale Paese o territorio sia indipendente, o sottoposto
ad amministrazione fiduciaria o non autonomo, o soggetto a qualsiasi altra
limitazione di sovranità.
Una delle principali eccezioni al principio di
uguaglianza universale è stata storicamente quella della condizione di
schiavitù, superata solo nel corso dell’Ottocento dagli stati europei ed
americani. Dai film western sappiamo,
ad esempio, che una delle motivazioni che furono alla base del sanguinoso
conflitto detto guerra di secessione
(1861-1865) nordamericana fu la
questione dello schiavismo in danno dei deportati dall’Africa. Lo schiavismo fu
istituzione molto antica ed era molto praticato anche ai tempi delle primitive
comunità cristiane, che non vi videro vero motivo di scandalo. Così, in
particolare, per la gran parte della storia della Chiesa cattolica le autorità
ecclesiastiche non vi videro veramente un problema da punto di vista religioso
se praticato da popoli cristiani (al contrario, ad esempio, di quello praticato
dai predoni saraceni che comportava
l’abbandono della pratica religiosa cristiana). Per quanto ho letto, se ne
cominciarono a occupare dal Cinquecento, di fronte alle morie di massa dei
nativi americani costretti in schiavitù dai colonizzatori europei. Monarchie
cattoliche come quella spagnola e portoghese consentirono la deportazione di
massa di schiavi dall’Africa e la riduzione in schiavitù di masse di nativi
americani. I cristiani europei non furono in genere particolarmente sensibili
al tema fino al Settecento, salvo che nel caso di alcuni spiriti illuminati
(anche del clero) e di alcuni filosofi. Lo schiavismo attuato da cristiani
influenzò profondamente il profilo demografico americano, come si può
constatare facilmente in particolare negli Stati Uniti d’America, nei Caraibi e
in Brasile.
L’uguaglianza tra gli esseri umani non è del resto un dato evidente (un dato è evidente
quando esso ci si impone senza che ci si debba ragionare molto su). La scienza
contemporanea ci dice che gli umani condividono tutto il profilo genetico,
tranne però una piccolissima parte che denota importanti caratteristiche
etniche, familiari e individuali. E certe comuni caratteristiche fisiche e
mentali degli umani erano già chiare ai popoli dell’antichità, come anche però
le differenze tra le persone e i popoli. E’ insomma da sempre esperienza comune
che ognuno di noi nasce e si sviluppa diverso dall’altro, benché simile agli altri. Si tratta di
differenze di stirpe, ma anche di altre
particolarità individuali nella costituzione fisica e di caratteristiche
psichiche, come quelle relative alla struttura e all’orientamento sessuali,
alle quali si aggiungono differenze derivate dalla storia individuale e sociale
della persona. In definitiva si può dire che l’uguaglianza non è in natura, questo sicuramente è evidente, mentre certamente gli umani si assomigliano
gli uni gli altri, anche questo è evidente,
e inoltre che gli umani sono viventi sociali che hanno bisogno gli uni degli altri e quindi si sono reciprocamente
complementari e cercano di organizzare le loro società in modo da sfruttare al
meglio questa loro qualità. Nel mondo di oggi, molto complesso e molto più
abitato da esseri umani che nelle epoche passate, riteniamo generalmente che a
questo fine si debba promuovere l’uguaglianza universale tra gli esseri umani per realizzare società in cui le
opportunità di cooperazione pacifica siano potenziate al massimo. Ci figuriamo
infatti che un conflitto su scala mondiale, data la profonda interdipendenza
della società umane e la potenza degli strumenti di distruzione a disposizione,
porterebbe a una catastrofe che metterebbe addirittura in pericolo la
sopravvivenza dell’intera specie umana sulla Terra.
Faccio un esempio tratto dalla vita quotidiana
di oggi: il mio IPAD è stato ideato negli Stati Uniti d’America, prodotto nella
Repubblica popolare di Cina (lo stato che domina nella Cina continentale) e
venduto in Italia: che succederebbe se scoppiasse un conflitto tra americani e
cinesi motivato dall’annosa rivendicazione di sovranità dei cinesi
sull’isola-stato di Taiwan? Naturalmente possiamo fare un esercizio simile di
previsione anche con riferimento ad altri prodotti di cui non potremmo fare
facilmente a meno, mentre tutto sommato all’IPAD si potrebbe rinunciare.
In che cosa quindi siamo uguali e, innanzi tutto, da
dove deriviamo questa pretesa di
uguaglianza?
In realtà quella all’uguaglianza tra gli
esseri umani è un’aspirazione e un obiettivo, non (ancora) una realtà, né in natura né nelle
società umane, e si fonda sull’idea che essi abbiano pari dignità, vale a dire
che a tutti loro vadano riconosciuti nella
stessa misura alcuni diritti umani
fondamentali. Questa idea, per quanto ho capito, è di origine
specificamente cristiana.
Si legge nel Compendio della dottrina sociale della Chiesa, al n.144:
144 « Dio non fa preferenze di persone » (At 10,34; cfr. Rm 2,11; Gal
2,6; Ef 6,9), poiché tutti gli uomini hanno la stessa dignità di creature a Sua immagine e somiglianza.
L'Incarnazione del Figlio di Dio
manifesta l'uguaglianza di tutte le persone quanto a dignità: « Non c'è più
giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna,
poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù » (Gal 3,28; cfr. Rm
10,12; 1 Cor 12,13; Col 3,11).
Poiché sul volto di ogni uomo risplende
qualcosa della gloria di Dio, la dignità di ogni uomo davanti a Dio sta a
fondamento della dignità dell'uomo davanti agli altri uomini. Questo è, inoltre, il fondamento
ultimo della radicale uguaglianza e fraternità fra gli uomini,
indipendentemente dalla loro razza, Nazione, sesso, origine, cultura, classe.
Quindi: in primo luogo viene in rilievo
l’essere stati tutti creati da Dio, che ci si è manifestato come Padre, e
in secondo luogo la fraternità comune in
Cristo. E, quanto alla condizione di creature, c’è un altro elemento
importante: la convinzione di essere stati creati da Dio a sua immagine, a sua somiglianza (Genesi 1,26).
Riconoscere la pari dignità degli
umani è quindi, nella concezione cristiana, materia di un dovere religioso,
anche se nella storia cristiana sono state riconosciute lecite molte
distinzioni ulteriori, ad esempio quella fra uomo e donna, che sono state poste
alla base di vere e proprie discriminazioni.
Quello che viene espresso nella terminologia biblica, può anche essere detto
così: tutti gli esseri umani devono essere considerati uguali nei
diritti fondamentali. In un caso come nell’altro, sia che la si esprima in
termini religiosi che con altri termini, a questa realtà si crede in modo
religioso, vale a dire a prescindere da quello che si ricava dall’osservazione
delle cose come vanno di solito e, in particolare, della natura, in cui, come ho detto,
l’uguaglianza non esiste e la regola fondamentale è pesce grosso mangia pesce piccolo e sopravvive il più adatto alla
condizioni ambientali e biologiche. Insomma per uno spirito religioso
cristiano l’affermazione della pari dignità creaturale degli esseri umani e
tutto ciò che se ne fa conseguire non è un problema, mentre chi vuol far
discendere quel principio dalla semplice natura,
vale a dire dal nostro essere viventi prodotto della natura, deve affrontare un’insufficienza nel fondamento di quella
pretesa.
Gli illuminati artefici della rivoluzione
nordamericana (1776) della fine del Settecento non trovarono infatti alcun
ostacolo nel proclamare:
We hold these truths to be self-evident, that all men are created
equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable
Rights, that among these are Life, Liberty and the
pursuit of Happiness.
(trad.mia: Crediamo fermamente nell’evidenza di queste verità: che
tutti gli esseri umani sono creati uguali, provvisti dal loro Creatore di alcuni Diritti
inalienabili, e tra essi il diritto alla Vita, alla Libertà
e alla ricerca della Felicità.)
La lotta contro le discriminazioni tra gli
esseri umani nei loro diritti umani è
alla base di molte delle costituzioni delle entità politiche contemporanee, in
particolare di quelle europee e americane e di quelle che a queste ultime si
sono ispirate. L’Unione Europea è tra quelle entità. Bisogna riconoscere che
questa è una materia in cui ci sono state alcune prese di posizione divergenti
tra le autorità civili e quelle religiose. A volte l’affermazione dei diritti
umani è stata considerata antireligiosa. In campo civile si è presa ad esempio
coscienza di forme di discriminazione che la dottrina religiosa non riconosce come
tali. Segnalo solo un problema che è, come si dice, di stringente attualità.
Una di quelle questioni è venuta in rilievo nell’ultima riunione del nostro
gruppo e riguarda la disciplina giuridica delle unioni delle persone
omosessuali. Su di essa ai laici cattolici è lasciata poca autonomia, perché
rientra in quelle riguardanti i valori
non negoziabili, sui quali l’autorità ecclesiastica, con vincolo di
obbedienza canonica, chiede che si segua la sua linea. Ma comunque bisogna
ragionarci su, perché come fedeli laici dobbiamo pur sempre rendere ragione al mondo della nostra
fede e a questo fine non è sufficiente l’argomento “ci è stato ordinato di pensare e di fare così”. Si tratta del resto
di problemi che rilevano ancor più in
materia di fede per la base in fondo religiosa del diritto umanitario.
Nel campo dei diritti umani, le tematiche religiose, e in particolare quelle
cristiane, stanno avendo, un po’ inaspettatamente, una particolare rilevanza
nello sviluppo dell’organizzazione delle società civili più avanzate, in
particolare in Europa. E’ un settore in cui sono chiamati a operare innanzitutto i fedeli laici,
impegnati a spendersi in quello che nel gergo ecclesiale è definita l’animazione del temporale. E’ questo, dall’inizio, uno degli ambiti
spazio in cui l’Azione Cattolica ha deciso di lavorare prioritariamente.
Infondere nelle società civili i valori,
che sono alla base del diritto umanitario, è infatti necessariamente un compito
collettivo, da affrontare insieme,
dopo essersi preparati insieme. Così
anche è da affrontare insieme il
dialogo con altre componenti della società per individuare nelle condizioni
contemporanee altri fattori, oltre a quelli storicamente già noti, che
ostacolino la piena espansione universale della dignità degli esseri umani.
Per molti versi tuttavia in molte realtà
locali il discorso di Azione Cattolica è da riavviare o anche solo da ravvivare, perché nei decenni passati ci si è spesso concentrati su altre tematiche
e altri modi di impegno religioso e si è quindi un po’ perso il senso del
nostro impegno nella Chiesa e nella società civile. Veniamo da lontano, ma
qualche volta appariamo alla gente come un’esperienza nuova, non esattamente in
linea con le altre esperienze di collettività presenti nella vita delle parrocchie.
Ad esempio può apparire che, dove altri mettono l’accento su una disciplina
individuale, noi puntiamo molto sulla libertà delle persone nelle nostre
dinamiche associative, in particolare su quella di pensiero e di espressione.
Eppure la nostra rimane una esperienza di carattere religioso, in cui si vuole
quindi rimanere legati alla fede comune, anche se effettivamente si punta a
scoprire/riscoprire/sperimentare la nostra fede anche come strada verso la libertà, secondo l’espressione di Paolo Giuntella
che ho citato nel post del 1 ottobre
scorso.
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8
Un appello per ripartire insieme
(4 ottobre 2012)
Negli ultimi giorni
ho pubblicato alcuni contenuti in cui ho parlato degli obiettivi peculiari
dell’Azione Cattolica nella società civile democratica di oggi. Può sembrare
una cosa un po’ troppo grande per una realtà parrocchiale come la nostra. E per
le nostre forze in concreto. Per certi versi noi dell’A.C. in San Clemente Papa
siamo un piccolo resto, se ci paragoniamo
a come era anni fa il nostro gruppo. Non abbiamo più una nostra stanza in
parrocchia, di volta in volta ce ne assegnano una. Il nostro assistente
ecclesiastico si trova a volte a parlare a poche persone e può domandarsi se,
in fondo, ne valga ancora la pena. Avere una grande storia non potrà salvarci a
lungo dall’estinzione se il gruppo non
si rivitalizzerà con l’ingresso di nuovi soci, in particolare di soci più
giovani. E’ paradossale che questo accada in un mondo che ha tanto bisogno di
ciò che la Chiesa si propone di dare e in un Chiesa che vuole essere tanto
presente nel mondo, in particolare confrontandosi con le democrazie europee e
l’Unione Europea sul terreno dei valori.
Questo è appunto da sempre il campo specifico dell’Azione Cattolica, l’azione nella società civile per promuovere in essa i valori religiosi.
E’ possibile che non
si abbia ben chiaro, pensando ad un impegno in Azione Cattolica, che cosa si fa nei nostri gruppi e
soprattutto quali risultati si riescano effettivamente ad ottenere. Bene,
innanzi tutto occorre distaccarsi da una mentalità per così dire aziendalistica, per la quale si somma
nei risultati positivi solo tutto quello che si fa sotto il marchio associativo. Noi riuniamo gente che già opera nella società
nei vari ambiti in cui si può farlo: la famiglia, il lavoro, lo sport, la
cultura e via dicendo. Non dobbiamo inventarci cose nuove da fare lì come
Azione Cattolica. Però formandoci e riflettendo in Azione Cattolica, in un
gruppo che è federato in un’organizzazione che ne condivide le idealità, gli
obiettivi e il metodo, possiamo manifestare meglio nel posto che occupiamo
nella società il nostro essere cristiani
e i nostri valori, dialogando con
altri sui temi e i problemi emergenti.
Per questo occorre una preparazione, sia spirituale che culturale, e una
determinazione che scaturisce da una adesione consapevole e convinta ai valori di fede. Non è un lavoro che troviamo già fatto, come se, per ogni
situazione, la nostra Chiesa, il magistero in particolare, potesse fornirci una
sorta di manuale operativo o di catechismo, e poi a noi spettasse solo di
attuare cose decise da altri. Forse, al di fuori del mondo ecclesiale, si pensa
che tra noi cattolici vada così, che insomma si faccia quello che in dettaglio
viene stabilito più in alto nella scala gerarchica, dal Papa in giù. E’ il
pregiudizio che, da cattolico, dovette superare John Kennedy assumendo la
presidenza degli Stati Uniti d’America. In realtà ognuno di noi porta
effettivamente la personale e diretta responsabilità della porzione di mondo
che è sotto la sua sfera di influenza e le soluzioni vanno ideate e
sperimentate di volta in volta, dialogando nella Chiesa e nella società. Se
oggi si dispera di poter cambiare le cose che non vanno a partire dal basso è
perché è un po’ svanito il senso democratico, che comunque pervade sempre la
nostra società, per il quale si è capaci di individuare e capire la dinamica
dei grandi numeri, delle masse, dietro certi cambiamenti storici. Di
convincersi che in democrazia si cambiano effettivamente le cose a partire
dagli sforzi delle persone nella loro particolare, apparentemente umile e insignificante,
storia. Una parte del lavoro che si deve
fare in Azione Cattolica consiste proprio in questo: nel comprendere meglio
quello che l’azione collettiva democratica ha fatto, sta facendo e può ancora
fare per il bene di tutti, per cambiare il mondo. Democrazia è agire in una
collettività rispettando la personalità e i valori degli altri, con la fiducia
di poter cambiare in meglio la società: l’Azione Cattolica concepisce sé stessa
anche come una palestra di democrazia (Atto
normativo Diocesano di Roma). La fiducia nelle potenzialità dell’agire in
democrazia si acquista lavorando insieme ad altri, in un gruppo aperto alla
società, partecipando ad un’azione collettiva spinta da alte idealità, quali
sono quelle religiose.
La
parrocchia è la casa di tutti e tutti possono trovarvi la loro casa, il tipo di
impegno adatto a loro. L’Azione Cattolica è una stanza di quella casa di tutti,
anch’essa quindi è di tutti e per tutti. E
tuttavia il lavoro in un gruppo di Azione Cattolica può non venire incontro
alle esigenze di tutti, perché in primo luogo esso non è volto tanto ad operare
per coloro che ne fanno parte, a risanarli e sorreggerli nella loro psicologia
e nella loro fede, ma per gli altri che non
ne fanno parte, la società intorno, e poi perché non è centrato tanto su
ciò che si fa nel gruppo ma su ciò
che si deve fare fuori di esso, non
però come specifica collettività religiosa, come ditta ecclesiale, ma come parti della società civile. E l’azione
che si cerca di svolgere nella società è innanzi tutto diretta alla promozione
di valori, la specifica forma di apostolato che compete ai laici, non
tanto a suscitare nuove adesioni al gruppo, all’espansione della nostra
particolare realtà associativa. La particolarità della nostra esperienza
associativa sta proprio nell’apertura
alla società civile, non in un modo particolare di vivere la nostra fede inteso
come spiritualità e disciplina individuale o di gruppo, dal momento che esso
non differisce da quello comune della parrocchia. Mi pare di aver capito quindi
che per associarsi in Azione Cattolica occorra: 1)aver già maturato una fede
salda; 2)avere già una formazione catechistica di base; 3) avere un interesse
alla vita della Chiesa, in particolare alla la missione che in essa e fuori di
essa specificamente compete ai laici;
4)avere interesse ad approfondire i temi proposti ai laici dal magistero, per
quella specifica missione dei laici; 5) avere interesse per le dinamiche
sociali contemporanee ed essere inseriti nella vita della società civile, negli
ambiti propri dei laici (famiglia, lavoro, cultura, sport ecc.), in posizioni
in cui si può concretamente influire su di essa. Per tutto ciò che non è di
interesse specifico di un gruppo di Azione Cattolica la parrocchia offre altre
forme di impegno sociale (ad esempio: catechesi per le varie età della vita,
azione caritativa, socialità per il tempo libero, sostegno alla fede e via
dicendo): l’associazione
in Azione Cattolica non è esclusiva e non è totalitaria.
Voglio concludere osservando
questo: per quanto riguarda le fasce d’età 30/50 anni il nostro gruppo deve
ripartire in pratica dall’inizio, si tratta di ripensarlo da capo. Ad esempio,
partecipare ad una riunione con inizio alle ore 17:00 può essere difficile per
persone di quell’età (io ho 55 anni e trovo difficoltà; la mia prole a
quell’ora è quasi sempre impegnata all’università). Ma si possono escogitare
alternative.
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9
Le ragioni di un lavoro insieme
(5 ottobre 2012)
Nei giorni scorsi ho
scritto sull’esperienza associativa in gruppo di Azione Cattolica. E certo ci
si possono immaginare dei risultati. Ma non vorrei dare per scontato che si
abbia chiaro perché, in definitiva, ci si debba unire per ottenerli. Qual è il
movente interiore per fare questo? Non posso vivere la mia fede
nell’interiorità nella relazione che ho saputo costruire con il soprannaturale,
secondo la mia personale concezione? Anche così poi posso manifestare con la
mia vita la fede nell’ambiente in cui vivo e opero.
Da universitario ho
partecipato alle settimane di riflessione che la FUCI – l’organizzazione degli
universitari cattolici – svolgeva ogni anno a Camaldoli, sede di un celebre
monastero di monaci di una congregazione appartenente alla famiglia
benedettina. Lì c’erano alcuni monaci che conducevano vita eremitica da
decenni, vivevano da soli nelle loro casette in cima a un monte e si
ritrovavano insieme di quando in quando di giorno e nella notte solo per la
vita liturgica. Erano persone di fede, indubbiamente, e vivevano la loro
religiosità in quel modo. Bisogna dire però che si sentivano e volevano essere
in unione spirituale con la Chiesa e l’intera umanità. Il loro isolamento era
quindi solo esteriore.
La fede cristiana in
realtà ci spinge gli uni verso gli altri. Questo movimento emerge chiaramente
negli scritti del Nuovo Testamento. In un libretto di Giuseppe Dossetti che ho
utilizzato nelle vacanze per le mia meditazione personale (Giuseppe Dossetti, Eucarestia e città, Editrice A.V.E.,
2011, pagine 131, euro 8) ho trovato questa citazione da un’opera di San
Basilio, una preghiera:
…noi tutti che partecipiamo all’unico pane e all’unico calice, unisci
fra noi nella comunione dell’unico Spirito Santo”.
Essa richiama le
parole di S. Paolo nella prima lettera ai Corinzi (1 Cor 10,17):
Vi è un solo pane e quindi formiamo un solo corpo, anche se siamo
molti, perché tutti insieme mangiamo dell’unico pane (trad.interconfess.
Elle Di Ci / Alleanza Biblica interconfes. 1976).
In parrocchia, prima
della Comunione, recitiamo una preghiera formulata su quelle parole:
Poiché c’è un solo pane per noi tutti, uno
solo è il corpo formato da noi che partecipiamo
al pane unico.
Insomma, mi pare di
aver capito che questa spinta a stare insieme abbia un fondamento teologico e
non sia qualcosa di accidentale ed episodico. Essa ha coinvolto anche me, che
per temperamento non sono particolarmente socievole. Mi sono sempre sentito
arricchito dalle esperienze di fede vissute con gli altri.
In un libro dello
psicoterapeuta Bruno Bettelheim pubblicato nel 1967 ho letto questa
osservazione che ho sentito convalidare la mia esperienza di vita:
La vita interiore, e con essa la personalità, non si sviluppa allo
scopo di ottenere una sempre maggiore ricchezza di sensazioni e di esperienze
interne, ma sostanzialmente per un’altra ragione: per entrare in rapporto con
il mondo esterno nella speranza di poter agire su di esso. Se la personalità
non arriva a questo, non vi è alcuna ragione di sviluppare le strutture
interne. Esattamente come il linguaggio si sviluppa solo se desideriamo
comunicare con qualcuno o comprendere quello che egli ci dice, così la
personalità si struttura solo se desideriamo fare qualcosa a un’altra persona o
con essa o per essa.
[da Bruno Bettelheim, La fortezza vuota, Garzanti editore spa,
1976, pag.64].
Gli studi scientifici
di Bettelheim, in particolare quelli sull’autismo, oggi sono generalmente
ritenuti superati da più recenti acquisizioni e scoperte, ma la sua esperienza
umana, prima di recluso in un campo di
concentramento nazista e poi di medico nel campo della terapia per i bambini
autistici, rimane importante e, per
molti aspetti della vita, illuminante. Tra ciò che si muove dentro di noi e ciò che si muove e che facciamo fuori di noi c’è un continuo e vitale
rimando.
Ma, come ho osservato
prima, non è detto che questo movimento verso gli altri si debba esprimere
necessariamente nell’aderire a un movimento, ad una associazione, ad una
fraternità. Esso può manifestarsi in altre forme, sebbene si ritenga che in
qualche modo debba essere presente, anche, ad esempio, in quelle spiritualità
eremitiche di cui ho detto.
Molte volte una fede
religiosa è produttiva e non si risolve solo nell’interiorità, quella cristiana
stimola poi alla generosità: ognuno sente quindi, ad un certo punto, di avere
qualcosa in sé che può essere non scambiato
ma dato gratuitamente ad altri.
A volte si
concepisce, un po’ superficialmente, la Chiesa come una dispensatrice di beni
spirituali, uno “ci entra” (nella Chiesa intesa come popolo) o “ci va” (nella chiesa intesa come edificio) e prende. A volte c’è anche l’idea di una sorta di
scambio: vado a Messa e deposito la mia offerta nell’apposito contenitore che
gira al tempo dell’Offertorio, poi partecipo alla mensa comune.
Ecco, riunendoci
insieme potremmo ad esempio riflettere se quell’impressione sia corretta e
completa. Non credete che ci sia ancora qualcosa da imparare?
Anticipo la mia
opinione. Nell’esperienza religiosa siamo tutti noi, gente di fede,
dispensatori, perché è come se quello
che ci arriva poi rifluisca intorno e verso gli altri, al modo di un
irraggiamento. Quindi nella Chiesa non
si va solo per ricevere, ma anche per dare, per portare qualcosa, che è
importante per gli altri e li conforta nella loro fede. Un teologo lo saprebbe
dire meglio. Chi vuole può approfondire o chiedere spiegazioni. In parrocchia
può farlo. Ci sono i sacerdoti e catechisti per ogni età della vita. Abbiamo
anche una biblioteca piuttosto fornita (aperta lunedì e mercoledì, ore 16-18).
Ne può discutere anche in Azione Cattolica, nel nostro gruppo, che è sostenuto
dal prezioso apporto dell’assistente ecclesiastico.
Nell’Azione
Cattolica, che è un’associazione che si propone
di diffondere e promuovere valori
cristiani nella società civile, è importante l’esperienza di vita degli
aderenti. E’ questo il materiale prezioso che chi ci viene porta. Non si
aderisce infatti per ricevere dall’alto le soluzioni ai vari problemi e
direttive su che cosa fare fuori, o peggio (solo) moniti e rimbrotti su ciò che
è male, come se ci fossero “istruzioni” precise per ogni situazione, ma per
riflettere insieme, alla luce della comune esperienza civile e religiosa, su ciò che accade e per illuminare vie
praticabili, che poi ognuno proverà a percorrere lì dove concretamente opera,
tornando a riferire ciò che gli è riuscito di fare e di scoprire. In una poesia
che ho trascritto in uno dei passati post,
padre David Turoldo scrisse:
Ancora un'alba sul mondo:
altra luce, un giorno
mai vissuto da nessuno,
Effettivamente il futuro è nostra particolare
e attuale responsabilità, ci avventuriamo in esso al modo di esploratori.
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10
Azione Cattolica: un’esperienza di Chiesa
(7 ottobre 2012)
Non sono di quelli
che, educati nella fede cattolica, poi l’hanno abbandonata o addirittura
rinnegata e vi si sono riavvicinati da adulti o, comunque, crescendo. Con
questo non voglio dire di essere stato una persona esemplare secondo le
esigenze etiche della mia religione. Del resto nessuno si è mai aspettato nulla
di simile da me, anche se sempre mi è stato additato l’obiettivo della santità.
Fin da molto piccolo mi è stato detto che il male nella vita c’è e che ne sarei
stato responsabile anch’io, per cui mi è stato insegnato a individuarlo, a pentirmene e a cercare sempre,
pervicacemente, di cambiare. E’ ciò che
ho fatto, confidando nei preti che ho incontrato e nella Chiesa come essi me la
presentavano, convinta, sulla parola del suo primo maestro, che il male nel
mondo non avrebbe prevalso, quindi anche quello di cui io ero stato artefice.
Così la mia vita di fede in religione è stata improntata a una certa serenità.
E c’è una continuità, mai veramente interrotta, tra la mia esperienza religiosa
di bambino, degli inizi, e quella di oggi, di uomo di mezz’età. Se riprendo in
mano il libretto del catechismo della mia Prima Comunione, che feci in quarta
elementare qui nella nostra parrocchia di San Clemente Papa, e lo leggo oggi da
cinquantenne posso concludere
serenamente con un amen, condivido
ancora tutto quello che c’è scritto. Mi
è sempre venuto naturale essere una persona di fede, non vi ho trovato
alcuna difficoltà, non mi è stato necessario fare particolari sforzi. In questo
penso che la mia vita si differenzi un po’ da altre di cui ho saputo. Ci sono
persone che sono molto più meritevoli di me sotto questo profilo, per aver
dovuto faticare e soffrire molto per giungere dove io sono sempre
tranquillamente rimasto. Quello che ho detto vale anche per la mia esperienza
di Chiesa. L’ho considerata sempre la mia casa, la mia famiglia, dovunque sono
stato. Anche nei periodi della mia vita in cui l’ho frequentata di meno, essa
rimaneva dentro di me, perché non ho mai avuto il dubbio di non farne più
parte. Sono stato scout, fucino, aderente ai Laureati Cattolici – MEIC e
all’Azione Cattolica (della quale FUCI e MEIC un tempo facevano parte), ho
partecipato a diversi gruppi di ispirazione religiosa, parrocchiali e non, e mi è
sempre parso di muovermi da una stanza all’altra delle medesima casa. Ricordo
che una volta, da scout (facevo le medie), condussi la mia squadriglia a
Sulmona, secondo la missione che avevo ricevuto durante un campo estivo sui
monti d’Abruzzo, e chiesi ospitalità al parroco di una chiesa vicina al centro:
lui ci fece dormire, con i nostri sacchi a pelo, nel museo della parrocchia,
che conteneva tante cose preziose; mi diede la chiave e mi disse che sarebbe
ripassato il giorno dopo. Io mi meravigliai di quella fiducia, concessa a
ragazzini che non aveva mai visto prima, e, riflettendoci su nel corso di
quella notte, conclusi che lo aveva fatto perché noi lì eravamo di casa,
eravamo infatti Chiesa, e le nostre divise da scout glielo avevano confermato,
è come se lo avessimo scritto in fronte, come si legge nell’Apocalisse dei
giusti.
Il lavoro che si fa
nella società come Azione Cattolica lo si fa come Chiesa. Non è inutile quindi
confrontarsi sulle nostre esperienze di Chiesa e su che cosa sappiamo della
fede comune su di essa.
Ricordo ancora
quando, da bambino, il parroco mi parlò della differenza che c’era tra “chiesa”
(edificio) e “Chiesa” (gente). Con il Battesimo ero entrato a far parte della Chiesa ed era per questo che
venivo in chiesa. Ne rimasi molto
colpito e per un certo tempo lo andai ripetendo in giro, ai miei coetanei. Poi,
crescendo, ho scoperto che il discorso sulla Chiesa è molto, molto più
complesso. Una volta, mentre ero alle Paoline in via della Conciliazione, notai
un libro di Battista Mondin sulle “ecclesiologie” (le concezioni sulla Chiesa),
lo comprai, lo lessi con una certa difficoltà e scoprii che in giro, sia nella
nostra Chiesa, sia nelle altre Chiese cristiane, c’erano tante idee di Chiesa.
A parte questo, ci sono le varie esperienze individuali e collettive che uno fa
della Chiesa durante la propria vita, che influiscono sul modo di condursi fuori della Chiesa.
Se, ad esempio, una
persona pensa di trovarsi in una sorta di fortezza assediata, con dentro pochi
eroici difensori, un po’ come accadde a Fort Alamo (1836) in cui un piccolo
presidio di secessionisti nordamericani tentò invano di resistere all’attacco
dell’esercito messicano mandato a reintegrare l’unità nazionale, allora sarà portata
a diffidare di tutto ciò che gli viene dall’esterno
e a cercare di fare da sé in ogni cosa, utilizzando solo quello che gli viene di dentro, dal proprio gruppo, dal
proprio ambiente abituale, costruendo
in tal modo una sorta di città di Dio
opposta alla città del diavolo,
quella di fuori. Ci si muove un po’
in quest’ordine di idee nella poderosa opera De civitate dei (trad.Sulla
città di Dio) di S. Agostino di Ippona (5° secolo dell’era antica), scritta
in un tempo in cui l’ordinamento dell’Impero romano era travolto dalle
invasioni di popolazioni del nord Europa.
Sulla dottrina della
fede in merito alla Chiesa ci sono diversi testi fondamentali del magistero
mediante i quali ci si può informare meglio. Ricordo la costituzione dogmatica Lumen Gentium del Concilio Vaticano 2°
(1962-1965), che potete leggere sul WEB a questo indirizzo:
http://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19641121_lumen-gentium_it.html
Avverto
che, trattandosi di un documento normativo, esso è scritto nel linguaggio e con
il metodo della teologia, che potrebbe essere un po’ ostico ai non iniziati.
Della Chiesa si tratta anche, in termini più
accessibili, nel Catechismo della Chiesa cattolica (Parte prima, Sezione
seconda, Capitolo terzo, art.9, numeri da 748 a 975). Lo trovate sul WEB a
questo indirizzo:
http://www.vatican.va/archive/ITA0014/_INDEX.HTM
Se ne tratta in modo più semplice nel
Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica (Parte prima, Sezione seconda,
capitolo terzo, numeri da 147 a 201). Lo trovate sul WEB all’indirizzo:
http://www.vatican.va/archive/compendium_ccc/documents/archive_2005_compendium-ccc_it.html
Leggendo le prime due opere, potrete
constatare che nella nostra Chiesa,
quando si ragiona sulla fede comune, si tiene ben presente tutta la storia
bimillenaria della nostra religione e i testi sacri, citando le fonti da cui si
ricavano certe idee, a cominciare da quelle bibliche. Non si parte mai da zero
e si cerca di tenere tutto insieme.
Nel Compendio, per il carattere sintetico dell’opera, queste citazioni sono di
meno, ma ci sono.
Storicamente
l’Azione Cattolica ha ritenuto di potersi confrontare positivamente con la
società in cui la Chiesa italiana vive: il suo moto fondamentale è stato
quindi, ed è ancora, quello dell’apertura, non dell’opposizione, e questo
naturalmente non significa accettare tutto ciò che gira nel mondo di fuori, ma pensare che certe idee
sulla società che hanno un fondamento religioso possono (ancora) essere diffuse
utilizzando il metodo e i principi della democrazia, sui quali l’ordinamento
della nostra società si basa, e che ciò che si agita nel mondo abbia anche un
significato religioso. Viene in Azione Cattolica chi non pensa di essere nella
condizione di Fort Alamo. L’Europa di oggi, che ha realizzato un lunghissimo
periodo di pace, dopo la serie storica interminabile dei conflitti armati tra i
suoi popoli, e mira ancora alla pace si
fonda su idee cristiane: il Papa e i nostri vescovi non cessano di
ricordarcelo. Spinti dal magistero, in
Azione Cattolica cerchiamo di agire
di conseguenza.
Costruire nella
società per narrare il fondamento della nostra speranza
Continuo le mie
riflessioni sulla base del libretto di
Giuseppe Dossetti Eucaristia e
città, Editrica A.V.E., 2011, euro 8,00, pagine 131.
Non possiamo
ragionevolmente confidare del tutto sull’opera nostra, in particolare sugli
effetti che possiamo produrre nella società. La storia ci insegna che il
progredire dei tempi non significa sempre un miglioramento, un progresso duraturo:
è possibile che si torni indietro e si debba ripartire. E anche in religione ci
viene consigliato di prendere le cose in questo modo. Il fondamento della
nostra speranza non sta in noi stessi. Scrive Dossetti (pag.112):
[…] si deve
inculcare al cristiano che non solo può, ma deve impegnarsi nella storia (secondo la misura dei doni ricevuti e le opportunità pratiche):
ma insieme gli si deve inculcare
che questo
egli deve fare con il massimo distacco possibile: pena la perdita di tutta la credibilità come
testimone ed esploratore dell’invisibile.
In definitiva il nostro atteggiamento
fondamentale di fede nei riguardi delle cose del mondo dovrebbe essere più che
altro quello di una pervicace e
fiduciosa attesa, anche quando tutto ciò che accade e che ci circonda
sembrerebbe disilluderci. Non si rimane inoperosi, ma siamo convinti che non
siamo mai veramente noi che conduciamo la storia verso il suo compimento. Di
questo possiamo aver una conferma per così dire “sperimentale”: tutte le
potenze umane vanno incontro a un ciclo vitale e a processi evolutivi simili a
quelli degli organismi singoli. Nel complesso, tirate le somme, si scopre di
aver vissuto molto condizionati da fattori esterni a noi, la nostra sfera di
influenza, anche come collettività piuttosto numerose, rimane sempre piuttosto
limitata. E’ la sensazione che si ha, ad esempio, durante la crisi economica
globale che è attualmente in corso. E spiegare con precisione il corso delle
cose è sempre piuttosto difficile, quando si ragiona in termini di moltitudini
umane. Poi però, quando ci si bene su è possibile che si riesca a produrre una
interpretazione degli eventi compatibile con l’idea di un disegno
provvidenziale. Quest’ultimo, secondo Dossetti, più che argomentato, quindi compreso con precisione, va piuttosto narrato
e testimoniato. Questo atteggiamento, secondo un pensiero del teologo Jurgen
Moltmann, citato da Dossetti,
[…] rende buona la vita, perché in
questa attesa l’uomo può accettare tutto il suo presente ed avere gioia non solo nella gioia, ma anche
nel dolore e trovare la felicità non solo
nella felicità, ma anche nella sofferenza […] La speranza procede attraverso la
gioia e il dolore, perché può
discernere nella promessa di Dio un
futuro anche per ciò che è transitorio,
moribondo e morto.
La speranza religiosa vive nell’attesa dei
tempi ultimi e non si lascia quindi scoraggiare dagli insuccessi che si vivono
nella propria contemporaneità. E nei successi, che pure sa essere sempre minacciati e caduchi, si
rallegra perche vi vede un’anticipazione di quanto promesso alla fine della
storia.
Proporre alla gente intorno a noi e a noi
stessi una visione della cose improntata a speranza non è solo questione di ragionamenti e di
argomentazioni, ma anche un operare laboriosamente per produrre anticipazioni
di ciò che è promesso per i tempi ultimi, in tal modo dischiudendo a questo mondo l’orizzonte
del Cristo crocifisso mediante una testimonianza
valida (così Moltmann, citato da
Dossetti). Questo un lavoro che si addice bene all’Azione Cattolica: la
caratteristica specifica dell’associazione è di puntare a svolgerlo
collaborando democraticamente con genti di altre mentalità e convinzioni. In
quest’ottica il profano, ciò che si
muove al di fuori delle azioni specificamente liturgiche, ha una valenza
religiosa piuttosto forte. In esso noi cerchiamo pazientemente di rintracciare
e capire quelli che sono stati definiti i
segni dei tempi.
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11
Noi cattolici: cittadini o stranieri nella società in cui viviamo?
(8 ottobre 2012)
L’Azione Cattolica
non avrebbe senso in una società in cui non fosse consentita, in qualche forma,
la partecipazione della gente agli affari pubblici. E infatti, nel periodo più
buio della sua storia, quello che va del 1931 al 1938, essa, in fondo, diventò
un’altra cosa. Nel 1931 le sue sedi vennero attaccate dalle squadre che
costituivano il braccio operativo del fascismo trionfante, nel 1938 iniziò la
presa di distanza dei cattolici italiani dal regime, a causa dell’introduzione
della legislazione discriminatoria contro gli ebrei. Negli anni di mezzo essa
può essere considerata, lo dico un po’ schematicamente e certo vi furono
diverse eccezioni (ad esempio la FUCI e
Movimento Laureati di Azione Cattolica),
una delle organizzazioni popolari di massa che sostenevano il regime
fascista, il quale con i Patti Lateranensi del 1929 aveva raggiunto un
accomodamento con i vertici ecclesiali. Del resto, in quell’epoca, gli italiani
furono effettivamente, nella grande maggioranza, fascisti.
Riprendo a questo
punto alcune delle riflessioni esposte nel libretto di Giuseppe Dossetti Eucaristia
e città, A.V.E. editrice, 2012, euro 8 (che ripropone un intervento
pubblico di Dossetti del 1987).
Nella Bibbia c’è un
certa diffidenza per le città e per gli ordinamenti politici, specialmente
quelli che riunivano molti popoli diversi. La concezione ebraica di città era
molto distante da quella greca, che impronta gli ordinamenti politici
democratici contemporanei. Nella prima la città era essenzialmente un
insediamento chiuso, protetto da alte
mura, in funzione difensiva. Per i greci era principalmente il luogo in cui si
svolgeva la cittadinanza comune, la partecipazione al governo, quindi la politica (dal termine greco pòlis, che significa città). Per certi versi la città, nella
concezione ebraica, è vista anche come luogo di dissoluzione, di violenza e di
presunzione antireligiosa. Le antiche monarchie ebraiche ebbero vita
travagliate e divennero un modello negativo. La stessa Gerusalemme si mostrò
infedele e il suo mito poté essere mantenuto solo idealizzandolo molto (ne
abbiamo un esempio nell’Apocalisse neotestamentaria). In questa concezione lo
spirito religioso sembra svilupparsi meglio nei luoghi isolati, lontani dai
centri urbani, ad esempio nei deserti. Essa, in definitiva, viene confermata
nella prospettiva evangelica. Il regno a cui tendono i discepoli cristiani non è di
questo mondo ed essi nelle società umane in cui vivono si considerano
addirittura come stranieri. Sono infatti
portatori di una forte istanza critica nei confronti degli ordinamenti sociali
e politici che le dominano. Rendono ai potenti della Terra ciò che a loro è
dovuto (a Cesare quel che è di Cesare),
ma, benché sottomessi a loro, non è detto che debbano sempre obbedire. Loro
compito è di predicare a tutte le genti la conversione e il perdono dei
peccati. L’impero romano, in cui si formarono le prime comunità cristiane, un
ordinamento politico plurinazionale e plurietnico che presenta qualche
affinità, se non altro geografica, con l’attuale Unione Europea, venne
concepito come una potenza diabolica, a loro ostile, ebbra del sangue dei santi e del sangue dei martiri di Gesù (Apocalisse
17,6 e 18,2).
Scrive Dossetti,
nell’opera citata (pag.45-46):
Per il regno di Dio e per la città di Dio va ancora fatta una precisazione a scanso di equivoci.
Il regno di Dio è Regno dei cieli: e quindi
viene dall’alto, per volontà e opera di Dio. Non
si realizza e neppure si prepara o si affretta per sinergia umana. E’ un fatto assolutamente sovrannaturale e miracoloso. Non
è un bene comune, architettonicamente
sommo, che si possa gradualmente predisporre per forze creaturali.
Il Regno giunge a noi senza di noi. Il
pensare che noi possiamo attirarcelo e appropriarcelo
è “stoltezza umana, presunzione farisaica, zelotismo raffinato”.
All’uomo compete solo la fedeltà alla Parola,
l’annunzio di essa, la pazienza longanime che
non spegne lo Spirito credendo di accelerarne le operazioni, la ferma fede che
il grano del Regno “cresce da solo” (in
greco: automàte) (Vangelo secondo Marco 4,26- 29).
Anche perché il Regno verrà,
per un decreto del Padre in un momento imprevedibile
“che il Padre ha riservato
alla sua potestà” (Atti degli apostoli 1,6-7).
E allora sarà non il coronamento della storia,
ma la rottura della storia, semplicemente il suo
troncamento, in “ictu oculi” (Prima lettera ai Corinzi 15,52).
Un famoso passo della Lettera a Diogneto, scritto cristiano che si fa risalire al 2° o 3°
secolo della nostra era, è questo:
[I
cristiani] Abitano ciascuno la propria
patria, ma come residenti stranieri; a tutto partecipano
attivamente come cittadini e a tutto assistono passivamente come stranieri; ogni terra straniera è per loro
patria, e ogni patria è terra straniera.
[… ]
Passano
la vita sulla terra, ma sono cittadini del cielo.
Obbediscono
alle leggi stabilite, eppure con la loro vita superano le leggi.
Insomma, concluderei che in religione non
siamo autorizzati a farci troppe illusioni sui risultati delle nostre
costruzioni sociali e, quindi, della nostra azione come cittadini. Non sarà
dalle nostre mani che uscirà il compimento della storia e ogni traguardo che
riteniamo di aver raggiunto non è mai veramente stabile e può essere seguito da
un regresso.
Ma direi anche di più. Nella Bibbia c’è
sicuramente il fondamento del concetto di dignità
dell’uomo dal quale oggi ricaviamo la convinzione giuridica e politica in
certi diritti umani inalienabili, che sono la base delle
democrazie contemporanee, ma la democrazia
non c’è. Tanto è vero che la Chiesa cattolica non trova alcun problema
nell’aver mantenuto un ordinamento interno non democratico. E non ha avuto
alcun problema, come altre Chiese cristiane del resto, ad appoggiarsi, nel
passato, a regimi non democratici, come le monarchie assolute. Il discorso
naturalmente potrebbe essere più ampio, perché nei millenni passati è stata
elaborata anche una dottrina per insegnare che cosa dovesse fare un monarca che
volesse dirsi ed essere riconosciuto come cristiano e quindi anche che cosa si
dovesse fare, da cristiani, per servire quel monarca e via seguitando. Ma in
queste che sono delle specie di note
operative per la nostra situazione concreta di oggi quel discorso non serve.
Io sto prendendo coscienza di questo: la
situazione in cui ci troviamo nell’Europa democratica di oggi non ha precedenti
storici, è qualcosa di totalmente inedito. E bisogna dire che questa realtà
veramente nuova è stata costruita con l’apporto fondamentale del pensiero di
cristiani sulla democrazia e della loro azione politica, di governo delle
società.
Noi, ad esempio, diamo per scontato che questo
lunghissimo periodo di pace, che in Europa si protrae ormai dal 1945, rientri
nella normalità. Ma non è così. Tanto che, quando frequentai le elementari,
nella scuola di piazza Capri, il nostro maestro era solito dirci che dopo
qualche anno saremmo diventati uomini, saremmo andati in guerra, e più o meno
la metà di noi vi sarebbe morta. Le cose, diceva, erano sempre andate così, una
guerra più o meno ogni quindici o vent’anni (e allora si era negli anni
’63-’67). Poi non andò così. L’ultima grande frontiera, edificata tra Est e
Ovest Europa dopo la Seconda guerra mondiale, è caduta nel 1991, senza la
catastrofe che per tanto tempo si era temuta.
Aver realizzato, in democrazia, una potenza di
pace sugli antichi, immensi, campi di battaglia ha un significato per la nostra
vita in religione?
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12
Europa, pace, diritti umani. E noi? Abbiamo vinto il premio Nobel.
(13 ottobre 2012)
Non mi pare che
finora abbia fatto molta impressione il premio Nobel per la pace dato
all’Unione Europea, vale a dire anche a tutti noi italiani, cattolici compresi. La
nuova Europa è infatti innanzi tutto una realtà
di popolo, e di questo c’è veramente scarsa consapevolezza, perché è
fondata, più che su un sistema di relazioni intergovernative per lasciare
libero passo all’economia (questa fu sostanzialmente la caratteristica della
Comunità Economica Europea), sulla proclamazione di un sistema di diritti umani fondamentali (è
una delle caratteristiche fondamentali della nuova organizzazione creata dal Trattato di Lisbona del 2007, entrato in
vigore il 1 dicembre 2009). Essi non sono stati ideati dai vertici
dell’organizzazione europea, ma, prima di essere formulati in un testo
normativo, in quella Carta dei diritti
fondamentale la quale con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona è divenuta legge europea, hanno corrisposto a
un’esigenza forte posta dai popoli ora federati nell’Unione Europea. Su di essa
si è fondata la duratura pace continentale e il processo straordinario di
inclusione di nazioni che per millenni si erano combattute che ha convinto la
celebre istituzione svedese a riconoscerne il merito non a questa o a quella personalità, ma a tutti noi. “Bravi!”, ci hanno detto, “avete
fatto una cosa grande”. E noi? Noi
siamo rimasti perplessi, come è scritto che rimarranno i giusti, quando, alla
fine dei tempi e presentatisi per il giudizio su ciò che sono stati e su ciò
che hanno fatto, verrà loro indicata la porta del Regno beato. Che abbiamo fatto per meritarci questo
apprezzamento? Abbiamo fatto, abbiamo fatto…
Ad esempio noi
cattolici siamo divenuti più tolleranti verso le altre confessioni cristiane e
verso le altre religioni che sono professate nell’Europa di oggi. Non si tratta
di un impegno attuato solo dai capi delle nostre comunità, ma di una pratica
molto diffusa tra le nostre genti, forse anche al di là di una chiara
consapevolezza delle questioni implicate. In certi casi, come nei rapporti con
l’ebraismo, a rapporti di aspra conflittualità è subentrata una franca
amicizia. E’ uno sviluppo veramente importante, tenendo conto che la tremenda
storia europea è stata duramente travagliata da guerre e altre stragi a
fondamento religioso, in particolare nello scorso millennio. Abbiamo costruito
in tal modo una civiltà fortemente inclusiva, in cui questo e quello possono
trovare la loro patria indipendentemente dal loro rapporto con il
soprannaturale, e infatti il moto fondamentale che riguarda l’Unione Europea è
un afflusso di popoli dall’esterno verso l’interno, un moto centripeto, tanto
che addirittura gli eredi di un nemico storico come l’Impero Ottomano turco
bussano alle nostre porte nonostante tra loro prevalga di gran lunga la fede
islamica; è qualcosa che richiama l’immagine del libro biblico di Isaia, nel
brano in cui si profetizzano carovane di genti che da tutto il mondo vanno
verso una Gerusalemme molto idealizzata, manifestazione dell’unione tra divino e
umano, vale a dire di certi principi supremi e realtà di vita. Questa cosa non c’è mai stata nella storia dell’umanità: prendiamone coscienza.
Dispiace che non sia una cosa cattolica?
Oh, ma è anche una cosa cattolica.
Due giorni fa, con
una fiaccolata, qui a Roma abbiamo celebrato il cinquantenario dell’apertura
del Concilio Vaticano 2°. In quella
occasione, avanzando in processione verso piazza San Pietro ci siamo
manifestati come Chiesa che vuole essere luce
delle genti, secondo l’insegnamento di uno dei documenti conciliari
fondamentali, la costituzione dogmatica Lumen
Gentium (trad. dal latino: luce delle
genti). Ebbene, convinciamoci che negli anni passati lo siamo veramente
stati, tutti noi. Il papa Giovanni
Paolo 2° volle invitarci a rifletterci su durante il Grande Giubileo dell’Anno 2000. Considerate come siamo cambiati in
meglio, noi Chiesa, da quando su certe cose andavamo molto per le spicce, come
si suole dire. Ho cinquantacinque anni e non sono un nativo conciliare, vale a dire che ho avuto modo di vivere la
Chiesa di prima, anche se da molto piccolo. Chi è più grande ricorderà meglio.
E comunque ci si può informare sui libri di storia. Ai nativi conciliari, a quelli che sono nati e vissuti interamente
nella nuova era, coloro che si incaponiscono ancora a vivere come si era prima
sembrano un po’ strani. Non è così?
Ma ci sarà modo di approfondire di più in questo che è stato proclamato,
innanzi tutto come obiettivo del nostro impegno, Anno della fede.
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13
Insieme per agire da gente di fede
(14 ottobre 2012)
Qualche anno fa
partecipai a una riunione del mio gruppo
del MEIC – Movimento ecclesiale di impegno culturale, alla Cappella
universitaria dell’Università La Sapienza, qui Roma, in cui un teologo ci parlò
dei vari modi di pensare una dimensione comunitaria della vita di fede e di
interventi nella storia dell’umanità motivati religiosamente e osservò che
spesso si erano scelte delle vie che poi avevano costretto a dire molti “si, però…”, vale a dire a cercare di
giustificare in qualche modo quelle che, con il senno del poi, venivano individuate come insufficienze in base
all’etica religiosa proclamata. Ad esempio, la cristianità medievale, in
cui indubbiamente affondano alcune di quelle che possiamo considerare come radici delle società europee di oggi e
che talvolta viene considerata un modello ancora attuale per la sua forte
integrazione culturale del cristianesimo, produsse anche l’Inquisizione e le
Crociate, modi di vivere la fede dai quali oggi
abbiamo preso le distanze dichiarando di impegnarci a non replicarli; ma, ciò
detto, siamo portati ad aggiungere si però … l’idea di una società civile fortemente ispirata alla
religione in fondo ci piace e cose simili. Non ci si poteva pensare un po’
meglio, prima, per non dover poi essere costretti a pentirsi? E’ un
problema che riguarda anche noi, che vogliamo ancora influire nella società in
cui viviamo per cercare, nella dinamiche democratiche, di determinare
collettivamente scelte ispirate a certi valori
che per noi hanno fondamento religioso. O forse sarebbe meglio non agire
affatto e limitarsi solo ad attendere
con pazienza che le cose cambino perché trascinate dal disegno provvidenziale,
mentre noi ci incoraggiamo e aiutiamo a vicenda edificandoci nelle nostre
comunità religiose con salmi, inni e canti spirituali, secondo le espressioni
di San Paolo (Lettera ai Colossesi 3, 16. 1 Lettera ai Tessalonicesi 5,11)?
Tenuto conto di quante sono le cose di cui abbiamo sentito il bisogno di
chiedere collettivamente perdono, da quando ci siamo consentiti un simile
esercizio, ci si potrebbe pensare seriamente.
Riprendo a questo
punto a seguire, in queste riflessioni, il libretto di Giuseppe Dossetti Eucaristia e città, Editrice A.V.E.,
collana Le Tessere e il Mosaico,
2011, euro 8,00, pagine 131, con prefazione di Giorgio Campanini.
Il mondo nuovo che
religiosamente attendiamo non uscirà dalle nostre mani. Non ne abbiamo quindi
la responsabilità. I nostri progetti non possono e non devono estendersi fino
ad esso. Né possiamo immaginare di poterlo effettivamente realizzare in una
società da noi edificata. Trascrivo di nuovo, di seguito, le parole di Dossetti
(pag.45-46):
Il Regno,
giunge a noi, senza di noi.
[…]
,,,il Regno
verrà, per un decreto del Pare in un momento imprevedibile “che il Padre ha
riservato alla sua potestà” (Atti degli apostoli 1, 6-7).
E allora sarà
non il coronamento della storia, ma la rottura della storia, semplicemente il
suo troncamento, in ictu oculi [trad.:in un
batter d’occhio – greco: en ripè
oftalmù] ” (1 Lettera ai Corinzi 15,52).
Quest’ordine di idee
è un bel sollievo. Secondo le parole di Dossetti non saremo quindi giudicati
colpevoli di non aver saputo realizzare, nelle nostre faticose e lunghe
approssimazioni, il Regno, la società perfetta che non ha bisogno di lampade o
di sole, “perché il Signore Dio li
illuminerà”, secondo l’emozionante profezia che troviamo in Apocalisse, 22,3, e anche di non aver asciugato ogni lacrima dagli occhi dei sofferenti,
e di non aver sconfitto la morte, e di aver cancellato del tutto e definitivamente tra noi il lutto, il pianto e il
dolore. Fatemi sapere se condividete
questo discorso.
Ciò posto, se
guardiamo all’Unione Europea di oggi,
per la quale inaspettatamente l’altro giorno ci siamo presi il Nobel, e la Chiesa del dopo Concilio Vaticano 2°, nella quale
abbiamo voluto essere ed effettivamente siamo stati Luce delle genti, ce ne compiacciamo, pur pentendoci del male che
in esse non siamo riusciti ad evitare e sentendoci pur sempre impegnati a
migliorarci, perché non solo ad esse apparteniamo, ma anche esse ci
appartengono, nel senso che sono un nostro modo di essere e quindi riflettono
coralmente nel bene e nel male le nostre vite, e noi, lo sappiamo, non possiamo
dirci perfetti, anche se in qualche
modo desideriamo, e a volte anche cerchiamo
e addirittura ci sforziamo, di corrispondere al disegno che
religiosamente pensiamo che si abbia su di noi, dall’alto. E, in definitiva,
quei risultati, quella nuova Europa, quella Chiesa rinnova, non sono tati
accidentali, ma voluti, quindi desiderati e attuati. Ecco quindi che lo volevamo fare e l’abbiamo fatto. Sono
effettivamente opera nostra, collettiva, e infatti, al nostro sesto giorno (Genesi 1,31), le guardiamo
e vediamo in esse cose buone ma anche
cose da cambiare per migliorare, in quella, come dire?, commistione di grano e
zizzania, di Città secondo Dio e di Città
secondo l’avversario di Dio che non è in
fondo in nostro potere sciogliere del tutto.
Ha un significato,
per la nostra fede, l’aver agito e costruito? Dossetti ritiene di poter
concludere di sì. Per amore infatti
abbiamo agito. Scrive (pag.103-104):
Tutto nella via
del cristiano agito dallo Spirito Santo è azione […] non è il caso di insistere
banalmente sulla contrapposizione fra “contemplazione” e “azione” […] “contemplazione” per il senso
originario [che aveva nell’antica filosofica greca, in
particolare in Plotino (3° sec.) – nota mia] ,,, non [è] propriamente un
concetto cristiano e [continua] a
trascinare e a veicolare più di un
equivoco nella storia della spiritualità cristiana.
In senso
propriamente cristiano tutto è azione, e con diversi gradi di efficacia,
peculiarmente là dove il concetto abituale di azione ne saprebbe vedere di
meno.
Azione è
l’Eucaristia: prima di tutto azione di Cristo, poi azione della Chiesa, azione
della comunità che la celebra, del cristiano che vi partecipa.
Ogni preghiera,
se fatta come deve essere fatta in Cristo, nello Spirito, è azione.
La lettura, e
ancor più la “ruminatio” della Parola di Dio , allo stesso modo, è azione.
La malattia che
riduce immobile in un letto, accettata nella fede, è azione […].
La
concentrazione dell’anima nel suo oggetto più proprio […] è azione”.
Per Dossetti, si agisce come risposta d’amore
all’amore trinitario, che ci viene dall’alto. C’è una carità verticale, appunto dall’alto, che è “generante e condizionante rispetto ad ogni
altro amore, sia pure il più santo e benefico” (pag.117).
“L’amore rivolto ai fratelli ne sarà un segno necessario e precipuo: ma
derivato…”.
Dossetti segnala l’esistenza di un paradosso della carità eucaristica,
dell’agire insieme, nel nostro mondo, su fondamento
religioso:
“L’altissima
risposta d’amore trinitario sarà tanto più utile agli altri e al mondo intero, quanto
meno si preoccuperà e saprà di esserlo: cioè quanto più si ignorerà, si
perderà, quanto più sarà silenziosa e radicale follia, dimessa e impotente:
allora raggiungerà quel grado di sottigliezza, di agilità penetrante, di tersa
inoffensività che può pervadere gli spiriti degli uomini (Libro della Sapienza
7,22-24) senza che se ne accorgano, riempirà la città stessa “con un effluvio
genuino della gloria dell’Onnipotente” [Libro della Sapienza 7,25].
Insomma: si agisce, si agisce insieme e si agisce per amore, ma amore di una specie
particolare, che è risposta ad un amore che viene dall’alto. Quando si agisce così,
non si fa conto del risultato, che poi si è convinti che verrà in un battito di ciglia a tempo debito e
non per opera nostra: lo scopo dell’azione è infatti solo quello di diffondere
nella società un “effluvio puro della
gloria dell’Onnipotente” (Sapienza 7, 25, trad.Edizioni San Paolo 1997).
Questo equivale, detto in termini profani, a infondere nella società intorno a
noi dei valori. Tutto ciò definisce
bene il compito di elezione dell’Azione Cattolica, per il quale in essa ci si
prepara, si ragiona, si fa pratica e, infine,
ci si organizza e si va in prima
linea, dove per quei valori si lotta,
e addirittura a volte molto oltre quella prima linea, in territorio avversario,
nel senso che in esso sono avversati quei valori.
Ma non necessariamente si combatte sotto bandiere crociate. Ci si può ritrovare, ad esempio, a lavorare con genti di
altre fedi, culture, etnie e nazionalità sotto la bandiera azzurra della pace,
con le dodici stelle d’oro in circolo, dell’Unione
Europea, nella quale uno spirito religioso può intravvedere due simboli
specificamente mariani, segno
dell’anelito a valori anche
specificamente nostri, di quelle radici
cristiane di cui spesso parlano i nostri vescovi, in particolare il
richiamo alla corona di dodici stelle della donna
vestita di sole dell’Apocalisse (12,1). Ed effettivamente, a pensarci bene,
l’Unione Europea di oggi ci appare
veramente un segno grandioso, anche in
senso specificamente religioso.
Ho parlato di amore e questo termine, con il quale
traduciamo tutti i termini del greco
neotestamentario con i quali specificamente si descrivono le relazioni tra i
fedeli e tra essi e il mondo, ma anche e innanzi tutto quelle tra gli esseri
umani e il fondamento soprannaturale,
suona equivoco, e anche un po’ stucchevole nell’italiano moderno. Nel
greco del Nuovo Testamento (per quello che ho letto – ma la mia in merito è
solo erudizione di liceale, neanche tanto studioso; non sono uno specialista)
si avevano agàpe, filìa e coinonìa. Il primo richiama l’idea di quando si sta insieme per
fare un bel pranzo; il secondo si riferisce all’amicizia, a un rapporto di
reciproca simpatia e di preferenza, il terzo richiama l’idea di quando si
partecipa ad un’opera comune. Nel mio Vocabolario
del greco del Nuovo Testamento non viene riportato il termine èros, che pure rientra nei significati
della nostra parola italiana amore, e
definisce la passione sessuale, quella che trascina emotivamente dalle viscere
e acceca. Penso quindi che questa
metafora non sia stata utilizzata nel Nuovo Testamento, anche se è presente
nell’Antico, mentre anche nel Nuovo viene utilizzata quella basata sull’amore coniugale, che però è qualcosa di
molto più complesso, perché è insieme èros
(come base emotiva della predilezione per una persona fisica), agàpe, filìa e coinonìa, oltre a
patto ed alleanza.
Poiché la qualità e
la direzione del nostro agire dipende molto dalle ragioni e del modo del
nostro stare insieme, è interessante ragionarci un po’ su. Mi piacerebbe
sapere a quali conclusioni siete giunti,
cari lettori; come vi regolate nelle vostre vite.
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14
Costruire nella società per narrare il fondamento della nostra speranza
(12 ottobre 2012)
Continuo le mie
riflessioni sulla base del libretto di
Giuseppe Dossetti Eucaristia e
città, Editrica A.V.E., 2011, euro 8,00, pagine 131.
Non possiamo
ragionevolmente confidare del tutto sull’opera nostra, in particolare sugli
effetti che possiamo produrre nella società. La storia ci insegna che il
progredire dei tempi non significa sempre un miglioramento, un progresso
duraturo: è possibile che si torni indietro e si debba ripartire. E anche in
religione ci viene consigliato di prendere le cose in questo modo. Il
fondamento della nostra speranza non sta in noi stessi. Scrive Dossetti
(pag.112):
[…] si deve
inculcare al cristiano che non solo può, ma deve impegnarsi nella storia (secondo la misura dei doni ricevuti e le opportunità pratiche):
ma insieme gli si deve inculcare
che questo
egli deve fare con il massimo distacco possibile: pena la perdita di tutta la credibilità come
testimone ed esploratore dell’invisibile.
In definitiva il nostro atteggiamento
fondamentale di fede nei riguardi delle cose del mondo dovrebbe essere più che
altro quello di una pervicace e
fiduciosa attesa, anche quando tutto ciò che accade e che ci circonda
sembrerebbe disilluderci. Non si rimane inoperosi, ma siamo convinti che non
siamo mai veramente noi che conduciamo la storia verso il suo compimento. Di
questo possiamo aver una conferma per così dire “sperimentale”: tutte le
potenze umane vanno incontro a un ciclo vitale e a processi evolutivi simili a
quelli degli organismi singoli. Nel complesso, tirate le somme, si scopre di
aver vissuto molto condizionati da fattori esterni a noi, la nostra sfera di
influenza, anche come collettività piuttosto numerose, rimane sempre piuttosto
limitata. E’ la sensazione che si ha, ad esempio, durante la crisi economica
globale che è attualmente in corso. E spiegare con precisione il corso delle
cose è sempre piuttosto difficile, quando si ragiona in termini di moltitudini
umane. Poi però, quando ci si bene su è possibile che si riesca a produrre una
interpretazione degli eventi compatibile con l’idea di un disegno
provvidenziale. Quest’ultimo, secondo Dossetti, più che argomentato,
quindi compreso con precisione, va
piuttosto narrato e testimoniato. Questo atteggiamento, secondo un pensiero del
teologo Jurgen Moltmann, citato da Dossetti,
[…] rende buona la vita, perché in
questa attesa l’uomo può accettare tutto il suo presente ed avere gioia non solo nella gioia, ma anche
nel dolore e trovare la felicità non solo
nella felicità, ma anche nella sofferenza […] La speranza procede attraverso la
gioia e il dolore, perché può
discernere nella promessa di Dio un
futuro anche per ciò che è transitorio,
moribondo e morto.
La speranza religiosa vive nell’attesa dei
tempi ultimi e non si lascia quindi scoraggiare dagli insuccessi che si vivono
nella propria contemporaneità. E nei successi, che pure sa essere sempre minacciati e caduchi, si
rallegra perche vi vede un’anticipazione di quanto promesso alla fine della
storia.
Proporre alla gente intorno a noi e a noi
stessi una visione della cose improntata a speranza non è solo questione di ragionamenti e di
argomentazioni, ma anche un operare laboriosamente per produrre anticipazioni
di ciò che è promesso per i tempi ultimi, in tal modo dischiudendo a questo mondo l’orizzonte
del Cristo crocifisso mediante una testimonianza
valida (così Moltmann, citato da
Dossetti). Questo un lavoro che si addice bene all’Azione Cattolica: la
caratteristica specifica dell’associazione è di puntare a svolgerlo
collaborando democraticamente con genti di altre mentalità e convinzioni. In
quest’ottica il profano, ciò che si
muove al di fuori delle azioni specificamente liturgiche, ha una valenza
religiosa piuttosto forte. In esso noi cerchiamo pazientemente di rintracciare
e capire quelli che sono stati definiti i
segni dei tempi.
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15
Noi: popolo di Dio
(15 ottobre 2012)
Nella riunione di
martedì 16 ottobre 2012 ci è stata presentata la costituzione dogmatica Lumen gentium, del Concilio Vaticano 2°.
Si tratta di un atto normativo, di una legge della nostra Chiesa. La Chiesa ha
bisogno di leggi? Come ogni società di esseri umani, sì. Ma quella costituzione
conciliare è molto più di una legge. E’ l’indicazione di una strada da
prendere. Con autorità siamo stati chiamati a percorrerla, tutti noi che siamo
stati persuasi dalla fede cristiana e quindi confidiamo in Gesù, il
Cristo, affidandoci a lui qui nella vita terrena e oltre, sperando in quella
eterna. Noi siamo convinti di costituire un popolo, il nuovo (rispetto all’antico popolo israelitico) popolo di Dio, non fuso in
unità sulla base di discendenza etnica (secondo
la carne), ma mediante la nostra fede (nello
Spirito).
Riconosciamo nostro
capo Cristo, che riteniamo regni glorioso
in cielo, quindi al di sopra di
tutto: il suo è un nome al di sopra di
ogni altro nome. Il nuovo popolo:
Ha per condizione la dignità e la
libertà dei figli di Dio [noi ci
chiamiamo anche così],nel cuore dei quali
dimora lo Spirito Santo come in un Tempio [Lumen Gentium, cap.2°, n.9],
Nella fede siamo stati come rigenerati dall’alto: La nostra legge
suprema è ora di amare come lo stesso
Cristo ci ha amati, secondo quanto espresso nel Vangelo di Giovanni 13,34 [Lumen Gentium, cap.3°,n.9]. Siamo così
popolo costituito per una comunione di
vita, di carità e di verità [Lumen
Gentium, cap.2°, n.9].
Riteniamo che ci sia stato affidato un
compito, in particolare di essere stati inviati
a tutte le genti del mondo, come strumento di redenzione, luce del mondo e sale della terra. [Lumen
Gentium, stesso numero sopra citato]. Dobbiamo estendere il nostro popolo, che deve però rimanere uno e unico, a tutto il mondo e a
tutti secoli, per fare ciò che Dio vuole, vale a dire per radunare insieme i suoi figli dispersi [Lumen Gentium, cap.2, n.13].
Bene, ma che cosa c’è di nuovo in questo rispetto alla fede della Tradizione, dei secoli
precedenti? Ci ragioneremo su, in questo Anno
della fede. Chi ha fatto esperienza
ravvicinata della Chiesa prima del Concilio Vaticano 2° sa bene
che qualcosa è effettivamente cambiato. Ma, nella nostra Chiesa, quando si
cambia si cerca comunque di tenere tutto
insieme, in particolare di collegarsi sempre alle esperienze delle origini,
dei primi tempi, specialmente quando si scrivono i documenti ufficiali. Così, leggendoli
superficialmente, si può in qualche modo rimanerne delusi. Anche perché, quando
si parla del Concilio Vaticano 2° al di fuori della nostra Chiesa, lo si
presenta come una sorta di svolta rivoluzionaria,
che non c’è stata. Non è vero che c’è ancora un Papa a Roma? E ll vescovo suo
vicario per la città di Roma? E un parroco nel nostro quartiere?
Vi voglio però indicare un segno. Pensateci su. In parrocchia,
davanti all’altare qualche volta ho visto esposta una grande menorah, il candelabro a sette braccia
che è uno dei simboli dell’ebraismo.
Oggi non ce ne stupiamo. Ancora nell’Ottocento ci sarebbe costato però molto
caro, saremmo stati trattati un po’ come eretici
e forse scomunicati, vale a dire
tenuti isolati nella nostra comunità (non significa sbattezzati). Oggi invece è cosa
del tutto lecita e, anzi, ci edifica.
Insomma, da sempre abbiamo saputo di essere
stati inviati alle genti, ma dopo il
Concilio Vaticano 2° abbiamo cominciato ad entrare in relazione con esse, come
collettività e come individui, in modi sicuramente più amichevoli del passato.
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16
Essere popolo unito da una fede religiosa
(16 ottobre 2012)
Uno dei temi sui quali il Concilio Vaticano 2° (1962-1965)
ha riscoperto nella dottrina della tradizione potenzialità meno sviluppate
nella storia bimillenaria della Chiesa è quello dell’essere tutti i cristiani un popolo messianico, vale a dire genti unificate da una fede e da
una missione. E, in questo parlare di popolo,
hanno influito non poco concezioni moderne della politica, intesa come organizzazione della convivenza civile, così
come quando in passato si parlava dello stesso tema si faceva riferimento ad
altre concezioni in merito. Non dobbiamo meravigliarcene, perché la Chiesa è anche una organizzazione umana e in
quanto tale è anche opera nostra e
risente delle nostre visioni sul mondo e la storia. Questo che ho scritto da
ultimo è sempre stato ben presente nell’idea che, riflettendosi sistematicamente
sopra, si aveva della Chiesa, ma non lo era più tanto, e da secoli, quando
iniziò il Concilio Vaticano 2°, nella ideologia
ecclesiale, vale a dire in quella visione
semplificata delle dinamiche sociali che serve a tenere unita la gente in una
collettività organizzata. In quest’ottica, poiché si confidava molto negli
effetti che alla Chiesa derivavano dall’essere insieme realtà umana e
soprannaturale e corpo sociale sottomesso ai Pastori (il Papa – padre universale e vicario di Cristo, capo invisibile: viene dal
greco pàpas che significa papà- e i vescovi –dalla parola greca epìscopos,
che significa sorvegliante), si
pensava che essa potesse sicuramente essere ordinata in modo diverso nel tempo
e nei vari luoghi in cui viveva, ma che di volta in volta essa fosse il meglio
che c’era in un certo momento e in un determinato luogo, vale a dire che nella storia fosse stata e fosse sempre
una società perfetta. Ma vi è di più.
Una conseguenza che si traeva da quest’ordine di idee era che la Chiesa, attraverso
i propri Pastori, potesse, non solo
insegnare con autorità, ma anche avere l’ultima parola in merito a tutte le
altre organizzazioni sociali umane, che è come dire sulla politica delle società in cui viveva. Fin da quando, nel quarto
secolo della nostra era, la Chiesa uscì, come dire, dalla clandestinità e
cominciò ad influire con le proprie idee sulle società politiche in cui era
immersa, quest’ultima pretesa fu materia di contrasto con i capi civili, i
quali, al contrario, volevano spesso dire con autorità alla Chiesa come essa
doveva essere. L’idea di una certa divisione di ruoli, di compiti e di materie
da trattare tra le organizzazioni politiche civile e l’organizzazione della
Chiesa, ciò che oggi chiamiamo laicità dello
stato, è moderna: risale alla fine del Settecento. La troviamo attuata per la
prima volta nella storia dell’umanità dopo la rivoluzione nordamericana,
nell’ordinamento costituzionale degli Stati Uniti d’America (“nessuna professione di fede religiosa sarà
mai imposta come necessaria per ricoprire un ufficio o una carica pubblica
degli Stati Uniti”, art.6°, 3° comma, della Costituzione federale), benché
i rivoluzionari avessero espresso nella Dichiarazione
di indipendenza forti idealità religiose cristiane.
Nella storia
dell’umanità dalla fine del Settecento ad oggi abbiamo assistito ad un
mutamento delle organizzazioni politiche da modelli monarchici, in cui il
potere supremo era attribuito a una persona fisica o ad essa e a suoi stretti
parenti, a modelli più partecipati da altri strati della società civile. Questo
moto è all’origine delle democrazie di popolo contemporanee, basate sull’uguaglianza – intesa come pari dignità
sociale – dei cittadini. In qualche modo esso si è espresso anche nella
concezione di Chiesa che è stata proclamata con autorità durante il Concilio
Vaticano 2°, anche se esso non ha avuto esiti propriamente rivoluzionari, né
nelle intenzioni, né nella volontà espressa, né soprattutto nella pratica
ecclesiale postconciliare. Bisogna però
osservare che ciò è dipeso anche dal fatto che la Chiesa ha rinunciato ad una
sovranità politica su società civili, come quello che storicamente era stato
attuato nello Stato pontificio, nell’Italia centrale, con capitale Roma. Sotto
questo profilo ebbero effetti propriamente rivoluzionari la Repubblica romana
napoleonica (1798), quella di Mazzini (1949) e la conquista e
soppressione dello Stato pontificio (1870), nel senso che l’ordinamento
politico instaurato dai Papi nell’Italia centrale venne in quelle
occasioni sovvertito, nel primo caso il
Papa regnante fu preso prigioniero, nel secondo caso dovette fuggire da Roma e
nel terzo dichiarò di considerarsi prigioniero in Vaticano.
Possiamo misurare la
rapida evoluzione di certe concezioni dal confronto tra queste due pronunce autorevoli,
datate 1882 la prima e 1965 la seconda:
“[…]Presso i popoli
italiani, che in ogni tempo si tennero fedeli e costanti nella religione
ereditata dagli avi, ristretta ora ovunque la libertà della Chiesa, di giorno
in giorno si tenta il più possibile di cancellare da tutte le pubbliche
istituzioni quella impronta e quel carattere cristiano in forza dei quali fu
sempre grande il popolo italiano. Soppressi gli Ordini religiosi; confiscati i
beni della Chiesa; considerati validi come matrimoni le unioni contratte fuori
del rito cattolico; esclusa l’autorità ecclesiastica dall’insegnamento della
gioventù: non ha fine, né tregua la crudele e luttuosa guerra mossa contro la
Sede Apostolica. Pertanto la Chiesa si trova oppressa oltre ogni dire, e il Romano Pontefice è stretto da gravissime
difficoltà. Infatti, spogliato della sovranità temporale, cadde necessariamente
nel potere di altri.
E Roma, la più augusta città del mondo cristiano, è divenuta campo aperto
a tutti i nemici della Chiesa, e si vede profanata da riprovevoli novità, con
scuole e templi al servizio dell’eresia. Anzi, pare che addirittura in questo
stesso anno sia destinata ad accogliere i rappresentanti e i capi della setta
più ostile alla religione cattolica, i quali vanno appunto pensando di
radunarsi qui in congresso. È abbastanza palese il motivo che li ha spinti a
scegliere questo luogo: vogliono con un’ingiuria
sfrontata sfogare l’odio che portano alla Chiesa, e lanciare da vicino funesti
segnali di guerra al Papato, sfidandolo nella sua stessa sede. Non è
certamente da dubitare che la Chiesa esca alla fine vittoriosa dagli empi
assalti degli uomini: è tuttavia certo e manifesto che essi con siffatte arti intendono colpire, insieme con il Capo,
l’intero corpo della Chiesa, e distruggere, se fosse possibile, la religione.[…]
[Dall’enciclica Etsi nos, del
papa Leone 13°, del 1882.]
http://www.vatican.va/holy_father/leo_xiii/encyclicals/documents/hf_l-xiii_enc_15021882_etsi-nos_it.html
“76. La comunità politica
e la Chiesa
È
di grande importanza, soprattutto in una società pluralista, che si abbia una
giusta visione dei rapporti tra la comunità politica e la Chiesa
e che si faccia una chiara distinzione tra le azioni che i fedeli,
individualmente o in gruppo, compiono in proprio nome, come cittadini, guidati
dalla loro coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della
Chiesa in comunione con i loro pastori.
La
Chiesa che, in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna
maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema
politico, è insieme il segno e la salvaguardia
del carattere trascendente della persona umana.
La
comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l'una dall'altra nel
proprio campo. Ma tutte e due, anche se a titolo
diverso, sono a servizio della
vocazione personale e sociale degli stessi uomini. Esse svolgeranno questo loro
servizio a vantaggio di tutti in maniera tanto più efficace, quanto più
coltiveranno una sana collaborazione tra di loro, secondo modalità adatte alle
circostanze di luogo e di tempo. L'uomo infatti non è limitato al solo
orizzonte temporale, ma, vivendo nella storia umana, conserva integralmente la
sua vocazione eterna.
Quanto alla Chiesa, fondata nell'amore
del Redentore, essa contribuisce ad estendere il raggio d'azione della
giustizia e dell'amore all'interno di ciascuna nazione e tra le nazioni.
Predicando la verità evangelica e illuminando tutti i settori dell'attività
umana con la sua dottrina e con la testimonianza resa dai cristiani, rispetta e
promuove anche la libertà politica e la responsabilità dei cittadini.
Gli apostoli e i loro successori con i
propri collaboratori, essendo inviati ad annunziare agli uomini il Cristo
Salvatore del mondo, nell'esercizio del loro apostolato si appoggiano sulla
potenza di Dio, che molto spesso manifesta la forza del Vangelo nella debolezza
dei testimoni. Bisogna che tutti quelli che si dedicano al ministero della
parola di Dio, utilizzino le vie e i mezzi propri del Vangelo, i quali
differiscono in molti punti dai mezzi propri della città terrestre.
Certo, le cose terrene e quelle che,
nella condizione umana, superano questo mondo, sono strettamente unite, e la
Chiesa stessa si serve di strumenti temporali nella misura in cui la propria
missione lo richiede. Tuttavia essa non pone la sua speranza nei privilegi
offertigli dall'autorità civile. Anzi, essa rinunzierà all'esercizio di certi
diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso può far
dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero
altre disposizioni. “
[Dalla
costituzione pastorale Gaudium et spes,
sulla Chiesa nel mondo contemporaneo – Concilio Vaticano 2°- 1965]
In sostanza il fattore unificante della Chiesa
intesa come popolo di Dio è stato visto, nella concezione dell’ultimo concilio
ecumenico, più nella fede e nella missione
comune, vale a dire di tutti, che
nell’essere soggetti alla sovranità
del Vicario di Cristo e, per quest’ultima, che ancora sussiste come legge della
Chiesa, è stato posto l’accento sulla
sua finalità di servizio della
vocazione personale e sociale delle
persone umane.
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17
Unire le genti per una vita buona
(17 ottobre 2012)
La prima e
fondamentale esperienza di una relazione con un’altra persona è quella che si
fa da molto piccoli e qualcuno, di solito la madre, si prende cura di noi. E’
una cosa che ho letto, ma che corrisponde anche a quello che è successo a me.
Da bambini piccoli non si potrebbe sopravvivere senza quelle cure di un altro.
Quel rapporto tra un adulto e una persona molto piccola d’età rimane molto
profondamente in noi. Spesso, anche da anziani, in certi momenti difficili, in
particolare approssimandosi la fine, la si ricorda e, allora, viene alle labbra
la parola mamma. L’ho sentita
pronunciare da diversi morenti. In qualche modo quel legame tra persone è all’origine di molte idealità comunitarie. Ne
sentiamo l’influsso in certe concezioni espresse nel culto mariano. O in alcune
tematiche dell’arte religiosa, come quella della scultura di Michelangelo detta
La Pietà, posta nella basilica di San
Pietro, qui a Roma. Esso viene anche utilizzato per rendere l’idea dell’amore-agàpe, di origine divina, che
pervade l’universo e noi stessi. Scrive Giuseppe Dossetti in Eucaristia e città, editrice A.V.E.,
2011, pagine 131, euro 8,00, che si tratta di un amore viscerale, ma di
viscere materne. Per questo ci viene incontro nonostante la nostra
cattiveria e non cede mai all’ira: è misericordioso.
Ci attraversa e, riflettendosi
in noi, torna all’origine. Genera quindi un atteggiamento di devozione filiale, che si ritiene esprimere bene l’atteggiamento
religioso del fedele verso l’alto. Ma ne deriva anche un sentimento fraterno
verso coloro che si trovano nella nostra stessa condizione di figli, insomma, secondo Dossetti, crea un’atmosfera di rispetto, di comprensione,
di fiducia, di valorizzazione degli esclusi, di amore-oblativo [=che offre
per venire incontro alle esigenze degli altri] indipendente da ogni condizione esterna
mutevole e che “non avrà mai fine” ( 1 Cor 13,8) [pag.121-122]. Spesso,
quando ci accostiamo a una comunità religiosa, ad esempio come una parrocchia,
lo facciamo disposti alla devozione
filiale, ma aspettandoci di essere oggetto poi di un amore viscerale di tipo materno, e il più delle volte rimaniamo
delusi. Questo può accadere anche entrando in collettività che concepiscono sé
stesse come (utilizzo un termine di Dossetti) micro modelli di comunità nuove e quindi si sentono particolarmente
impegnate nel realizzare una comunità di vita amorevole. E’ un’esperienza piuttosto comune. Tanto è vero che i maestri dei novizi, che hanno il compito
di istruire i nuovi arrivati alle costumanze di un ordine o di una
congregazione di vita religiosa, si sentivano in dovere di disilludere subito
in merito i giovani. Del resto nelle disposizioni date da alcuni fondatori di
collettività di frati e monaci ci sono esplicite disposizioni che riguardavano
questo aspetto. Non si entra in una vita
come quella per ottenere soddisfazioni o appagamenti emotivi o sentimentali.
Più le dimensioni di
un agglomerato di persone che per varie ragioni devono vivere vicine crescono,
più i problemi aumentano. Ad un certo punto si arriva addirittura a un limite biologico dell’essere umano. Noi, pur
come individui sociali, siamo infatti capaci di poche decine di relazioni profonde.
Considerate ad
esempio la situazione che si crea quando in piazza S. Pietro il Papa si
affaccia, all’Angelus della domenica, e si rivolge alle migliaia di persone
convenute ad ascoltarlo, dabbasso. Per la folla che sta giù il Papa è oggetto
di una relazione profonda. Ciascuno/a
ha un posto per lui nel proprio cuore. Ma il Papa che cosa vede lì sotto? Un
cervello elettronico che guidasse un automa come se ne stanno cominciando a
costruire eseguirebbe probabilmente una scansione ad alta definizione di ogni
singolo individuo nella piazza, archiviando per ognuno una piccola biblioteca
di dati. Un essere umano non funziona così. Guarda in basso e vede una folla indistinta. Il Papa per la
folla è un fattore di unità. Ma il
Papa, essere umano, non è in grado biologicamente
di far entrare ciascuno di quelli che lo ascoltano nel proprio cuore.
Naturalmente le folle hanno sviluppato delle tecniche per rendersi presenti alle
loro figure di riferimento, e lo fanno appunto agendo come una sola persona, manifestando gli stessi pensieri, gridando in coro le stesse parole, cantando in coro gli stessi canti. Una grande
folla può effettivamente restare nel cuore di un Papa. Penso che questo sia
accaduto al papa Giovanni Paolo 2° nel corso del suo quinto viaggio apostolico, che nel 1979 fece
in Irlanda. Ci fu uno straordinario incontro con una folla di giovani, di
enorme impatto emotivo, per i canti, per l’atmosfera generale, per l’aspetto e
l’entusiasmo delle persone, tanti giovani che accoglievano un giovane Papa, e via dicendo, tanto che io, pur
avendolo visto solo in televisione, me lo ricordo ancora bene e mi ci commuovo.
Ora, la Chiesa
cattolica ha preso sempre molto sul serio l’impegno a radunare i figli di Dio dispersi, per estendere il suo popolo, mantenendolo però uno e unico, a tutto il mondo e a tutti i secoli, per
farne una comunione di vita, di carità e di verità (Costituzione dogmatica Lumen Gentium, cap.2° n.9 e 13, del Concilio Vaticano 2° - passi
riportati in estratto in un post
dei giorni passati]. Quando però si passa da una comunità delle origini di
poche decine di discepoli a una di diverse centinaia di milioni di persone (se
ne stimano ottocento milioni, in crescita) occorre porre molta attenzione agli
elementi unificanti. Per quasi due millenni il principale di essi, nella Chiesa
cattolica, è stato costituito dai Papi, nei quali si concentrava dal punto di
vista normativo (e si concentra tuttora, nonostante qualche importante
temperamento) l’autorità nella Chiesa, non essendo mai stata concepita altra autorità che, all’interno
della Chiesa, potesse effettivamente sovrastare quella del Papa (altre
questioni sono quelle dei problemi che sotto questo profilo i Papi ebbero con
certi imperatori cristiani e dell’ampia autonomia che, nel primo millennio,
ebbero alcuni patriarcati orientali). Il Papa inoltre, come persona fisica, a
volte con l’aggiunta di una certa idealizzazione, che in alcuni casi confinò
con una sorta di mitizzazione della sua persona (ne era espressione il fasto
che in certe epoche la circondava),
poteva agevolmente conquistare i cuori dei fedeli.
Fin dai primi secoli
sono stati importanti, al fine di promuovere e mantenere l’unità (ma sono stati
anche fonte di divisione) anche quelle definizioni sintetiche dei principali
argomenti di fede che sono detti simboli,
due dei quali sono il Credo di Nicea Costantinopoli e il Credo degli Apostoli che recitiamo
insieme nella liturgia della Messa. Queste solenni e autorevoli definizioni
sono state raccolte in un libro, il H.Denzinger – A. Schonmetzer, Enchiridion symbolorum, definitionum et
declarationum de rebus fidei et morum [Raccolta
di simboli, delle definizioni e delle dichiarazioni in materia di fede e morale],
molto utilizzato in teologia.
186. Fin dalle origini la Chiesa apostolica ha
espresso e trasmesso la propria fede in formule brevi e normative per tutti. Ma
molto presto la Chiesa ha anche voluto riunire l’essenziale della sua fede in
compendi organici e articolati, destinati in particolare ai candidati del
Battesimo.
Il simbolo
della fede non fu composto secondo le opinioni umane, ma consiste nella
raccolta dei punti salienti, scelti da tutta la Scrittura, così da dare una
dottrina completa della fede. E come il seme della senape racchiude in un
granellino molti rami, così questo compendio della fede racchiude tutta la
conoscenza della vera pietà contenuta nell’Antico e nel Nuovo Testamento.
187.Tali sintesi della fede vengono chiamate “professioni
di fede”, perché riassumono tutta la fede professata dai cristiani. Vengono
chiamate “Credo” a motivo di quella che normalmente ne è la prima parola: “Io
credo”. Sono anche dette “Simboli della fede”.
188.La parola greca “Sy’mbolon” indicava la metà di un
oggetto spezzato (per esempio un sigillo) che veniva presentato come segno di riconoscimento. Le parti
venivano ricomposte per verificare l’identità di chi le portava. Il “Simbolo della fede” è quindi un segno
di riconoscimento e di comunione tra i credenti. “Sy’mbolon” passò poi a
significare raccolta, collezione o sommario. Il “Simbolo della fede” è la
raccolta delle principali verità della fede. Da qui deriva il fatto che esso
costituisce il primo e fondamentale punto di riferimento della catechesi.
[dal Catechismo della Chiesa Cattolica 1992-1997]
I Simboli della fede, alcuni dei quali
per la loro origine o per successivi atti di volontà dell’autorità sono leggi della Chiesa, agevolano la
comprensione legando affermazioni che
riguardano concezioni piuttosto complesse, riguardanti il soprannaturale, il
legame dell’umanità con esso e il destino nostro e dell’universo intero, ad un
gruppo di persone più limitato delle intere umane e celesti moltitudini: le
persone della Trinità, Gesù Cristo, Maria Vergine, che una persona umana può
facilmente tenere nel proprio cuore.
Non va infine
dimenticata l’importanza che storicamente ha avuto, come fattore unificante, la
liturgia, anch’essa regolata spesso
da leggi della Chiesa, quindi con
autorità.
Ora, per capire
l’importanza che il Concilio Vaticano 2° ha avuto per la Chiesa cattolica,
bisogna comprendere questo: esso ha in qualche modo inciso su tutti e
tre quei tradizionali fattori unificanti
e ciò anche se, da un punto di vista
teologico, si è accuratamente cercato, nella formulazione dei documenti
conciliari, di stabilire una continuità tra l’aggiornamento realizzato e la precedente
Tradizione, per cui, sotto questo profilo, una cesura non c’è e non si avverte
nemmeno. Questo non fu senza conseguenze. I capi della Chiesa ebbero
l’impressione, nel dopo concilio di un
marcato sbandamento del corpo
ecclesiale e se ne preoccuparono. La biografia dell’attuale Papa ce ne parla.
Nel corso di quella
grande assemblea mondiali dei capi della Chiesa di allora, riuniti intorno al
Papa, ci fu però la riscoperta di un ulteriore fattore
unificante che alle origini c’era senz’altro e di cui si aveva avuto
sempre consapevolezza, ma sul quale nel corso della storia bimillenaria della
Chiesa non si era fatto molto affidamento, anche perché, in effetti, non poche
volte aveva deluso: l’essere Popolo di Dio.
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18
Un popolo nuovo
(19 ottobre 2012)
E’ possibile che
alcuni dei lettori che entrano in questo blog
non abitino nel quartiere romano di Monte Sacro e in quella sua porzione che va
sotto il nome di Valli, perché le sue
strade portano il nome di diverse valli d’Italia: il posto in cui io vivo con
gli altri del mio gruppo di Azione Cattolica. Possono trovarsi anche molto lontano,
oltreoceano e addirittura agli antipodi. So ad esempio di famiglie di Ardigò
che discendono da genti che dalla provincia italiana di Cremona, homeland di tutti gli Ardigò del mondo,
emigrarono in Brasile e in Argentina, come mio nonno paterno. Ecco che allora
uno di quegli Ardigò, per trovare lontani parenti in Italia, potrebbe impostare
una ricerca sul WEB su uno dei tanti motori che servono a questo scopo ed
essere casualmente trasportato nella nostra piccola frazione di mondo. A
pensarci bene è una cosa straordinaria, fantascientifica al tempo della mia
infanzia e della mia adolescenza: essere connessi in una rete che collega potenzialmente miliardi di elaboratori elettronici
e, idealmente e di fatto, le persone che sono dietro a loro. Certo, questa è
poi solo una potenzialità, perché una
sola vita umana non basterebbe per entrare effettivamente
in relazione con tutta quella gente. Però è come quando si installa un
cartellone pubblicitario sull’autostrada: chi passa legge. E allora, coloro che
da lontano si mettono a leggere quello che in questi giorni sto scrivendo
possono chiedersi dove voglia andare a parare. Dovete allora capire, cari
lettori, che, certo, siamo lusingati del vostro interesse, ma qui ci si occupa
di una piccola comunità religiosa, dall’Azione Cattolica che è nella parrocchia
di San Clemente papa, in via Val Sillaro, Roma, Italia, Unione Europea: essa
quest’anno, prendendo lo spunto dall’indizione di un Anno della Fede, aperto per la Chiesa cattolica lo scorso 11
ottobre, ha iniziato a riflettere sul significato della sua esperienza
associativa e del suo ruolo nella Chiesa, anche per continuare a proporsi nella società che la circonda e
convocare in tal nuovi amici che
condividano i suoi ideali. Questo orientamento per così dire operativo si riflette nei temi trattati,
per cui argomenti più generali vengono condensati e sistemati sulla base dei
problemi che sono emersi nell’attività del gruppo.
Roma è, a confronto
con le maggiori metropoli del mondo, una piccola città, che, tutto sommato,
conserva ancora una dimensione umana forte. Alcuni giorni fa lo si è detto di
Firenze e i fiorentini se ne sono risentiti.
Ma non è una cosa negativa. Roma e Firenze sono città europee in cui si
vive meglio che in altre agglomerati urbani molto più grandi. Per rendere
l’idea, invito a portare l’attenzione su una grande conurbazione come San Paolo
del Brasile, che conta una trentina di milioni di abitanti. Il nostro
quartiere, poi, è, all’interno della città di Roma, una zona periferica del
nord est senza particolari problemi. E’ cresciuta nel dopoguerra vicina alla
riva destra dell’Aniene, uno dei principali affluenti del fiume Tevere, non
molto distante dalla confluenza tra i due corsi d’acqua. All’inizio venne
abitata da molti dipendenti pubblici, dello Stato, in particolare del Ministero
del Tesoro e di quello delle Finanze, ma anche da militari, e da dipendenti di altri enti pubblici, poi
da una popolazione più varia. I romani de Roma, quelli che discendono da
famiglie insediate a Roma da molte generazioni, non prevalgono: i primi
abitanti del quartiere arrivarono da varie parti d’Italia, dal Nord e dal Sud,
ma anche dall’Abruzzo, ad Est, ed erano piuttosto giovani. Poi la popolazione
si è fatta più anziana e solo negli ultimi anni sono cominciate ad arrivare
famiglie con bimbi piccoli. Si è aggiunta anche un’emigrazione dal continente
indiano, dalla Cina e dalla Romania. Nuovi poveri hanno ripreso ad abitare in
rifugi precari nelle vicinanze del fiume, dove nel primo e secondo dopoguerra e
fino agli scorsi anni ’70 c’erano i baraccati,
gli sfollati per la guerra mondiale e poi i nuovi giunti emigrati dal
Meridione.
Il nostro gruppo di
Azione Cattolica è composto in prevalenza di persone appartenenti alle famiglie
che per prime si insediarono nel quartiere: costituiscono il nostro nucleo storico. Come si sa, l’Azione Cattolica
dalla metà degli scorsi anni Settanta iniziò a perdere aderenti e ad avere
difficoltà ad attirarne di nuovi. Si possono individuare diverse ragioni di ciò
che è successo. I fattori negativi si sono succeduti e sommati.
Complessivamente si può dire che la fede religiosa, come fattore sociale
aggregante, ha perduto forza e questo, paradossalmente, proprio in anni in cui
alcune convinzioni tratte dall’esperienza religiosa, in particolare quelle che
riguardavano i diritti umani e la dignità delle persone umane, venivano
poste alla base dello straordinario processo di unificazione continentale
europea, una cosa mai accaduta nella
storia dell’umanità, e determinavano
il convergere di moltitudini verso l’Europa e quindi un’imponente espansione
politica per inclusione e non per
conquista e sottomissione di altre nazioni. Si è trattato di un successo
spettacolare, del quale di solito si è restii a rendersi conto. Basti pensare
che una frontiera caldissima, come quella che divideva il continente europeo
attraverso la Germania e lungo le frontiere orientali dell’Austria e
dell’Italia si è improvvisamente dissolta tra l’89 e il ’91 senza un conflitto
catastrofico. Questo enorme risultato non è attribuibile a questa o a quella
persona, ad esempio al cancelliere tedesco cristiano democratico Khol, al quale
pure si deve il processo di riunificazione politica, economica e sociale della
Germania e il ritiro pacifico dell’Armata rossa dalla Germania orientale, o del
nostro De Gasperi, democratico cristiano, o di altri, che si spesero in momenti cruciali. Si è infatti trattato
innanzi tutto di un’opera collettiva, corale, in cui sono stati protagonisti i
popoli europei. Per questo qualche giorno fa ci hanno dato il premio Nobel. Penso che si debba partire da
questa considerazione anche per riflettere sulle ragioni del nostro stare
ancora insieme in un gruppo di Azione Cattolica, impegnato, soprattutto dopo il
Concilio Vaticano 2°, a diffondere valori
nella società, in unione con tutte le altre persone di buona volontà.
Si osserva qualche
volta che il Concilio Vaticano 2° ebbe una visione ottimistica dei tempi.
Effettivamente, considerando quell’evento complessivamente, può essere
osservato che i capi ecclesiali i quali ne furono protagonisti nutrivano una
certa fiducia nella gente comune, in particolare in noi laici. E, visti i risultati, non direi che si siano ingannati.
Scrutarono, come scrissero, i segni dei
tempi e vi videro straordinarie opportunità,
determinate dal fatto che la gente, che in passato era stata in genere succube
dei propri capi politici, si era mostrata in grado di influenzare positivamente
il corso della storia.
I documenti
conciliari furono scritti da teologi cattolici. Il particolare metodo seguito
dalla teologia cattolica comporta che il
nuovo in genere non venga proposto
come trascinato dal futuro e verso di
esso in rottura con il passato, ma venga presentato come scaturente, e spinto
verso il futuro, da radici, in primo luogo in base alle scritture sacre e alla
tradizione, quindi da un passato gravido di futuro, senza cesure, senza
soluzioni di continuità. Questo anche quando ci si propone di attuare
cambiamenti molto significativi.
Ad un certo momento
diventò centrale, nei discorsi conciliari, l’idea di popolo animato da grandi ideali religiosi, che venne presentato
come nuovo (benché iniziato quasi
duemila anni prima e animato da una missione analoga di salvezza) rispetto
a quello antico costituito
dall’Israele storico, senza che però il nuovo
privasse di senso l’antico, data
l’irrevocabilità delle promesse dall’alto e il radicamento del cristianesimo
nell’ebraismo antico. Oggi questi discorsi non suscitano generalmente problemi,
ma ancora ai tempi del Concilio Vaticano 2° sì, e di molto grossi, e questo sulla base di una
teologia molto antica, risalente ai primi scrittori autorevoli della Chiesa,
dalla quale si erano tratte (indebitamente come riconoscemmo) conseguenze molto
gravi dall’idea di un nuovo che sostituiva l’antico. Ecco che, allora, questo ideale di nuovo popolo (in senso
prevalentemente storico e religioso) al
quale ci si riferì durante il Concilio quando si parlava di popolo di Dio, iniziato con il
cristianesimo circa duemila anni prima, venne ad un certo punto ad assomigliare abbastanza, per come veniva
caratterizzato, a quello di popolo nuovo (in senso prevalentemente sociale:
nel senso di collettività organizzata con proprie istituzioni e principi) - in
italiano si coglie una differenza di significato anteponendo o posponendo
l’attributo nuovo - manifestatosi
solo dopo la Seconda guerra mondiale, dove nella prima espressione si aveva
riguardo essenzialmente alla formazione di un popolo unificato su basi
prevalentemente religiose rispetto a quello, che lo aveva preceduto
storicamente, costituito prevalentemente su basi etniche, mentre nella seconda
si faceva riferimento a un tipo di
società umana come non c’era mai stata prima, che si era organizzata
storicamente nelle Nazioni Unite e in
altre organizzazioni (tra le quali oggi vi è la nostra Unione Europea) caratterizzate dalle medesime idealità e in
particolare dall’affermazione dell’universalità
di certi diritti umani fondamentali e dell’obiettivo della pace perpetua globale. Un’umanità nuova in cui, ad esempio, appunto, i
cristiani, per quegli ideali umanitari
non (più) visti in contraddizione con quelli religiosi da loro professati, si
proponevano di non perseguitare più gli ebrei e quindi in cui coloro che consideravano sé stessi il nuovo non cercavano più di sopprimere
coloro che consideravano l’antico. In
questo si poté quindi cogliere una “novità” di tipo nuovo del popolo
di Dio, ma radicata nelle origini, per cui l’evidente cambiamento di rotta venne considerato, in definitiva, una correzione di rotta, insieme pentimento e conversione, teshuvà in ebraico, come poi, anni dopo,
venne detto esplicitamente, in particolare dal papa Giovanni Paolo 2°.
Ecco quindi un compito che si
può individuare per noi cattolici europei che viviamo in una relativamente
tranquilla periferia della Roma di oggi:
contribuire a consolidare come nuovo
popolo (in senso religioso) il popolo nuovo
(in senso sociale) che siamo diventati insieme a molti altri i quali, anche
se non sono come noi esplicitamente religiosi, condividono certe nostre
idealità che a ben considerare hanno fondamento religioso. Che è come dire:
consolidare nella società di oggi certi valori
che hanno base religiosa, come non cessano di ricordarci i nostri vescovi.
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19
Micro-Macro e la ricerca della felicità
(20 ottobre 2012)
Riprendo la riflessione sul libretto Giuseppe Dossetti, Eucaristia e città, Editrice A.V.E.,
2011, pagine 129, euro 8,00, formato tascabile (cm 11,5x16,5), con introduzione
di Giorgio Campanini e un pezzo di Giuseppe Gervasio inserito come prefazione
alla precedente edizione del 1997 (si tratta del testo di un intervento che
Dossetti, ormai prete e monaco dopo essere stato molti anni prima professore
universitario e politico, fece il 1 ottobre 1987 durante il Congresso
eucaristico della diocesi di Bologna):
Come la Chiesa
riunita dell’assemblea eucaristica è l’epifania [=manifestazione. Nota mia] anticipata del Regno, così la Chiesa inviata dall’Eucaristia è
un’epifania della “polis” [=città in senso politico, come organizzazione
sociale. Nota mia] salvata: “politicità”
tutta “sui generis” [=in un senso particolare, suo proprio. Nota mia], che non governa e non ha potere, che non
muove verso gli altri per quello che hanno di appetibile, ma unicamente per
quello che sono “in mysterio” [nel mistero della loro realtà che rileva per
fede religiosa. Nota mia] (anche se
poveri, deformi, incoscienti, in tutto inappetibile): cioè incontra l’uomo
dall’esterno e in superficie, ma lo incontra nel suo “sé” più intimo, più
invisibile, più pneumatico [=spinto dallo spirito religioso. Nota mia], creando e divulgando ovunque – nel seno di ogni società grande o piccola,
soprattutto nei micro modelli di comunità nuove che alcuni sociologi laici ora
raccomandano – un’atmosfera di rispetto,
di comprensione, di fiducia, di valorizzazione degli esclusi, di amore-oblativo
[=che si impegna per venire incontro alle esigenze degli altri, con
spirito materno. Nota mia] indipendente da ogni condizione esterna e
mutevole che “non avrà mai fine” ( 1 Cor 13,8). [opera citata, pagine
121 e 122].
Queste parole di Dossetti ricordano quelle che
troviamo nella costituzione dogmatica Lumen
gentium, del Concilio Vaticano 2°, al capitolo 2°, n. 19:
[…] il
popolo messianico, pur non comprendendo effettivamente l’universalità degli
uomini e apparendo talora come un piccolo gregge, costituisce tuttavia per
tutta l’umanità il germe più forte di unità, di speranza e di salvezza.
Costituito da Cristo per una comunione
di vita, di carità e di verità, è pure da lui assunto ad essere strumento
di redenzione di tutti e, quale luce del mondo e sale della terra (si
confronti Mt 5,13-16), è inviato a tutto il mondo.
Essere inviati
collettivamente al mondo per essere strumenti
di redenzione, vale a dire per influire
su di esso per salvarlo dal male che c’è in giro, denota una politicità della nostra esperienza
religiosa, che ha quindi molto a che fare con i fatti della nostra società e
che quindi non si limita alla spiritualità personale e al miglioramento
individuale del fedele. Essa tuttavia è di tipo particolare, specialmente
perché rifiuta di dominare gli altri
e si propone di incontrarli nel loro
intimo in un nuovo clima di umanità, includendoli in un nuovo stile di
relazioni personali. In un certo senso questo significa realizzare in concreto
un tipo di felicità, una società in
cui nessuno sia escluso, in cui tutti si sentano apprezzati e in cui si venga
incontro alle esigenze degli altri con trasporto di tipo materno e li si tratti con animo fraterno, riconoscendo loro quella particolare dignità che deriva loro dall’essere figli di un padre comune
(notate che certi concetti possono essere espressi bene solo con metafore
tratte dalla vita familiare, molto idealizzata).
Ora, naturalmente quest’ordine di idee
presenta già qualche problema se lo si applica a piccoli gruppi, i quali pure
vogliano impegnarsi effettivamente a realizzare quel tipo di comunità a cui si riferiva la Lumen gentium, ma certamente si scontra duramente con la realtà
sociale di collettività molto più vaste, composte da milioni, decine di
milioni, centinaia di milioni di individui. E infatti, ad esempio, gli
illuminati rivoluzionari che sottoscrissero la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America (1776) si limitarono prudentemente a riconoscere il
diritto fondamentale alla ricerca della felicità, senza impegnarsi direttamente a realizzarla come
collettività. E’ chiaro dunque che questo lavoro
nella società a cui siamo stati chiamati (infatti siamo convinti di essere
stati ad essa inviati), è
particolarmente difficile, supera senz’altro le possibilità di un singolo
individuo e richiede un’azione collettiva, un associarsi con altri che sono
ispirati dalle nostre stesse idealità. Esso parte dai principi religiosi, ma richiede anche una sapienza umana
che origina da ciò che ciascuno è, sa fare, sa capire, passa per la
comprensione dei tempi e del mondo in cui si vive, interagisce con quanto altri sono, fanno,
sanno capire, conoscono del mondo in cui vivono, e può produrre determinazioni comuni su ciò
che collettivamente si debba realizzare, propositi e progetti concreti. Ma c’è
di più: pur occupandosi di dimensioni sociali macroscopiche, come può essere ad
esempio l’organizzazione di una città o di un quartiere, deve mantenere
comunque vitali quelle dimensione
sociali molto più piccole, fatte di gruppi di dimensioni molto più limitate, a
partire da quelle a base parentale, nelle quali ciascuno trova sostegno,
orientamento e fondamentale appagamento. Questo appunto, a mio avviso,
significa non incontrare l’uomo
dall’esterno e in superficie, ma nel
suo “sé” più intimo, secondo l’espressione utilizzata da Dossetti: quindi
tenere insieme macro e micro. Questo lavoro di cui ho parlato è
il campo operativo principale dell’Azione Cattolica.
Per oggi concludo osservando, nella linea di
Dossetti, che in tutto questo agire collettivo ben ispirato si è indubbiamente
esposti a una tentazione piuttosto forte, che è quella di ritenere che l’opera
del nostro ingegno, le costruzioni sociali che riusciamo storicamente a
realizzare, corrispondano ad un certo punto a un modello di perfezione sotto il
profilo propriamente religioso, si tratti di famiglia naturale, di comunità religiosa, di organizzazione di una città, di uno stato nazionale, di un
ordinamento pubblico sovranazionale e, al limite, di un ordinamento globale di
tutti i popoli della Terra, come nelle intenzioni vorrebbe essere
l’organizzazione delle Nazioni Unite. Questa
identificazione tra soprannaturale e naturale, espressa storicamente dal motto Dio è con noi, non la possiamo però
legittimamente mai affermare, perché ci è stato detto che il Regno beato non è di questo mondo, con tutto ciò che da questo
consegue. Nella visione di Dossetti, per quanto (giustamente) ci si dedichi a
costruire comunità amorevoli e
materne, ogni espressione della
socialità umana mantiene una certa ambiguità e ambivalenza e in essa elementi
positivi, rispetto alla concezione di fede, sono sempre mescolati a elementi
negativi e permane, quindi, in essa un certo contrasto tra ciò che si è riusciti storicamente ad attuare e
quello che definiamo come “il Regno”. E ciò si avverte con più forza a
misura che le collettività organizzate diventano più grandi, aggregando
moltitudini, fino a sfiorare la globalità, le dimensioni dell’umanità intera, e
a misura in cui esse incidono maggiormente nelle vite delle persone. Dossetti
precisa:
Il regno di Dio
è Regno dei cieli: e quindi viene dall’alto, per volontà e opera di Dio. Non si
realizza e neppure si prepara e si affretta per sinergia umana. E’ un fatto
assolutamente sovrannaturale e miracoloso. Non è un bene comune,
architettonicamente sommo, che si possa gradualmente predisporre per forze
creaturali.
Rimane pertanto questo paradosso, che,
inviati verso gli altri per
migliorare sulla base dei nostri principi di fede le società in cui insieme ad
essi viviamo, in fondo rimaniamo sempre in quelle società degli estranei, degli
stranieri, dal punto di vista
religioso, anche quando collaboriamo alla loro edificazione. C’è sempre
infatti, alla fine, una certa insoddisfazione rispetto ai risultati ottenuti e
questo è vero non solo per le realtà profane, ma anche per quelle
specificamente religiose, in ciò che esse hanno di umano. Al nostro “sesto giorno” guardiamo l’opera
nostra comune e non riusciamo mai a concludere che è cosa molto buona, vi troviamo sempre qualcosa di migliorabile. E, rispetto ad ogni nostra città, in un certo qual modo ci troviamo
nello stato di chi è in procinto di andarsene di lì a poco; cerchiamo in genere
di mantenere un certo distacco. Questo che sembrerebbe un inconveniente non da
poco nell’ottica della nostra completa integrazione
civile, in realtà ci pone in una condizione di particolare libertà rispetto
alle cose umane, in particolare alle società in cui viviamo. E, benché il
nostro essere religiosi non ci ponga in una sorta di condizione di anarchia e
quindi, vivendo nella società, effettivamente ci sottomettiamo alle autorità
costituite, in particolare a quelle civili, dando ad esse ciò che a ciascuna di
loro compete, questo sottomettersi, scrive Dossetti (pag.42) non vuole dire necessariamente sempre
obbedire. In questo senso, come scrisse anni fa Paolo Giuntella nel libro
omonimo, il nostro cristianesimo può essere effettivamente una strada verso la libertà.
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20
Uguale dignità nella Chiesa tra tutti i fedeli
(21 ottobre 2012)
Sintetizzo le
riflessioni che ho svolto nei giorni scorsi su uno dei temi ancora caldissimi del Concilio Vaticano 2°
(1962-1965), nel senso che in quella grande assemblea fu intuito e sviluppato
concettualmente, ma ancora la sua realizzazione è, come dire, in corso
d’opera, e si tratta di un lavoro in cui
l’Azione Cattolica è particolarmente impegnata.
Prima di cominciare
richiamo alla vostra memoria questo che segue, di cui mi sono occupato in
interventi precedenti: a)dalla fine del Settecento e in particolare dalla metà
del secolo scorso, si è prodotta nel mondo una evoluzione politica delle
istituzioni supreme per la quale si è passati da forme di governo
caratterizzate dall’accentramento del potere in poche persone, dalle quali poi
il potere veniva delegato in un scala gerarchica discendente, ad altre che
consentivano una più larga partecipazione delle genti; b) questi sviluppi erano
basati sull’idea di uguaglianza intesa come pari dignità sociale; c) la pari dignità sociale è fondata
sull’affermazione di diritti fondamentali
che devono essere riconosciuti a moltitudini di esseri umani; d) il
riconoscimento di questi diritti fondamentali è alla base del metodo democratico, quello che rende
possibile la partecipazione di masse al potere supremo e che quindi non
consiste solo nella regola secondo la quale vince la maggioranza; e) dopo il
secondo conflitto mondiale il movimento per il riconoscimento universale dei diritti umani fondamentali di tutti gli
esseri umani ha avuto il suo massimo sviluppo, producendo, ad esempio con a Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo delle Nazioni Unite,
una serie di dichiarazioni in cui quei diritti fondamentali non vennero più
legati a una condizione di cittadinanza
politica particolare (essere cittadini italiani o di un altro stato), ma
alla sola condizione di esseri umani;
f) nel mondo globalizzato (che
significa unificato dal farsi più deboli le frontiere politiche che lo
dividevano) di oggi il sistema dei diritti umani fondamentali sta avendo la sua
massima estensione ed è alla base dell’idea di cittadinanza universale, realizzata la quale non vi sarebbero più
nel mondo apolidi, genti private di
una qualche possibilità di influire sui destini comuni; g) l’idea
dell’esistenza di diritti umani
fondamentali ha fondamento religioso e, in particolare, fondamento
religioso cristiano, perché, in
fondo, non può argomentarsi per altra via l’idea della pari dignità degli esseri umani, che per i cristiani dipende
dall’essere stati tutti gli esseri umani creati
uguali sotto quel profilo della dignità, da un unico Padre.
Questi sviluppi democratici dell’ordine mondiale
trovarono eco nella gerarchia cattolica a partire dal radiomessaggio natalizio del 1944 del papa Pio 12° (la Seconda Guerra Mondiale
era ancora in corso in una sua fase particolarmente cruenta):
Il
problema della democrazia
Inoltre — e questo è forse il punto più importante
—, sotto il sinistro bagliore della guerra che li avvolge, nel cocente ardore
della fornace in cui sono imprigionati, i popoli si sono come risvegliati da un
lungo torpore. Essi hanno preso di fronte allo Stato, di fronte ai governanti,
un contegno nuovo, interrogativo, critico, diffidente. Edotti da un'amara
esperienza, si oppongono con maggior impeto ai monopoli di un potere
dittatoriale, insindacabile e intangibile, e richieggono un sistema di governo,
che sia più compatibile con la dignità e la libertà dei cittadini.
Queste moltitudini, irrequiete, travolte dalla
guerra fin negli strati più profondi, sono oggi invase dalla persuasione —
dapprima, forse, vaga e confusa, ma ormai incoercibile — che, se non fosse
mancata la possibilità di sindacare e di correggere l'attività dei poteri
pubblici, il mondo non sarebbe stato trascinato nel turbine disastroso della
guerra e che affine di evitare per l'avvenire il ripetersi di una simile
catastrofe, occorre creare nel popolo stesso efficaci garanzie.
In tale disposizione degli animi, vi è forse
da meravigliarsi se la tendenza democratica investe i popoli e ottiene
largamente il suffragio e il consenso di coloro che aspirano a collaborare più
efficacemente ai destini degli individui e della società?
http://www.vatican.va/holy_father/pius_xii/speeches/1944/documents/hf_p-xii_spe_19441224_natale_it.html
Poiché ha rinunciato ad esercitare un potere
politico diretto, salvo che su una specie di simulacro di stato nel quartiere
Vaticano in Roma, e ritiene di avere la missione di custodire inalterati alti
ideali che riguardano il senso dell’universo, il destino degli esseri umani e
la morale, la gerarchia della Chiesa cattolica, intesa come il papa e i vescovi, non ha voluto, sulla scia del
movimento democratico globale, democratizzare
anche la Chiesa
cattolica, nel senso di sottoporre certe decisioni supreme, ma anche molte di
minore spessore, al consenso della maggioranza. Paradossalmente quindi la Chiesa, pur
consigliando la democrazia al suo esterno, rimane una potenza non democratica, essendo tutto il potere canonico
(sull’organizzazione ecclesiale) concentrato nel Papa romano e nella sua
piccola corte (la Curia vaticana) e solo parzialmente decentrato ad altri
vescovi. Tuttavia gli sviluppi contemporanei dell’idea di pari dignità degli esseri umani, che del resto ha
fondamento religioso, non sono stati del tutto senza conseguenze nella Chiesa. Ciò si rileva particolarmente nei
documenti del Concilio Vaticano 2°, che per altro, secondo il metodo della
teologia cattolica, la quale si sforza di tenere
sempre insieme vecchio e nuovo,
passato, presente e futuro, l’umanità antica e quella nuova, i morti e i vivi e
i popoli di tutta la Terra, secondo il comandamento
di unità ricevuto, sono formulati in modo da evidenziare particolarmente la continuità piuttosto che la novità.
Un passo centrale lo si ritrova nel capitolo
4°, n. 32, della Costituzione dogmatica Lumen
Gentium sulla Chiesa, dove è
affermata la vera uguaglianza riguardo
alla dignità e all’azione comune di tutti i fedeli nell’edificare il Corpo di
Cristo. Questo il brano:
Dignità dei laici nel popolo di Dio
32. La santa Chiesa è, per
divina istituzione, organizzata e diretta con mirabile varietà. «A quel modo,
infatti, che in uno- stesso corpo abbiamo molte membra, e le membra non hanno
tutte le stessa funzione, così tutti insieme formiamo un solo corpo in Cristo,
e individualmente siano membri gli uni degli altri » (Rm 12,4-5).
Non c'è
quindi che un popolo di Dio scelto da lui: « un solo Signore, una sola
fede, un solo battesimo » (Ef 4,5); comune
è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la
grazia di adozione filiale, comune la vocazione alla perfezione; non c'è che
una sola salvezza, una sola speranza e una carità senza divisioni. Nessuna ineguaglianza quindi in Cristo e
nella Chiesa per riguardo alla stirpe o nazione, alla condizione sociale o al
sesso, poiché « non c'è né Giudeo né Gentile, non c'è né schiavo né libero,
non c'è né uomo né donna: tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3,28 gr.;
cfr. Col 3,11).
Se quindi nella Chiesa non
tutti camminano per la stessa via, tutti
però sono chiamati alla santità e hanno ricevuto a titolo uguale la fede che
introduce nella giustizia di Dio (cfr. 2 Pt 1,1). Quantunque alcuni per volontà
di Cristo siano costituiti dottori, dispensatori dei misteri e pastori per gli
altri, tuttavia vige fra tutti una vera
uguaglianza riguardo alla dignità e all'azione comune a tutti i fedeli
nell'edificare il corpo di Cristo.
http://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19641121_lumen-gentium_it.html
Che cosa comporta, per noi laici, questa pari dignità nella Chiesa?
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21
Città di Dio, città dell’uomo, città del diavolo
(22 ottobre 2012)
Il peccato che
è nell’uomo decaduto si ritrova anche nelle sue città e nelle forme sociali più
vaste e complesse: queste ultime possono assicurare agli uomini vantaggi
sensibili in varie direzioni, ma tendono a porsi come grandi concentrazioni di
potere (le megalopoli, gli imperi) e divenire sempre più anonime e soprattutto
consentire uno sfrenamento più incontenibile delle peggiori passioni umane:
l’ambizione prevaricatrice, l’avidità di illimitati guadagni, il lusso
spettacolare, la lussuria sempre più cupida di ogni perversione,
l’adulterazione industrializzata della verità, lo spargimento ingiusto di
sangue ecc. Sicché non si può parlare di un’ambivalenza delle forme sociali e
del potere, come fanno molti sociologi contemporanei, ma il credente deve
riconoscere un loro inquinamento profondo con altissimi rischi: il rischio più
grave di tutti è la guerra, sempre più generalizzata e distruttiva a livello
planetario.
[da Giuseppe
Dossetti, Eucaristia e città, Editrice
A.V.E., 2011, pagine 131, euro 8,00]
Dossetti pronunciò le parole sopra riportate
dopo aver preso sinteticamente in rassegna la dottrina e l’esperienza biblica,
dai primordi di Israele a tutto il Nuovo Testamento. Si era nel 1987, in un
mondo molto diverso da quello in cui viviamo oggi e, in particolare, non si era
ancora nell’era della globalizzazione,
della interconnessione planetaria delle economie e delle società umane. L’umanità era dominata da due grandi sistemi
politici sovranazionali, quello centrato sugli Stati Uniti d’America e quello
che prendeva a riferimento l’Unione Sovietica, e seguiva due gruppi di sistemi
economici, piuttosto articolati al loro interno, quelli di tipo capitalista e
quelli di tipo socialista-collettivista. Le accuse di perversione sociale
venivano lanciate e rilanciate dall’uno all’altro degli schieramenti, che
concepivano sé stessi come reciprocamente alternativi, l’uno il rovescio
dell’altro. Questo comportava che chi, in ciascuno di quegli universi sociali
contrapposti, assumesse una posizione critica nei confronti della civiltà umana in cui si trovava, poteva fare
riferimento all’altro mondo che le si contrapponeva come a un mondo alternativo, al regno
del bene, a un modello positivo.
Ai tempi nostri quest’alternativa sembra mancare, perché la Terra sembra retta
da potenze umane omogenee ed è diventata così più significativa la critica
globale alle società umane che si può ricavare dal dato biblico, seguendo
Dossetti: il male appare come universalmente connaturato con l’esperienza delle
società umane e da esse ineliminabile. Come disse Dossetti, non vi è quindi una
semplice ambivalenza tra male e bene,
ma un inquinamento profondo che ora
si manifesta come pervasivo di tutta l’umanità, senza reali alternative. E
tuttavia, paradossalmente, il rischio di
guerra globale, ancora molto alto al tempo in cui Dossetti pronunciò quelle
parole, sembra oggi molto meno forte in una umanità molto più numerosa dei
tempi antichi, con il conseguente aumento dei motivi di conflitto, e in un
tempo in cui le capacità distruttive si sono enormemente accresciute. Questa è anche opera umana. La pace ha
anche una valenza religiosa e quindi si è spinti a ragionarci su anche sotto
questa prospettiva. E ci si può chiedere come conciliare le esigenze di impegno
nel mondo nuovo in cui ci troviamo a
vivere con il pessimismo biblico
sulle organizzazioni sociali umane.
Bisogna allora evidenziare un importante
problema che noi, gente di fede, abbiamo nel trattare, insieme con altre
persone al di fuori della cerchia di chi condivide le nostre convinzioni
religiose, le cose del nostro mondo: i principi ai quali vogliamo riferirci per
orientare le nostre condotte individuali e collettive sono tratti da un’antica
sapienza che si è formata in un mondo radicalmente diverso da quello in cui
viviamo. Non si tratta di una differenza di un più rispetto al meno (oggi, ad
esempio, il mondo è più popolato; le armi oggi sono più
potenti e via dicendo), si tratta di una novità
profonda, strutturale e piuttosto recente. Non dobbiamo però pensare che si
tratti di un processo anche irreversibile.
I tempi nuovi in cui ci troviamo
dipendono da una certa organizzazione sociale molto complessa e quindi anche
particolarmente fragile, nonostante la sua pervasività e potenza globale. Anni
fa uno scrittore italiano scrisse un libro vaticinando le condizioni della morte di megalopoli, della crisi di un’organizzazione sociale umana
moderna molto articolata e complicata. Un nuovo
medioevo, in senso negativo, una regressione
catastrofica, è quindi senz’altro possibile, ipotizzabile. Ce ne possiamo
prefigurare le condizioni. Le tempeste che travagliano le relazioni economiche
su scala globale ne possono essere considerate in qualche modo delle
avvisaglie. Oggi più che in qualsiasi
altra precedente epoca storica appare quindi rilevante, nel dirigere le nostre
società, una sapienza che scaturisce da competenze umane molto raffinate e
dall’interazione solidale e virtuosa tra i centri collettivi di potere, in una tensione verso il bene dell’umanità, per
preservarla dai pericoli e dal male che
sempre incombe. Pur nella consapevolezza religiosa dell’influsso di potenze invisibili, quella che spinge
verso la Città di Dio e quella che
invece tenta verso la Città del diavolo,
compresenti nelle nostre società come in ogni singola persona, sembra che per
la costruzione della Città dell’uomo,
espressione cara a Giuseppe Lazzati (1909-1986), ai tempi nostri ci si debba
impegnare molto nella storia umana, più che nelle ere passate, nella ricerca in
concreto di soluzioni escogitate responsabilmente da noi stessi, ragionando e
cooperando con tutti coloro che sono bene intenzionati, avendo innanzi tutto di
mira la prevenzione di quel gravissimo rischio di cui parlava Dossetti, quello
di una guerra globale e catastrofica, e poi di quello che Dossetti nel 1987 non
poteva ancora presagire, di una crisi economica catastrofica globale, una
specie di carestia biblica che
coinvolga tutta la Terra. Non possiamo limitarci a considerarci solo spettatori del conflitto cosmico soprannaturale.
Siamo spinti a scuoterci da una certa passività
nell’impegno sociale che può derivare da quel pessimismo religioso sulle cose umane a cui ho accennato e dal concepirci sempre
come stranieri in ogni patria
terrena, nel senso però di estranei. E l’esperienza storica, ad esempio quella
della cooperazione europea sfociata nell’Unione Europea di oggi, ha dimostrato
che questi sforzi collettivi possono avere successo. Ogni soluzione, però, non sarà mai univoca:
per ogni problema se ne possono infatti
pensare di diverse e le predizioni sulla loro efficacia si sono
dimostrate in diverso grado fallibili. Inoltre ogni tipo di soluzione è
strettamente correlato al tipo di problema al quale risponde e i problemi hanno
un’evoluzione storica, come tutte le cose umane e come gli stessi esseri umani.
Questo incide abbastanza sulla possibilità di formulare una dottrina sociale che coniughi in modo
realistico, universale e definitivo le esigenze della nostra fede religiosa,
che è strutturata anche su principi che si riferiscono a un mondo che non c’è
più, con quelle dell’umanità di oggi. E, prima di ogni cosa, sull’affidabilità
di una dottrina con quelle pretese
formulata con autorità da capi religiosi che fanno principalmente riferimento a
un contesto teologico, di coerenza teologica.
Mi piacerebbe, a
questo punto, concludere anticipandovi la
soluzione delle soluzioni, il discorso ragionevole che chiuda il sistema in
modo rassicurante per noi persone religiose, chiarendo che il problema è solo
apparente e che vi è ancora una via semplice
per vivere da persone di fede nel nostro tempo. Tuttavia non posso farlo,
perché di passo in passo vi ho portato sulle frontiere estreme delle nostre
concezioni religiose, oltre le quali, benché la storia ci spinga
collettivamente in quella direzione, non si sa bene che cosa ci si debba
aspettare.
Voglio precisare che
la novità della situazione dei tempi nostri è apprezzabile essenzialmente su
scala globale, mondiale, perché su scale più piccole (nazione, regione, città,
quartieri, condomini ecc.) le cose si presentano diversamente e mantiene piena
affidabilità orientativa il contesto tradizionale dei principi di fede,
caratterizzato da un certo pessimismo sulle faccende umane. Questo rientra
nella nostra esperienza quotidiana. Eppure il nuovo ci si presenta anche in
essa, nella nostra vita feriale, e
può, ad esempio, avere il volto dell’immigrato da un altro continente che
chiede il riconoscimento di una cittadinanza
universale sulla base di quella nuova
organizzazione globale delle cose umane di cui dicevo. In questioni come queste anche
noi, individualmente e come piccoli gruppi, abbiamo voce in capitolo e non si
tratta sempre di scelte facili. E sul risultato globale, per i meccanismi delle
democrazie di popolo che reggono le nostre società, incideranno anche le nostre
scelte, così come esse hanno certamente influito, in una dinamica corale, sul risultato dei tanti decenni di pace nel
continente europeo.
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22
Quale impegno nell’Anno della
Fede? Andare avanti!
(24 ottobre 2012)
Nella riunione di
ieri del nostro gruppo ci siamo interrogati su quale debba essere il nostro
atteggiamento in questo Anno della Fede,
indetto dal papa Benedetto 16° con la lettera apostolica Porta Fidei (trad. porta della fede) dell’11 ottobre
2011 e aperto lo scorso 11 ottobre,
cinquantesimo anniversario dell’inizio del Concilio Vaticano 2° (1962-1965).
Potete trovare il
documento all’indirizzo WEB:
http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/motu_proprio/documents/hf_ben-xvi_motu-proprio_20111011_porta-fidei_it.html
Leggendo le parole del Papa possiamo
individuare questi presupposti e
obiettivi dell’iniziativa:
·
entrare
nella Chiesa significa impegnarsi in un cammino
che dura tutta la vita. La fede cristiana
è come una porta che, attraverso il
Battesimo, ce lo fa iniziare;
·
bisogna
riscoprire questo cammino nella fede,
perché la fede ai tempi nostri non è più
un presupposto ovvio;
·
dobbiamo
ritrovare il gusto di nutrirci del cibo che rimane per la vita eterna,
vale a dire della Parola di Dio
trasmessa dalla Chiesa e del Pane di vita,
per continuare a credere in Gesù, il Cristo;
·
attraverso
la propria testimonianza di vita i cristiani sono poi chiamati a far risplendere la Parola di verità che il
Signore Gesù ci ha lasciato;
·
l’Anno della Fede in questa prospettiva è un impegno a una rinnovata e autentica
conversione al Signore, unico Salvatore del mondo;
·
in
questo spirito è anche necessario un più convinto impegno ecclesiale
a favore di una nuova evangelizzazione per riscoprire la gioia nel credere e
ritrovare l’entusiasmo nel comunicare la fede; esso scaturisce da una fede rafforzata;
·
il percorso comune nell’Anno della Fede deve portarci a capire in modo più profondo non
solo i contenuti della fede ma anche il
senso del credere, l’atto con cui decidiamo di affidarci
totalmente a Dio, in piena libertà, che è dono di Dio e azione della
sua grazia, la quale agisce e trasforma la persona fin nel suo intimo;
·
la professione di fede comporta anche assumersi la responsabilità sociale di ciò
che si crede: non è un fatto privato e implica
anche una testimonianza ed un impegno pubblici; essa quindi è un atto personale ed insieme comunitario. E’ la Chiesa,
infatti, il primo soggetto della fede;
·
per la
conoscenza sistematica dei contenuti della fede cristiana tutti possono
trovare nel Catechismo della Chiesa
cattolica (1993; 1997) un sussidio prezioso ed indispensabile;
·
non
dobbiamo temere di argomentare razionalmente la fede, anche in quest’epoca in
cui molti ritengono che certezze razionali possano conseguirsi solo nell’ambito
del pensiero scientifico e tecnologico, perché confidiamo che tra la fede e la
scienza non vi sia conflitto, in quanto entrambe, anche se per vie diverse, tendono alla verità;
·
sarà
decisivo nel corso di questo Anno
ripercorrere la storia della nostra fede, la quale vede il mistero insondabile
dell’intreccio tra santità e peccato;
·
In questo tempo siamo invitati a tenere fisso lo sguardo su Gesù Cristo, “colui che
dà origine alla fede e la porta a compimento; in lui, morto e risorto per la nostra salvezza, trovano piena luce gli
esempi di fede che hanno segnato questi duemila anni della nostra storia di
salvezza”;
·
nell’Anno
della fede dobbiamo vedere anche un’occasione per intensificare la nostra testimonianza della carità; la fede senza la carità non porta frutto e
la carità senza la fede sarebbe un sentimento in balia costante del dubbio.
Fede e carità si esigono a vicenda, così che l’una permette all’altra di
attuare il suo cammino;
·
nell’Anno
della Fede siamo inviati a scuoterci da una certa pigrizia nel conoscere e testimoniare la nostra fede religiosa
comune; in particolare ciò riguarda i più anziani, che ritrovino gli ideali di
gioventù: “Giunto ormai al termine della
sua vita, l’apostolo Paolo chiede al discepolo Timoteo di ‘cercare la fede’
(cfr 2Tm 2,22) con la stessa
costanza di quando era ragazzo (cfr 2Tm
3,15). Sentiamo questo invito rivolto a ciascuno di noi, perché nessuno diventi pigro nella fede”.
·
nella fede siamo ricolmi di gioia perché, pur
vivendo anche l’esperienza della sofferenza “noi
crediamo con ferma certezza che il Signore Gesù ha sconfitto il male e la
morte. Con questa sicura fiducia ci affidiamo a Lui: Egli, presente in mezzo a
noi, vince il potere del maligno (cfr Lc
11,20) e la Chiesa, comunità visibile della sua misericordia, permane in Lui
come segno della riconciliazione definitiva con il Padre”.
Ora, uno dei modi di intendere gli impegni
proposti nell’Anno della Fede
è quello di presentarli come un cammino
di ritorno: ci siamo allontanati dalla verità e ritorniamo indietro, riconoscendo il male che c’è in noi e che da
noi è scaturito. Questo corrisponde a figure storiche che troviamo nell’Antico
Testamento e, in definitiva anche a insegnamenti che troviamo nel Nuovo. Ma esso
presenta alcuni problemi, che sono collegati all’idea di cammino, a questa che è una metafora bella e suggestiva fino a che corrisponda a come la
Chiesa vuole concepire sé stessa. Ora, a ben considerare, questa idea del ritorno nella lettera apostolica citata non c’è (c’è quella di conversione, che è un’altra cosa: è
cambiamento e nuovo orientamento come manifestazione di fede). Infatti il cammino che si propone ai fedeli non è verso la fede, ma a partire dalla fede (concepita come una porta). Certo, poi, per opera della grazia dalla nostra
testimonianza di fede può accadere che altri, dal di fuori, decidano di passare per quella porta, ma per loro non si tratterà di un ritorno. Il documento del Papa a questo proposito si apre con la
citazione di un brano degli Atti degli apostoli, 14,27 in cui si legge
(versione CEI 2008):
Appena
arrivati, riunirono la Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva fatto
capire per mezzo loro e come avesse
aperto ai pagani la porta della fede.
Quel passo si riferisce al ritorno di Paolo e
di altri suoi compagni da una missione in città del mondo pagano del loro
tempo.
Per quanto indubbiamente nella vita delle
persone ci possano essere momenti in cui esse si allontanano dalla Chiesa e poi le
si avvicinano nuovamente, in un movimento effettivamente di ritorno, e quindi ci sono anche dei
gruppi per così dire specializzati
nel favorire questa decisione di rientro
(anche se è tutta la Chiesa che dovrebbe ritenersi impegnata in questo), nella
lettera apostolica citata non è questo ad
essere centrale. Piuttosto il Papa appare preoccupato di una certa pigrizia e distrazione
di noi fedeli nel rispondere alle
esigenze di fede, nel trarre le conseguenze dalla nostra professione di fede, e
teme che questo accada perché riflettiamo troppo poco su di essa. Non ci siamo
dedicati abbastanza a tenere viva la comprensione dei contenuti della nostra
fede e nel nostro impegno sociale, quando c’è stato, a volte abbiamo tenuto più conto delle conseguenze sociali, culturali e politiche di esso che della sua
origine religiosa, in una sorta di secolarizzazione
dell’azione nostra. L’Anno della Fede, per
come io credo di aver compreso l’invito che ci è stato rivolto, deve così
servire a scuoterci da questa pigrizia e a porci nuovamente in cammino secondo l’orientamento che ci viene
dalla comune fede religiosa: appunto un cammino
nella fede. Come battezzati infatti, a prescindere da
quella pigrizia e da quelle distrazioni abbiamo mantenuto sempre
piena cittadinanza nella nostra Chiesa, non ne siamo mai usciti e nessuno ce ne
può cacciare fuori, e questo è un effetto irreversibile del Battesimo.
Questo dobbiamo sempre ribadire con
la massima forza, contro ogni retriva tentazione reazionaria, che storicamente
purtroppo è sempre presente di quando in
quando.
Per come la vedo io,
noi, piccolo gregge dell’Azione Cattolica in San Clemente papa, in questo Anno della Fede, non dobbiamo prendere
la strada per andare da qualche parte indietro,
ma siamo spinti proprio dalla nostra fede
in avanti.
La lettera apostolica citata pone poi espressamente, tra gli
impegni per l’Anno della Fede, quello
di “ripercorrere la storia della nostra
fede, la quale vede il mistero insondabile dell’intreccio tra santità e peccato”.
“Mentre la prima evidenzia il grande apporto che
uomini e donne hanno offerto alla crescita ed allo sviluppo della comunità con
la testimonianza della loro vita, il secondo deve provocare in ognuno una
sincera e permanente opera di conversione per sperimentare la misericordia del
Padre che a tutti va incontro.”
In questo ci indica anche quell’impegno di
purificazione della memoria, che
significa comprendere ciò che nel nostro passato ecclesiale non andava nella
direzione giusta e distaccarsene per il futuro (senza con questo volere
anticipare il giudizio divino sulle vite delle persone che di quel passato furono artefici), sulla quale la
nostra Chiesa si è avviata per iniziativa del papa Giovanni Paolo 2° in
occasione del Grande Giubileo dell’Anno 2000.
La concomitanza tra l’apertura dell’Anno della Fede e il cinquantesimo
anniversario dell’inizio del Concilio
Vaticano 2°, grande occasione di aggiornamento
della nostra Chiesa, pur nella fede della Tradizione, rende chiaro che non è al
passato che ci viene chiesto di guardare, in particolare a modi organizzativi
che si riferiscono ad epoche che non sono più.
Ciò che del passato ci viene richiesto di riscoprire è la fede della Tradizione, la fede di sempre, che è fede in colui che
riteniamo il Salvatore dei secoli, ieri, oggi e domani: egli vive e trae a sé
tutto.
Certo, cari amici, ieri contandoci e
considerando le nostre forze reali, dico noi del nostro gruppo in San Clemente
papa, ci siamo chiesti se questo compito verso il quale siamo spinti in questo Anno della Fede non superi di molto le
nostre forze. Ma non dobbiamo scoraggiarci, perché, e questa è una delle cose
che possiamo riscoprire in questo Anno della Fede, noi non siamo soli:
siamo parte di un lavoro collettivo molto più grande e poi confidiamo, nella
fede, in colui che può dare successo a tutte le nostre opere.
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23
E pluribus unum: quale
fondamento per l’unità?
(25 ottobre 2012)
Sullo stemma degli
Stati Uniti d’America compare il motto latino E pluribus unum, che significa da
molti, uno. Fu proposto dai rivoluzionari autonomisti nordamericani Adams,
Jefferson e Franklin nel 1776 e successivamente adottato ufficialmente. Si
riferisce alla volontà delle tredici colonie britanniche nordamericane di
unirsi in una dichiarazione di indipendenza contro la Gran Bretagna, fondata
sulla convinzione della pari dignità umana, per essere stati gli
esseri umani creati uguali in certi diritti umani fondamentali inalienabili
e, innanzi tutto, in quelli alla vita, alla libertà e alla ricerca della
felicità. Perché mi riferisco spesso alla nascita degli
Stati Uniti d’America? Perché quella vicenda storica segna l’origine delle
democrazie contemporanee e, nello stesso tempo, la creazione di un’unità
politica in democrazia caratterizzata da un forte anelito religioso cristiano.
Essa mostra quindi che ideali cristiani e
ideali democratici possono convivere, non sono necessariamente in conflitto.
Ciò con cui la democrazia non può convivere è infatti la tirannia. Questo era
tanto chiaro a quei rivoluzionari che Benjamin Franklin aveva anche escogitato
un altro motto: Ribellarsi al tiranno è
obbedire a Dio. Benché quest’ordine di idee fosse molto antico
nell’ideologia cristiana e fosse stato in particolare affermato, su basi bibliche, nell’ordine
concettuale di S.Tommaso D’Aquino (filosofo del Duecento, il cui pensiero venne
approvato ufficialmente con l’enciclica Aeterni
patris del Papa Leone 13° - del 1879), la democrazia come è intesa oggi (con l’affermazione del diritto
politico di resistenza al tiranno che violi quei diritti umani fondamentali
inalienabili) venne accettata dalla Chiesa cattolica come regime politico
preferibile solo nel 1944 (radiomessaggio natalizio del papa Pio 12°).
Anche lo stato dal
quale i rivoluzionari nordamericani vollero staccarsi era fondato sull’unità di
diversi popoli (Inghilterra, Galles e Scozia: la Gran Bretagna), In questo caso
però il fattore di unità era la
sudditanza a una dinastia monarchica, la quale ad un certo punto, sulla base di
precise accuse storiche esplicitate nella Dichiarazione
di indipendenza del 1776, venne
vista come tirannica. Paradossalmente quindi la proclamazione di un’unità
politica su certi principi, fatta dai rivoluzionari nordamericana, coincise con
la secessione da un’unità politica fondata sulla sudditanza a un potere visto
come tirannico.
La questione dei fondamenti dell’unità è stata una di
quelle fortemente critiche anche
nella Chiesa cattolica, in particolare da quando, nel quarto secolo della
nostra era, essa divenne rilevante per l’unità politica dei popoli unificati
nell’impero romano e successivamente
anche per quella dei nuovi stati sorti dalla dissoluzione, nell’Europa
Occidentale, di quel dominio. Quando si parla di radici cristiane dell’Europa ci si vuole riferire anche a questo. In questa materia ha inciso
potentemente il Concilio Vaticano 2°, aprendo veramente una nuova epoca.
Il punto di partenza
del nuovo ordine concettuale è la pari
dignità delle persone che formano il popolo di Dio.
...comune è la dignità dei membri per la loro rigenerazione in Cristo, comune la
grazia di adozione filiale, comune la vocazione alla perfezione; non c’è che
una sola salvezza, una sola speranza e una
carità senza divisioni. Nessuna ineguaglianza quindi in Cristo e nella Chiesa
riguardo alla stirpe o nazione, alla condizione sociale o al sesso, poiché
“non c’è né Giudeo né Gentile, non c’è schiavo né libero, non c’è né uomo né
donna: tutti voi siete uno in Cristo Gesù (Gal 3,28 gr; cfr Col 3,11).
[…]
… vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla
dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo.
[Dalla costituzione
dogmatica Lumen Gentium, sulla
Chiesa, del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.32].
Questa pari
dignità conduce a rispettare la varietà
nella Chiesa che raduna quel popolo
La santa Chiesa è, per divina istituzione, organizzata
e diretta con mirabile varietà.
[…]
Così nella diversità stessa, tutti danno testimonianza
della mirabile unità nel corpo di Cristo.
[Dalla costituzione
dogmatica Lumen Gentium, sulla
Chiesa, del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.32].
Il fattore di unità è di ordine spirituale:
… infine Dio mandò lo Spirito del Figlio suo, Signore
e vivificatore, il quale per tutta la
Chiesa e per tutti e singoli i credenti è principio di associazione e di
unità, nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione fraterna, nella
frazione del pane e nelle preghiere (cfr At, 2,42).
[Dalla costituzione
dogmatica Lumen Gentium, sulla
Chiesa, del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.13]
La realizzazione dell’unità è impegno comune
di tutti i fedeli:
…le singole parti portano i propri doni alle altre
parti e a tutta la Chiesa, in modo che il tutto e le singole parti si
accrescono con uno scambio mutuo universale verso la pienezza dell’unità.
[Dalla costituzione
dogmatica Lumen Gentium, sulla
Chiesa, del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.13]
Ad essa siamo spinti dalla legge dell’amore cristiano:
Questo popolo messianico ha per capo Cristo […] Ha per
condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel core dei quali dimora
lo Spirito Santo come in un tempio. Ha per legge il nuovo precetto di amare
come lo stesso Cristo ci ha amati (cfr Gv 13,34).
[Dalla costituzione
dogmatica Lumen Gentium, sulla
Chiesa, del Concilio Vaticano 2° - 1962/1965, n.9]
Per capire a che tipo di amore ci riferisca
quando si parla della legge cristiana
dell’amore è opportuno leggere il testo greco del brano del Vangelo di
Giovanni citato nella costituzione dogmatica: “Entolèn cainèn dìdomi umìn, ina agapàte
allèlus, cathòs egàpesa umàs, ina cai agapàte allèlus.” (trad.:Vi
do un comandamento nuovo che vi amiate [agapàte] gli uni gli altri; come io vi ho amato
[egàpesa], così amatevi [agapàte] anche voi gli uni gli altri”. In questo
brano viene utilizzato il verbo greco agapào che ha la stessa radice del
sostantivo agàpe [in italiano tradotto con amore], il quale nella Bibbia richiama l’idea di pasti comuni come segno d’amore reciproco.
Riassumendo: secondo le concezioni conciliari,
l’unità non significa necessariamente uniformità
e trova fondamento dal basso, in una
comune ispirazione ideale che spinge gli uni verso gli altri, come
quando si partecipa a una bella cena tutti insieme, per una comunione di vita, di carità e verità [Lumen Gentium, n. 9].
Ora, non è che queste idee siano veramente
nuove, perché erano tra quelle fondamentali fin dalle origini. La loro portata
innovativa sta nel fatto che esse sono stata proclamate nel Concilio Vaticano
2° dopo che per quasi due millenni i fattori di unità nella Chiesa cattolica
erano stati visti principalmente nella
sudditanza sacrale ad un unico Pastore terreno
e
nella stretta uniformità ideologica e
liturgica (ad esempio nell’uso universale del latino liturgico).
Dove voglio andare a parare con tutto questo?
Cerco di dirlo nel modo meno “traumatico” possibile.
Il fatto che l’Anno della Fede che è appena iniziato sia stato così esplicitamente collegato al
Concilio Vaticano 2°, tanto da essere stato fatto iniziare nel giorno del
cinquantesimo anniversario dell’apertura di quel concilio, rende ben chiaro che
non si vuole da noi il ritorno alla
preponderanza degli antichi fattori di unità. Quell’era della nostra
confessione religiosa è finita.
Dobbiamo resistere alla tentazione di “ritornare” nel senso di
incamminarci di nuovo per vecchie strade che portano a un mondo dal quale
faticosamente ci siamo infine distaccati, dopo tanto dolore, perché basato su
principi non evangelici. L’evo antico ha comportato nella storia della
Chiesa, della quale nella lettera
apostolica Porta Fidei di indizione
dell’Anno della Fede siamo chiamati a
prendere maggiore consapevolezza, fatti gravi dei quali abbiamo dovuto
collettivamente pentirci, sotto la guida del papa Giovanni Paolo 2°, nel corso
del Grande Giubileo dell’Anno 2000.
[…]
Un Rappresentante della
Curia Romana:
Preghiamo perché ciascuno di
noi,
riconoscendo che anche uomini di Chiesa,
in nome della fede e della morale,
hanno talora fatto ricorso a metodi non evangelici
nel pur doveroso impegno di difesa della verità,
sappia imitare il Signore Gesù,
mite e umile di cuore.
Preghiera in silenzio.
II Santo Padre:
Signore, Dio di tutti gli
uomini,
in certe epoche della storia
i cristiani hanno talvolta accondisceso a metodi di intolleranza
e non hanno seguito il grande comandamento dell'amore,
deturpando così il volto della Chiesa, tua Sposa.
Abbi misericordia dei tuoi figli peccatori
e accogli il nostro proposito
di cercare e promuovere la verità nella dolcezza della carità,
ben sapendo che la verità
non si impone che in virtù della stessa verità.
Per Cristo nostro Signore.
R. Amen.
R. Kyrie, eleison; Kyrie, eleison; Kyrie,
eleison.
[Dalla liturgia
della Giornata del perdono, celebrata
il 12-3-2000 nel corso del Grande Giubileo dell’Anno 2000]
Come risulta chiaramente dalla lettera
apostolica di indizione, si vuole che nell’Anno
della Fede noi fedeli approfondiamo
un cammino comune nella fede, aiutandoci gli uni gli altri in unione spirituale pur nella legittima varietà di stili di vita individuali e comunitari,
anche per un rinnovato impegno di testimonianza nella società in cui viviamo,
per influire in tal modo su di essa con rinnovata
sapienza e consapevolezza infondendo
valori cristiani, cercando di promuovere, secondo il comando ricevuto,
l’unità spirituale di tutti i popoli della Terra. Non ci viene chiesto invece di realizzare un’unità discriminatoria,
separando da noi, come “infedeli” o “scarsamente fedeli”, coloro che su alcune
cose legittimamente la pensano diversamente da altri, nel presupposto che
questi ultimi siano monopolisti della retta dottrina, della retta liturgia, dei
retti principi di vita comunitaria. Questo significherebbe in un certo
senso tornare al nostro tremendo passato,
equivocando gli scopi dell’importante iniziativa alla quale siamo stati tutti chiamati.
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24
Gioia e timore alla
base dell’impegno religioso nella società
(27 ottobre 2012)
Leggo in Giuseppe
Dossetti, Eucaristia e città, Editrice
A.V.E., 2011, pagine 131, euro 8, che ho utilizzato questa estate per le mie
meditazioni religiose:
[…] nella … nuova
economia l’amore –motivo fondamentale dell’osservanza dei precetti non elimina
il santo timore filiale che, con soggezione totale e trepidante adorazione
della maestà di Dio, deve permanere a ogni livello della vita spirituale.
Perciò, anche restando nel Nuovo Testamento,
vediamo che c’è un timore di Dio che e inculcato assiduamente dagli apostoli
(la stessa Lettera ai Romani 11,10; la Lettera agli Ebrei 4,1; la Prima lettera
di Pietro 1,17 e 3,16); ed è inculcato da Gesù stesso come necessario (Mt
10,28),
[…]
Certo l’Eucaristia, se
davvero vissuta nella fede, suppone la gioia: ma non necessariamente una gioia
sensibile.
Deve esser una gioia non adolescenziale, ma da
adulto, che non presuppone … di saltare il timore, ma che nasce proprio da un
timore virile e consapevole: stiamo di fronte al corpo e al sangue del Verbo
eterno di Dio”.
Questo discorso che Dossetti riferiva specificamente
all’Eucaristia può essere esteso all’atteggiamento che complessivamente la
persona religiosa può avere nei confronti del tempo e della società in cui si
trova a vivere. Il timore deriva dalla consapevolezza della grandezza degli
ideali professati e dalla conseguente responsabilità, ma la gioia deriva della
stessa fonte e, in particolare, dalla convinzione che quegli ideali non siano
basati solo sulle proprie forze e che, quindi, l’universo, e l’umanità in esso,
sia tratto da una forza irresistibile, non spinto da noi, verso un suo beato compimento. In altre circostanze,
al contrario, timore e gioia non vanno d’accordo, se il primo deriva
dall’incertezza sul futuro, che può anche mettersi molto male, e dalla
considerazione dell’insufficienza delle proprie forze e conseguentemente la gioia, se anche c’è,
finisce per essere piuttosto precaria e minacciata ed è essenzialmente gioia
nell’oggi e anzi addirittura solo
nell’ora corrente. Quella che
scaturisce dal timore religioso è invece gioia per il passato, per il presente
e per il futuro, quindi si basa su
una valutazione complessivamente positiva e fiduciosa della storia. Si fonda su
una considerazione realistica delle cose come vanno, e questa è come si dice
nel lessico attuale la sua laicità,
perché la fede non è solo immaginazione e sentimento, ma anche su una spiritualità
intima e quindi profonda che cambia molto l’atteggiamento che si ha verso ciò
che ci circonda e che, in tanti modi, ci determina, ci interroga, ci sollecita
e, a volte, ci atterrisce. L’animo religioso, di conseguenza, di fronte ad ogni
difficoltà della vita, sia essa di
quelle proprie personali o di quelle di realtà vicine come la famiglia o
l’ambiente umano abituale, come anche su scala maggiore, di quelle che
riguardano la propria città, regione, nazione o, al limite, l’intera umanità,
innanzi tutto si raccoglie nella propria spiritualità per rafforzare il suo
legame con il fondamento beato, in quell’atteggiamento che Dossetti indica come
di devozione filiale, quindi in una
familiarità di relazione con esso che non intacca il sentimento di stupore e
trepidazione di fronte ad un assoluto che si pensa sorprendentemente animato da amore viscerale, materno, ma anche virile,
paterno, nei confronti di noi umani. Il passo successivo è quello della comprensione del mondo intorno a sé e
poi dell’azione in esso, nel
tentativo di comporre profano e religioso in una esperimento sapienziale nel
proprio tempo, che, senza pretendere di esaurire tutto ciò che si può dire
e fare in merito, rende, e uso concetti espressi nel sussidio Un passo oltre dell’Azione Cattolica,
Editrice A.V.E, 2011, testimoni dell’oltre, vale a dire di
quel fondamento religioso, nell’impegno laicale
nel mondo in cui ci si è trovati a vivere, nell’umanità di cui si è parte,
innanzi tutto nella propria famiglia, poi nel proprio lavoro, poi nelle
istituzioni pubbliche di cui si è partecipi, ad esempio in ciò che si fa come
cittadini (in una città, in una regione, in una nazione, in un’unione
sovranazionale), fino ad arrivare a ciò che deriva dall’essere partecipi
dell’intera umanità in un certo tempo storico, con la conseguente
responsabilità globale in ciò in cui di fatto si influisce su di essa
o si potrebbe farlo o farlo diversamente. Questo è quello che in quel sussidio
si definisce come cattolicità attiva,
che non significa essere nella nostra società una sorta di piazzisti del sacro o di lobbisti
della nostra confessione religiosa (ad esempio per procurarle privilegi ed
esenzioni) o di militi o messi di una
potenza conquistatrice e dominatrice delle anime, ma prendere sul serio
l’imperativo religioso che ci spinge tra le genti per provare a radunarle nel popolo di Dio, in una comunione di vita, di carità e di verità,
insegnando loro ad osservare tutto ciò
che ci è stato comandato, innanzi tutto la legge dell’amore-agàpe.
Questo programma, che ho esposto
brevemente, non è facile da attuare e, innanzi tutto, richiede che si impari a
collaborare con gli altri. L’impegno religioso, come ci è stato ricordato nella lettera apostolica Porta Fidei (2011) con cui è stato
indetto l’Anno della Fede iniziato
l’11 ottobre scorso, non è un fatto
privato. Ecco che in questo può essere interessante l’impegno in Azione
Cattolica. Esso è appunto un impegno,
quindi un’esperienza faticosa i cui risultati non sono del tutto scontati e in
cui gli insegnamenti ricevuti sono solo una
base di partenza negli esercizi di
laicità che si faranno, vale a dire
nello sforzo di comprensione realistica del mondo in cui si vive alla
luce di una spiritualità religiosa. Chi pensasse di trovare in un gruppo di
Azione Cattolica ricette di vita,
personale o comunitaria, già pronte e
ammaestramenti globali su ciò che si deve fare o si deve pensare in ogni
occasione rimarrebbe deluso. Un gruppo di Azione Cattolica non è una sorta di centro addestramento reclute in cui
sergenti maggiori iniziano la gente al servizio in una santa milizia. In Azione
Cattolica si è consapevoli di partecipare a un lavoro comune di ideazione e di
azione di progettazione di un futuro di bene, per noi, per la società in cui
viviamo, per l’intera umanità. In esso ognuno porta i
propri doni in un mutuo scambio che accresce
gli altri, in uno sforzo comune per
promuovere l’unità universale del genere umano a partire dalle realtà più
vicine fino a quella globale.
“[…] la
Chiesa cattolica efficacemente e senza soste tende a ricapitolare tutta
l’umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo capo, nell’unità dello Spirito con
lui.
[,,,] In virtù di questa cattolicità, le singole parti
portano i propri doni alle altre parti e a tutta la Chiesa, in modo che il
tutto e le singole parti si accrescono per uno scambio mutuo universale e per
uno sforzo comune verso la pienezza nell’unità”
[dalla Costituzione dogmatica Lumen Gentium, n.13, del Concilio Vaticano 2°]
Ora è chiaro, riprendendo il discorso da cui sono
partito, che l’universalità di questo
impegno comune, la sua cattolicità,
la sua effettiva apertura a tutte le
genti alle quali riteniamo di essere stati inviati, dipende dal suo fondamento religioso e quindi da quel timore di cui si diceva, il quale, in particolare,
deve prevenire da ogni tentazione di assolutizzare
una soluzione, un modello, un’esperienza, un cammino, una ideologia, una concezione
filosofica, una spiritualità, un capo, una guida spirituale, un’organizzazione
particolare, e via dicendo: si tratta di una familiarità con l’assoluto
caratterizzata, appunto, da devozione
filiale, nella considerazione che, secondo gli insegnamenti ricevuti, il Regno, quello di cui religiosamente
attendiamo la manifestazione alla fine dei tempi, non è di questo mondo, sebbene sia già presente come in embrione in questo mondo, e pertanto non lo
possiamo mai ritenere pienamente realizzato in nessuna delle nostre ideazioni e
soprattutto non ce ne possiamo mai attribuire la sovranità. Questo, ben lungi dallo
scoraggiare e umiliare, è anche la base
della creatività religiosa nella società e quindi dell’efficacia
della nostra azione comune, che non deve mai cessare di scrutare i segni dei tempi e determinarsi con sapienza di conseguenza,
rinnovandosi incessantemente.