Scritti politici 2016-2017 - materiale per un tirocinio alla democrazia - PARTE 2
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29. Economia e comunione
Di solito sono piuttosto parco nel citare e riportare documenti dei
Papi, perché è stata letteratura sovrabbondante che ha un po’ compresso tutto
il resto limitando il dialogo, ma questo
breve pezzo che segue lo devo proprio
trascrivere integralmente per la grande emozione che mi ha procurato e il
sentimento di totale condivisione.
dal sito WEB
http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2017/february/documents/papa-francesco_20170204_focolari.html
DISCORSO DEL SANTO
PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI ALL'INCONTRO "ECONOMIA DI COMUNIONE",
PROMOSSO DAL MOVIMENTO DEI FOCOLARI
Aula Paolo VI
Sabato, 4 febbraio 2017
Cari fratelli e sorelle,
sono lieto di accogliervi come rappresentanti
di un progetto al quale sono da tempo sinceramente interessato. A ciascuno di
voi rivolgo il mio saluto cordiale, e ringrazio in particolare il coordinatore,
Prof. Luigino Bruni, per le sue cortesi parole. E ringrazio anche per le
testimonianze.
Economia e comunione.
Due parole che la cultura attuale tiene ben separate e spesso considera
opposte. Due parole che voi invece avete unito, raccogliendo l’invito che
venticinque anni fa vi rivolse Chiara Lubich, in Brasile, quando, di fronte
allo scandalo della diseguaglianza nella città di San Paolo, chiese agli
imprenditori di diventare agenti di comunione. Invitandovi ad essere creativi,
competenti, ma non solo questo. L’imprenditore
da voi è visto come agente di comunione. Nell’immettere dentro l’economia il germe
buono della comunione, avete iniziato un profondo cambiamento nel modo di
vedere e vivere l’impresa. L’impresa non solo può non distruggere la comunione
tra le persone, ma può edificarla, può promuoverla. Con la vostra vita
mostrate che economia e comunione
diventano più belle quando sono una accanto all’altra. Più bella
l’economia, certamente, ma più bella anche la comunione, perché la comunione
spirituale dei cuori è ancora più piena quando diventa comunione di beni, di
talenti, di profitti.
Pensando al vostro impegno, vorrei dirvi oggi tre cose.
La prima riguarda il denaro. È molto importante che al centro dell’economia di comunione ci sia la
comunione dei vostri utili. L’economia di comunione è anche comunione dei
profitti, espressione della comunione della vita. Molte volte ho parlato del denaro come idolo. La Bibbia
ce lo dice in diversi modi. Non a caso la
prima azione pubblica di Gesù, nel Vangelo di Giovanni, è la cacciata dei
mercanti dal tempio (cfr 2,13-21). Non
si può comprendere il nuovo Regno portato da Gesù se non ci si libera dagli
idoli, di cui uno dei più potenti è il denaro. Come dunque poter essere dei
mercanti che Gesù non scaccia? Il denaro
è importante, soprattutto quando non c’è e da esso dipende il cibo, la scuola,
il futuro dei figli. Ma diventa idolo
quando diventa il fine. L’avarizia, che non a caso è un vizio capitale, è
peccato di idolatria perché l’accumulo di denaro per sé diventa il fine del
proprio agire. E’ stato Gesù, proprio
Lui, a dare categoria di “signore” al denaro: “Nessuno può servire due signori,
due padroni”. Sono due: Dio o il denaro, l’anti-Dio, l’idolo. Questo l’ha
detto Gesù. Allo stesso livello di opzione. Pensate a questo.
Quando il capitalismo fa della
ricerca del profitto l’unico suo scopo, rischia di diventare una struttura
idolatrica, una forma di culto. La “dea fortuna” è sempre più la nuova divinità
di una certa finanza e di tutto quel sistema dell’azzardo che sta distruggendo
milioni di famiglie del mondo, e che voi giustamente contrastate. Questo culto
idolatrico è un surrogato della vita eterna. I singoli prodotti (le auto, i
telefoni…) invecchiano e si consumano, ma se ho il denaro o il credito posso
acquistarne immediatamente altri, illudendomi di vincere la morte.
Si capisce, allora, il valore
etico e spirituale della vostra scelta di mettere i profitti in comune.
Il modo migliore e più concreto per non fare del denaro un idolo è
condividerlo, condividerlo con altri, soprattutto con i poveri, o per far
studiare e lavorare i giovani, vincendo la tentazione idolatrica con la
comunione. Quando condividete e
donate i vostri profitti, state facendo un atto di alta spiritualità, dicendo
con i fatti al denaro: tu non sei Dio, tu non sei signore, tu non sei padrone!
E non dimenticare anche quell’alta filosofia e quell’alta teologia che faceva
dire alle nostre nonne: “Il diavolo entra dalle tasche”. Non dimenticare
questo!
La seconda cosa che voglio dirvi riguarda la povertà, un
tema centrale nel vostro movimento.
Oggi si attuano molteplici iniziative, pubbliche e private, per
combattere la povertà. E tutto ciò, da
una parte, è una crescita in umanità. Nella Bibbia i poveri, gli orfani, le
vedove, gli “scarti” della società di quei tempi, erano aiutati con la decima e
la spigolatura del grano. Ma la gran parte del popolo restava povero, quegli
aiuti non erano sufficienti a sfamare e a curare tutti. Gli “scarti” della
società restavano molti. Oggi abbiamo
inventato altri modi per curare, sfamare, istruire i poveri, e alcuni dei semi
della Bibbia sono fioriti in istituzioni più efficaci di quelle antiche. La
ragione delle tasse sta anche in questa solidarietà, che viene negata
dall’evasione ed elusione fiscale, che, prima di essere atti illegali sono atti
che negano la legge basilare della vita: il reciproco soccorso.
Ma – e questo non lo si dirà mai
abbastanza – il capitalismo continua a produrre gli scarti che
poi vorrebbe curare. Il principale problema etico di questo capitalismo è la
creazione di scarti per poi cercare di nasconderli o curarli per non farli più
vedere. Una grave forma di povertà
di una civiltà è non riuscire a vedere più i suoi poveri, che prima
vengono scartati e poi nascosti.
Gli aerei inquinano l’atmosfera, ma con una piccola parte dei soldi del
biglietto pianteranno alberi, per compensare parte del danno creato. Le società
dell’azzardo finanziano campagne per curare i giocatori patologici che esse
creano. E il giorno in cui le imprese di armi finanzieranno ospedali per curare
i bambini mutilati dalle loro bombe, il sistema avrà raggiunto il suo culmine.
Questa è l’ipocrisia!
L’economia di comunione, se vuole
essere fedele al suo carisma, non deve soltanto curare le vittime, ma costruire
un sistema dove le vittime siano sempre di meno, dove possibilmente esse non ci
siano più. Finché l’economia produrrà ancora una vittima e ci sarà una sola
persona scartata, la comunione non è ancora realizzata, la festa della
fraternità universale non è piena.
Bisogna allora puntare a cambiare
le regole del gioco del sistema economico-sociale. Imitare il buon samaritano
del Vangelo non è sufficiente. Certo, quando l’imprenditore o una qualsiasi
persona si imbatte in una vittima, è chiamato a prendersene cura, e magari,
come il buon samaritano, associare anche il mercato (l’albergatore) alla sua
azione di fraternità. So che voi cercate di farlo da 25 anni. Ma occorre agire soprattutto prima che
l’uomo si imbatta nei briganti, combattendo le strutture di peccato che
producono briganti e vittime. Un imprenditore che è solo buon samaritano fa
metà del suo dovere: cura le vittime di oggi, ma non riduce quelle di domani.
Per la comunione occorre imitare il Padre misericordioso della parabola del
figlio prodigo e attendere a casa i figli, i lavoratori e collaboratori che
hanno sbagliato, e lì abbracciarli e fare festa con e per loro – e non farsi
bloccare dalla meritocrazia invocata dal figlio maggiore e da tanti, che in
nome del merito negano la misericordia. Un imprenditore di comunione è
chiamato a fare di tutto perché anche quelli che sbagliano e lasciano la sua
casa, possano sperare in un lavoro e in un reddito dignitoso, e non ritrovarsi
a mangiare con i porci. Nessun figlio,
nessun uomo, neanche il più ribelle, merita le ghiande.
Infine, la terza cosa riguarda il futuro. Questi 25 anni della vostra
storia dicono che la comunione e
l’impresa possono stare e crescere insieme.
Un’esperienza che per ora è limitata ad un piccolo numero di imprese,
piccolissimo se confrontato al grande capitale del mondo. Ma i cambiamenti
nell’ordine dello spirito e quindi della vita non sono legati ai grandi numeri.
Il piccolo gregge, la lampada, una moneta, un agnello, una perla, il sale, il
lievito: sono queste le immagini del Regno che incontriamo nei Vangeli. E i profeti ci hanno annunciato la nuova
epoca di salvezza indicandoci il segno di un bambino, l’Emmanuele, e parlandoci
di un “resto” fedele, un piccolo gruppo.
Non occorre essere in molti per
cambiare la nostra vita: basta che il sale e il lievito non si snaturino. Il
grande lavoro da svolgere è cercare di non perdere il “principio attivo” che li
anima: il sale non fa il suo mestiere crescendo in quantità, anzi,
troppo sale rende la pasta salata, ma salvando la sua “anima”, cioè la
sua qualità. Tutte le volte che le persone, i popoli e persino la Chiesa
hanno pensato di salvare il mondo crescendo nei numeri, hanno
prodotto strutture di potere, dimenticando i poveri. Salviamo la nostra
economia, restando semplicemente sale e lievito: un lavoro difficile, perché
tutto decade con il passare del tempo. Come
fare per non perdere il principio attivo, l’ “enzima” della comunione?
Quando non c’erano i frigoriferi, per conservare il lievito
madre del pane si donava alla vicina un po’ della propria pasta
lievitata, e quando dovevano fare di nuovo il pane ricevevano un pugno di pasta
lievitata da quella donna o da un’altra che lo aveva ricevuto a sua volta. È la reciprocità. La comunione non è
solo divisione ma anche moltiplicazione dei
beni, creazione di nuovo pane, di nuovi beni, di nuovo Bene con la maiuscola.
Il principio vivo del Vangelo resta attivo solo se lo doniamo, perché è amore,
e l’amore è attivo quando amiamo, non quando scriviamo romanzi o quando
guardiamo telenovele. Se invece lo teniamo gelosamente tutto e solo per noi,
ammuffisce e muore. E il Vangelo può ammuffirsi. L’economia di comunione avrà
futuro se la donerete a tutti e non resterà solo dentro la vostra “casa”.
Donatela a tutti, e prima ai poveri e ai giovani, che sono quelli che più ne
hanno bisogno e sanno far fruttificare il dono ricevuto! Per avere vita in
abbondanza occorre imparare a donare: non solo i profitti delle imprese, ma voi
stessi. Il primo dono dell’imprenditore è la propria persona: il vostro denaro,
seppure importante, è troppo poco. Il denaro non salva se non è accompagnato
dal dono della persona. L’economia di
oggi, i poveri, i giovani hanno bisogno prima di tutto della vostra anima,
della vostra fraternità rispettosa e umile, della vostra voglia di vivere e
solo dopo del vostro denaro.
Il capitalismo conosce la filantropia, non la comunione. È
semplice donare una parte dei profitti, senza abbracciare e toccare le persone
che ricevono quelle “briciole”. Invece, anche solo cinque pani e due pesci
possono sfamare le folle se sono la condivisione di tutta la nostra vita. Nella
logica del Vangelo, se non si dona tutto non si dona mai abbastanza.
Queste cose voi le fate già. Ma potete
condividere di più i profitti per combattere l’idolatria, cambiare le strutture
per prevenire la creazione delle vittime e degli scarti; donare di più il
vostro lievito per lievitare il pane di molti. Il “no” ad un’economia che
uccide diventi un “sì” ad una economia che fa vivere, perché condivide, include
i poveri, usa i profitti per creare comunione.
Vi auguro di continuare sulla vostra
strada, con coraggio, umiltà e gioia. «Dio ama chi dona con gioia» (2 Cor 9,7).
Dio ama i vostri profitti e talenti donati con gioia. Lo fate già; potete farlo
ancora di più.
Vi auguro di continuare ad essere seme,
sale e lievito di un’altra economia: l’economia del Regno, dove i ricchi sanno
condividere le loro ricchezze, e i poveri sono chiamati beati. Grazie.
30. Pace, perdono e indole personale
Dal Messaggio per la 50°
Giornata mondiale della pace di papa Francesco
La radice domestica di una politica
nonviolenta
5. Se l’origine da cui scaturisce la
violenza è il cuore degli uomini, allora è fondamentale percorrere il sentiero
della nonviolenza in primo luogo all’interno della famiglia. È una componente
di quella gioia dell’amore che ho presentato nello scorso marzo
nell’Esortazione apostolica Amoris laetitia [= La
gioia dell’amore], a conclusione di due anni di riflessione da parte della
Chiesa sul matrimonio e la famiglia. La famiglia è l’indispensabile crogiolo
attraverso il quale coniugi, genitori e figli, fratelli e sorelle imparano a
comunicare e a prendersi cura gli uni degli altri in modo disinteressato, e dove
gli attriti o addirittura i conflitti devono essere superati non con la forza,
ma con il dialogo, il rispetto, la ricerca del bene dell’altro, la misericordia
e il perdono. Dall’interno della famiglia la gioia dell’amore si propaga
nel mondo e si irradia in tutta la società. D’altronde, un’etica di
fraternità e di coesistenza pacifica tra le persone e tra i popoli non può
basarsi sulla logica della paura, della violenza e della chiusura, ma sulla
responsabilità, sul rispetto e sul dialogo sincero. In questo senso, rivolgo un
appello in favore del disarmo, nonché della proibizione e dell’abolizione delle
armi nucleari: la deterrenza nucleare e la minaccia della distruzione reciproca
assicurata non possono fondare questo tipo di etica Con uguale urgenza supplico
che si arrestino la violenza domestica e gli abusi su donne e bambini.
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In una riunione del gruppo
parrocchiale di AC ci siamo interrogati sulle radici personali e familiari
della vita pacificata. Preferiamo essere amati o temuti?
Ci conosciamo veramente, o siamo troppo indulgenti con noi stessi nel
riconoscere caratteristiche della nostra indole come l’aggressività,
l’intransigenza, la durezza, che portano inevitabilmente a situazioni di
conflitto. Abbiamo letto un brano della Regola di
Benedetto da Norcia (480-547), nella quale si consiglia ai capi di comunità di
cercare di farsi amare più che temere, e un brano tratto dal Principe di
Niccolò Machiavelli (1469-1527) in cui si dà l’indicazione opposta, perché il
capo che faccia conto sull’amore dei suoi sottoposti viene in genere tradito
nelle avversità, mentre il timore dura per sempre e rende coese le società.
Infine con l’aiuto di don Giorgio abbiamo meditato sul brano evangelico con la
parabola detta del Servo malvagio (Mt 18, 21-35), in cui a un
servo viene condonato un debito rilevantissimo, ma poi rifiuta di condonare a
sua volta a un suo debitore un debito molto più piccolo, facendolo gettare in
prigione, subendo lo sdegno del suo padrone. Siamo capaci di perdonare, di condonare agli
altri i debiti che pensiamo abbiano contratto verso di noi? Il parroco, che è
da poco tornato da un viaggio in Uganda per incontrare alcuni missionari che là
operano, ci ha raccontato dei duri conflitti tribali che travagliano quella
parte dell’Africa e che non si riesce a sopire: la soluzione, attuata in altre
parti dell’Africa, potrebbe basarsi sul perdono, al modo in cui lo si è fatto
in Italia alla caduta del fascismo. Vendetta chiama vendetta e di vendetta in
vendetta si distrugge il contesto civile, come ancora osserviamo in alcune zone
del nostro Meridione. Abbiamo infine richiamato alla memoria il passo del
recente Messaggio per la 50° Giornata mondiale della pace di
papa Francesco, in cui si esorta a “percorrere il sentiero della nonviolenza
in primo luogo all’interno della famiglia”. Infatti, ha scritto il Papa, “l’origine
da cui scaturisce la violenza è il cuore degli uomini”.
In quel messaggio il Papa
indica la necessità di una politica nonviolenta a
partire dalla realtà domestica. Quest’ultima non sempre è pacificata e
fonte di gioia. Vive tensioni che possono sfociare in violenza, come le
cronache ci raccontano sempre più spesso. Per certi versi i mali sociali si
riflettono sulle realtà familiari, le quali a loro volta ne sono anche sono
espressione e origine. Parlare di pace è facile e bello, praticare la
pace è molto più difficile. E, quando si vive in famiglia, sono appunto
le pratiche quotidiane di vita che possono fare soffrire
e che, dunque, bisognerebbe cambiare. Nella famiglia si può educare alla pace
o, al contrario, alla violenza e alla sopraffazione. E’ lì che si può
cominciare a sperimentare la sopraffazione tra esseri umani, ad esempio tra
maschi e femmine, tra genitori e figli e tra fratelli. Le tradizioni etniche,
religiose e politiche della società in cui la famiglia è immersa la possono
condizionare pesantemente anche in senso negativo. In religione, in
particolare, è in genere ancora piuttosto critica la questione del ruolo delle
donne nella famiglia, sia nel rapporto coniugale sia in quello filiale. E’ in
famiglia che si forma la nostra indole, certe nostre caratteristiche che
tendono a permanere nel corso di tutta la vita, e la psicologia ce ne dà la
spiegazione. Ma non dobbiamo sottovalutare la capacità di cambiamento che una
persona può avere nel corso della propria vita, solo che riesca a prendere
coscienza della radice del male che c’è in lei e nella società intorno ed avere
gli amici giusti. Di solito i problemi sociali non derivano solo e in primo
luogo dall’indole degli individui, ma dall’organizzazione sociale che una
civiltà ha prodotto e che è alla base della produzione e distribuzione delle
risorse e di ciò che la gente desidera per sé per raggiungere la felicità, come
anche delle regole della vita delle famiglie. E’ qui che la pace diventa un
problema politico. Se non si riesce a compiere il passaggio dal particolare,
dall'individuo e dalla sua famiglia alla società intorno, non si passa mai alla
dimensione politica e anche le soluzioni ai mali sociali sfuggono. Spesso però
in religione si è indicata una via della pace attraverso il perdono che si
esprimeva nella rinuncia alla lotta, per cui la religione è apparsa, è non di
rado lo è effettivamente diventata, uno dei modi con cui le classi dominanti
tiranneggiavano quello sottoposte. L’ingenua ideologia corporativa delle
origini della dottrina sociale in sostanza consisteva proprio in questo: non
era capace di apprezzare il potenziale di liberazione attraverso coscienza
collettiva e lotta sociale espresso da certe politiche, ad esempio quelle nonviolente che
furono proprie di Mohandas Gandhi in India e di Martin Luther King negli Stati
Uniti d’America.
“Dall’interno della famiglia la
gioia dell’amore si propaga nel mondo e si irradia in tutta la società”, si
legge nel Messaggio del Papa: questa, in realtà, più che
una constatazione di ciò che veramente accade, è un auspicio e un’esortazione.
E’ però tanto difficile passare dalla dimensione domestica a quella sociale,
fino a comprendere tutto il mondo. Il mondo fa paura e allora non di rado
veniamo consigliati a rinchiuderci nelle realtà familiari, appagandocene. E’,
in fondo, una via neo-tribale ad una religione
difensiva, di protezione contro i mali del mondo, la comunità di fede
come neo-tribù di famiglie. Difficile però far sopravvivere un
mondo di sette miliardi di persone con organizzazioni neo-tribali: in
questo modo, in realtà, ritirandosi sostanzialmente dalla politica, si lascia
il campo alle forze che, a livello globale, diffondono un’organizzazione
ingiusta e predatoria delle società, creando tanta sofferenza e, in
particolare, privando progressivamente, nel nome della libertà, le
organizzazioni pubbliche dei poteri e risorse che loro competono per realizzare
il bene comune, in particolare l’equità sociale. L’ideologia globale proclama
la legge della giungla, quella del forte che mangia il debole e rifiuta ogni
limite posto dalle collettività a fini di giustizia sociale: preferisce
rapporti bilaterali, tra un forte e un debole, e in questo modo
finisce come deve finire. Così una persona può cercare di essere buona e di
farsi amare, e anche di costruire una famiglia basata su questi principi, ma se
poi non si occupa di politica, quindi di ciò che c’è appena oltre la
porta di casa, non fa tutto il suo dovere, anche in senso religioso. E’ docile, non
usa la violenza, ma questo diventa in fondo una manifestazione di resa al male,
di arrendevolezza. Capire la società per influirvi consapevolmente
è però più difficile che capire la propria famiglia, fondata su rapporti
elementari. Anche perché la società si è fatta molto più complessa di una
volta: siamo tanti di più di prima al mondo. E non bastano i testi sacri per
orientarsi. Dunque una formazione religiosa fatta solo di questi ultimi, di
qualche istruzione liturgica e di famiglia è insufficiente. Fin da molto
piccoli, fin dalle società di bambini, ci si confronta con il male sociale, ma
se non si ha avuta, in famiglia o a scuola o in religione, una formazione specifica
non si riesce ad affrontarlo. Lavorarci su richiede di creare
un’organizzazione, fin da molto giovani. Una realtà sociale come la parrocchia
dispone delle strutture giuste per attuarla. E’ una grande responsabilità. Come
partire, o ripartire, nei casi in cui si è interrotta una tradizione, una
memoria. Certe cose vanno riscoperte e riprese. Innanzi tutto occorre creare
occasioni di incontro in parrocchia molto più prolungate delle usuali liturgie
ed esercizi spirituali. Un ragazzo dovrebbe abituarsi a venire a studiare da
noi, insieme agli altri: così la religione inizierebbe ad apparirgli utile per
la vita. Ci vorrebbe un ambiente adatto, con molti libri, connessione wi-fi e
strumenti multimediali. E un’organizzazione di volontariato per custodirlo e curarlo.
Poi un programma di riflessione, basato su certi libri di testo, e gente che
spieghi come si lavora insieme in queste cose, delle quali i più non hanno più
esperienza, in modo che il tempo insieme non sia tempo perso o solo impiegato
per lo studio personale. E' infatti dal confronto tra tanti punti di
vista che scaturisce un'immagine affidabile della realtà intorno.
Serve materiale, soprattutto servono libri,
che ora sono divenuti più accessibili in formato digitale. Se non se ne ha a
sufficienza o non se ne ha del tutto, come fare a capire la società?
Ricordo che la sala della Rettoria di S. Ivo
alla Sapienza, a corso Rinascimento, nell’antica sede dell’Università Sapienza,
dove si riunivano i soci del movimento romano dei Laureati cattolici che tanta
parte ebbero nella ricostruzione politica ed economica dell’Italia dopo la
caduta del fascismo, era appunto un luogo di incontro con un tavolo e tante
sedie e, intorno, tanti libri. Lì si attuò il passaggio virtuoso, il tirocinio
innanzi tutto, dalla religione individuale e domestica alla politica
animata dai valori di fede, attraverso la costruzione di una sapienza
collettiva. Era un posto all'interno dell'Università, proprio lì dove gli
universitari e i loro docenti passavano gran parte del giorno: al centro della
società non in suo angolino appartato.
31. Un mondo sta finendo
Le autorità che parteciparono alla
firma del Trattato del 1951 di Parigi che istituì la prima delle Comunità Europee, la Comunità
Europea del Carbone e dell’Acciaio, tra Belgio, Germania, Francia, Italia,
Lussemburgo e Olanda fuorono: Paul Van Zeeland, ministro degli esteri belga,
Joseph Bech, ministro degli esteri del Lussemburgo, Joseph Meurice, ministro
del Commercio estero del Belgio, Carlo Sforza, ministro degli esteri italiano,
Robert Shuman, ministro degli esteri francese, Konrad Adenauer, capo del
governo e ministro degli esteri tedesco, Dirk Stikker, ministro degli esteri
olandese, Johannes van de Brink, ministro degli affari economici olandese.
L’iniziativa del trattato fu del francese Robert Shuman, per mettere fine alle
situazioni di potenziale conflitto tra Francia e Germania. L’azione della
Germania, che nella firma del trattato fu rappresentata al più alto livello, fu
determinante. Ma senza la partecipazione dell’Italia il trattato sarebbe
rimasto, in definitiva, un accordo franco-tedesco limitato, non l’abbozzo di
un’Europa unita a livello continentale. L’Unione Europea si dissolverà quando
uno di questi stati fondatori, Francia, Germania e Italia, la dovesse lasciare.
[Dal Manifesto di
Ventotene, scritto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi
ed Eugenio Colorni]
Un'Europa libera e
unita è premessa necessaria del potenziamento della civiltà moderna, di cui
l'era totalitaria rappresenta un arresto. La fine di questa era sarà riprendere
immediatamente in pieno il processo storico contro la disuguaglianza ed i
privilegi sociali. Tutte le vecchie istituzioni conservatrici che ne
impedivano l'attuazione, saranno crollanti o crollate, e questa loro crisi dovrà
essere sfruttata con coraggio e decisione. La rivoluzione europea,
per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista, cioè
dovrà proporsi l'emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse
di condizioni più umane di vita.
La bussola di orientamento per
i provvedimenti da prendere in tale direzione, non può essere però il principio
puramente dottrinario secondo il quale la proprietà privata dei mezzi materiali
di produzione deve essere in linea di principio abolita, e tollerata solo in
linea provvisoria, quando non se ne possa proprio fare a meno. La
statizzazione generale dell'economia è stata la prima forma utopistica in cui
le classi operaie si sono rappresentate la loro liberazione del giogo
capitalista, ma, una volta realizzata a pieno, non porta allo scopo sognato,
bensì alla costituzione di un regime in cui tutta la popolazione è asservita
alla ristretta classe dei burocrati gestori dell'economia, come è avvenuto in
Russia.
Il principio veramente
fondamentale del socialismo, e di cui quello della collettivizzazione
generale non è stato che una affrettata ed erronea deduzione, è quello
secondo il quale le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma - come
avviene per forze naturali - essere da loro sottomesse, guidate, controllate
nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne siano vittime. Le
gigantesche forze di progresso, che scaturiscono dall'interesse individuale,
non vanno spente nella morta gora della pratica "routinière"
[=secondo un programma sempre uguale] per trovarsi poi di fronte all'insolubile
problema di resuscitare lo spirito d'iniziativa con le differenziazioni dei
salari, e con gli altri provvedimenti del genere dello stachanovismo
dell'U.R.S.S. [Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, il regime
politico che aveva sostituito quello imperiale zarista nel dominio della Russia
e delle popolazioni asiatiche conquistate dai russi in epoca zarista, durato
dal 1917 al 1991], col solo risultato di uno sgobbamento più diligente. Quelle
forze vanno invece esaltate ed estese offrendo loro una maggiore possibilità di
sviluppo ed impiego, e contemporaneamente vanno perfezionati e consolidati gli
argini che le convogliano verso gli obiettivi di maggiore utilità per tutta la
collettività.
La proprietà
privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa, caso per caso, non
dogmaticamente in linea di principio.
Questa direttiva si inserisce
naturalmente nel processo di formazione di una vita economica europea
liberata dagli incubi del militarismo e del burocraticismo nazionali. In essa
possono trovare la loro liberazione tanto i lavoratori dei paesi capitalistici
oppressi dal dominio dei ceti padronali, quanto i lavoratori dei paesi
comunisti oppressi dalla tirannide burocratica. La soluzione razionale
deve prendere il posto di quella irrazionale anche nella coscienza dei
lavoratori. Volendo indicare in modo più particolareggiato il contenuto di
questa direttiva, ed avvertendo che la convenienza e le modalità di ogni punto
programmatico dovranno essere sempre giudicate in rapporto al presupposto
oramai indispensabile dell'unità europea, mettiamo in rilievo i seguenti punti:
a. non si possono più lasciare
ai privati le imprese che, svolgendo un'attività necessariamente monopolistica,
sono in condizioni di sfruttare la massa dei consumatori (ad esempio le industrie
elettriche); le imprese che si vogliono mantenere in vita per ragioni
di interesse collettivo, ma che per reggersi hanno bisogno di dazi protettivi,
sussidi, ordinazioni di favore, ecc. (l'esempio più notevole di questo
tipo di industrie sono in Italia ora le industrie siderurgiche); e le
imprese che per la grandezza dei capitali investiti e il numero degli operai
occupati, o per l'importanza del settore che dominano, possono ricattare gli
organi dello stato imponendo la politica per loro più vantaggiosa(es. industrie
minerarie, grandi istituti bancari, industrie degli armamenti). E' questo il
campo in cui si dovrà procedere senz'altro a nazionalizzazioni su scala
vastissima, senza alcun riguardo per i diritti acquisiti;
b. le caratteristiche che hanno avuto in
passato il diritto di proprietà e il diritto di successione hanno permesso di
accumulare nelle mani di pochi privilegiati ricchezze che converrà
distribuire, durante una crisi rivoluzionaria in senso egualitario, per
eliminare i ceti parassitari e per dare ai lavoratori gl'istrumenti di
produzione di cui abbisognano, onde migliorare le condizioni economiche e far
loro raggiungere una maggiore indipendenza di vita. Pensiamo cioè
ad una riforma agraria che, passando la terra a chi coltiva, aumenti
enormemente il numero dei proprietari, e ad una riforma industriale che
estenda la proprietà dei lavoratori, nei settori non statizzati, con
le gestioni cooperative, l'azionariato operaio, ecc.;
c. i giovani vanno assistiti con le provvidenze necessarie per ridurre al
minimo le distanze fra le posizioni di partenza nella lotta per la vita. In particolare la
scuola pubblica dovrà dare la possibilità effettiva di perseguire gli studi
fino ai gradi superiori ai più idonei, invece che ai più ricchi; e dovrà
preparare, in ogni branca di studi per l'avviamento ai diversi mestieri e alla
diverse attività liberali e scientifiche, un numero di individui corrispondente
alla domanda del mercato, in modo che le rimunerazioni medie risultino poi
pressappoco eguali, per tutte le categorie professionali, qualunque
possano essere le divergenze tra le rimunerazioni nell'interno di ciascuna
categoria, a seconda delle diverse capacità individuali;
d. la potenzialità quasi senza
limiti della produzione in massa dei generi di prima necessità con la tecnica
moderna, permette ormai di assicurare a tutti, con un costo sociale
relativamente piccolo, il vitto, l'alloggio e il vestiario col minimo di
conforto necessario per conservare la dignità umana. La solidarietà
sociale verso coloro che riescono soccombenti nella lotta economica dovrà
perciò manifestarsi non con le forme caritative, sempre avvilenti, e
produttrici degli stessi mali alle cui conseguenze cercano di riparare, ma con
una serie di provvidenze che garantiscano incondizionatamente a tutti, possano
o non possano lavorare, un tenore di vita decente, senza ridurre lo stimolo al
lavoro e al risparmio. Così nessuno sarà più costretto dalla miseria ad
accettare contratti di lavoro iugulatori;
e. la liberazione delle classi
lavoratrici può aver luogo solo realizzando le condizioni accennate nei punti
precedenti: non lasciandole ricadere nella politica economica dei sindacati
monopolistici, che trasportano semplicemente nel campo operaio i metodi
sopraffattori caratteristici specialmente del grande capitale. I lavoratori debbono tornare
a essere liberi di scegliere i fiduciari per trattare collettivamente le
condizioni a cui intendono prestare la loro opera, e lo stato dovrà dare i
mezzi giuridici per garantire l'osservanza dei patti conclusivi; ma tutte le
tendenze monopolistiche potranno essere efficacemente combattute, una volta che
saranno realizzate quelle trasformazioni sociali.
Questi sono i cambiamenti necessari
per creare, intorno al nuovo ordine, un larghissimo strato di cittadini
interessati al suo mantenimento e per dare alla vita politica una consolidata
impronta di libertà, impregnata di un forte senso di solidarietà sociale. Su
queste basi le libertà politiche potranno veramente avere un contenuto concreto
e non solo formale per tutti, in quanto la massa dei cittadini avrà
una indipendenza ed una conoscenza sufficiente per esercitare un efficace e
continuo controllo sulla classe governante.
****************************************************
Mie considerazioni
Quando si ragiona di politica,
bisognerebbe tenere sempre tra le mani l’ultimo volume del corso di storia
delle scuole superiori. Quello è un libro da cui non separarsi per tutta la
vita. E se, per qualche motivo, non lo si ha più in casa, bisogna ricomprarlo.
I libri sono tra le cose più a buon mercato nella nostra civiltà. Ma ce ne sono
molti di inutili, semplice solletico per la mente. Non è così per quelli di
storia delle scuole. Senza quel libro di storia di cui ho detto, da dove
partire? Si fanno solo delle chiacchiere, riprendendo quelle ascoltate in
televisione o, peggio, quelle che si fanno sulle reti sociali sul WEB.
Quando sono nato, erano
passati solo dodici anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale (1939-1945) e
nove anni dall’istituzione della Repubblica italiana democratica. Si viveva in
un’epoca di forte sviluppo economico, nonostante che le ferite tremende
della guerra fossero ancora aperte nella società e nei luoghi dove la gente
viveva. L’economia nazionale era influenzata favorevolmente dalla cooperazione
internazionale e dalle condizioni di mercato dell’epoca, con basso costo
del lavoro e dell’energia. Negli anni successivi un certo benessere si diffuse
anche nelle masse popolari, generando varie rivendicazioni sociali. Questo
ciclo economico ebbe fine all’inizio degli anni ’70. Seguirono circa dieci anni
di ciclo depressivo, poi circa altri dieci anni di ripresa economica, poi
iniziò l’era dell’economia mondiale che stiamo ancora vivendo, basata sulla
globalizzazione dei mercati con vantaggi e svantaggi per la gente e, infine,
una lunga depressione economica in Europa, arrivata nel 2008 dagli Stati Uniti
d’America e ancora non superata.
Dunque, dicevo, sono nato a
dodici anni dalla fine della guerra mondiale.
Se oggi andiamo indietro di
dodici anni che troviamo? Più o meno l’Europa di adesso. Un continente sicuro e
pacificato. Ma sarebbe così anche andando più indietro nel tempo.
Fino agli anni ’80 troveremmo un’Europa divisa in due da regimi
politico-economici molto diversi: quelli capitalistici nella parte occidentale,
quelli comunisti in quella orientale. Il confine, che Winston Churchill
definì “Cortina di ferro” per la sua impenetrabilità, correva lungo
le due parti della Germania in cui quello stato era stato diviso politicamente
dopo la caduta del regime nazista, lungo il confine tra l’Austria e l’Ungheria
e quello tra l’Italia e la Jugoslavia, uno stato che oggi non c’è più, ma che
all’epoca federava Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina, Serbia e
Montenegro, e infine lungo il confine tra l’Italia e l’Albania e quello
tra quest'ultima, la Bulgaria, da una parte, e la Grecia dall'altra. Ma
l’Europa occidentale, e l'Italia in particolare, non era molto diversa da
ora.
Nel 2012 i saggi del Premio
Nobel attribuirono quello per la pace all’Unione Europea. Infatti è proprio
questo più eclatante effetto del processi di cooperazione e integrazione
europea: un lunghissimo periodo di pace, quale le generazioni europee
precedenti non avevano mai vissuto. Quando ero bambino, facevo le
elementari, mia nonna Rosa, nata all'inizio del Novecento, mi raccontava
che nella sua vita c’era stata una guerra più o meno ogni dieci anni, perché a
quelle mondiali bisognava aggiungere quelle coloniali.
E si stupiva che non ne fosse ancora iniziata una: si era all’inizio degli anni
Sessanta. Anche il mio maestro delle elementari la pensava nello stesso modo.
Per lui ci sarebbero state a breve altre guerre e noi, ci diceva, dovevamo
prepararci, perché sicuramente saremmo stati chiamati a combatterne una, non
appena avessimo raggiunto la maggiore età, che all’epoca era a ventuno anni. Ma
quelle guerre non vennero da noi. Negli anni ’90 scoppiarono in Jugoslavia, nel
processo di dissoluzione di quello stato, e anche l’Italia vi partecipò, ma
solo con l’aviazione militare e nel quadro di un’azione della NATO. Fu un
conflitto limitato, interno alla stessa Jugoslavia. Oggi la Slovenia e la
Croazia, che combatterono quelle guerre, sono parte dell’Unione Europea, e
Bosnia-Erzegovina e Serbia sono in procinto di diventarlo.
A che cosa è stato dovuto quel
lungo periodo di pace?
Dopo la fine della Seconda
Guerra Mondiale il mondo si polarizzò intorno alle due maggiori potenze
vincitrici, i maggiori tra gli Alleati che avevano combattuto i fascismi
europei, tra i quali quello italiano, precursore e modello di tutti i fascismi
europei: Stati Uniti d’America, una potenza americana, e Unione
Sovietica, una potenza euroasiatica; la prima ad economia capitalista avanzata,
la secondo ad economia capitalista. Entrambe volevano esportare il loro modello
politico ed economico in tutto il mondo. Oguna riteneva l'altra un pericolo
mortale ed entrambe, in funzione essenzialmente difensiva come dichiaravano i
loro capi, si dotarono di armi nucleari sempre più potenti e sofisticate. Se
usate, esse avrebbero portato alla distruzione del mondo intero, compresi gli
stati che le avevano lanciate. Per farsi un’idea della situazione dell’epoca si
può vedere il film Il dottor Stranamore, ovvero come ho imparato a non
preoccuparmi e ad amare la bomba, del regista Stanley Kubrik, realizzato
nel 1964, (in commercio su DVD ad €7,43) e il romanzo di Nevil Shute, L’ultima
spiaggia, del 1957 (disponibile in e-book ad €3,99). Un conflitto
globale, mondiale, con il coinvolgimento di quelle due
super-potene divenne impossibile. In questo una grande anima come Giorgio
La Pira vide la manifestazione di un disegno provvidenziale. In realtà
conflitti locali, più limitati, continuarono ad essere combattuti, anche tra la
grandi potenze, come nella guerra in Corea (1950-1953) e nella lunghissima
guerra in Indocina (Vietnam, Laos, Cambogia), dal 1955 al 1975. Ma non in
Europa, in particolare lungo la frontiera tra Germania e Francia, al centro
dell’Europa, che divideva i sistemi politici dai quali erano originate le due
Guerre mondiali del Novecento. Perché? E’ stato merito del processo di
integrazione e cooperazione europea che ha progressivamente eliminato le
ragioni di conflitto e avvicinato i popoli europei, fino a rendere inutili i
posti di frontiera tra nazioni che si erano lungamente e strenuamente
combattute. Un processo che non ha riguardato le nazioni integrate nell’analogo
organismo di cooperazione europea promosso nell’area dominata dai sovietici,
il COMECON, con la conseguenza che gli stati che hanno aderito
all’Unione Europea dopo essere stata inclusi dal 1945 nell’area di influenza
sovietica appaiono molto meno integrati tra loro di quanto appaiono le nazioni
dell’Europa occidentale. In particolare fra di essi è ancora molto forte il
nazionalismo che il processo di integrazione europeo ha fortemente contrastato.
Il processo di pacificazione
tra i popoli europei attuato progressivamente nel quadro di politiche
internazionali europeiste ha comportato incisive riforme sociali, nel senso di
quelle auspicate dagli autori del Manifesto di Ventotene, in
particolare nel settore dell’economia, del lavoro e della sicurezza
sociale. Esse erano nel programma politico dei partiti socialisti europei, fin
dall’Ottocento. La Chiesa cattolica inizialmente le contrastò: del resto
la prima enciclicasociale, intitolata Le novità,
diffusa nel 1891 dal papa Gioacchino Pecci, regnante in religione come Leone
13°, era diretta in primo luogo contro il socialismo. Poi, seguendo in questo
le impostazioni dei partiti popolari democratici europei, ne ha recepito
diversi elementi, tanto che ho letto che al nuovo presidente statunitense il
Papa attuale appare sospetto di socialismo. Ma la giustizia sociale, in
particolare una ragionevole distribuzione delle ricchezze che consenta alle
masse di liberarsi dalla povertà e di condividere il benessere reso possibile
dai moderni mezzi di produzione, quindi ciò che si intende con
l’espressione sicurezza sociale, che significa anche assistenza
nella malattia e negli altri rovesci della vita (come i disastri naturali),
sostegno nella vecchiaia, e protezione del lavoro dagli arbitri di chi
controlla i processi produttivi, trova giustificazione in sé stessa e non dipende
da questa o quella ideologia. Anche ai nostri tempi, nei quali quasi
nessuno osa più definirsi socialista, in particolare in
Italia per il discredito che è legato a questa denominazione per le ultime
vicende storiche del partito che da noi al socialismo si richiamava
espressamente e per le conseguenze disumane del sistema socialista
sovietico, l’idea di giustizia sociale può continuare ad avere corso, in
particolare seguendo ideali umanitari che anche in religione possono trovare
fondamento. Piuttosto è l’idea di lotta di classe, quindi di
conflitti sociali violenti, che appare meno attuale, perché viviamo in società
democratiche in cui, almeno in teoria, le masse hanno gli strumenti per far
valere certe pretese con metodi nonviolenti. E questo anche se il
conflitto è latente in ogni società umana: in democrazia esso può però essere
gestito pacificamente. Da ciò consegue, però, che la crisi dei processi
democratici mette le società a rischio di una ripresa di lotte sociali
violente.
Una delle prime riforme
italiane del Secondo dopoguerra fu quella agraria, che comportò espropriazione
dei latifondi improduttivi e la distribuzione delle terre ai lavoratori. Si
arrivò alla nazionalizzazione della produzione di energia elettrica, secondo
gli auspici degli autori delManifesto e fu stabilito che a) la
proprietà privata dovesse essere regolata in modo da assicurarne la funzione
sociale e di renderla accessibile a tutti (art.
42 della Costituzione) e che b) l’impresa privata non potesse svolgersi
in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza,
alla libertà, alla dignità umana (art. 41 della Costituzione). Il sistema di
previdenza sociale per la vecchiaia, l’invalidità e la malattia fu esteso a
tutte le categorie di lavoratori, anche autonomi e, con la riforma sanitaria
del 1978, la maggior parte delle cure divenne accessibile a tutti gratuitamente
o a costi molto contenuti. Per il lavoratori dipendenti si stabilirono minimi
salariali e disposizioni che li tutelassero da licenziamenti arbitrari,
prevedendo una valida tutela giudiziaria dei diritti del lavoro. Fu garantita
l’istruzione pubblica, fino ai livelli più elevati, per larghe fasce della
popolazione. Riforme analoghe furono attuate anche negli altri stati europei interessati
dal processo di unificazione sfociato nell’Unione Europea. In sostanza, le
riforme disegnate dagli autori del Manifesto di Ventotene vennero
attuate e questo fu un fattore importante di pacificazione delle società
europee che si stavano integrando economicamente e politicamente. Tutti i
diritti scaturiti da quelle riforme vengono ancora oggi considerati scontati e
irrinunciabili dalla maggior parte della gente, e invece non lo sono nella
maggior parte del mondo. In origine chi ne proponeva l’istituzione veniva
considerato un socialista rivoluzionario. E penso che vi sia ancora chi,
leggendo oggi il brano del Manifesto di Ventotene che ho sopra
trascritto, si scandalizzerà, leggendo di socialismo. IlManifesto è
un documento molto citato ma poco letto e conosciuto in dettaglio. E in esso il
socialismo c’è.
Il mondo della pace sociale e
internazionale europea sta improvvisamente e rapidamente finendo. Questa è la
novità dei nostri tempi. Si stanno nuovamente creando le condizioni per
guerre mondiali ed europee. Ad un bambino delle elementari di oggi non sarei in
grado di garantire che non dovrà combattere una qualche guerra. E anche la
società italiana si è fatta instabile, man mano che le conquiste sociali dei
passati decenni vengono messe in discussione. In una nazione ancora tra le più
ricche del mondo, sembra che non ce ne sia più per tutti. E’ stato osservato
che sono molto aumentate le diseguaglianze sociali, in modo corrispondente e
progressivo al decadere dei meccanismi di perequazione economica tra le classi
e di protezione di quelle più deboli. L’area del benessere si va restringendo,
il lavoro si va facendo insicuro, la protezione per la vecchiaia non è più
certa per coloro che oggi sono giovani e tutti per tutti i servizi sociali, in
particolare per la sanità, le risorse diminuiscono. Le condizioni di lavoro si
vanno avvicinando a quelle dei lavoratori asiatici che finora hanno prodotto le
merci di uso comune che in Europa acquistiamo a bassissimo prezzo. Nonostante
che il costo del lavoro in Italia sia tra i più bassi in Europa, non vi è una
ripresa dell’occupazione, anche per il diffondersi sempre più di processi
produttivi automatizzati. Ma il fattore che sta determinando il cambiamento è
il mutamento radicale di impostazione politica negli Stati Uniti d’America, la
potenza di riferimento per le nazioni europee, finora fortemente integrata
economicamente e politicamente con l’Europa. Negli anni passati gli
statunitensi hanno assecondato il processo di unificazione europea, prima in chiave
antisovietica e successivamente come fattore di stabilizzazione europea
per gestire la dissoluzione del sistema politico dominato dai sovietici. La
riunificazione delle due Germanie, l’assorbimento nell’Unione Europea dei paesi
baltici e di quelli ex comunisti fino alla Polonia e alla Romania sono stati
gestiti in ambito europeo. Dalla crisi Ucraina in avanti, quindi dal
2014, la politica statunitense è cambiata, e ancor più sta cambiando in questi
giorni. Le due super-potenze che avevano determinato l’ordine politico europeo
dal 1945 non sembrano più interessate ad un’Europa unificata e manovrano per
indebolirla. Stati Uniti d’America e Russia in Europa sono in rotta di
collisione, in particolare sulle questioni delle minoranze russe nelle nazioni
baltiche, su quelle dell’Ucraina e su quella del rafforzamento della forza NATO
in Polonia. La crisi Ucraina ha dimostrato che guerre internazionali possono
ancora essere combattute in Europa, senza scatenare un conflitto
autodistruttivo, quindi senza necessariamente impiegare le armi nucleari.
In Europa i politici populisti
addebitano al processo di integrazione europea mali che derivano invece dalla
degenerazione dei sistemi capitalistici. Questo indebolisce ulteriormente la
base politica del processo di unificazione europea. Le masse sono spinte a
sostenere politiche protezionistiche che sono suicide per nazioni di un
continente come quello europeo che ha prosperato solo nelle fasi di
integrazione economica. E a ripudiare la moneta unica, l’Euro, con il rischio di
ricadere nella situazione, ormai sperimentata solo da chi ha sessanta e più, in
cui i risparmi delle famiglie, così come i salari dei lavoratori, venivano
rapidamente erosi da tassi di inflazione altissimi, prodotti da spregiudicate
politiche monetarie dei governi nazionali.
Un quadro di crisi globale
che, per la prima volta, viene realisticamente e sinteticamente esposto in un
documento di un Papa: nell’enciclica Laudato si’. Le soluzioni
proposte sono abbastanza simili a quelle pensate da Spinelli, Rossi e Colorni,
quindi da socialisti critici, consapevoli sia dei mali dei sistemi
capitalistici che di quelli dei sistemi totalitari basati sul comunismo di
impronta sovietica. Ma certamente in quel documento, destinato ad un
pubblico globale, l’Europa non c’è. Del resto è scritto da un americano.
Occorre quindi, nel processo di formazione all’azione sociale dei laici di fede
italiani, integrarlo, in particolare vincendo i sospetti di laicismo che negli
ultimi anni hanno guastato il confronto tra il mondo della nostra fede e quello
delle politiche europeiste.
32. Impegno
religioso e impegno politico: la particolarità italiana
Nell’enciclica Laudato si’,
del 2015, vi è un forte appello all’impegno politico delle persone di fede. Non
è un insegnamento nuovo, ma questa volta è inserito in un’analisi realistica di
come va il mondo oggi e delle cause dei principali mali sociali.
E’ dalla metà dell’Ottocento
che il papato romano, principalmente per opporsi al processo di unificazione
nazionale italiana e poi per reagire ad esso, ha attivato politicamente le
masse, costituendo quello che Guido Formigoni, nel libro Alla prova
della democrazia - Chiesa cattolici e modernità nell’Italia del
‘900, Il Margine, 2008, ha definito movimentoguelfo (nel
Medioevo erano guelfi i Comuni che seguivano la politica
del papato romano). A lungo quest’ultimo ebbe carattere sovversivo, opponendosi
ai partiti di governo dell’epoca, tanto da essere colpito dall’applicazione di
leggi sulla sicurezza nazionale. Quest’azione incise profondamente
nell’assimilazione dei principi democratici da parte dei fedeli e favorì la
fusione, più o meno tra il 1930 e il 1938, tra ideologia fascista e ideologia
del cattolicesimo politico. Il fascismo ebbe in comune con il movimento guelfo il
carattere di opposizione ai principi della politica liberale, l’autoritarismo,
il corporativismo anti-socialista, quindi la visione della società come di un
corpo vivente in cui le singole parti per il bene comune dovessero accettare
una gerarchianaturale di pochi sui molti senza che questi ultimi
potessero influire nelle scelte collettive se non eseguendo direttive
superiori, una concezione della famiglia di tipo patriarcale maschilista
centrata sull’autorità di un padre, modello di tutta
l’organizzazione sociale. Entrambi i movimenti erano iniziati come sovversivi,
ma entrambi vennero poi accettati dalla classe dominante, che in Italia era
costituita da un borghesia imprenditoriale che chiedeva protezione
statale dei propri affari e un trattamento preferenziale nelle
commesse pubbliche, in funzione di stabilizzazione dell’ordine sociale. Alla
caduta del fascismo, nel 1945, il movimento guelfo rimase come attore politico
principale integrandosi con i neo-cattolici democratici di Alcide De Gasperi e
Giuseppe Dossetti, e loro epigoni. Tutte le fasi della politica democratica
italiana dal Secondo dopoguerra fino all’inizio del regno di papa Francesco
furono mediate dal movimento guelfo controllato dal papato romano, anche dopo
la varie metamorfosi del cattolicesimo democratico dovute alla fine dei regimi
di osservanza sovietica nell’Europa orientale, con la contemporanea metamorfosi
del Partito Comunista Italiano, il più grande partito comunista dell’Occidente.
All’importanza del ruolo
politico delle masse dei fedeli in Italia non è corrisposta un’adeguata azione
di formazione alla democrazia. Ci si aspettava, come all’inizio della dottrina
sociale moderna, a fine Ottocento, che i cittadini che
erano anche fedeli seguissero fedelmente le direttive di azione sociale diffuse
dal papato romano attraverso vari tipi di documenti normativi, limitandosi
ad applicarle, con poco margine operativo. I principi del
cattolicesimo democratico erano diversi e questo comportò la persistente
diffidenza verso i suoi esponenti, i quali, definendosi persone di fede adulte,
volevano emanciparsi. Quest’orientamento rimase anche dopo che, a seguito delle
decisioni del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), si cercò di sollecitare i
laici di fede ad un impegno più intenso, creativo e autonomo, definendo un loro
specifico campo d’azione nelle cose temporali, intese come ciò che
riguardava la scienza e la politica, nelle quali si riconobbe la necessità di
ragionamenti con un certo margine di autonomia in quanto la teologia era
insufficiente a capirle e ad orientarle. Sviluppare questa autonomia fu il
problema più critico degli anni del dopo-Concilio. Il movimento per il
rinnovamento della catechesi doveva servire anche a questo, ma i risultati
furono incerti. Con la lunga fase del papato di Karol Wojtyla tutto in sostanza
venne sospeso, in attesa di tempi migliori. E questo anche se nel 1991, con
l’enciclica Il Centenario, a cento anni dalla prima enciclica della
dottrina sociale moderna, Le novità, del papa Gioacchino Pecci, il
papato romano propose alla nuova Europa uscita dalla fine del regime comunista
sovietico la via dell’organizzazione democratica. Una neo-democrazia di
osservanza papale per l’Italia? Detta così suona male, ma in effetti è proprio
a questo che si pensò. D’altra parte c’erano dei risultati: il cattolicesimo
italiano sembrava resistere meglio di altri al processo disecolarizzazione europeo,
quello appunto basato sull’autonomia delle cose temporali, per cui per
decidere in politica non si fa appello alla religione né la si considera come
elemento di discriminazione. In realtà questo può essere visto non tanto come
un successo della religione all’italiana, quanto come un portato
della particolare integrazione tra politica e religione che si era prodotta in
Italia per la sua particolare storia, per cui le masse cattoliche erano
state indotte a coalizzarsi intorno al papato romano in un processo
secolare che è partito da metà Ottocento, nell’opposizione al processo di
unificazione nazionale, che è poi proseguito con l’integrazione con il fascismo
e poi, in epoca democratica, sotto le bandiere del cattolicesimo democratico.
Se si scava un po’ a fondo, interrogando le persone, senza distinzione di età,
prova che si è realizzata una tradizione in questo
campo, si può facilmente avere la dimostrazione che l’ideologia sottostante ha
risentito poco del processo di assimilazione alla democrazia che i cattolici
democratici volevano produrre: riemergono idee caratteristiche
dell’integrazione con il fascismo storico. Il modello del buon cattolico in
politica è ancora quello là. Ma influenze sensibili si colgono anche nelle
questioni relative alla famiglia. Quell’integrazione riguarda il fascismo
mussoliniano maturo, appunto quello sviluppatosi tra il 1930 e il 1938, tra
l’epoca in cui le ultime resistenze di parte cattolica ai Trattati Lateranensi
del 1929 vennero sopite e l’inizio della legislazione razzista anti-ebraica,
che segnò il principio di una presa di distanza da parte del papato romano, non
il fascismo rivoluzionario delle origini né quello repubblicano della fine. Le
principali resistenze ad un formazione politica alla democrazia nel quadro
dell’iniziazione religiosa, per preparare i laici di fede al compito che da
loro si attende per promuovere nelle società del loro tempo i valori di fede,
sono motivate con argomenti che ricalcano quelli di quel tipo di fascismo. Oggi
questo tipo di politica sembra addirittura l’unico in grado di salvare l’Italia
dalneo-populismo egoistico che minaccia di dissolverla e che è in
linea con il trumpismo statunitense. E’ venuto a
mancare, però, l’ingrediente principale di ogni movimento guelfo: un
Papa che voglia essere anche un capo politico populista come
lo furono i suoi predecessori. Papa Francesco indica un’altra strada, più
difficile, più impegnativa, che è poi il linea con quel grande manifesto del
cattolicesimo democratico che è la Costituzione La gioia e la
speranza, del Concilio Vaticano 2°.
33. Consapevolezza storica e partecipazione responsabile
[dal Manifesto di Ventotene,
scritto nel 1941 da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni]
Sugli istituti costituzionali sarebbe
superfluo soffermarci, poiché, non potendosi prevedere le condizioni in cui
dovranno sorgere ed operare, non faremmo che ripetere quello che tutti già sanno
sulla necessità di organi rappresentativi per la formazione delle leggi,
dell'indipendenza della magistratura - che prenderà il posto dell'attuale - per
l'applicazione imparziale delle leggi emanate, della libertà di stampa e di
associazione, per illuminare l'opinione pubblica e dare a tutti i cittadini la
possibilità di partecipare effettivamente alla vita dello stato. Su due sole
questioni è necessario precisare meglio le idee, per la loro particolare
importanza in questo momento nel nostro paese, sui rapporti dello stato con la
chiesa e sul carattere della rappresentanza politica:
a. la Chiesa cattolica continua
inflessibilmente a considerarsi unica società perfetta, a cui lo stato dovrebbe
sottomettersi, fornendole le armi temporali per imporre il rispetto della sua
ortodossia. Si presenta come naturale alleata di tutti i regimi reazionari, di
cui cerca approfittare per ottenere esenzioni e privilegi, per ricostruire il
suo patrimonio, per stendere di nuovo i suoi tentacoli sulla scuola e
sull'ordinamento della famiglia. Il concordato con cui in Italia il Vaticano ha
concluso l'alleanza col fascismo andrà senz'altro abolito, per affermare il
carattere puramente laico dello stato, e per fissare in modo inequivocabile la
supremazia dello stato sulla vita civile. Tutte le credenze religiose dovranno
essere ugualmente rispettate, ma lo stato non dovrà più avere un bilancio dei
culti, e dovrà riprendere la sua
opera educatrice per lo sviluppo dello spirito critico;
b. la baracca di cartapesta che il
fascismo ha costruito con l'ordinamento corporativo cadrà in frantumi, insieme
alle altre parti dello stato totalitario. C'è chi ritiene che da questi rottami
si potrà domani trarre il materiale per il nuovo ordine costituzionale. Noi non
lo crediamo. Nello stato totalitario le Camere corporative sono la beffa, che
corona il controllo poliziesco sui lavoratori. Se anche però le Camere
corporative fossero la sincera espressione delle diverse categorie dei
produttori, gli organi di rappresentanza delle diverse categorie professionali
non potrebbero mai essere qualificati per trattare questioni di politica
generale, e nelle questioni più propriamente economiche diverrebbero organi di
sopraffazione delle categorie sindacalmente più potenti.
Ai sindacati spetteranno ampie
funzioni di collaborazione con gli organi statali, incaricati di risolvere i
problemi che più direttamente li riguardano, ma è senz'altro da escludere che
ad essi vada affidata alcuna funzione legislativa, poiché risulterebbe
un'anarchia feudale nella vita economica, concludentesi in un rinnovato
dispotismo politico. Molti che si sono lasciati prendere ingenuamente dal mito
del corporativismo potranno e dovranno essere attratti all'opera di
rinnovamento, ma occorrerà che si rendano conto di quanto assurda sia la
soluzione da loro confusamente sognata. Il corporativismo non può avere vita
concreta che nella forma assunta degli stati totalitari, per irreggimentare i
lavoratori sotto funzionari che ne controllano ogni mossa nell'interesse della
classe governante.
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Gli autori del Manifesto
di Ventotene scrivevano quando ancora l’Italia era dominata dal
regime fascista mussoliniano. Quest’ultimo aveva ancora il consenso largamente
maggioritario, direi quasi totalitario, dei cattolici italiani. Ogni resistenza
era stata vinta non molto dopo la conclusione degli accordi tra il papato
romano e il Regno d’Italia dominato del Mussolini, nel 1929, con i Patti
Lateranensi. Il regime aveva soppresso ogni libertà democratica e, in
particolare, quella sindacale, instaurando, in un processo compiuto tra il 1926
e il 1939, un ordinamento corporativo, nel quale furono istituiti nuovi
sindacati come istituzioni dello stato, che venivano proposti come
rappresentativi delle varie categorie dei lavoratori e dei datori di lavoro,
per eliminare il conflitto sociale. Queste istituzioni era controllate dal
Partito Nazionale Fascista, l’unico partito all’epoca ammesso, dal Ministro
delle Corporazioni e da quello dell’Interno: ogni nomina di dirigente, ad ogni
livello doveva ottenere l’approvazione ministeriale, inoltre l’organizzazione
delle corporazioni era fortemente gerarchica. Nel 1939 la Camera dei deputati
venne sostituita con la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, con
funzioni solo consultive, nella quale sedevano anche rappresentanti delle
Corporazioni. La fine della libertà sindacale avvantaggiò i datori di lavoro, i
quali erano la parte dominante nei rapporti di lavoro dipendente e
storicamente si erano associati in sindacati principalmente per reagire
al sindacalismo operaio. Nel regime fascista lo sciopero e la serrata, la
chiusura di una fabbrica per reagire a moti operai, erano vietati. Storicamente
l’affermazione del fascismo era stata favorita da industriali e imprenditori agrari
anche come protezione contro il sindacalismo socialista. Il fascismo maturo,
quello che fu veramente totalitario in Italia negli anni ’30, restò legato a
quegli ambienti sociali. La contrattazione sindacale fu fortemente
limitata dalla parte dei lavoratori, che venivano privati del loro principale
strumento di pressione sulle controparti, quello dello sciopero. In contratti
nazionali di lavoro divennero norme dello stato e, pur contenendo gli eccessi
da parte dei datori di lavoro, ma i lavoratori, nell’ordinamento corporativo
fascista, finirono effettivamente, come ricordato nel Manifesto per
“irreggimentare i lavoratori sotto funzionari che ne controllavano ogni
mossa nell'interesse della classe governante.”
Anche la prima dottrina
sociale della Chiesa aveva proposto il corporativismo come regime preferibile
nei rapporti di lavoro, anche se non nella forma attuata dal fascismo, ma come
sistema di intese amichevoli tra lavoratori e datori di lavoro ispirate ad
equità e umanità. Negli anni ’30, comunque, il regime fascista presentò
l’ordinamento corporativo come l’attuazione degli insegnamenti della dottrina
sociale, non venendo smentito, ma anzi trovando apprezzamento nella gerarchia
cattolica, nel nuovo clima di collaborazione instauratosi con il papato romano
dopo la conclusione, nel 1929, dei Patti Lateranensi.
Ecco infatti che cosa si legge
nell’enciclica Il Quarantennale, diffusa nel 1931 dal papa Achille
Ratti, regnante come Pio 11° in occasione dell’anniversario dei quarant’anni
dalla prima enciclica della dottrina sociale, la Le novità,
del papa Gioacchino Pecci, regnante come Leone 13°:
92. Recentemente, come tutti sanno, venne iniziata una speciale
organizzazione sindacale e corporativa, la quale, data la materia di questa
Nostra Lettera enciclica, richiede da Noi qualche cenno e anche qualche
opportuna considerazione.
93. Lo Stato riconosce giuridicamente
il sindacato e non senza carattere monopolistico, in quanto che esso solo, così
riconosciuto, può rappresentare rispettivamente gli operai e i padroni, esso
solo concludere contratti e patti di lavoro. L'iscrizione al sindacato è
facoltativa, ed è soltanto in questo senso che l'organizzazione sindacale può
dirsi libera; giacché la quota sindacale e certe speciali tasse sono
obbligatorie per tutti gli appartenenti a una data categoria, siano essi operai
o padroni, come per tutti sono obbligatori i contratti di lavoro stipulati dal
sindacato giuridico. Vero è che venne autorevolmente dichiarato che il
sindacato giuridico non escluse l'esistenza di associazioni professionali di
fatto.
94. Le Corporazioni sono costituite
dai rappresentanti dei sindacati degli operai e dei padroni della medesima arte
e professione, e, come veri e propri organi ed istituzioni di Stato, dirigono e
coordinano i sindacati nelle cose di interesse comune.
95. Lo sciopero è vietato; se le
parti non si possono accordare, interviene il Magistrato.
96. Basta poca riflessione per vedere i vantaggi
dell'ordinamento per quanto sommariamente indicato; la pacifica collaborazione
delle classi, la repressione delle organizzazioni e dei conati socialisti,
l'azione moderatrice di une speciale magistratura. Per non trascurare nulla in
argomento di tanta importanza, ed in armonia con i principi generali qui sopra
richiamati, e con quello che inibito aggiungeremo, dobbiamo pur dire che
vediamo non mancare chi teme che lo Stato si sostituisca alle libere attività
invece di limitarsi alla necessaria e sufficiente assistenza ed aiuto, che il
nuovo ordinamento sindacale e corporativo abbia carattere eccessivamente
burocratico e politico, e che, nonostante gli accennati vantaggi generali,
possa servire a particolari intenti politici piuttosto che all'avviamento ed
inizio di un migliore assetto sociale.
97. Noi crediamo che a
raggiungere quest'altro nobilissimo intento, con vero e stabile beneficio
generale, sia necessaria innanzi e soprattutto la benedizione di Dio e poi la
collaborazione di tutte le buone volontà. Crediamo ancora e per
necessaria conseguenza che l'intento stesso sarà tanto più sicuramente
raggiunto quanta più largo sarà il contributo delle competenze tecniche,
professionali e sociali e più ancora dei principi cattolici e della loro
pratica, da parte, non dell'Azione Cattolica (che non intende svolgere attività
strettamente sindacali o politiche), ma da parte di quei figli Nostri che
l'Azione Cattolica squisitamente forma a quei principi ed al loro apostolato
sotto la guida ed il Magistero della Chiesa; della Chiesa, la quale anche sul
terreno più sopra accennato, come dovunque si agitano e regolano questioni
morali, non può dimenticare o negligere il mandato di custodia e di magistero
divinamente conferitole.
98. Se non che, quanto abbiamo detto
circa la restaurazione e il perfezionamento dell'ordine sociale, non potrà essere
attuato in nessun modo, senza una riforma dei costumi come la storia stessa ce
ne dà splendida testimonianza. Vi fu un tempo infatti in cui vigeva un
ordinamento sociale che, sebbene non del tutto perfetto e in ogni sua parte
irreprensibile, riusciva tuttavia conforme in qualche modo alla retta ragione,
secondo le condizioni e la necessità dei tempi. Ora quell'ordinamento è già da
gran tempo scomparso; e ciò veramente non perché non abbia potuto, col
progredire, svolgersi e adattarsi alle mutate condizioni e necessità di cose e
in qualche modo venire dilatandosi, ma perché piuttosto gli uomini induriti
dall'egoismo ricusarono di allargare, come avrebbero dovuto, secondo il
crescente numero della moltitudine, i quadri di quell'ordinamento, o perché,
traviati dalla falsa libertà e da altri errori e intolleranti di qualsiasi
autorità, si sforzarono di scuotere da sé ogni restrizione.
99. Resta adunque che, dopo aver
nuovamente chiamato in giudizio l'odierno regime economico, e il suo acerrimo
accusatore, il socialismo, e aver dato giusta ed esplicita sentenza sull'uno e
sull'altro, indaghiamo più a fondo la radice di tanti mali e ne indichiamo il
primo e più necessario rimedio, cioè la riforma dei costumi.
Il Papa, quindi, esortò i
membri dell’Azione Cattolica di allora a collaborare con l’ordinamento
corporativo fascista con il “contributo delle competenze
tecniche, professionali e sociali e più ancora dei principi cattolici e della
loro pratica”, invito che effettivamente venne accolto.
Quanto ho sopra sintetizzato,
spiega perché gli autori del Manifesto di Ventotene, al
confino nell’isola dopo periodi di detenzione in carcere e nel pieno del regime
fascista, nel pensare la nuova Europa che immaginavano sarebbe seguita ai
nazi-fascismi europei, dedicarono alla Chiesa cattolica e al corporativismo
fascismo quei due periodi che ho sopra trascritto.
Nella formazione alla fede di
solito si sorvola su quei fatti, che oggi sono ritenuti disonorevoli. Si
preferisce ricordare il lavoro di progettazione di una nuova democrazia che si
compì effettivamente tra ristrettissime elite dell’Azione
Cattolica, in particolare tra gli universitari della FUCI e tra i membri
del Movimento Laureati, su impulso di Giovanni Battista
Montini e di altri, l’impegno dei cattolici democratici nella Resistenza tra il
1943 e il 1945, e infine il contributo determinante di questi ultimi,
molti dei quali usciti dalle fila della FUCI e delMovimento Laureati,
nella fondazione politica e nello sviluppo della Repubblica democratica e delle
istituzioni europee. Ma l’integrazione con il fascismo vi fu effettivamente e
fu molto profonda. Ancora oggi se ne risente. Si evidenziano generalmente le
incompatibilità tra i due regimi totalitari del fascismo e del cattolicesimo
romano, che indubbiamente c’erano dal punto di vista ideologico: tuttavia il
fascismo aprì la strada ad un’egemonia della gerarchia cattolica sul popolo
italiano alla quale essa da tempo ambiva e per il fascismo la legittimazione
come regime provvidenziale da parte del papato fu
determinante nel controllo politico totalitario della nazione. In sostanza: due
totalitarismi che si integrarono creando una sorta di dottrina comune che
definì il profilo del benpensante. Che cosa sono dieci anni
nella storia di una nazione? Eppure gli anni ’30 furono nel bene e nel male
fondamentali per ciò che a lungo si produsse dopo. Nel bene perché la
Repubblica democratica deriva da un pensiero che in quegli anni si sviluppò,
sia in ambito cattolico democratico, sia in ambito socialista che in ambito
liberale, le tre componenti di base del nuovo regime democratico post-fascista.
Nel male perché il modello fascista del benpensante creò
una persistente e radicata tradizione popolare, per cui, ad esempio, certe cose
che si sentono dire ai nostri giorni nei confronti di gente di altre etnie e
religioni e su come dovrebbe essere la famiglia risalgono a quel tempo là,
anche se se ne è in genere persa consapevolezza.
C’è infine una importante
lezione che ci viene dalla storia: quella italiana degli ultimi due secoli fu
potentemente influenzata dalla politica espressa dalla Chiesa cattolica. Essa
però, in democrazia, non può più rimanere una faccenda solo da preti. Se ne
deve poter discutere ad ogni livello anche negli ambienti religiosi. Ciò
non sempre è agevole, perché la struttura istituzionale ecclesiale è rimasta
sostanzialmente feudale e totalitaria. In un’associazione come l’Azione
Cattolica si può fare tirocinio di democrazia e, ad esempio, come è ieri è
avvenuto nell’Assemblea diocesana, confrontarsi e votare anche su
singole frasi di un documento programmatico, ma questo in genere non avviene in
una realtà di base come quella parrocchiale, pur essendo prevista qualche sede
rappresentativa. Dove di certe cose non si discute e non si fa tirocinio, non
si acquista una consapevolezza del proprio ruolo sociale e questo impedisce di
resistere alle degenerazioni, di mettere in questione scelte discutibili, di
solidarizzare con coloro che vengono ingiustamente emarginati, di bilanciare
certi eccessi, di mantenere un pluralismo di opzioni, di chiedere a chi
esercita un’autorità di rendere periodicamente e pubblicamente il conto
di ciò che ha fatto e di ciò che progetta di fare. Oggi ci troviamo, in
parrocchia, a dover rimediare a problemi che si sono generati anche per questo
motivo, per cui molta gente del quartiere, non sentendosi il linea con una
certa impostazione, mi pare che si sia allontanata ed ora è tanto faticoso
farle riprendere familiarità tra noi.
34. Nuove modernità
[da: Peter Berger, Grace Davie,
Effie Fokas, America religiosa, Europa
laica? - Perché il secolarismo europeo è un’eccezione, Il Mulino, 2010, €
18,50]
[pag.192] […] se una società desidera fare uso di certe
tecnologie, deve adattare le sue istituzioni e i suoi valori culturali in
maniera tale da formare persone che possano impiegare queste tecnologie. Per
esempio, il pilota di un aereo moderno non può agire sulla base delle
assunzioni metafisiche o degli incantesimi di uno sciamano, almeno finché
siede nella cabina di pilotaggio. Ma quando il pilota torna a casa - per
esempio in un villaggio primitivo - può fare proprie ogni sorta di idee e
pratiche magiche.
La modernità è un fatto culturale, anche se la
parola richiama l’idea di una successione di epoche. Si ha quando una società
ritiene di aver fatto dei progressi rispetto ad una sua forma precedente, per
cui comprende meglio e più realisticamente i fatti della vita, e innanzi tutto
sé stessa, e sviluppa tecnologie più efficaci e potenti. E’ un processo che ha
caratterizzato tutta la storia dell’umanità e la gran parte delle culture
umane, ma solo dall’Ottocento, in Europa, la modernità è divenuta anche
ideologia e non comporta solo una constatazione di come un certo presente si
presenta a confronto con un suo passato ma anche propositi per il futuro.
Dall’Ottocento essere moderni significa anche voler essere sempre più moderni. In questa accezione modernità è strettamente connessa con progresso. L’obiettivo delle società moderne non è più stata la stabilità, ma il miglioramento
incessante sulla via della modernità.
Il processo di modernizzazione ha riguardato anche la religione, che fino
alla metà dell’Ottocento ha preteso di sbarrare la strada all’ideologia
della modernità, appunto perché
comprendeva anche una modifica del ruolo della religione nella società e una
diversa comprensione dei concetti e precetti religiosi. Il Novecento si è
aperto in Europa con l’ultima delle persecuzioni religiose attuate nella nostra
confessione, che è stata quella contro il modernismo.
All’inizio del Novecento, la battaglia della religione contro la modernità scientifica era già persa, ma era ancora in corso quella
contro la modernità sociale, che
riguardava concezione e costumi sociali. Un portato di quest’ultima era la democrazia, contro la quale il papato romano combatté
strenuamente in Italia fino alla vigilia della Prima guerra mondiale, quando
provò a trovare un accomodamento anche in questo campo. Ma il divieto assoluto
di modernizzare rimase in campo religioso e si dovette
arrivare agli anni Sessanta del secolo scorso per un primo cambiamento. Bisogna
anche dire che la pretesa della modernità di svelare la natura e la
dinamica dei fatti sociali colpiva anche la religione con l’accusa, senz’altro
in genere fondata, di essere stata lo strumento con cui le classi dominanti
avevano asservito le masse popolari, fascinandole con una serie di miti, di fantasiose narrazioni che si
pretendeva descrivessero fedelmente la realtà. Questa prospettazione veniva
fatta sia dai democratici liberali, che dominarono il Regno d’Italia dalla sua
fondazione nel 1861 all’avvento del fascismo mussoliniano nel 1922, sia dai
socialismo, il movimento politico che in Italia si sviluppò nella seconda metà
dell’Ottocento: per il socialismo ottocentesco la liberazione sociale delle
classi di quelli che stavano peggio avrebbe dovuto comportare anche la
liberazione delle masse dai miti religiosi. Quest’ultimo compito fu assunto con
molto impegno e rigore dal comunismo sovietico, regime che nel 1917 si
impadronì dell’impero zarista russo, e dai regimi che ad esso si ispirarono o
da esso comunque vennero imposti.
Nel corso del Concilio Vaticano 2° si venne ad una nuova sistemazione
culturale: la modernità venne accettata ma essenzialmente con fatto laicale,
destinato a rimanere in quello che venne definito il temporale, nel senso di
soggetto a rapidi cambiamenti e quindi opposto all’eternità che caratterizza la
dimensione soprannaturale. I laici vennero incoraggiati a trattare degli affari
temporali, sviluppando una competenza autonoma, nel senso che, se dovevano
pilotare un aereo di linea, dovevano farlo secondo le regole della fisica e
della tecnologia aeronautica, non confidando sulle proprie concezioni religiose
e prendendo come riferimento i testi di teologia. Nelle questioni relative al soprannaturale ci si propose di introdurre aggiornamenti e, innanzi tutto, di
studiare di più e meglio le Scritture. Questo può sembrare un portato della modernità, e lo è effettivamente, ma,
per non violare certi divieti religiosi che vennero mantenuti (per cui non ci
fu mai un’ammissione di colpe per la persecuzione antimodernista, che oggi a
molti appare veramente sconsiderata), si presentò la cosa come un ritorno alle origini, quindi come un tornare indietro, alla purezza dei primi
tempi, quando si era molto più vicini alla prima predicazione del Maestro, per
cui si supponeva che si fosse anche più vicini alla verità eterna. Questo ha configurato una modernità di tipo religioso,
quindi non ostile e incompatibile con la religione, per cui, ad esempio, in
Vaticano i Papi mantengono dal 1936 un consiglio di scienziati, che dagli anni
’76 possono essere credenti e non credenti, conta solo la competenza nelle cose
temporali.
Ora, l’atteggiamento dei saggi del Concilio
nei confronti della modernità è diventato comune a tutte le culture che
hanno avuto uno sviluppo tecnologico seguendo gli europei. Vale a dire che,
come sostengono i sociologi Berger, Davie e Fokas nel libro che ho sopra
citato, non c’è più solo una modernità, in particolare quella europea di
tipo antireligioso, ma più modernità, alcune delle quali democratiche e
altre democratiche, alcune delle quali religiose e altre secolarizzate, vale a
dire portate a confinare la religione nel privato individuale escludendola
nelle scienze e marginalizzandola in società. I menzionati autori citano ad
esempio una modernità russa ispirata
dall’Ortodossia, una modernità islamica,
una modernità indiana hindu e anche una modernità integralmente cattolica che a loro dire è stata realizzata
con successo dall’Opus Dei.
Bisogna dire che il riparto di
competenze stabilito dai saggi
dell’ultimo Concilio, un grande progresso
negli anni Sessanta scorsi, non
soddisfa più. Voleva essenzialmente ripartire le competenze tra clero e laici,
quando già però questa distinzione non era più attuale, in particolare in
Italia, dove il clero era stato determinante nei fatti sociali temporali in particolare a partire dai
processi democratici a cavallo tra Ottocento e Novecento, e i laici avevano messo bocca ampiamente
nelle questioni del soprannaturale,
vale a dire anche nella teologia, in particolare contestandone il carattere
arretrato e antidemocratico.
A quale modernità
facciamo riferimento in parrocchia? Ne vedo proposti più di una, ma in genere
non esplicitamente (essere moderni nella nostra confessione induce ancora un
certo sospetto di indisciplina ideologica, se non di vera e propria eresia).
Ognuno pensa che la sua sia quella giusta. E anche questa è una situazione moderna, perché la modernità comprende in
genere (non sempre) anche un certo pluralismo, e comunque la modernità europea nasce come pluralista.
35. Crisi della parrocchia e crisi della politica
La gente viene molto meno in
parrocchia che negli anni ’70 e quando ci viene è restia ad impegnarsi:
viene prevalentemente per consumare servizi religiosi. E’ un
riflesso della crisi della politica, per cui sono spariti i partiti che
vengono considerati tradizionali. Si tratta, in realtà, di
una metamorfosi della società molto profonda che è stata descritta
scientificamente dalla sociologia più recente. La sociologia si propone
di capire la società e di prevederne gli
sviluppi: ai tempi nostri non riesce più a fare bene il secondo lavoro
perché la società evolve in modo molto più caotico di una volta. Mio zio
Achille fu un grande sociologo italiano, insegnava all’università di Bologna in
un corso avanzato e, da scienziato sociale, parlava e scriveva
molto difficile. Cercò anche di essere un divulgatore e in
questo era molto ascoltato. Le sue conferenze erano sempre piene di
gente. Scrisse anche alcuni libri per spiegare ciò che accadeva nella società
del suo tempo e, in particolare, nella Chiesa. I due sicuramente più importanti
furono: Toniolo: il primato della riforma sociale, per ripartire dalla
società civile, del 1978, e Crisi di
governabilità e mondi vitali del 1980, oggi introvabili.
Volevano divulgare, ma rimanevano libri difficili. Mio zio
Achille, quindi, era molto più ascoltato che letto.
Dalla metà degli anni ’70 alla metà degli anni 80, un decennio fondamentale per
la trasformazione della società italiana, fu molto ascoltato in
particolare nel partito principale di governo, la Democrazia
Cristiana(era membro del suo Consiglio nazionale), e dal mondo cattolico.
Alcune strategie tentate all’epoca per rivitalizzare politica e Chiesa furono
sostanzialmente ispirate dal suo insegnamento. Mi pare che l’apice della sua
influenza in entrambi i mondi si toccò nel 1986, quando la Festa
Nazionale dell’Amicizia, la grande festa annuale del partito, si tenne a
Cervia, in Romagna, nella piazza davanti a casa sua. All’epoca consigliava al
partito, ma anche ad esempio alla FUCI, di fare grandi raduni nazionali in
piccoli paesi, per impregnarli totalmente ed evocare così una realtà di mondo
vitale, vale a dire di quella collettività che dà
senso all’esistenza umana. Per lui la crisi di questi mondi
vitali era alla base di quella della società nel suo insieme. La cura
per la società era quindi quella di rivitalizzarli. Poi tutto cambiò molto
velocemente in Italia, in politica e in religione, e iniziò la situazione in
cui ci troviamo adesso e da cui non riusciamo a liberarci, anche se ci causa
tanti problemi. La metamorfosi accadde a cavallo tra gli anni ’80 e gli anni
’90, come manifestazione acuta di una crisi iniziata nei
vent’anni precedenti e progressivamente aggravatasi. Il partito si dissolse e
la Chiesa cambiò profondamente, seguendo la via proposta da Karol
Wojtyla. Mio zio criticò pubblicamente il vescovo della sua città sulla
questione degli immigrati, che il vescovo preferiva fossero cristiani, e fu
duramente e lungamente emarginato. Non fu più ascoltato né letto dalla
generalità. Fu ancora letto dagli scienziati sociali e
dagli amministratori che si occupavano di sanità e assistenza agli anziani, il
suo campo principale di studio e di azione negli ultimi anni. Per diversi anni
amministrò uno dei principali ospedali ortopedici nazionali, il Rizzoli di
Bologna. Fu lui a ideare il CUP, il Centro Unico di Prenotazione, che
ebbe in Emilia Romagna la prima organica attuazione. Egli, sostanzialmente,
fece poi la fine del grillo parlante nella favola di
Pinocchio. Ma la storia gli ha dato ragione. Ho sempre pensato che la sua sorte
fosse dipesa dal fatto di non riuscire ascrivere nel linguaggio
comune della gente. Ascoltare non basta, per generare
fatti profondi occorre poter leggere. La nostra fede non è, in
fondo, basata su Scritture? In questa prospettiva, potete
capire perché mi addolora tanto la dispersione della biblioteca parrocchiale,
che, per ciò che so, è stata attuata molto velocemente e per motivi che non ci
sono stati spiegati, e mi auguro siano stati buoni motivi. Quando si è
insediato il nuovo parroco, già non c'era più. Probabilmente il fatto
è dipeso da spese indifferibili che occorreva fare o dalla necessità di
venire incontro alle molte famiglie in difficoltà che assistiamo, che in questi
anni sono sempre più aumentate: in questi casi in famiglia ci si priva anche
dei gioielli più cari. Faccio delle ipotesi: in realtà non è stata
fornita alcuna spiegazione.
Il sociologo Zygmun Bauman fu,
invece, molto più letto che ascoltato. Egli
non aveva con una Chiesa e con un partito un rapporto forte come quello
di mio zio Achille. Quindi, se non avesse saputo farsi leggere, non
sarebbe stato inteso, perché pochi erano disposti semplicemente ad ascoltarlo.
Il suo libro divulgativo fondamentale è Modernità liquida, del
2000, in Italia pubblicato da Laterza, €16,00, che si trova anche in e-book. Lo
consiglio come libro di testo ai gruppi di approfondimento dell’impegno
politico e sociale che sorgono nelle parrocchie dopo le esortazioni contenute
nell’enciclica Laudato si'. In quel libro viene spiegato che cosa
sta succedendo nel mondo di oggi e perché sta diventando tanto diverso da
quello che c’è stato fino agli anni ’80. Bauman ha scritto molti altri
interessanti libri divulgativi, che fondamentalmente approfondiscono i temi
di Modernità liquida. Bauman è morto il 9 gennaio di
quest’anno, quando era molto anziano, e ora avremmo bisogno di un altro profeta come
lui.
In un certo senso mio zio
Achille e Bauman svolsero le funzioni che nell’antichità biblica ci si
attendeva dai profeti: spiegavano alla gente il senso ultimo di ciò
che stava accadendo. In mio zio Achille, rispetto a Bauman, la fede religiosa
era una componente fondamentale, in un modo che i suoi discepoli faticano a
spiegare, perché li imbarazza. Si pensa infatti che la sociologia, come le
altre scienze, debba mantenersi neutrale rispetto alle
idee religiose, ma certamente mio zio Achille in materia
religiosa neutrale non era, con riflessi nella sua
attività scientifica e nella sua azione politica, perché egli, oltre che
scienziato sociale, fu anche un politico. Questo gli consentì, per molti
anni, dal Secondo dopoguerra, quando qui a Roma, con Dossetti, partecipò con
molti altri ingegni brillanti, all’ideazione della nuova Repubblica
democratica, fino agli anni ’80, quando tutto rapidamente cambiò, di essere
molto ascoltato, ma fu anche all’origine della sua dura successiva
emarginazione. Perché la nostra Chiesa è ancora strutturata come un sistema
totalitario, ed è insofferente del pluralismo e del dissenso, in particolare
quando si traduce in lesa maestà verso la gerarchia,
anche se si sforza di non esserlo (questo va riconosciuto, soprattutto parlando
di papa Francesco), ma proprio non le riesce. Ma quella, dell'emarginazione o
peggio, è appunto, in genere, la sorte deigrilli parlanti quando parlano in
società e alla società, dicendo ciò che in società non si gradisce udire. Se
però il grillo della storia di Pinocchio si
fosse limitato a scrivere, forse non sarebbe finito acciaccato al muro,
perché Pinocchio, incolto e analfabeta, non lo avrebbe letto, e
amen. Si dice infatti che le parole dette volano, mentre quelle
scritte rimangono, ma se uno non sa, non può o non vuole
leggerle, queste ultime diventano inutili. Però le rivoluzioni, i cambiamenti
radicali, sono guidate da quelle scritte.
Bauman sostiene che si sta
passando da una società di cittadini ad una di consumatori e
questo sta sfasciando i rapporti sociali, perché ognuno non solo pensa di poter
fare da sé, ma è anche spinto a farlo: se non lo fa, non merita. In
definitiva era anche l'analisi di mio zio Achille, benché riferita ad una
situazione in cui certi fenomeni erano appena gli esordi. L'ideologia consumista distrugge
i mondi vitali che davano e danno senso alle vite delle
persone. Quelle vite ora frullano qua e là disordinatamente, andando dietro
all'infinita generazione di desideri, mai appagati, come vuole appunto
l'ideologia consumista. Un tempo l'appagamento si trovava
nelle relazioni di mondo vitale, ma anche ora è così e infatti è comune
nei consumatori la sensazione di inappagamento.
Un cittadino non è solo uno
che vive in società, ma è una persona che ha una qualche voce in capitolo in
essa e di cui comunque la società non vuole fare a meno. In una società
di cittadini si cerca di ridurre al minimo gli scarti sociali.
Questo accade sia nelle società democratiche che in quelle totalitarie. Bauman
sostiene che questo era legato con il sistema sociale dell’economia, che aveva
necessità di riserve umane in buona salute, da impiegare
all'occorrenza nella produzione. La prima legislazione sociale in favore dei
lavoratori, quella britannica dell'Ottocento, partì dalle constatazione che la
salute dei lavoratori, nelle grandi città industriali, stava rapidamente
peggiorando.
In una società di consumatori,
sostiene Bauman, conta solo il credito al
consumo che si ha, per cui ci sono molti scarti umani dei
quali non mette conto di prendersi cura perché non hanno credito e
quindi non servono al sistema. La loro sofferenza umana
non conta e li si squalifica perché sono nella condizioni di scarti:
si pensa che sia colpa loro l'essere stati scartati, perché non
hanno meritato abbastanza. Si fossero dati da fare, non
sarebbero diventati scarti. In realtà è la società che decide chi scartare.
Prende dalle persone tutto quello che possono dare, e finché ne hanno;
poi, quando ne rimangono senza, ad esempio perché diventano anziane o malate o
tutte e due, le scarta. I poveri che vengono da fuori, gli immigrati
economici, come vengono definiti, automaticamente vengono inseriti tra
gli scarti. Se si pensa che ognuno debba risolvere da sé i propri
problemi, meritando, la società non deve più occuparsi di
lui, diventa inutile farlo. In un certo senso però
diventa inutile anche la stessa società, in particolare nella
sua dimensione politica, e, per questo motivo, essa si va sfasciando:
perché non serve più a certe cose. I problemi
sociali allora diventano problemi di sicurezza pubblica, da risolvere con la
polizia. Fondamentalmente lo stato, in quest'ordine di idee, un po’ secondo
l’ideologia del liberalismo della seconda metà dell’Ottocento, dovrebbe ridursi
al minimo, occupandosi di diritto, polizia e di protezione dei confini esterni.
Poi ognuno si arrangi come può: meriti.
Questo sviluppo della società
del nostro tempo ha colpito duramente ipartiti.
Si parla di partito tradizionale,
ma in che senso?
Il modello di partito tradizionale,
quello a cui pensiamo istintivamente quando parliamo di partito, è
sorto dopo la Seconda guerra mondiale, ed è stato il Partito Nazionale
Fascista - PNF. Quest’ultimo aveva preso a modello il partito comunista
bolscevico, che nella Russia zarista nel 1917 aveva preso il potere con una
rivoluzione violenta. Si trattava, quest'ultimo, di un partito organizzato come
un esercito, con una struttura gerarchica molto ben definita e rigida, in cui le
direttive scendevano dall’alto. I suoi iscritti erano militanti fortemente
ideologizzati. Il PNF mussoliniano volle essere qualcosa di simile,
comprendendo però, obbligatoriamente, tutta la gente, senza più distinzione di
classi, di fatto cristallizzando la situazione di dominio di classe esistente.
Mussolini si formò politicamente nel socialismo italiano, differenziandosene
sempre più alla vigilia della Prima Guerra Mondiale sulla questione della
partecipazione alla guerra, a cui si manifestò favorevole dopo che prima era
stato di contraria opinione. Egli considerava la partecipazione alla guerra,
quindi la milizia bellica, il fattore per
unificare politicamente e militarmente il popolo italiano, per iniziarlo
velocemente alla milizia politica, e vide giusto. Fu infatti
proprio dai reduci di quella guerra che scaturì la classe dei primi militanti
fascisti.
Il partito comunista
bolscevico, strutturato secondo l’ideologia di Lenin[Lenin, Vladimir
Il′ič. - Pseudonimo del rivoluzionario e statista russo Vladimir Il′ič Ul′janov(
Simbirsk1870 - Gorki, Mosca, 1924 - fonte:
http://www.treccani.it/enciclopedia/vladimir-il-ic-lenin/] era un partito
di classe. In una società, quella russa zarista, dominata da una vasta
classe di nobiltà terriera, quindi in un impero in cui una classe di nobili di
fedeltà zarista dominava su masse di contadini, quel partito si proponeva di
annientare, anche fisicamente, la classe dominante, affidando il potere a una
classe di rivoluzionari di professione che mutasse con la
forza il sistema economico, politico e sociale per metterlo al servizio
dei bisogni della classe dominata e, inoltre, di
costruire l’uomo nuovo vale a dire di fare delle masse un popolo di
militanti ideologicamente consapevoli, quindi con una
coscienza di classe. Questo programma politico comprendeva anche
l’annientamento dell’influenza politica della Chiesa ortodossa, che era
fortemente federata con il sistema zarista. Il PNF era invece un partito corporativo.
La sua ideologia si proponeva di fare del popolo italiano, in tutte le sue
componenti, una massa militante, ma comprendendovi tutte la
classi sociali, sia quelle dominanti che quelle dominate, cristallizzando i
rapporti di forza che vedevano i pochi dominare sui più. Nell’Italia degli anni
’20 le classi dominanti erano la grande borghesia industriale settentrionale e
quella agraria. La nascita del PNF fu appoggiata da entrambe queste componenti.
Il corporativismo però non rientrava nell’ideologia socialista dalla quale
proveniva Mussolini. In particolare, all'origine il fascismo era anti-borghese.
Il corporativismo rientrava invece nell'ideologia della dottrina sociale
moderna della Chiesa cattolica, a partire da quella che viene considerata la
sua prima manifestazione, l’enciclica Le Novità, del 1891,
diffusa del papa Vincenzo Gioacchino Pecci, in religione Leone 13°. Il
corporativismo della dottrina sociale concepiva la società come un corpo
vivente, in cui ognuno aveva una sua funzione importante, in cui quindi tutte
le classi dovessero collaborare nell’interesse comune, ciascuna persona però
restando al proprio posto, di privilegiata o di non privilegiata, ricca o
povera. Si considerava impossibile eliminare l'ingiustizia sociale: essa
poteva essere solo mitigata (lo si afferma esplicitamente nell'enciclica Le
Novità). Il suo modello era il corporativismo medievale, nel quale
datori di lavoro e lavoratori erano inquadrati in corporazioni di
mestiere e c’era solidarietà nelle singole corporazioni e tra le corporazioni,
nel quadro di un'organizzazione politica cittadina. In questo quadro, nella
prima dottrina sociale, il conflitto sociale veniva dissimulato, il
sindacalismo sconsigliato, lo sciopero vietato. Era una visione premoderna e
irrealistica, come Giuseppe Toniolo cercò incessantemente di far capire ai Papi
della sua epoca, con scarsi risultati. Il fascismo mussoliniano l’adottò come
base della sua rivoluzione sociale. La pace sociale venne imposta dal regime,
non era frutto di accordi sociali. Comportando la cristallizzazione dei
rapporti di classe, venne appoggiata dalla classe dominante, la borghesia
italiana di quel tempo. Ma anche le masse speravano in un tornaconto. Ognuno
doveva rimanere al proprio posto, ordinatamente: se lo faceva il regime
garantiva che ci si sarebbe presi cura di lui, attraverso una vasta rete di
istituzioni sociali che effettivamente vennero costituite. Aderire al
fascismo, prendere la tessera, e impegnarsi pubblicamente a
seguirne l’ideologia, divenne obbligatorio solo per chi volesse impieghi
pubblico, per gli altri era raccomandato come segno di buona condotta sociale.
In un certo senso l'adesione al fascismo era una specie di assicurazione
sociale. Il dissenso, l'eresia, come in religione, venne condannato in quanto
metteva a rischio l'integrità del corpo sociale e il benessere che
esso diffondeva attraverso le sue istituzioni. Negli anni ’30 l’adesione
degli italiani al fascismo divenne quasi totalitaria e nel 1931, il papa
Achille Ratti, regnante come Pio 11°, nell’enciclica sociale Il
Quarantennale, in occasione dei quarant’anni dalla prima enciclica
sociale Le Novità, invitò i membri dell’Azione Cattolica a
collaborare nelle istituzioni corporative fasciste. Si realizzò così, a
quell’epoca, una profonda integrazione tra Chiesa cattolica italiana e regime
fascista, mediante la quale entrambe le istituzioni si rafforzarono nel popolo
italiano. Il PNF divenne il Partito della Nazione, il partito unico
degli italiani, ciò che nessun partito del Regno d’Italia era mai potuto essere
prima per la strenua opposizione politica del papato romano, che ostacolava la
partecipazione dei fedeli cattolici alla politica democratica dello Stato a
causa della conquista del Regno pontificio da parte del Regno d’Italia: la
cosiddetta questione romana. La controversia fu risolta nel 1929
con una serie di accordi, complessivamente denominati Patti Lateranensi,
conclusi dal papa Achille Ratti con il Regno d’Italia rappresentato dal
Mussolini. Questo patto tra Chiesa e Stato, così come il fascismo, sarebbe
potuto durare molto a lungo, come nella Spagna di Francisco Franco (il suo
regime fascista morì con lui, nel 1975) e nel Portogallo di Antonio De Olivera
Salazar (il suo regime fascista gli sopravvisse e durò fino al 1974), se il
Mussolini fosse rimasto neutrale nella Seconda Guerra Mondiale, come Franco e
Salazar. Ma l’ideologia del Mussolini era fortemente bellicista e lo spinse a
seguire la Germania nazista e gli altri regimi fascisti suoi alleati nel
conflitto. Non potendo realizzare una vera giustizia sociale mediante una più
equa redistribuzione di risorse tra gli italiani, il regime si proponeva di
predarle ad altri popoli, come altre nazioni europee facevano da tempo. La
sconfitta bellica ruppe il patto ideologico con il papato e l'incantamento
verso gli italiani. Ma ancora negli anni Cinquanta la gerarchia cattolica
simpatizzava per il franchismo spagnolo: se ne lamentava Lorenzo
Milani.
La Chiesa, con il patto concluso nel 1929, recuperò una potente capacità
di influenza nel popolo italiano, in particolare attraverso il sistema
scolastico. Vide inoltre contrastati duramente i suoi principali nemici
dall'Ottocento: il liberalismo e il socialismo atei e, in Italia, atei
essenzialmente in quanto anticlericali, ritenendo la Chiesa un ostacolo
all'emancipazione delle masse come lo era stata nel processo di unificazione
nazionale.
Nel dopoguerra, una parte
dell’ideologia corporativa fascista, di matrice cattolica, fu inglobata
nell’ideologia del partito cristiano (come lo chiamava lo
storico Gianni Baget Bozzo), la Democrazia Cristiana. Da corporativismo divenne interclassimo:
in ambiente democratico la collaborazione delle classi non fu più imposta, ma
raccomandata e perseguita politicamente, con una serie di riforme sociali e
anche mediante l'intervento pubblico nel sistema economico. La Democrazia
Cristiana, sulla via della dottrina sociale della Chiesa, pensava ad uno stato
che si occupasse dei bisogni di tutti e introducesse norme che prevenissero il
conflitto sociale, impedendo forme estreme di sfruttamento in danno della
classe lavoratrice. Si parlava di stato sociale, perché
l’iniziativa privata e la proprietà dovevano trovare un limite nell’utilità
sociale. Poi, con espressione più moderna, di welfare state, stato
per il benessere collettivo. Il principio che nei rapporti di lavoro dipendente
il lavoratore dovesse avere un’equa retribuzione, non solo proporzionata al
lavoro svolto, ma anche sufficiente per mantenere una vita dignitosa per lui e
per la sua famiglia. divenne una norma costituzionale, all’art.36 della
Costituzione.
A cavallo tra gli anni
’80 e ’90 la concezione della società come di un corpo organico venne
progressivamente abbandonata. Al fondo di ciò c’era l’idea che, nel sistema
economico globalizzato, dove occasioni di profitto potevano trovarsi in tutto
il mondo e non più solo all'interno di un singolo sistema statale, in un mondo
senza più frontiere per il capitale, non tutti erano veramente necessari
per il benessere collettivo. C’era gente di scarto che era solo un peso
sociale. Le pensioni agli anziani e l’assistenza sanitaria gratuita
alla popolazione cominciarono ad essere considerate solo come un costo. Del
resto l’industria dimostrava di poter fare sempre più a meno di mano d’opera e,
comunque, di poterla sostituire rapidamente ed efficacemente, spostando
produzioni e richiamando altre persone. Il sistema economico non aveva più
bisogno di riserve umane in buona salute. Chi merita,
vale a dire trova un modo di cavarsela, ha diritto di sopravvivere, gli altri
no: per loro c’è solo l’assistenza caritativa, lasciata al buon cuore degli
altri. Chi protesta crea un problema di sicurezza pubblica, da risolvere
mediante la polizia. Ma la gente protesta sempre meno: in fondo è convinta della
bontà dell’ideologia meritocratica. Solo, spera di essere nella parte
che merita, e, se non riesce ad esserlo, se ne vergogna, si
colpevolizza. Se lo stato non è più sociale, non assicura più
di occuparsi dei bisogni fondamentali di tutti, perché parteciparvi? La
corporazione sociale si è sciolta, ognuno fa per sé. I conflitti di classe che
sono sempre rimasti attivi, solo mitigati dalla legislazione sociale sul lavoro
che però progressivamente in questi anni si sta cercando di rendere meno
pervasiva e incisiva, esplodono liberamente e allora vince il più forte, come
nella legge della giungla, animale grosso mangia animale piccolo. I rapporti di
lavoro non sono mai paritari: c’è sempre una parte più forte, che è quella dei
datori di lavoro, ed è questa che prevale. La politica, in questa situazione,
diviene inutile, così come la società, e lo è anche
quella, virtuosa, ancora diffusa dalla dottrina sociale, quella che oggi si
vuole approfondire in parrocchia. Ecco perché la gente non viene in parrocchia
quando si parla di questi temi. La soluzione? E’ difficile, impegnativa, e
riguarda la politica come la parrocchia. Occorre innanzi tutto avere una
visione realistica della società e comprendere che los carto è
generato da ristrette classi dominanti; che chi soffre non è che abbia demeritato, ma
soffre perché è vittima della legge della giungla del capitalismo globale; che
quando si va da soli alla guerra secondo la legge della giungla si
è vittima dei più forti; che però una reazione collettiva di massa può ancora
cambiare le cose. E, quindi, innanzi tutto, ripeto: conseguire una visione
realistica delle dinamiche sociali.
Un indizio della causa
di ciò che accade, dei mali sociali, è nella proposta, che viene da più parti,
di un reddito di cittadinanza. Sembra una stranezza, ma molti
economisti lo consigliano per tenere in piedi la società. Non solo
funzionerebbe, secondo loro, ma occorre per mantenere in piedi il sistema consumistico.
Un tempo lo stato si occupava dei bisogni della gente e distribuiva risorse
che poi venivano spese, si traducevano quindi in consumi di
massa; ora che non se ne occupa più perché ci si è trasformati da
cittadini a consumatori e ognuno fa per sé, accade che la platea dei
consumatori si riduca sempre di più, man mano che la legge della giungla fa le
sue vittime e produce i suoi scarti umani. Così però il sistema
rischia di saltare per insufficienza di consumatori: ecco la necessità
di crearne artificialmente recuperando una parte degli scarti.
E' una cosa che nelle politiche di governo degli ultimi anni ha prodotto,
ad esempio, elargizioni più o meno generalizzate degli "80 euro". Che
significa, in fondo? L’attuale sistema economico globalizzato va verso la
rovina se lasciato alle sue dinamiche selvagge; va verso l’autodistruzione,
perché si occupa di porzioni progressivamente sempre più piccole di
popolazione, incrementando le diseguaglianze sociali. Seguendo l’ideologia
della globalizzazione non riusciremo più, a lungo andare, a garantire la
sopravvivenza sul pianeta di sette miliardi di persone, sempre in aumento. Alla
fine il sistema si bloccherà. E’ necessario quindi cambiare, ma non lo si potrà
fare che collettivamente, con movimenti di massa, questa volta però sulla base
di un cambiamento interiore molto più profondo, non solo politico,
ma anche di natura religiosa perché legato al senso
della vita, come appunto quello che viene raccomandato nella Laudato
sì, perché, ed è questa la novità di ciò che accade oggi, ognuno,
ogni consumatore, proprio consumando, si fa carnefice
di una parte dell’umanità, rafforzando il sistema che genera la sofferenza
sociale e che, infine, travolgerà anche lui. Non si può quindi cambiare
il mondo che sta per travolgerci senza cambiare noi stessi,
riscoprendo, così facendo, la cittadinanza.
36. La
religione come problema sociale
Negli anni ’80 si visse in Italia una fase di riflusso sociale,
di disimpegno e ritorno nell’individualismo personale, fenomeno che coinvolse
anche l’aspetto religioso e il nostro
quartiere. Sembrò allora che il pluralismo avrebbe significato dispersione e
avrebbe compromesso la residua efficacia della proposta religiosa della
parrocchia. Si perse fiducia nelle spiritualità fondate su dialogo e
pluralismo: il primo come mezzo per comporre il secondo in una collettività
armoniosa.
Le religioni sono fatti sociali. Servono a dare stabilità
alle società. L’etica che diffondono è molto importante. Per dare
stabilità, inglobano una certa dose di fondamentalismo e
di integralismo. Fondamentalismo è quando si cerca
di mantenere costanti alcune concezioni, integralismo è
quando si cerca di contrastare le tendenza all’assimilazione da parte di altri
gruppi. Il compito di dare stabilità alle società è
fondamentalmente politico, e infatti fin dalle società
primitive le religioni hanno svolto un ruolo politico. Fede e politica sono
state sempre intrecciate strettamente. Una fede impolitica non può essere
considerata una vera religione, ma è essenzialmente magia: quando si crede che
certi riti possano cambiare le cose. Le religioni basate sul soprannaturale
hanno sviluppato in genere una complicata teologia e una raffinata
giurisprudenza, per stabilire ciò che è buono e ciò che non lo è, ma fondandosi
su relazioni con l’invisibile sono anche piuttosto duttili e questo consente un
loro adattamento alle esigenze politiche dei tempi. Chi può smentire certe
affermazioni? Trovano una sponda nell’emotività umana e sono state in un certo
senso l’archetipo di ogni persuasore occulto. Le moderne tecnologie
di marketing vi si richiamano implicitamente, facendo
risaltare la fondamentale irrazionalità delle scelte del consumatore e
proponendo quindi immaginifici miti di consumo, vere proprie religioni del
consumo con proposte salvifiche. Le grandi religioni storiche hanno mantenuto
costanti certi connotati, ma si sono profondamente evolute, e ciò è
particolarmente vero per la nostra. La nostra religione non è assolutamente
quella stessa delle origini. Questo risalta particolarmente se si considerano
le concezioni politiche ad essa correlate. Ora, non è la fantasiosa mitologia
espressa dalle religioni che in genere costituisce un problema sociale, ma la
politica che esse esprimono, e che riguarda, in particolare, le relazioni tra i
fedeli e tra questi ultimi e la società intorno. Dall’ultimo conclave ci è
venuto nel 2013 un capo, un Padre, dall’altra parte del mondo, che ci ha portato
la voce di comunità tanto diverse da noi, e in particolare di un organismo
vivace e innovatore come il CELAM il Consiglio episcopale latino
americana. Ho letto che l’esortazione La Gioia del Vangelo e
l’enciclica Laudato si’, contengono molto di un
documento molto importante prodotto dal Celam, al termine della Conferenza
di Aparecida, nel maggio del 2007. Su suo impulso si è cominciato a cambiare orientamento
negli affari sociali, proponendo una
diversa concezione di politica di ispirazione religiosa, vale a dire quella che
non considera più il pluralismo una minaccia, che spinge a eliminare le dogane
che controllano i flussi con ciò che è all’esterno degli spazi liturgici e,
anzi, invita a uscire fuori delle nostre chiese per intessere nuove relazioni
virtuose con la gente intorno, innanzi tutto per partecipare alla risoluzione
dei problemi comuni, a partire da quelli minimi, come la fontana di quartiere. Siamo
quindi spinti a ridurre la quota di fondamentalismo
e di integralismo delle nostre spiritualità. Ciò non significa
creare un mondo dove le posizioni religiose di prima siano ribaltate, i
dominatori di un tempo ridotti a sconfitti, e gli sconfitti di un tempo nel
ruolo di dominatori, ma creare un’organizzazione dove non vi siano più
dominatori e sconfitti, inclusi ed esclusi. Significa anche essere capaci di
relazioni sociali virtuose, amichevoli e solidali tra diversi orientamenti, non
quindi al modo delle assemblee condominiali in cui si decide insieme pur
detestandosi e aspettando il momento di cancellare l’opinione difforme. Finora
abbiamo diffidato gli uni degli altri, non perdendo occasione per azzannarci e
aspettando il momento in cui ogni presenza diversa dalla nostra cessasse per
estinzione naturale o per ordine dell'autorità; ora, come dice sempre il
parroco qui a San Clemente papa, bisognerebbe cominciare a volerci bene.
Questo però richiede, per cominciare, un atteggiamento che in genere è
molto difficile da ottenere, in particolare da chi a lungo si è abituato ad
avere mano libera: l’autocritica. Senza di questo non si inizia neppure. Senza
di questo gli egemoni di un tempo saranno solo gli sconfitti di oggi,
aspettando la rivincita al prossimo conclave. Ci si continuerà
francamente a detestare e su questo non può crescere nulla di buono. Il seme
cadrà tra le pietre e le spine e il seminatore sprecherà il suo tempo e la sua
fatica.
37. Prepararsi a lavorare in società
Il modello di pratica
religiosa che a lungo è prevalso in Italia è stato quello della fede come
medicina dell’anima. Ci si metteva a scuola di spiritualità per sanare ferite
invisibili. Questa esigenza ha conformato le comunità orientandole verso
l’interno. Poiché la dottrina era stata ideata per altri scopi, la si è
integrata: analogamente si è fatto con la liturgia. E’ una tendenza molto
diffusa nel mondo e, anzi, la possiamo considerare al centro della
de-secolarizzazione che è in corso a livello globale. Si riprende ad avere
fiducia nelle spiegazioni delle religioni, ma più che altro nelle questioni più
personali e nelle relazioni di prossimità.
In questo quadro irrompe il
pensiero di Bergoglio/Francesco che è situato su un altro livello e chiama alla
grande politica, a livello globale. La gente in Italia è impreparata a questo,
ma non solo in religione, più in generale a livello di cittadinanza. La crisi
delle istituzioni statali è proceduta parallela a quella delle istituzioni
religiose. Lo ha notato, ad esempio, lo storico Paolo Prodi, morto
recentemente, in un articolo dal titolo Senza Stato né Chiesa -
L’Europa a cinquecento anni dalla Riforma, pubblicato sull’ultimo numero
della rivista bolognese Il Mulino. A questo problema si è cercato
di rimediare in Italia con il Progetto culturale della
Conferenza Episcopale Italiana (informazioni su
http://www.progettoculturale.it/), per recuperare una capacità di intervento
sulle ideologie-guida della società e della politica italiane. Si è cercato
anche di recuperare una certa unità tra le visioni di fede correnti nelle
nostre collettività, al sevizio dell’universalità delle proposte, e questo ha
depresso il dialogo, per cui è sembrato che si preferisse far cadere certe idee
dall’alto.
Nella nostra parrocchia,
con il nuovo corso, inaugurato nell’ottobre 2015 con l’arrivo di un nuovo
parroco e di una nuova squadra di preti, si è avviato un processo di formazione
all’intervento sociale, inaugurato da un incontro con don Luigi Ciotti e
proseguito sistematicamente con l’approfondimento di temi della dottrina
sociale, innanzi tutto per spiegarne i principi fondamentali. Questa attività
ha però coinvolto in prevalenza coloro che, fin da giovani, erano stati
abituati a cose come queste, vale a dire persone che oggi sono
ultracinquantenni. E, nonostante la vivace animazione degli amici del
ciclo Immischiati, quegli incontri sono stati vissuti
prevalentemente come conferenze. Non si è potuto verificare il punto di
partenza culturale degli uditori, né verificare quanto e come avessero recepito
di ciò che era stato loro proposto. Quindi quest’anno si stanno utilizzando
tecniche di laboratorio culturale per stimolare la
partecipazione. Ma i più giovani? Innanzi tutto i genitori dei bambini che ci
portano i loro figli al catechismo per la prima formazione religiosa? Si tratta
delle classi di età più attive, impegnate sul lavoro e in famiglia, quelle che
contano di più nell’immagine della società, quelle che hanno ancora le forze
per occuparsi dei più giovani e la pazienza per relazionarsi positivamente con
i più anziani, insomma le generazioni panino, strette
tra i doveri verso i più giovani e quelli verso i più anziani, i
trenta/quarantenni che mandano avanti le cose in società. Sono molto impegnati.
La religione come medicina dell’anima, in genere, non è loro utile. Quando si
corre tutto il giorno, spesso non si ha tempo per porsi certi problemi. Vivono
in una società in cui certi grandi ideali umanitari e le corrispondenti
politiche sono a rischio. C’è un senso religioso e politico di tutto questo e
in un documento come l’enciclica Laudato si’, del 2015, esso viene
sintetizzato. Si tratta di un testo che, in questo, è veramente molto diverso
dalla precedente letteratura pontificia. Ma richiede approfondimenti e
impegni di vita: si tratta di risanare la società, e a livello mondiale,
non le singole persone.
La religione come medicina
dell’anima si è sentita accusare, fondatamente, di essere solo un anestetico
locale, una droga dello spirito, per consolare artificialmente persone in
catene sociali, e, in questo senso, di essere, come gli stupefacenti, una
specie di veleno. Ma si tratta di una evoluzione piuttosto recente, una
manifestazione della crisi che ha coinvolto anche altre istituzioni
pubbliche. Storicamente la religione non si è mai concentrata solo sul privato
e sul micro-mondo, tanto è vero che ha cambiato profondamente, non sempre in
bene, le società in cui si è immersa. E’ a questo che, in particolare, ci si
riferisce quando si parla di radici religiose dell’Europa.
Il nostro problema è quello di
riavvicinare le classi più giovani al lavoro che si fa in parrocchia in vista
dell’impegno in società. Bisogna dire che, per un tempo lunghissimo, non c’è
stato più nulla che potesse veramente interessarle. Si riparte quasi da zero.
E, innanzi tutto, occorrerebbe organizzare spazi accoglienti per accogliere
quella gente. Sotto un certo punto di vista le attrezzature che servono per la
pratica religiosa - medicina dell’anima sono molto più semplici e meno costose.
Infatti in questo settore si lavora molto di fantasia. Se invece si vuole
proporre visioni realistiche della società, per iniziare a lavorarci sopra,
occorre di più. Gli strumenti e i luoghi vanno protetti, occorre stabilire
un’organizzazione, che sarebbe meglio fosse auto-organizzazione, e delle
regole. Sotto questo profilo in parrocchia si è ancora piuttosto disordinati, e
la conformazione delle stanze in cui si svolgono attività collettive cambia
continuamente. Abbiamo vissuto una sorta di privatizzazione delle
attività parrocchiali, che è stata corrispondente all’impostazione privatistica della
proposta religiosa, tutta centrata sul micro-personale.
38. I guai politici delle religioni tradizionali
E’ facilmente dimostrabile che
i problemi che le religioni tradizionali incontrano nelle società contemporanee
sono essenzialmente politici, quindi relativi alle questioni di governo
pubblico. Infatti la gente non manifesta alcun problema nei confronti di ogni
tipo di soprannaturale e di ogni sorta di immaginifica spiegazione in merito,
ma resiste a chi le vuole imporre che pensare, che dire, che fare, come
relazionarsi con gli altri.
Quello della laicità è
un problema essenzialmente politico e riguarda i rapporti tra una gerarchia e
un popolo che le è semplicemente soggetto. Non si manifesta solo in religione.
E’ stato osservato che esso si è prodotto anche nelle società post-comuniste
dell’Europa orientale.
Spesso si considera il
termine laico come equivalente a non
credente, ma non è questo il punto. Storicamente, negli ordinamenti
religiosi della nostra fede, il laico è stato costituito
dalla presenza di un potere gerarchico esercitato da un clero. Tra
il popolo dei persuasi nella fede religiosa si è prima
enucleato un clero, a cui si è attribuito il governo, la
profezia, il sacerdozio, praticamente tutto in religione, e per sottrazione
sono risultati i laici, che progressivamente sono stati
assimilati al popolo intero, come se il clero non
ne facesse più parte.Popolo erano coloro che erano sudditi del
clero, al mondo in cui lo erano verso i signori feudali. In questo
l’organizzazione delle nostre collettività ha imitato quella delle società
civili sue contemporanee lungo i quasi due millenni del suo potere religioso.
Il problema dellaverità è venuto a coincidere con
quello dei gerarchi della verità: la verità era ritenuta tale
perché proclamata da un’autorità religiosa, dal clero. E’
quest’ultimo che non vuole essere relativizzato, che pretende di
rimanere sempre sul campo come assoluto. Quindi il problema del laicato non
riguarda tanto la libertà dalla verità, ma da gerarchi assoluti della verità.
L’impegno sociale ispirato
dalla fede, ciò che si fa rientrare nell’idea didottrina sociale, venne
proclamato inizialmente come verità di origine gerarchica, al modo
degli altri dogmi. In questo campo si è assistito ad una democratizzazione della
produzione di verità sociali, non senza persistenti frizioni: problemi,
appunto, politici.
La scelta
religiosa che l’Azione Cattolica fece negli anni ’60, dopo il
Concilio Vaticano 2° (1962-1965) viene presentata spesso come una presa di
distanza dalla politica espressa dal partito cristiano dell’epoca,
dalla Democrazia Cristiana. In realtà si è trattato di un processo molto più
profondo. Si scelse di liberare il pensiero sociale, e la conseguente politica,
dal potere assoluto della gerarchia, che era abituata a organizzare le masse di
fedeli a sostegno delle proprie istanze politiche e a richiederne l’obbedienza politica
senza tanti complimenti e discussioni. Al centro di questa processo fu l’autonomia del
laicato, che doveva essere conquistata attraverso un’impegnativa opera di
auto-formazione. Era questo un modo di vedere che fino ad allora era stato
proprio solo delle organizzazioni intellettuali di Azione
Cattolica, FUCI, Laureati, Insegnanti cattolici, medici e giuristi cattolici.
E’ stato difficile farne un’esperienza di massa, anche per le resistenze della
gerarchia, che si fecero sempre più pressanti sotto il lunghissimo regno
religioso del Wojtyla.
Si tratta di problemi che
vediamo ben rappresentati nell’organizzazione della nostra parrocchia. La
gerarchia è rappresentata dal parroco e dai preti suoi collaboratori e detiene
tutto il potere di tipo amministrativo, che si manifesta nel lavoro della parrocchia
come ASL spirituale, e civile, che riguarda, ad esempio, il patrimonio
parrocchiale. Il laicato è rappresentato da vari gruppi che
convivono ignorandosi, in una situazione di precario condominio, che, a ben
vedere, riguarda solo le questioni delle loro relazioni reciproche e poco di
più. Ma questi gruppi sono interessati quasi
esclusivamente a ciò che accade al loro interno e qui l’autonomia della persona
di fede ha poco campo per esprimersi. Si seguono metodi e orientamenti
predefiniti: ogni gruppo ha sviluppato una propria gerarchia, che a
volte ricalca quella del clero. Si ripropongono all’interno dei gruppi i
problemi dello sviluppo dell’autonomia laicale che caratterizzarono gli anni
Sessanta e Settanta su scala più vasta. Allora si trattò di suscitare
l’autonomia laicale delle masse verso la gerarchia, ora di tratta di suscitarla
nei gruppi, che, dal canto loro, hanno sviluppato un assetto
piuttosto rigido senza il quale si sentono persi.
In questa situazione non
esiste una vera comunità parrocchiale, come ideologicamente ce se la raffigura.
Andrebbe creata avanzando delle pretese verso le formazioni che attualmente
dominano la vita parrocchiale. E creando un’organizzazione parrocchiale che
consenta una vera partecipazione laicale. Si tratterebbe di suscitarla
pazientemente, perché la gente ha perso familiarità al lavoro collettivo e,
senza una formazione sufficiente, tutto decade ad assemblea di condominio. In
prospettiva dovrebbe potersi riunire un’assemblea parrocchiale, come quella che
dovrebbe eleggere alcuni componenti del consiglio pastorale. La gestione
patrimoniale della parrocchia dovrebbe essere spiegata ai parrocchiani in una
qualche forma, in modo da avere consapevolezza dei relativi problemi. Le offertedovrebbero
diventare contributi e dovrebbe essere spiegato come
questi ultimi sono impiegati. Le strutture parrocchiali sono utilizzate con
troppa libertà dai gruppi. Bisognerebbe dare delle regole più
stringenti e stabilire una cabina di regia in merito.
Il tutto è complicato
dalla circostanza che si stanno cambiando costumi che si erano cristallizzati
in un tempo lunghissimo, trent’anni, corrispondenti addirittura ad una
generazione.
Al fondo rimane il problema
politico: l’impegno sociale che si inizia nuovamente a pretendere
pressantemente dai fedeli deve farsi su base di autonomia laicale, per avere
una visione realistica della società e per radunare le competenze che occorrono
per intervenire. Questo richiedere di imparare a lavorare
collettivamente, E la religione da sola, e particolarmente certe
sue immaginifiche semplificazioni, non basta.
39.
Affrontare con uno stesso spirito la crisi religiosa e la crisi politica
Una volta raggiunta la consapevolezza
che la crisi religiosa e quella politica sono espressione di un medesimo
processo, ci si può anche convincere che le possibili soluzioni siano
comuni ad entrambe e che, quindi, lavorando sull’aspetto religioso si possa
contribuire anche a migliorare quello politico e viceversa. Questa convinzione
è al centro del pensiero espresso nell’enciclica Laudato si’.
I problemi della nostra
organizzazione comunitaria di fede sono analoghi a quelli degli stati. Del
resto la nostra è una confessione che ha voluto farsi stato. Viviamo in una
situazione di sostanziale anarchia, in cui religioni e stati faticano a
mantenere il controllo e, soprattutto, e qui mi riporto al pensiero di Zygmunt
Bauman, sono realtà confinate in limiti sempre più ristretti: si sta riducendo
di molto la competenza loro riconosciuta negli affari sociali. Ognuno è spinto
a fare da sé, a risolvere da sé i propri guai. Vengono progressivamente meno i
correttivi sociali agli abusi di posizioni dominanti. Si sta riproponendo una
divisione in classi della società: quella di chi domina il nuovo corso e quella,
che comprende la grande maggioranza della popolazione della terra, che è
dominata. Per chi riesce a entrare nella prima non vi sono più frontiere, per
gli altri le frontiere diventano sempre più impenetrabili.
Bauman osserva che in un regime
di interdipendenza globale, la mobilità, il poter andare dove ci sono le
occasioni più favorevoli, diventa una risorsa quanto mai preziosa ed
ambita. La desideriamo per i nostri figli e siamo orgogliosi quando riescono ad
andare a studiare o a lavorare all’estero, perché non ci vanno nelle condizioni
dei nostri migranti dell’Ottocento, ma come partecipi di una classe
privilegiata. Ma il 98% della popolazione mondiale, osserva Bauman, non si
trasferisce mai dal luogo di residenza: deve vivere e lavorare dove la sorte
l’ha piazzata, accettando quello che c’è. E questo contribuisce al nostro
benessere, di privilegiati che vivono in Occidente. Ci consente di acquistare a
prezzi molto bassi beni di consumo quotidiano, praticamente tutti.
Scrive Bauman in La
società sotto assedio, del 2002, pubblicato in Italiano da Editori Laterza:
“Allo smantellamento di tutte
le barriere che ostacolano il libero movimento del capitale e dei suoi agenti
si abbina l’erezione di nuove barriere, sempre più alte e scoraggianti , contro
la massa di persone desiderose di adeguarsi e andare là dove spuntano le
opportunità. Il viaggiare per profitto viene incoraggiato; il viaggiare per
sopravvivenza viene condannato, con grande gioia dei trafficanti
di «immigrati illegali» e a dispetto di occasionali ed effimere
ondata di orrore e di indignazione provocate dalla vista
di «emigranti economici» finiti soffocati o annegati nel vano tentativo di
raggiungere la terra in grado di sfamarli. Il mondo globalizzato è un luogo
accogliente e amichevole per i turisti, ma inospitale e ostile per i
senzatetto. Ai secondo è vietato seguire il modello instaurato dai primi, che
però, in fondo, non ea mai stato progettato per loro. Inoltre, qualora fosse un
modello liberamente perseguibile dalle grandi masse anziché un privilegio
esclusivo di una ristretta cerchia di persona ben protette, non
arrecherebbe certo quei vantaggi per i quali è stato vantato dai suoi
fautori e beneficiari”(pag.77-78).
E’ evidente la rilevanza anche
religiosa della situazione.
C’è però difficoltà a capire
che, quando insorgiamo contro i migranti economici e vorremmo rispedirli a
casa loro, alla fine condanniamo anche noi stessi alla loro sorte, e in
particolare i nostri figli. I problemi della gran parte di noi hanno la stessa
causa di quelli di quei migranti. Sotto certi aspetti in Occidente beneficiamo
dell’economia globalizzata, che infierisce senza più freni pubblici sui
lavoratori che producono la gran parte delle cose di nostro uso comune,
ma questo comporta che anche da noi si segua la stessa linea
liberista e che, anzi, una delle residue funzioni degli stati sia proprio
questa. “Un obiettivo”, scrive Bauman in quel libro, “probabilmente
raggiungibile mediante costanti riduzioni fiscali, riducendo al minimo
indispensabile la regolamentazione delle condizioni di lavoro, pacificando o
imbavagliando le organizzazioni di difesa dei lavoratori, e soprattutto
non applicando alcuna restrizione al libero movimento in entrate e in uscita
del capitale. Nel complesso, la conditio sine qua [=la condizione
senza la quale = indispensabile] per rendere felici
gli «investitori globali» e indurli a cercare profitti nel proprio paese
anziché in un altro è rendere la condizione dei produttori e consumatori
locali il più precaria possibile” (pag.75).
Che c’entra la parrocchia con
tutto questo? C’entra se si riprende contatto con il quartiere, perché in
quest’ultimo sono presenti, su scala locale, tutti i problemi che si presentano
su scala globale. La dimensione locale fa sì però che li si possa affrontare
con una qualche efficacia tentando soluzioni di prossimità, ad esempio creando
o potenziando iniziative solidali, ricreando quella rete sociale di resistenza
che in passato ha funzionato molto bene e che ancora si intravvede nel vasto
fenomeno del volontariato. Se però la religione viene vissuta prevalentemente
come un gioco di ruolo, in comunità confinate e con pretesa di autosufficienza,
alla lunga diventa inutile.
In questi giorni nel gruppo
parrocchiale di AC stiamo meditando sulla beatitudine dei poveri
in spirito. I più ritengono che si debba fare uno sforzo per
diventare poveri in spirito, in quanto pensano di aver raggiunto un
certo benessere e, essendosi affrancati dalla povertà materiale, di essere
soggetti alla tentazione dell’arrogante autosufficienza. Abbiamo letto il
messaggio del Papa del 2014 in occasione della Giornata Mondiale della Gioventù
di quell’anno, che trattava di quel tema e invitava a una conversione
verso i poveri, per rimettere al centro della cultura umana la solidarietà.
Se riuscissimo a capire che, in realtà, la nostra condizione si sta
progressivamente avvicinando a quella di coloro che ci appaiono realmente poveri,
e che in definitiva, lasciando le cose andare avanti così, non ci sarà più
tanto difficile ammettere di dover mendicare tante cose
che oggi sono ancora affermate come diritti, questa conversione ci
verrebbe più facile.
Mi pare che
in parrocchia ci siano due distinte visioni religiose dei problemi che stiamo
vivendo collettivamente, a cui corrispondono distinte e divergenti soluzioni.
Comporle non sarà facile. Autosufficienza religiosa o espansione solidale nello
spirito dellaLaudato si’?
40. La radice politica dei problemi religiosi
Riporto in fondo il testo delle omelie del Papa nella
Veglia Pasquale e nella Messa nel Giorno nella solennità di Pasqua.
Eccone alcuni brani su cui vorrei iniziare una riflessione:
“[…] se facciamo uno sforzo con la
nostra immaginazione, nel volto di queste donne [Maria di Magdala e l’altra
Maria nel racconto della scoperta del Sepolcro vuoto in Mt 28,1-8] possiamo
trovare i volti di tante madri e nonne, il volto di bambini e giovani che
sopportano il peso e il dolore di tanta disumana ingiustizia.
Vediamo riflessi in loro i volti di tutti quelli che, camminando per la città,
sentono il dolore della miseria, il dolore per lo sfruttamento e la
tratta. In loro vediamo anche i volti di coloro che sperimentano il
disprezzo perché sono immigrati, orfani di patria, di casa, di famiglia; i
volti di coloro il cui sguardo rivela solitudine e abbandono perché hanno mani
troppo rugose. Esse riflettono il volto di donne, di madri che
piangono vedendo che la vita dei loro figli resta sepolta sotto il peso della
corruzione che sottrae diritti e infrange tante aspirazioni, sotto l’egoismo
quotidiano che crocifigge e seppellisce la speranza di molti, sotto la
burocrazia paralizzante e sterile che non permette che le cose cambino. Nel
loro dolore, esse hanno il volto di tutti quelli che, camminando per la città,
vedono crocifissa la dignità.
Nel volto di queste donne ci sono molti
volti, forse troviamo il tuo volto e il mio. Come loro possiamo sentirci spinti
a camminare, a non rassegnarci al fatto che le cose debbano finire così.
[…]
Il nostro cuore sa che le cose possono essere diverse, però, quasi
senza accorgercene, possiamo abituarci a convivere con il sepolcro, a
convivere con la frustrazione. Di più, possiamo arrivare a convincerci che
questa è la legge della vita anestetizzandoci con evasioni che non
fanno altro che spegnere la speranza posta da Dio nelle nostre mani.
[…]
Il palpitare del Risorto ci si offre come dono, come
regalo, come orizzonte. Il palpitare del Risorto è ciò che ci
è stato donato e che ci è chiesto di donare a nostra volta come forza
trasformatrice, come fermento di nuova umanità. Con la Risurrezione
Cristo non ha solamente ribaltato la pietra del sepolcro, ma vuole
anche far saltare tutte le barriere che ci chiudono nei nostri sterili
pessimismi, nei nostri calcolati mondi concettuali che ci allontanano dalla
vita, nelle nostre ossessionate ricerche di sicurezza e nelle smisurate
ambizioni capaci di giocare con la dignità altrui.
[…]
Ed ecco ciò che questa notte ci
chiama ad annunciare: il palpito del Risorto, Cristo vive!
E la Chiesa non cessa di dire alle
nostre sconfitte, ai nostri cuori chiusi e timorosi: “Fermati, il Signore è
risorto”. Ma se il Signore è risorto, come mai succedono queste cose? […] a nessuno di noi viene
chiesto: “Ma sei contento con quello che accade nel mondo? Sei disposto a
portare avanti questa croce?”. E la croce va avanti, e la fede in Gesù viene
giù.
[…]
In questa cultura dello scarto dove quello che non serve prende la
strada dell’usa e getta, dove quello che non serve viene scartato, quella
pietra – Gesù - è scartata ed è fonte di vita. E anche noi, sassolini per
terra, in questa terra di dolore, di tragedie, con la fede nel Cristo Risorto
abbiamo un senso, in mezzo a tante calamità.
[…]
La pietra scartata non risulta veramente scartata. I sassolini che
credono e si attaccano a quella pietra non sono scartati, hanno un senso e con
questo sentimento la Chiesa ripete dal profondo del cuore: “Cristo è risorto”.
Nel proporvi queste meditazioni faccio riferimento anche ad
idee che sono diffuse in parrocchia. In sintesi: viene rivisitato l’antico
ebraismo e in qualche modo ce se ne appropria con una certa disinvoltura. La
Pasqua ebraica racconta la storia di una emigrazione di molta gente di una
certa etnia: se ne andò perché stava male nell’Egitto dominato dalle dinastie
dei Faraoni. Il problema erano le condizioni di lavoro, è scritto,
che si erano fatte molto dure. Usciti dall’Egitto gli antichi israeliti si
trovarono a lungo nella condizioni degli attuali migranti economici:
infatti, stando a quel racconto, erano essenzialmente questo. Non avevano
patria, né cittadinanza. Riuscirono a rimanere un gruppo coeso, al modo dei
nomadi, che da quelle parti ancora ci sono. Questa condizione durò, secondo la
narrazione biblica, fino a quando non si introdussero nella terra di Canaan, dove
oggi ci sono lo stato di Israele e l’autorità palestinese, non la terra
santa da noi immaginata, e si conquistarono militarmente
un regno, poi frammentatosi in diverse entità politiche, che dovettero
difendere da molti invasori, infine soccombendo definitivamente ai Romani.
Nello sforzo di organizzare regni giusti gli antichi israeliti
colsero chiaramente la rilevanza religiosa dei problemi politici e viceversa.
Questo è ancora molto attuale, in particolare nel nuovo ordine religioso della
nostra fede. Il nostro problema di oggi, politico, non è organizzare uno nostro stato
da qualche parte, ma di riorganizzare addirittura l’ordine politico
mondiale su basi di giustizia: esso ha valenza specificamente
religiosa perché riguarda la stessa sopravvivenza dell’umanità. Gran parte dei
dominatori del mondo sono ancora oggi della nostra fede. Questo significa che
gran parte degli sfruttatori sono gente che segue la nostra religione.
L’Italia, una delle maggiori potenze industriali, è tra i dominatori del
mondo. Questo comporta una evidente responsabilità morale verso coloro che
stanno peggio, dei quali il Papa ha fatto un elenco nelle omelie che ho citato.
Quelli che stanno peggio sono gli scarti di un
sistema che noi dominiamo. In religione questo è un peccato, ma noi ci
autoassolviamo sostenendo che non ci possiamo fare nulla. E, anzi, inventandoci
di sana pianta una sorta di neo-identità ebraica, immaginiamo di essere,
collettivamente, tra gli sfruttati, tra quelli che stanno peggio e invochiamo
la liberazione. Immaginiamo di essere tra gli oppressi perché minacciati
dalla contaminazione del mondo di fuori: quindi ci barrichiamo culturalmente
per respingere l’attacco. In questo modo effettivamente lasciamo fuori quelli
che stanno realmente peggio e che vengono tra noi
chiedendo aiuto. Il Papa allora, e fa semplicemente il suo mestiere, ci
rimprovera e noi, convinti sinceramente di essere quello che non siamo,
diventiamo insofferenti delle sue tirate d’orecchi e lo invitiamo a non
impicciarsi nelle cose della nostra politica. E’ questo
il succo di un discorso fatto in Francia da un’importante personalità. Non
abbiamo forse il diritto di difenderci? Ma il Papa ci ricorda
che le migrazioni di quelli che vorremmo respingere, innanzi tutto privandoli
della loro dignità umana, e ciò mentre paradossalmente vorremmo immaginarci una
dignità degli animali simile a quella umana che neghiamo agli umani, sono
un sottoprodotto, uno scarto, del sistema
economico e politico di cui noi siamo i dominatori e principali beneficiari.
Riteniamo in ciò di esercitare il nostro buon diritto e siamo
disposti a far guerra a chi minaccia questo nostro stile di vita.
Il Papa parla di nostre ossessionate ricerche di sicurezza e di
smisurate ambizioni capaci di giocare con la dignità altrui e le
critica.
Ma non è solo il Papa a farci questo discorso. Abbiamo da
confrontarci con sempre più grilli parlanti che si rivolgono a
noi, pinocchietti presuntuosi.
Uno di essi è, ad esempio, Vladimiro Zagrebelsky, nel
suo Diritti per forza, Einaudi, uscito quest’anno, anche in
e-book, che vi consiglio.
Scrive Zagrebelsky, nel capitolo Stili di vita:
“Se non si prenderà coscienza della valenza aggressiva dei diritti
accampati da chi può nei confronti di chi non può, nel mondo che ha un
solo confine che cinge l’intera umanità, ci si disporrà ad annichilire quanti,
vivendo con noi e vicino a noi, ci sottraggono dall’interno quello che
consideriamo il nostro spazio vitale e minacciano il nostro «stile di vita». La
guerra che un tempo si faceva da parte di eserciti schierati sulle linee delle
frontiere esterne, gli uni di fronte agli altri, oggi si trasferisce
all’interno, gli uni mescolati con gli altri. Nuove frontiere si creano
ormai dentro un unico spazio globale in cui non esiste più una «casa del
tutto nostra» e una «casa del tutto loro», ma tutti siamo tenuti a
regolarci come in una grande casa comune. Il motto «padroni a casa propria»,
con il quale si vuole negare l’evidenza delle interdipendenza che ci avvolgono
da ogni parte e si vuol respingere al di fuori dei nostri pretesi confini
esterni, restaurati con muri, filo spinato, cannoniere e divieti legali, i
fattori di con-fusione che caratterizzano il tempo presente, è solo un patetico
ricordo d’un tempo che non c’è più.”
Scrive anche, Zagrebelsky, che il mondo globalizzato è
paradossalmente divenuto più piccolo, non ha più spazi vuoti, come per certi
versi fu il West nel Nord-America, dove fuggire per
sottrarsi all’oppressione e a condizioni di vita troppo dure, come fecero gli
antichi israeliti, spingendosi nel deserto, abbandonando la civiltà egiziana.
L’esercizio di ogni nostro diritto ha
un’influenza, spesso negativa, da qualche altra parte e la globalizzazione
dell’informazioni che lo fa capire chiaramente: nessuno può dirsi
all’oscuro. Gli oppressi rivendicano come diritto la giustizia, i
dominatori il loro piacere: è chiaro che noi, nell’Italia di oggi, consumatori innanzi
tutto, siamo poco sensibili alla giustizia, perché siamo parte dei dominatori
del mondo, gelosi innanzi tutto del nostro piacere. Che ci importa, infatti,
come sono prodotti, con quale sofferenza umana, le merci e i servizi che
ci danno piacere e che vogliamo sempre nuovi, pronti all’uso, rapidamente
consegnati (le cronache segnalano che nei servizi di logistica, di
consegna merci, talvolta si notano ritmi di lavoro particolarmente duri a
fronte di paghe molto basse)? C’è un’etica da ricostruire, anche a livello
personale. Il nostro peccato sociale si manifesta
innanzi tutto nel modo in cui siamo consumatori. E’ un tema
che mi pare piuttosto trascurato nella formazione religiosa, specialmente in
quella dei più giovani, in cui, ad un certo punto, ci si sfianca (inutilmente)
sulle faccende del sesso.
Un altro dei grilli parlanti di cui
dicevo è stato il sociologo Zygmunt Bauman, che ci ha lasciato
tanti testi interessanti, scritti con un linguaggio accessibile ai più e che
spiegano realisticamente ciò che dobbiamo fronteggiare.
In La società sotto assedio, del 2002, edito da
Laterza, un altro testo che vi consiglio, scrive (pag.223-235):
“La «negazione» è la risposta a domande inquietanti quali «come
reagiamo alla nostra consapevolezza dell’altrui sofferenza e cosa implica per
noi tale consapevolezza?» - le domanda che sorgono ogni qual
volta «persone, organizzazioni o intere società acquisiscono informazioni
troppo inquietanti, minacciose o astruse per essere pienamente assorbite o
apertamente riconosciute. Questa informazioni vengono quindi in qualche modo
represse, ripudiate, accantonate o reinterpretate» [cita Stanley Cohen].
[…] colui che perpetra il male e colui che lo vede, lo
sente, ma non muove un dito, si trovano […] entrambi esposti alla
possibilità che le loro azioni (o la loro passività) gli si possano
rivoltare contro, essendo state dichiarate inique, esecrabili e punibili […]
avvertono quindi il pressante e perenne bisogno di negare in modo
enfatico e perentorio. […] Esistono molte forme di negazione della colpa
(o di rivendicazione d’innocenza, che è la stessa cosa), ma gli argomenti
impiegati sono straordinariamente simili […] Ridotti all’osso, tutti gli
argomenti rivelano l’uno o l’altro dei due modelli: «Non sapevo», o «Non potevo
farci niente». […] Nell’epoca delle autostrade informatiche, le
argomentazioni sull’ignoranza vanno rapidamente perdendo di credibilità […] E
così, l’unica scusa che ci resta è «non potevo farci niente» o «non potevo fare
di più». […] Lo stratagemma del «non potevo fare di più di quanto ho fatto»
dissolve la colpa - penalmente perseguibile- associata alla perpetrazione di un
misfatto nella universale e quindi esecrabile ma non punibile
condizione dell’«essere spettatore». In un mondo fatto d’interdipendenza
globale, la differenza tra spettatore e co-esecutore, complice o favoreggiatore
dell’azione malvagia diventa sempre più tenue. La responsabilità per le
disgrazie umane, per quanto distanti possano essere da chi ne è testimone, non
può assolutamente essere negata, almeno in modo convincente. Mai, quindi, la
domanda di varianti sempre nuove e più raffinate di negazione di responsabilità
del tipo «non potevo farci niente» è stata così grande e in forte espansione
come oggi.
[…]
Praticamente nessuna azione umana, per quanto localmente
confinata e compressa, può essere certa che non avrà conseguenze sul destino
del resto dell’umanità, così come qualsiasi segmento dell’umanità non può
limitarsi a se stesso e dipendere totalmente solo dalle azioni dei suoi membri.
Nel commentare il memorabile intervento del 1979 di Edward
Lorenz, il cui titolo è da allora diventato una delle frasi più note del secolo
scorso («il battito d’ali di una farfalla in Brasile può scatenare un tornado
nel Texas”), Roberto Toscano afferma che «oggi la realtà dell’interconnessione
globale impone, nelle relazioni internazionali, standard etici che vanno ben
oltre un concetto di responsabilità strettamente legalistico. La farfalla
non conosce le conseguenze di un suo battito d’ali; essa
tuttavia non può escludere quella conseguenza. Passiamo così dalla nozione di
responsabilità a un concetto simile, ma più restrittivo, quello di
precauzione».
[…]
La sofferenza «come appare in TV» è nella gran parte dei
casi trasmessa attraverso le immagini dei corpi emaciati degli affamati e dai
volti sfigurati dal dolore dei malati. […] Nulla si sa e niente viene
detto sulle cause della carestie e delle malattie
croniche. Non un minimo accenno alla costante distruzioni dei mezzi di
sussistenza causata dal commercio senza frontiere, allo
smantellamento delle reti di sicurezza sociale sotto la pressione della
finanza senza frontiere, o alla devastazione di terreni e comunità
da parte di monoculture imposte dai mercanti di semi geneticamente modificati
in stretta collaborazione con i missionari delle motivazioni economiche della
Banca mondiale o del Fondo monetario internazionale. Piuttosto, un pervasivo e
persuasivo suggerimento che «ciò che appare in TV» sia un disastro
autoinflitto abbattutosi su tribù distanti, esotiche e «molto diverse da
noi» che si sono colpevolmente alienate una decente vita umana. E che - grazie
a Dio (o alla nostra prudenza) esistono persone fortunate e di buon cuore come
noi, fortunate perché sensibili e industriose, pronte a salvare lo sventurato
dalle raccapriccianti conseguenze della sua sfortuna e della sua condotta
insensata causata da ignoranza e indolenza.”
Alla luce delle parole di Bauman,
acquista un senso sinistro l’invito, che talvolta si fa in religione, a non
pretendere troppo da sé stessi, perché in fin dei conti siamo peccatori ma
lassù siamo amati lo stesso così come siamo, perché richiama l’argomento
«non potevo farci niente» o «non potevo fare di più». Il punto non
sta nell’amore soprannaturale incondizionato, nonostante la
condizione di peccato, ma nel non voler pretendere
troppo (abbastanza?) da noi stessi, quindi in questa
autolimitazione tutto sommato arbitraria, ingiustificata, nello sforzo di
essere migliori, per cui poi, in definitiva, possiamo
finire per «abituarci a convivere con il sepolcro, a convivere con la
frustrazione» e «di più, possiamo arrivare a convincerci che
questa è la legge della vita». Dovremmo proprio, invece,
pretendere un po’ di più da noi stessi. Ad esempio come consumatori:
ci sono modi sbagliati di esserlo. Bisogna prestare più attenzione a come
viene prodotto quello che compriamo, a quanto sofferenza ingloba.
Animati dal «palpito del Risorto» occorre
invece, secondo l’esortazione del Papa, divenire “forza trasformatrice, come
fermento di nuova umanità” e “far saltare tutte le
barriere che ci chiudono nei nostri sterili pessimismi, nei nostri calcolati
mondi concettuali che ci allontanano dalla vita, nelle nostre ossessionate
ricerche di sicurezza e nelle smisurate ambizioni capaci di giocare con la
dignità altrui”. Non è cosa che si consegue magicamente, senza
un nostro impegno collettivo. Se non ci spendiamo in questo, e innanzi tutto
non ci formiamo a questo, la religione diventa inutile, “la croce va avanti,
e la fede in Gesù viene giù.” Dobbiamo lavorare per trasformare
la realtà, con un impegno politico che ha anche un senso per la fede, non
cercare di immedesimarci in un qualche immaginifico gioco di ruolo
a sfondo religioso.
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Veglia Pasquale nella Notte santa
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Basilica Vaticana
Sabato Santo, 15 aprile 2017
«Dopo il sabato, all’alba del
primo giorno della settimana, Maria di Magdala e l’altra Maria andarono a
visitare il sepolcro» (Mt 28,1). Possiamo immaginare quei passi…:
il tipico passo di chi va al cimitero, passo stanco di confusione, passo
debilitato di chi non si convince che tutto sia finito in quel modo… Possiamo
immaginare i loro volti pallidi, bagnati dalle lacrime… E la domanda: come può
essere che l’Amore sia morto?
A differenza dei discepoli, loro
sono lì – come hanno accompagnato l’ultimo respiro del Maestro sulla croce e
poi Giuseppe di Arimatea nel dargli sepoltura –; due donne capaci di non
fuggire, capaci di resistere, di affrontare la vita così come si presenta e di
sopportare il sapore amaro delle ingiustizie. Ed eccole lì, davanti al
sepolcro, tra il dolore e l’incapacità di rassegnarsi, di accettare che tutto
debba sempre finire così.
E se facciamo uno sforzo
con la nostra immaginazione, nel volto di queste donne possiamo trovare i volti
di tante madri e nonne, il volto di bambini e giovani che sopportano il peso e
il dolore di tanta disumana ingiustizia. Vediamo riflessi in loro i volti di
tutti quelli che, camminando per la città, sentono il dolore della miseria, il
dolore per lo sfruttamento e la tratta. In loro vediamo anche i volti di coloro
che sperimentano il disprezzo perché sono immigrati, orfani di patria, di casa,
di famiglia; i volti di coloro il cui sguardo rivela solitudine e abbandono
perché hanno mani troppo rugose. Esse riflettono il volto di donne, di madri
che piangono vedendo che la vita dei loro figli resta sepolta sotto il peso
della corruzione che sottrae diritti e infrange tante aspirazioni, sotto
l’egoismo quotidiano che crocifigge e seppellisce la speranza di molti, sotto
la burocrazia paralizzante e sterile che non permette che le cose cambino. Nel
loro dolore, esse hanno il volto di tutti quelli che, camminando per la città,
vedono crocifissa la dignità.
Nel volto di queste
donne ci sono molti volti, forse troviamo il tuo volto e il mio. Come loro
possiamo sentirci spinti a camminare, a non rassegnarci al fatto che le cose
debbano finire così. E’ vero, portiamo dentro una promessa e la
certezza della fedeltà di Dio. Ma anche i nostri volti parlano di ferite,
parlano di tante infedeltà – nostre e degli altri –, parlano di tentativi e di
battaglie perse. Il nostro cuore sa che le cose possono essere diverse,
però, quasi senza accorgercene, possiamo abituarci a convivere con il sepolcro,
a convivere con la frustrazione. Di più, possiamo arrivare a convincerci che
questa è la legge della vita anestetizzandoci con evasioni che non fanno altro
che spegnere la speranza posta da Dio nelle nostre mani. Così sono,
tante volte, i nostri passi, così è il nostro andare, come quello di queste
donne, un andare tra il desiderio di Dio e una triste rassegnazione. Non muore
solo il Maestro: con Lui muore la nostra speranza.
«Ed ecco, ci fu un gran
terremoto» (Mt 28,2). All’improvviso, quelle donne ricevettero una
forte scossa, qualcosa e qualcuno fece tremare il suolo sotto i loro piedi.
Qualcuno, ancora una volta, venne loro incontro a dire: «Non temete»,
però questa volta aggiungendo: «E’ risorto come aveva detto!» (Mt 28,6).
E tale è l’annuncio che, di generazione in generazione, questa Notte santa ci
regala: Non temiamo, fratelli, è risorto come aveva detto! Quella
stessa vita strappata, distrutta, annichilita sulla croce si è risvegliata e
torna a palpitare di nuovo (cfr R. Guardini, Il Signore, Milano
1984, 501). Il palpitare del Risorto ci si offre come dono, come
regalo, come orizzonte. Il palpitare del Risorto è ciò che ci è
stato donato e che ci è chiesto di donare a nostra volta come forza
trasformatrice, come fermento di nuova umanità. Con la Risurrezione Cristo non
ha solamente ribaltato la pietra del sepolcro, ma vuole anche far saltare tutte
le barriere che ci chiudono nei nostri sterili pessimismi, nei nostri calcolati
mondi concettuali che ci allontanano dalla vita, nelle nostre ossessionate
ricerche di sicurezza e nelle smisurate ambizioni capaci di giocare con la
dignità altrui.
Quando il Sommo Sacerdote, i
capi religiosi in complicità con i romani avevano creduto di poter calcolare
tutto, quando avevano creduto che l’ultima parola era detta e che spettava a
loro stabilirla, Dio irrompe per sconvolgere tutti i criteri e offrire così una
nuova possibilità. Dio, ancora una volta, ci viene incontro per stabilire e
consolidare un tempo nuovo, il tempo della misericordia. Questa è la promessa
riservata da sempre, questa è la sorpresa di Dio per il suo popolo fedele:
rallegrati, perché la tua vita nasconde un germe di risurrezione, un’offerta di
vita che attende il risveglio.
Ed ecco ciò che questa notte ci chiama
ad annunciare: il palpito del Risorto, Cristo vive! Ed è ciò che cambiò il passo di
Maria Maddalena e dell’altra Maria: è ciò che le fa ripartire in fretta e
correre a dare la notizia (cfr Mt 28,8); è ciò che le fa
tornare sui loro passi e sui loro sguardi; ritornano in città a incontrarsi con
gli altri.
Come con loro siamo entrati nel
sepolcro, così con loro vi invito ad andare, a ritornare in città, a tornare
sui nostri passi, sui nostri sguardi. Andiamo con loro ad annunciare la
notizia, andiamo… In tutti quei luoghi dove sembra che il sepolcro abbia avuto
l’ultima parola e dove sembra che la morte sia stata l’unica soluzione. Andiamo
ad annunciare, a condividere, a rivelare che è vero: il Signore è Vivo. E’ vivo
e vuole risorgere in tanti volti che hanno seppellito la speranza, hanno
seppellito i sogni, hanno seppellito la dignità. E se non siamo capaci di
lasciare che lo Spirito ci conduca per questa strada, allora non siamo
cristiani.
Andiamo e lasciamoci sorprendere da
quest’alba diversa, lasciamoci sorprendere dalla novità che solo Cristo può
dare. Lasciamo che la sua tenerezza e il suo amore muovano i nostri passi,
lasciamo che il battito del suo cuore trasformi il nostro debole palpito.
Domenica di Pasqua della Resurrezione
del Signore
SANTA MESSA DEL GIORNO
OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Piazza San Pietro
Domenica di Pasqua, 16 aprile 2017
Oggi la Chiesa ripete, canta,
grida: “Gesù è risorto!”. Ma come mai? Pietro, Giovanni, le donne sono andate
al Sepolcro ed era vuoto, Lui non c’era. Sono andati col cuore chiuso dalla
tristezza, la tristezza di una sconfitta: il Maestro, il loro Maestro,
quello che amavano tanto è stato giustiziato, è morto. E dalla morte non si
torna. Questa è la sconfitta, questa è la strada della sconfitta, la strada
verso il sepolcro. Ma l’Angelo dice loro: “Non è qui, è risorto”. E’ il primo
annuncio: “E’ risorto”. E poi la confusione, il cuore chiuso, le apparizioni.
Ma i discepoli restano chiusi tutta la giornata nel Cenacolo, perché avevano
paura che accadesse a loro lo stesso che accadde a Gesù.
E la Chiesa non cessa di
dire alle nostre sconfitte, ai nostri cuori chiusi e timorosi: “Fermati, il
Signore è risorto”. Ma se il Signore è risorto, come mai succedono queste cose? Come
mai succedono tante disgrazie, malattie, traffico di persone, tratte di
persone, guerre, distruzioni, mutilazioni, vendette, odio? Ma dov’è il Signore?
Ieri ho telefonato a un ragazzo con una malattia grave, un ragazzo colto, un
ingegnere e parlando, per dare un segno di fede, gli ho detto: “Non ci sono
spiegazioni per quello che succede a te. Guarda Gesù in Croce, Dio ha fatto
questo col suo Figlio, e non c’è un’altra spiegazione”. E lui mi ha risposto:
“Sì, ma ha domandato al Figlio e il Figlio ha detto di sì. A me non è stato
chiesto se volevo questo”. Questo ci commuove, a nessuno di noi viene
chiesto: “Ma sei contento con quello che accade nel mondo? Sei disposto a
portare avanti questa croce?”. E la croce va avanti, e la fede in Gesù viene
giù.
Oggi la Chiesa continua a
dire: “Fermati, Gesù è risorto”. E questa non è una fantasia, la Risurrezione
di Cristo non è una festa con tanti fiori. Questo è bello, ma non è questo è di
più; è il mistero della pietra scartata che finisce per essere il fondamento
della nostra esistenza. Cristo è risorto, questo significa. In questa
cultura dello scarto dove quello che non serve prende la strada dell’usa e
getta, dove quello che non serve viene scartato, quella pietra – Gesù - è
scartata ed è fonte di vita. E anche noi, sassolini per terra, in
questa terra di dolore, di tragedie, con la fede nel Cristo Risorto abbiamo un
senso, in mezzo a tante calamità. Il senso di guardare oltre, il senso
di dire: “Guarda non c’è un muro; c’è un orizzonte, c’è la vita, c’è la gioia,
c’è la croce con questa ambivalenza. Guarda avanti, non chiuderti. Tu
sassolino, hai un senso nella vita perché sei un sassolino presso quel sasso,
quella pietra che la malvagità del peccato ha scartato”.
Cosa ci dice la Chiesa oggi
davanti a tante tragedie? Questo, semplicemente. La pietra scartata non
risulta veramente scartata. I sassolini che credono e si attaccano a quella
pietra non sono scartati, hanno un senso e con questo sentimento la Chiesa
ripete dal profondo del cuore: “Cristo è risorto”. Pensiamo un po’,
ognuno di noi pensi, ai problemi quotidiani, alle malattie che abbiamo vissuto
o che qualcuno dei nostri parenti ha; pensiamo alle guerre, alle tragedie umane
e, semplicemente, con voce umile, senza fiori, soli, davanti a Dio, davanti a
noi diciamo “Non so come va questo, ma sono sicuro che Cristo è risorto e io ho
scommesso su questo”. Fratelli e sorelle, questo è quello che ho voluto dirvi.
Tornate a casa oggi, ripetendo nel vostro cuore: “Cristo è risorto”.
41. Rivolti
all’interno o rivolti all’esterno
Una comunità può essere rivolta al proprio interno o verso
l’esterno, verso il mondo intorno. Le sette sono prevalentemente del primo
tipo, le religioni prevalentemente del secondo. Una setta religiosa ha quindi,
in genere, al suo interno una contraddizione. Di solito quest’ultima viene
risolta con l’immaginazione, costruendo un contesto esterno
compatibile con l’ideologia di chiusura praticata. L’uscita da una setta
religiosa viene spesso vissuta come un ritorno alla realtà.
Perché si aderisce a una
setta? Vengono riconosciuti vari moventi. Le sette propongono, in genere,
visioni semplificate ma immaginifiche, quindi accattivanti e coinvolgenti,
della realtà: chi ha difficoltà con una società complessa vi può trovare
conforto. Inoltre esse sembrano dare protezione a chi vi aderisce, anche se
solo fino a che vi aderisce, e l’adesione in genere comporta l’esigenza di
sottomissione acritica ad un gruppo di comando, che può essere anche una
singola figura dominante o, più spesso e nelle realtà più vaste, una gerarchia
più complessa. In una setta si è in genere sottoposti a continue prove di
fedeltà. Una setta religiosa della nostra fede sarà, ad esempio,
particolarmente legata al racconto biblico del (mancato) sacrificio di Isacco,
che inscena appunto una prova di fedeltà, arrivando addirittura (forzando
abbastanza il testo biblico) a immedesimarsi in Isacco, piuttosto che in
Abramo.
Esperienze di setta sono state
vissute ciclicamente anche nelle nostre collettività di fede. In genere
l’educazione alla fede conduce a non dipenderne, perché la nostra religiosità
ha una forte connotazione missionaria e dunque rivolta verso l’esterno. Non ci
si appaga veramente di esperienze chiuse.
In un’esperienza aperta è
centrale la partecipazione, che consente il dialogo e
quindi l’interazione e il coinvolgimento di
gente nuova. Non è sufficiente la fedeltà, occorre collaborare
per capire ciò in mezzo a cui ci si trova. Più si
è, meglio si capisce, perché si guarda il mondo da diversi punti di vista; ma
senza il dialogo le visioni parziali rimangono
tali. Si cerca di essere più aderenti alla realtà, acquisendo competenze spendibili
in società; si fanno progetti per migliorare la
convivenza. Aprirsi comporta il rischio, e la fatica, di
confrontarsi con la complessità. Solo nelle fantasie la realtà si adatta
perfettamente alle concezioni ideali. Una religiosità che si propone come cattolica, quindi
universale, vive senz’altro nella modalità dell’apertura. Questo
comporta di rinunciare al monopolio del bene, che è un intento
tipico della religiosità di setta, secondo la quale non vi è vero bene al di
fuori di essa.
In una modalità aperta si
può riconoscere, ad esempio, il valore religioso di una importante conquista
civile, come quella del nostroParco delle Valli, evolutosi dal
semplice pratone delle origini a parco pubblico mediante
quella che viene definita cittadinanza attiva, quindi una
mobilitazione popolare di lungo periodo di cui la gente della parrocchia è
stata componente fondamentale. Questo modo di vedere le cose è al centro
delle argomentazioni che troviamo nell’enciclica Laudato si’.
Una setta può abitare un
luogo senza essere veramente interessata a ciò che c’è intorno, tanto più se è
fatta di gente che viene da fuori. Una parrocchia, inviata a gente di un certo
posto, non può organizzarsi così, è necessariamente una struttura aperta,
interessata alla vita del quartiere. Molti tipi di impegni insieme civili e
religiosi sono vissuti, ad esempio, nelle esperienze che si riconoscono
in Libera, di cui ci ha parlato l’anno scorso don Ciotti. Un
impegno così richiede una presenza molto più costante di quella di un gruppo
con connotati di setta, in cui si va solo per i periodici appuntamenti
programmati, ad orari fissi, nel quadro di un certo metodo e
per le prove di fedeltà e verifiche relative. La parrocchia dovrebbe essere una
struttura abitata molto più a lungo che, ad esempio, una sede
periferica di un’associazione. Dovrebbe promuovere una partecipazione attiva,
non da semplici utenti o spettatori. Dovrebbe poter funzionare anche senza copioni da
seguire pedissequamente e senza una vera e propria regia. Ad
esempio, ciò che gli studenti apprendono a scuola dovrebbe poter arricchire la
vita parrocchiale e viceversa. Non si dovrebbe entrare in parrocchia come in
un parco a tema, un po’ come quando si va nella vicina chiesona
vaticana con tutti i suoi pittoreschi personaggi e relative scenografie.
Entrando in parrocchia non ci dovrebbe trovare in un altro mondo,
ad esempio in un fantasioso neo-mondo a sfondo biblico,
una realtà totalmente ricostruita al modo in cui a lungo lo si è fatto a Cinecittà,
ai tempi d’oro del nostro cinema, ma nella realtà verae, in
particolare, in una specie di officina in cui si lavora
sulla realtà vera e su gente vera, non con
persone che fanno qualcun altro, immaginando di
esserlo, almeno durante l’incanto.
Occorre riflettere su queste
idealità che ci sono state proposte dai saggi dell’ultimo Concilio:
1. Intima unione della Chiesa con
l'intera famiglia umana.
Le gioie e le speranze, le tristezze
e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che
soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei
discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel
loro cuore.
La loro comunità, infatti, è composta
di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo
nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, ed hanno ricevuto un
messaggio di salvezza da proporre a tutti.
Perciò la comunità dei cristiani si
sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia.
[dalla Costituzione pastorale La
gioia e la speranza, del Concilio Vaticano 2° (1962-1965)]
42. L’immaginazione
al potere?
L’immaginazione al potere fu un’idea diffusa negli anni Sessanta del
secolo scorso per reagire contro un sistema sociale che trasformava, e
riduceva, l’essere umano ad ingranaggio.
Bisognava immaginarsi un altro modo di vita sociale e renderlo
possibile in concreto con l’impegno politico. Era una concezione fondata
sull’ideologia del filosofo tedesco Herbert Marcuse, stabilitosi negli Stati
Uniti d’America negli anni Trenta. Fu appunto la realtà statunitense al centro
della sua critica sociale:
quest’ultima però si adatta bene al modo di vivere dell’intero Occidente, anche
di quello attuale, ma in fondo anche dell’intera civiltà globalizzata contemporanea
nelle sue manifestazioni sociali più evolute. Quella critica sociale portava ad
organizzare azioni di contrasto, di opposizione, contro sistemi sociali che
erano oppressivi in un modo diverso da come lo erano stati storicamente e lo
erano i totalitarismi, essenzialmente riducendo l’essere umano a una
sola dimensione, quella appunto che ne faceva un ingranaggio sociale. Quindi un’immaginazione come forza di cambiamento sociale. L’accusa che si fa ai giovani degli anni
Sessanta e Settanta che seguirono l’idea dell’immaginazione al potere è in
genere quella di aver troppo immaginato e di aver poco realizzato, ma si tratta di un addebito ingeneroso, perché
effettivamente moltissimo cambiò in
Occidente e i problemi vennero quando, dagli anni ’80, l’immaginazione come critica sociale ebbe sempre meno potere.
In
religione si fa un certo uso dell’immaginazione. Chi lo può negare. I nostri
scritti sacri sono pieni di cose del genere. Li abbiamo ricevuti
dall’antichità, in cui si ragionava così. E questo è un punto molto importante: ragionare per visioni è comunque un ragionare. La nostra più grande
teologia si basa su quelle visioni.
Ma è cosa che vediamo anche nell’esperienza ebraica, dove lo studio è centrale e ha prodotto luminose scuole di
pensiero su base religiosa, quindi fondate su quel tipo di visioni, che troviamo espresse nella letteratura talmudica (da Talmud,
il testo in cui è raccolto il frutto di
quelle riflessioni, che significa appunto studio).
Ma immaginando si può anche prendere congedo dalla realtà e
allora non si ragiona più, ma solamente ci si emoziona. La critica più seria
alla religione, seria in quanto fondata, è di essere stata una sorta di immaginifica droga per il controllo sociale delle moltitudini di
chi stava peggio, dei dominati sociali. Quindi di essere stata al servizio dei
dominatori. Un’immaginazione che
perpetua una condizione di servaggio è cattiva anche dal punto di vista
religioso. Se ragioniamo sulle visioni proposte dai nostri testi sacri possiamo
arrivare a convincercene. E’ passata da poco la nostra Pasqua, in cui abbiamo
fatto memoria della liberazione degli antichi israeliti dal dominio degli
antichi egiziani, che li opprimevano con condizioni di lavoro molto dure.
Grandi maestri della nostra spiritualità, come
Ignazio di Lojola e Giovanni della Croce, insegnano ad imparare a fare a meno
dell’immaginazione approfondendo la propria esperienza religiosa. Progredire
nella fede, allora, è come sbucciare gli strati di una cipolla, togliendo ciò
che non è essenziale. Si arriva in una notte oscura, dove si intuisce
misticamente il fondamento di tutto. Rimane la convinzione che si tratti di
misericordia, compassione, benevolenza universale: questa la grande novità
della nostra fede rispetto alle antiche religioni politeistiche.
Woody
Allen, nel suo film Crimini e misfatti,
che vi consiglio di acquistare e vedere in DVD, fa dire ad un personaggio che
gli antichi ebrei immaginarono un fondamento amorevole, ma anche con
l’immaginazione non riuscirono a concepirlo totalmente
benevolente, tanto che troviamo
l’episodio del (mancato) sacrificio di Isacco. Eppure anche nelle scritture
troviamo una progressione nella riflessione sul fondamento e in essa la
misericordia ha un posto sempre più importante. C’è un’immaginazione che
stronca l’inimicizia e le guerre e che possiamo considerare buona, perché è anche fonte di liberazione.
Gli
antichi greci svalutarono molto l’immaginazione
e il sogno. Consigliavano di rimanere
aderenti alla realtà. l’essere umano sognante lo vedevano incatenato in fondo
ad una caverna, con il volto rivolto verso il fondo, potendo vedere solo ombre
della realtà come proiettate sul muro. Vi è chi vi ha visto l’anticipazione
della nostra civiltà dell’immagine.
L’immaginazione comunitaria è la più potente di tutte. Insieme si arriva
a convincersi dell’inverosimile, si attenua il controllo sulla realtà. Le
comunità dispotiche usano l’immaginazione per tenersi stette i propri adepti.
Questa non è la via della nostra religione. Lo vediamo, ad esempio, nelle
comunità monastiche, dove le regole dei fondatori sono molto rigide nel cercare di
impedire che la comunità prenda il sopravvento. Non tutto ciò che è
comunitario, infatti, è conforme alla fede. Ne parlano a lungo le scritture.
Bisogna sempre vedere se l’immaginazione conduce a ragionare sulla realtà per
modificarla in meglio, per distaccarsene in ciò che in essa non va, per
convincersi che un mondo migliore è possibile, o se serve a legare la gente ad
un ordine ingiusto.
A
volte le comunità, anche molto coese, non sono un bello spettacolo, soprattutto
quando prendono congedo dalla realtà e dalla gente intorno e diventano un
universo concentrato solo su sé stesso. Stimolano l’emotività collettiva per
separare ed escludere ciò che c’è fuori. Ciò che viene escluso non cambia e il
cambiamento che si vive nelle comunità dispotiche è solo immaginario nel senso di
apparente.
Se
si vuole lavorare con efficacia sulla realtà, come oggi siamo spinti a fare
anche in religione, occorre in primo luogo esercitarsi sulla critica dell’immaginario che si impiega. E’ buono o cattivo?
43. Scuola popolare di pensiero sociale
L’enciclica Laudato si’ può essere
utilizzata come libro di testo di una scuola popolare di pensiero e di azione
sociale. E’ infatti un documento molto diverso dalla letteratura pontificia
precedente del genere dichiarato dal suo autore, l’enciclica appunto. Riassume
idee correnti sulle cause delle sofferenze sociali contemporanee,
accreditandone alcune. Si rivolge alle masse ed è scritta in lingua corrente.
E’ materiale che è naturalmente soggetto a verifica. Non basta che venga da
fonte autorevole per condividerne l’impostazione. Quest’ultima non deriva per
via di deduzione logica da una dottrina teologica, dalle cose della fede. La
fede non ha la soluzione dei mali sociali di oggi, ma può individuarli perché
fanno soffrire. La sofferenza è una produzione sociale e può essere corretta.
Per capire la via migliore bisogna rifletterci molto su, insieme, collettivamente,
in ogni realtà sociale. Questo benché molti pensino che non ci si possa fare
nulla perché si tratta di fenomeni su scala troppo grande, addirittura
mondiale. E’ appunto la scala su cui ragiona l’autore dell’enciclica.
Nella Laudato
si’ non ci si estenua su polemiche dottrinali che erano ancora
piuttosto evidenti in un altro recente documento del nostro pensiero
sociale, l’enciclica Carità nella verità, del 2009. Non si fa una
lezione di etica ai governanti. C’è un appello alla
mobilitazione popolare, di massa, per cambiare una società che, a livello
mondiale, causa sofferenza e mette a rischio la sopravvivenza dell’umanità.
Siamo tutti invitati a cambiare i nostri stili di vita, ma non tanto per meritare sul
piano religioso, quanto per esercitare una sana pressione su
coloro che detengono il potere politico, economico e sociale, e, così
facendo, salvare il mondo, visto come casa comune. Ecco dove se ne
parla, un punto molto importante del documento:
206. Un cambiamento
negli stili di vita potrebbe arrivare ad esercitare una sana pressione su
coloro che detengono il potere politico, economico e sociale. È ciò che accade
quando i movimenti dei consumatori riescono a far sì che si smetta di
acquistare certi prodotti e così diventano efficaci per modificare il
comportamento delle imprese, forzandole a considerare l’impatto ambientale e i
modelli di produzione. È un fatto che, quando le abitudini sociali intaccano i
profitti delle imprese, queste si vedono spinte a produrre in un altro modo. Questo
ci ricorda la responsabilità sociale dei consumatori. «Acquistare è sempre un
atto morale, oltre che economico». Per questo oggi «il tema del degrado ambientale chiama in
causa i comportamenti di ognuno di noi».
Riesce difficile alla gente
comune capire chi comanda il mondo e, dunque, con
chi ce la si debba prendere per ciò che genera sofferenza. Si scrive di potere
globale, di multinazionali, da noi di Europa,
insomma qualcosa di impersonale che domina le nostre vite senza che si possa
fare nulla per reagire, se non tentare di scamparla volta per volta.
Scoppia la rabbia, si scende in piazza per manifestarla, ma nessuno dei potenti
che vorremmo trascinare davanti ad una specie di tribunale del popolo accetta
di venire a rispondere. Tutti si dicono nelle nostre stesse condizioni. Da
ultimo il maligno viene indicato nel mercato, che
dispoticamente può distruggere in un attimo le nostre vite, o, al contrario,
trasformarle in meglio a livelli inimmaginabili. Ma il mercato non
ha nulla di soprannaturale. E’ fatto di norme giuridiche e di una massa di
attori che si scambia dei beni. Chi compra e chi vende. Anche il lavoro di
ciascuno di noi. Sono le norme giuridiche che consentono lo scambio: sono il
frutto di accordi internazionali. Negli scambi ci sono parti forti e parti
deboli e le parti forti fanno il prezzo. Sono forti le parti che hanno il
potere di negare agli altri beni molto ambiti, perché molto necessari o per
alti motivi. Questo potere è assegnato dalle norme giuridiche. Ci sono due modi
di incidere sulle dinamiche di mercato: cambiare le norme giuridiche e
fronteggiare le parti forti con un’azione di massa. Sono le strategie che nella
seconda metà del Novecento hanno molto migliorato le posizioni dei lavoratori
dipendenti in Occidente. Funzionerebbero certamente anche per correggere il
mercato. Ma ci sono due nuovi problemi. Noi stessi, masse di consumatori
Occidentali, siamo le parti forti. Dunque dovremmo fare autocritica e cambiare
le nostre abitudini di vita, sentirci responsabili per le sofferenze che
generiamo. Ma tra le nostre condotte sul mercato e quelle delle multinazionali
non ci sono vere differenze; abbiamo interessi comuni e resistiamo nello stesso
modo e per gli stessi motivi al cambiamento; rifiutiamo di sentirci responsabili
delle sofferenze altrui che generano vantaggi per noi, ad esempio consentendoci
di acquistare a prezzi molto bassi merci di uso quotidiano. Inoltre,
poiché i problemi sono globali, dovremmo muoverci su scala globale. Invece
pensiamo di risolvere i nostri guai rinchiudendoci, serrandoci dietro antiquate
frontiere, in sistemi politici che non hanno la forza di cambiare le norme
giuridiche che regolano il mercato.
Quelli a cui ho accennato sono
problemi che hanno un valore anche religioso, perché riguardano la
sopravvivenza dell’umanità e la sofferenze di immense moltitudini. Questo
richiede di occuparsene anche nelle nostre collettività di fede, arricchendo di
molto il nostro pensiero sociale, per comprendere meglio le società del nostro
tempo, e ponendo al centro delle nostre attività. Adesso la dottrina
sociale è un settore complementare, non ritenuto essenziale
nella formazione alla fede, in cui infatti se ne parla poco e quindi se ne sa
poco. In parrocchia tutto ruota intorno a liturgia, catechesi, carità, i
classici settori dell’impegno religioso. Il ramo “Presenza nel
mondo” è poco curato, in particolare dove si teme molto di
esserne contaminati. “Grande è la posta in gioco”, scrive l’autore
della Laudato si’, “ e abbiamo bisogno di controllarci e di
educarci l’un l’altro” [n.214]. E anche: “Tutte le
comunità cristiane hanno un ruolo importante da compiere in questa educazione”.
Quando cominciare? Da molto
presto e dai molto piccoli. La realtà del mercato globale irrompe
veramente precocemente nella vita delle persone: quando a un bimbo capita tra
le mani il suo primo telefono cellulare egli inizia ad essere un attore nel
mercato globale. La prima educazione è quella di capire quanta sofferenza
generano le nostre azioni quotidiane e quanta sofferenza inglobano le cose che
sono sul mercato ed averne compassione. Sembra facile, ma non lo è, perché ad
un certo punto sono necessarie delle rinunce. E’ il nostro stile di vita di
Occidentali che va mutato. E’ qualcosa per cui tutti i presidenti statunitensi,
senza eccezione, si sono detti disposti a far guerra. In Europa è un po’
diverso perché la classe dirigente della politica europea in genere di certe
cose ad un certo punto si è cominciata a vergognare, questo perché in Europa ci
si è tanto combattuti per difendere stili di vita contrastanti che divenivano
incompatibili perché tenuti a poche distanze gli uni dagli altri, per cui, ad
un certo punto, non si poteva proprio fare a meno di eliminare gli altri. Le
due guerre mondiali del Novecento ci hanno molto cambiato in Europa, si è
iniziato ad avere orrore di tutta quella violenza. Il processo di
unificazione europea è stata l’espressione della concreta volontà di cambiare
le cose. Quando lo si è voluto, e finché lo si è voluto, ci si è riusciti.
L’Europa, una politica continentale, ha le dimensioni giuste per incidere
sul mercato globale.
Di seguito incollo un brano
molto importante della Laudato si’. Lavoriamoci un po’ su in questo
lungo ponte primaverile che si conclude con la festa della Liberazione, un
compito sempre attuale, di generazione in generazione.
Mario Ardigò - Azione Cattolica
in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
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IV. POLITICA ED ECONOMIA IN DIALOGO
PER LA PIENEZZA UMANA
189. La politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve
sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia. Oggi,
pensando al bene comune, abbiamo bisogno in modo ineludibile che la politica e
l’economia, in dialogo, si pongano decisamente al servizio della vita,
specialmente della vita umana. Il salvataggio ad ogni costo delle banche,
facendo pagare il prezzo alla popolazione, senza la ferma decisione di rivedere
e riformare l’intero sistema, riafferma un dominio assoluto della finanza che
non ha futuro e che potrà solo generare nuove crisi dopo una lunga, costosa e
apparente cura. La crisi finanziaria del 2007-2008 era l’occasione per
sviluppare una nuova economia più attenta ai principi etici, e per una nuova
regolamentazione dell’attività finanziaria speculativa e della ricchezza
virtuale. Ma non c’è stata una reazione che abbia portato a ripensare i criteri
obsoleti che continuano a governare il mondo. La produzione non è sempre
razionale, e spesso è legata a variabili economiche che attribuiscono ai
prodotti un valore che non corrisponde al loro valore reale. Questo determina
molte volte una sovrapproduzione di alcune merci, con un impatto ambientale non
necessario, che al tempo stesso danneggia molte economie regionali. La
bolla finanziaria di solito è anche una bolla produttiva. In definitiva, ciò
che non si affronta con decisione è il problema dell’economia reale, la quale
rende possibile che si diversifichi e si migliori la produzione, che le imprese
funzionino adeguatamente, che le piccole e medie imprese si sviluppino e creino
occupazione, e così via.
190. In questo contesto bisogna
sempre ricordare che «la protezione ambientale non può essere assicurata solo
sulla base del calcolo finanziario di costi e benefici. L’ambiente è uno di
quei beni che i meccanismi del mercato non sono in grado di difendere o di
promuovere adeguatamente». Ancora una volta, conviene evitare una
concezione magica del mercato, che tende a pensare che i problemi si risolvano
solo con la crescita dei profitti delle imprese o degli individui. È realistico
aspettarsi che chi è ossessionato dalla massimizzazione dei profitti si fermi a
pensare agli effetti ambientali che lascerà alle prossime generazioni?
All’interno dello schema della rendita non c’è posto per pensare ai ritmi della
natura, ai suoi tempi di degradazione e di rigenerazione, e alla complessità
degli ecosistemi che possono essere gravemente alterati dall’intervento umano.
Inoltre, quando si parla di biodiversità, al massimo la si pensa come una
riserva di risorse economiche che potrebbe essere sfruttata, ma non si
considerano seriamente il valore reale delle cose, il loro significato per le
persone e le culture, gli interessi e le necessità dei poveri.
191. Quando si pongono tali
questioni, alcuni reagiscono accusando gli altri di pretendere di fermare
irrazionalmente il progresso e lo sviluppo umano. Ma dobbiamo convincerci che
rallentare un determinato ritmo di produzione e di consumo può dare luogo a
un’altra modalità di progresso e di sviluppo. Gli sforzi per un uso sostenibile
delle risorse naturali non sono una spesa inutile, bensì un investimento che
potrà offrire altri benefici economici a medio termine. Se non abbiamo
ristrettezze di vedute, possiamo scoprire che la diversificazione di una
produzione più innovativa e con minore impatto ambientale, può essere molto
redditizia. Si tratta di aprire la strada a opportunità differenti, che non
implicano di fermare la creatività umana e il suo sogno di progresso, ma
piuttosto di incanalare tale energia in modo nuovo.
192. Per esempio, un percorso di
sviluppo produttivo più creativo e meglio orientato potrebbe correggere la
disparità tra l’eccessivo investimento tecnologico per il consumo e quello
scarso per risolvere i problemi urgenti dell’umanità; potrebbe generare forme
intelligenti e redditizie di riutilizzo, di recupero funzionale e di riciclo;
potrebbe migliorare l’efficienza energetica delle città; e così via. La
diversificazione produttiva offre larghissime possibilità all’intelligenza
umana per creare e innovare, mentre protegge l’ambiente e crea più opportunità
di lavoro. Questa sarebbe una creatività capace di far fiorire nuovamente la
nobiltà dell’essere umano, perché è più dignitoso usare l’intelligenza, con
audacia e responsabilità, per trovare forme di sviluppo sostenibile ed equo,
nel quadro di una concezione più ampia della qualità della vita. Viceversa, è
meno dignitoso e creativo e più superficiale insistere nel creare forme di
saccheggio della natura solo per offrire nuove possibilità di consumo e di
rendita immediata.
193. In ogni modo, se in alcuni
casi lo sviluppo sostenibile comporterà nuove modalità per crescere, in altri
casi, di fronte alla crescita avida e irresponsabile che si è prodotta per molti
decenni, occorre pensare pure a rallentare un po’ il passo, a porre alcuni
limiti ragionevoli e anche a ritornare indietro prima che sia tardi. Sappiamo
che è insostenibile il comportamento di coloro che consumano e distruggono
sempre più, mentre altri ancora non riescono a vivere in conformità alla
propria dignità umana. Per questo è arrivata l’ora di accettare una certa
decrescita in alcune parti del mondo procurando risorse perché si possa
crescere in modo sano in altre parti. Diceva Benedetto XVI che «è necessario
che le società tecnologicamente avanzate siano disposte a favorire
comportamenti caratterizzati dalla sobrietà, diminuendo il proprio consumo di
energia e migliorando le condizioni del suo uso».
194. Affinché sorgano nuovi
modelli di progresso abbiamo bisogno di «cambiare il modello di sviluppo
globale», la qual cosa implica riflettere responsabilmente «sul
senso dell’economia e sulla sua finalità, per correggere le sue disfunzioni e
distorsioni». Non basta conciliare, in una via di mezzo, la cura per la
natura con la rendita finanziaria, o la conservazione dell’ambiente con il
progresso. Su questo tema le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel
disastro. Semplicemente si tratta di ridefinire il progresso. Uno sviluppo
tecnologico ed economico che non lascia un mondo migliore e una qualità di vita
integralmente superiore, non può considerarsi progresso. D’altra parte, molte
volte la qualità reale della vita delle persone diminuisce – per il
deteriorarsi dell’ambiente, la bassa qualità dei prodotti alimentari o
l’esaurimento di alcune risorse – nel contesto di una crescita dell’economia.
In questo quadro, il discorso della crescita sostenibile diventa spesso un
diversivo e un mezzo di giustificazione che assorbe valori del discorso ecologista
all’interno della logica della finanza e della tecnocrazia, e la responsabilità
sociale e ambientale delle imprese si riduce per lo più a una serie di azioni
di marketing e di immagine.
195. Il principio della
massimizzazione del profitto, che tende ad isolarsi da qualsiasi altra
considerazione, è una distorsione concettuale dell’economia: se aumenta la
produzione, interessa poco che si produca a spese delle risorse future o della
salute dell’ambiente; se il taglio di una foresta aumenta la produzione,
nessuno misura in questo calcolo la perdita che implica desertificare un
territorio, distruggere la biodiversità o aumentare l’inquinamento. Vale a dire
che le imprese ottengono profitti calcolando e pagando una parte infima dei
costi. Si potrebbe considerare etico solo un comportamento in cui «i costi
economici e sociali derivanti dall’uso delle risorse ambientali comuni siano
riconosciuti in maniera trasparente e siano pienamente supportati da coloro che
ne usufruiscono e non da altre popolazioni o dalle generazioni future». La
razionalità strumentale, che apporta solo un’analisi statica della realtà in
funzione delle necessità del momento, è presente sia quando ad assegnare le
risorse è il mercato, sia quando lo fa uno Stato pianificatore.
196. Qual è il posto della
politica? Ricordiamo il principio di sussidiarietà, che conferisce libertà per
lo sviluppo delle capacità presenti a tutti i livelli, ma al tempo stesso esige
più responsabilità verso il bene comune da parte di chi detiene più potere. È
vero che oggi alcuni settori economici esercitano più potere degli Stati
stessi. Ma non si può giustificare un’economia senza politica, che sarebbe
incapace di propiziare un’altra logica in grado di governare i vari aspetti
della crisi attuale. La logica che non lascia spazio a una sincera
preoccupazione per l’ambiente è la stessa in cui non trova spazio la
preoccupazione per integrare i più fragili, perché «nel vigente modello “di
successo” e “privatistico”, non sembra abbia senso investire affinché quelli che
rimangono indietro, i deboli o i meno dotati possano farsi strada nella vita».
197. Abbiamo bisogno di una
politica che pensi con una visione ampia, e che porti avanti un nuovo approccio
integrale, includendo in un dialogo interdisciplinare i diversi aspetti della
crisi. Molte volte la stessa politica è responsabile del proprio discredito, a
causa della corruzione e della mancanza di buone politiche pubbliche. Se lo
Stato non adempie il proprio ruolo in una regione, alcuni gruppi economici
possono apparire come benefattori e detenere il potere reale, sentendosi
autorizzati a non osservare certe norme, fino a dar luogo a diverse forme di
criminalità organizzata, tratta delle persone, narcotraffico e violenza molto
difficili da sradicare. Se la politica non è capace di rompere una logica
perversa, e inoltre resta inglobata in discorsi inconsistenti, continueremo a
non affrontare i grandi problemi dell’umanità. Una strategia di cambiamento
reale esige di ripensare la totalità dei processi, poiché non basta inserire
considerazioni ecologiche superficiali mentre non si mette in discussione la
logica soggiacente alla cultura attuale. Una politica sana dovrebbe essere
capace di assumere questa sfida.
198. La politica e l’economia
tendono a incolparsi reciprocamente per quanto riguarda la povertà e il degrado
ambientale. Ma quello che ci si attende è che riconoscano i propri errori e
trovino forme di interazione orientate al bene comune. Mentre gli uni si
affannano solo per l’utile economico e gli altri sono ossessionati solo dal
conservare o accrescere il potere, quello che ci resta sono guerre o accordi
ambigui dove ciò che meno interessa alle due parti è preservare l’ambiente e
avere cura dei più deboli. Anche qui vale il principio che «l’unità è superiore
al conflitto».
44. Ribelli
La Preghiera
del ribelle
di Teresio Olivelli, resistente e
ribelle italiano (1916-1945)
Signore, che fra gli uomini drizzasti
la Tua Croce segno di contraddizione,
che predicasti e soffristi la rivolta dello spirito contro le perfidie e gli
interessi dominanti, la sordità inerte della massa,
a noi, oppressi da un giogo numeroso e crudele che in noi e prima di noi ha
calpestato Te fonte di libera vita,
dà la forza della ribellione.
Dio che sei Verità e Libertà, facci
liberi e intensi:
alita nel nostro proposito, tendi la nostra volontà, moltiplica le nostre
forze, vestici della Tua armatura.
Noi ti preghiamo, Signore.
Tu che fosti respinto, vituperato,
tradito, perseguitato, crocifisso, nell'ora delle tenebre ci sostenti la Tua
vittoria: sii nell'indigenza viatico, nel pericolo sostegno, conforto
nell'amarezza.
Quanto più s'addensa e incupisce
l'avversario, facci limpidi e diritti.
Nella tortura serra le nostre labbra.
Spezzaci, non lasciarci piegare.
Se cadremo fa' che il nostro sangue si
unisca al Tuo innocente e a quello dei nostri Morti a crescere al mondo
giustizia e carità.
Tu che dicesti: ``Io sono la
resurrezione e la vita'' rendi nel dolore all'Italia una vita generosa e
severa.
Liberaci dalla tentazione degli
affetti: veglia Tu sulle nostre famiglie.
Sui monti ventosi e nelle catacombe
della città, dal fondo delle prigioni, noi Ti preghiamo: sia in noi la pace che
Tu solo sai dare.
Signore della pace e degli eserciti,
Signore che porti la spada e la gioia, ascolta la preghiera di noi ribelli per
amore.
********************************************************************************
Il 23 aprile scorso, a Milano, sono stati presentati i due
libri con tutti gli scritti di Lorenzo Milani, pubblicati dall’editrice
Mondadori nella collana I Meridiani. Chi fu Lorenzo Milani? Potrete saperne di
più leggendo la sua biografia sul Web a questo indirizzo:
http://www.treccani.it/enciclopedia/lorenzo-milani-comparetti_(Dizionario-Biografico)/ .
Il Papa, in occasione
dell’evento, ha inviato un videomessaggio che trovate trascritto qui sotto.
E’ importante che un Papa ci
abbia invitato ad accostarci al pensiero di Lorenzo Milani con affetto,
come a quello di un testimone di Cristo e del Vangelo. Tenendo conto che
la Chiesa fu la prima persecutrice di Milani, in sostanza emarginandolo proprio
per ciò per cui oggi lo addita come testimone di Cristo e del Vangelo.
Le si accodarono anche altri. Milani fu processato dalla giustizia penale
italiana per un articolo scritto in risposta all'ordine del giorno dei
cappellani militari della Toscana in congedo, pubblicato dalla Nazione del 12
febbraio 1965 (p.11), in cui era scritto che essi consideravano «un insulto
alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta "obiezione di coscienza" che,
estranea al comandamento cristiano dell'amore, è espressione di viltà». Lo
trovate sul Web a questo indirizzo:
http://www.liberliber.it/mediateca/libri/m/milani/l_obbedienza_non_e_piu_una_virtu/html/milani_d.htm
Successivamente scrisse anche al
Tribunale penale che lo giudicava. Potete trovare sul Web il testo della sua
lettera all’indirizzo:
http://www.liberliber.it/mediateca/libri/m/milani/l_obbedienza_non_e_piu_una_virtu/html/milani_e.htm
Perché è importante l'invito
del Papa? Perché un Papa impersona la Chiesa di sempre. E’ tradizione che un
Papa non ne smentisca esplicitamente un altro, in particolare trattando di
personalità religiose e quindi di temi che implicano questioni di fede. Quindi
il suo giudizio rimarrà stabile.
Il Papa, all’inizio del suo videomessaggio,
ha ricordato che Milani scrisse di non volersi mai ribellare alla Chiesa. E ha
tenuto a precisare che la sua inquietudine non fu frutto di ribellione. Ed
effettivamente Milani accettò di essere confinato in una piccolissima
parrocchia di montagna dal suo vescovo. Anche da lassù la sua luce di grande
anima continuò a brillare, ispirando molti nell’indifferenza dei
più.
Nella Chiesa non si è fatti
santi se ci si ribella alla gerarchia. Dunque, il fatto che il Papa abbia
attestato che Milani non era ribelle è un buon inizio.
Ma è tanto grave ribellarsi?
Oggi è la festa della
Liberazione in cui si celebra la Resistenza storica al fascismo italiano e agli
occupanti nazisti. Eventi che si produssero come fatti di massa tra il 1943 e
il 1945. Anche prima vi furono resistenti, ma erano molto di meno. Gli italiani
furono in massa fascisti, guidati a ciò dalla loro Chiesa.
Oggi chiamiamo partigiani quei
resistenti di allora, ma loro in genere si definivano ribelli. Qui
sopra ho trascritto la Preghiera del ribelle di uno di loro, il
resistente cristiano Teresio Olivelli. Ho incollato anche la pagina di una
pubblicazione promossa dall’Olivelli e dai suoi compagni di lotta, intitolata
Il ribelle. “Non lasciarci piegare … dà la forza della
ribellione ... ascolta la preghiera di noi ribelli per amore”, così pregava
Olivelli. Celebrando la Resistenza, noi celebriamo una ribellione. Da essa è
sorta la nostra Repubblica democratica. La ribellione non era solo
rivolta, ma affermazione di principi umanitari che poi sono stati scritti nella
nostra Costituzione, come quello che il lavoro è al centro del moto di
liberazione delle masse e quindi del nostro sistema politico e
istituzionale. Celebrando la Resistenza storica, facciamo anche autocritica
perché per gli italiani il fascismo è sempre stato, ed è ancora, una forte
tentazione. Il Papato romano non ne è mai stato capace, anche se,
oggettivamente, essendosi storicamente federato con il regime fascista ed
avendo recepito parti importanti della sua ideologia, doveva considerarsi tra
gli sconfitti della guerra di resistenza. Il culmine di questo processo si
raggiunse con Achille Ratti e con la sua enciclica Il quarantennale,
del 1931, in occasione dell’anniversario dei quarant’anni dal primo documento
della moderna dottrina sociale, l’enciclica Le novità, del 1891. In
essa troviamo l’apprezzamento dell’ordinamento corporativo fascista in
particolare per “la repressione delle organizzazioni e dei conati
socialisti”.
C’è un’evidente continuità tra
la politica dei clerico-fascisti degli anni Trenta e la persecuzione di Milani
trent’anni dopo. Ma nemmeno un Papa, giuridicamente al vertice di tutto, riesce
a concedersi un’autocritica in merito. Egli, al tempo della repressione contro
Milani, era trentenne e gesuita: ha quindi l’età per farla e i gesuiti
dell'epoca furono tra i più duri e implacabili critici del Milani.
La persecuzione contro Milani
fu uno spreco umano e religioso enorme, del resto nella linea di tanti altri
casi come il suo prima di lui. Dobbiamo seguirlo nella sua mansuetudine verso
coloro che uno come Aldo Capitini, anche luigrande anima, chiamava,
ribellandosi, gerarchi religiosi? Se si fosse ribellato, non gli
sarebbe più stato consentito di fare il prete e quindi avrebbe perso i suoi ragazzi.
Sarebbe stato un insegnante senza più scolari. Nessuna grande anima deve
essere più posta in questo dilemma. Penso che occorra avere la forza di
ribellarsi a cose come queste.
“L’obbedienza non è più una virtù, ma
la più subdola delle tentazioni” scrisse però Milani ai sui giudici:
A Norimberga e a
Gerusalemme son stati condannati uomini che avevano obbedito.
L'umanità intera consente che
essi non dovevano obbedire, perché c'è una legge che gli uomini non hanno forse
ancora ben scritta nei loro codici, ma che è scritta nel loro cuore. Una gran
parte dell'umanità la chiama legge di Dio, l'altra parte la chiama legge della
Coscienza. Quelli che non credono né nell'una né nell'altra non sono che
un'infima minoranza malata. Sono i cultori dell'obbedienza cieca.
Condannare la nostra lettera
equivale a dire ai giovani soldati italiani che essi non devono avere una
coscienza, che devono obbedire come automi, che i loro delitti li pagherà chi
li avrà comandati.
E invece bisogna dir loro che
Claude Eatherly, il pilota di Hiroshima, che vede ogni notte donne e bambini
che bruciano e si fondono come candele, rifiuta di prender tranquillanti, non
vuol dormire, non vuol dimenticare quello che ha fatto quand'era «un bravo
ragazzo, un soldato disciplinato» (secondo la definizione dei suoi superiori)
«un povero imbecille irresponsabile» (secondo la definizione che dà lui di sé
ora).
(carteggio di Claude Eatherly e
Günter Anders - Einaudi 1962).
Ho poi studiato a teologia
morale un vecchio principio di diritto romano che anche voi accettate. Il
principio della responsabilità in solido. Il popolo lo conosce sotto forma di
proverbio: «Tant'è ladro chi ruba che chi para il sacco».
Quando si tratta di due
persone che compiono un delitto insieme, per esempio il mandante e il sicario,
voi gli date un ergastolo per uno e tutti capiscono che la responsabilità non
si divide per due.
Un delitto come quello di
Hiroshima ha richiesto qualche migliaio di corresponsabili diretti: politici,
scienziati, tecnici, operai, aviatori.
Ognuno di essi ha tacitato la
propria coscienza fingendo a se stesso che quella cifra andasse a denominatore.
Un rimorso ridotto a millesimi non toglie il sonno all'uomo d'oggi.
E così siamo giunti a
quest'assurdo che l'uomo delle caverne se dava una randellata sapeva di far
male e si pentiva. L'aviere dell'era atomica riempie il serbatoio
dell'apparecchio che poco dopo disintegrerà 200.000 giapponesi e non si pente.
A dar retta ai teorici
dell'obbedienza e a certi tribunali tedeschi, dell'assassinio di sei milioni di
ebrei risponderà solo Hitler. Ma Hitler era irresponsabile perché pazzo. Dunque
quel delitto non è mai avvenuto perché non ha autore.
C'è un modo solo per uscire da
questo macabro gioco di parole.
Avere il coraggio di dire ai
giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l'obbedienza non è ormai più una
virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far
scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano
ognuno l'unico responsabile di tutto.
A questo patto l'umanità potrà
dire di aver avuto in questo secolo un progresso morale parallelo e
proporzionale al suo progresso tecnico.
Si fa un esame di
coscienza e ci si avvede del tanto conformismo che impronta le nostre vite.
Quante cose sarebbero potute andare diversamente se ci fossimo veramente ribellati,
non solo a parole. E invece per quieto vivere spesso ci si fa da parte. Così,
grandi anime come il Milani finiscono emarginate. Che sarebbe stato se si
fosse insorti in massa, in religione, per il trattamento che gli fu riservato?
“Dacci la forza della ribellione!”, bisognerebbe pregare in certi casi.
45. Il Cielo in una stanza
Il cielo in una stanza [di Gino Paoli]
Quando sei qui
con me
questa stanza
non ha più pareti
ma alberi,
alberi infiniti:
quando sei qui
vicino a me
questo soffitto
viola
no, non esiste
più.
Io vedo il
cielo sopra noi
che restiamo
qui
abbandonati
come se non ci
fosse più
niente, più
niente al mondo.
Suona
un'armonica:
mi sembra un
organo
che vibra per
te e per me
su
nell'immensità del cielo.
Per te, per me:
nel cielo, nel
cielo.
La
visione del Cielo è strettamente legata alle comunità in cui si vive. La
religione è stata sempre un fatto sociale. Comunità chiuse pensano Cieli
piccoli, a misura loro, e questo anche se cercano di comprendervi
l’infinito, tutta la storia umana e la produzione e destino dell’Universo, di
tutto ciò che esiste.
La
cultura aiuta a spingersi più in là, nel tempo e nello spazio. Anche le
religioni hanno loro culture e, anzi, da un certo punto di vista sono culture. Questo può
preoccuparci perché le culture evolvono e ad un certo punto finiscono. Finirà
anche la nostra religione? Attualmente è in grande ripresa in tutto il mondo,
fuorché in Europa, dove si è raggiunta una visione più realistica delle cose,
essenzialmente riuscendosi a fare memoria sincera di una storia più lunga. La
nostra religione ha avuto un inizio e poi è divenuta dominante intorno al
Mediterraneo e anche un po' più in là in Europa, nel Quarto secolo, quando le
religioni più antiche furono vietate per decreto imperiale. Si è sviluppata con
molta violenza. Ad un certo punto è divenuta la religione dei dominatori del
mondo, deicolonizzatori: si è
diffusa nel mondo seguendo il dominio degli Europei. C’è stata un momento
in cui non ha avuto bisogno della violenza per affermarsi? Le prime nostre
collettività di fede, che ai tempi nostri si vuole idealizzare abbastanza,
erano piuttosto bellicose, per ciò che ne sappiamo, e non ne sappiamo molto, a
parte le aspre controversie ideologiche che le caratterizzarono fortemente. E
poi non è che sia andata molto meglio. La nostra religione però si sta
attualmente trasformando in una sua versione più pacifica, che vorrebbe
pacificare il mondo e in questo incontra coloro che, anche al di fuori di
concezioni religiose, ritengono che questa sia l’unica via della sopravvivenza
del genere umano. Del resto questa evoluzione si accorda con la dottrina
secondo cui il fondamento di tutto è agàpe,
la benevolenza che fa posto a tutti.
Ma
al dunque, nella pratica corrente delle nostre vite, non ci è veramente utile
spingere tanto in là, in avanti e indietro, il pensiero, se non per ciò che ci
serve per non ripetere errori del passato. Più utile, ed anzi
imprescindibile, è cercare di capire il mondo in cui viviamo, e ciò richiede
di arrivare con lo sforzo di conoscenza molto al di là dei confini del
nostro ambiente sociale quotidiano, fino ad abbracciare tutto il globo. La
nostra organizzazione religiosa è divenuta veramente mondiale e ci può aiutare
in questo. Nelle università pontificie romane c'è gente di tutta la Terra.
Basta che guardiamo le scritte “made in…” che sono impresse negli oggetti di uso
quotidiano per convincerci che comprendere il mondo ci è divenuto
indispensabile. Questo significa un particolare impegno di apertura,
perché, in un certo senso, il mondo sta arrivando molto vicino a noi,
addirittura tra noi nel
grande rimescolamento di popoli che stiamo vivendo, un fenomeno epocale e molto
significativo. Avere a che fare con persone vere a volte ci sorprende, perché
gli altri spesso non sono come ce li immaginiamo, anche in religione. In un certo senso, con gli
altri che vengono tra noi, il cielo, il mondo, la storia, l’umanità nel suo
complesso, vengono veramente nelle nostre stanze domestiche. Così il nostro mondo cambia e noi con
esso. Se si studia la storia si capisce che è sempre stato così e, allora, può
prevedersi che così sarà sempre, finché l’umanità avrà una storia. Nulla di
nuovo sotto il sole, si dice, ed è anche scritto in un libro biblico: è
sapienza molto antica, anche se, facendone personale esperienza, sembra nuova.
Ma c’è qualcosa che non cambia, che resterà? Le Scritture ci dicono che sarà l’agàpe: una buona prospettiva per una
fede come la nostra che vorrebbe essere fondata sull’agape. Il Cielo, in definitiva, è agàpe. E tutta la nostra religione ha come scopo di
fare entrare il Cielo nelle nostre stanze, quindi molto vicino a noi. E’
immaginifica illusione? Vivendo la
religione (non accostandola nella realtà virtuale) si può fare l’esperienza che non lo è. In Italia è più
comodo che da altre parti nel mondo. Si esce di casa e c'è la parrocchia.
Bastano pochi passi e si è dentro. Venite
e vedete.
46. La
“Politica” con la maiuscola
Nel discorso del Papa all’Azione
Cattolica del 30 aprile scorso i commentatori hanno notato l’invito a fare Politica con la maiuscola. Non
sorprende, perché la Chiesa cattolica è il principale agente politico del
momento. In passato lo è stato il Papato, e non è la stessa cosa. La differenza
sta nella collaborazione dei laici. L’Azione cattolica, dalle sue origini, si è
specializzata nel fare proprio questo. Ma, è importante ricordarlo, l’Azione
Cattolica non ha 150 anni. Essa non deriva dalle organizzazioni di azione sociale
ispirata dall’ideologia del papato sorta da metà Ottocento e confluite
dell’Opera dei Congressi, anzi sorge, per così, dire sulle loro ceneri. Nasce
infatti per iniziativa del papato romano nel 1905, dopo lo scioglimento
d’autorità di quelle, per emergere di correnti democratiche, in particolare di
quella di democrazia cristiana che ebbe tra i suoi principali esponenti il
prete Romolo Murri, successivamente scomunicato. Si era nel pieno della
persecuzione anti-modernista. Il modernismo era un movimento religioso che, a livello europeo, proponeva un aggiornamento nelle concezioni religiose. In Italia le
correnti democratiche di azione sociale ispirate dalla fede furono
sbrigativamente assimilate al modernismo
e con essa condannate. Questo perché, all’epoca, in principi dell’azione
sociale erano ritenuti integralmente compresi nella dottrina, quindi negli
insegnamenti normativi, del papato romano, senza alcuna autonomia dei laici.
Chi la manifestava era considerato eretico. L’Azione Cattolica nacque quando il
papato romano intese che la politica fino ad allora seguita, di intransigente rifiuto del sistema politico democratico
liberale che reggeva il Regno d’Italia, non aveva futuro. Organizzò quindi una
propria forza politica e sociale profondamente integrata, e quindi controllata,
dalla gerarchia. Di un’organizzazione simile non vi sono procedenti.
Naturalmente non c’era solo questo nell’Azione cattolica, perché in essa è
stata molto importante la formazione alla fede e il suo approfondimento. Ma l’azione dell’Azione Cattolica era fondamentalmente
sociale e politica. Essa seguì sempre gli orientamenti politici del papato
romano, sia nella compromissione con il fascismo, sia nello sviluppo
democratico. Dal 1945, con la mediazione di Alcide De Gasperi, l’Azione
Cattolica si integrò profondamente con il partito
cristiano, la Democrazia Cristiana. La politica di quest’ultima risultava
da un compromesso tra il papato romano e il movimento dei cattolico democratici
italiani, che aveva partecipato al rovesciamento del regime fascista con cui il
papato romano si era federato, con i Patti Lateranensi conclusi nel 1929 con il
Regno d’Italia dominato dal fascismo mussoliniano. La Democrazia Cristiana ebbe
necessità delle masse cattoliche organizzate nell’Azione Cattolica per
affermare la sua egemonia nel sistema politico democratico italiano. Ma
l’Azione Cattolica era anche la sua principale scuola di formazione alla
politica. In questa stagione, ai politici
cattolici venne riconosciuta dal
papato romano un maggiore autonomia nell’applicazione
delle soluzioni che il papato romano
riteneva giuste per l’Italia. Questo assetto terminò a seguito del Concilio
Vaticano 2° (1962-1965), quando i laici, riconosciuti come competenti nelle vicende
sociali e politiche, indicate con l’espressione temporali, vale a dire soggette a continui mutamenti con i
progredire del tempo, distinte da quelle spirituali,
ritenute eterne, vennero sollecitati
a collaborare alla definizione dei principi
di azione sociale. Questo lavoro avrebbe richiesto di trasformare le
strutture sociali di base della Chiesa anche il laboratorio di pensiero e
azione politica, dove i diversi orientamenti potessero confrontarsi. L’Azione
Cattolica, verso la fine degli anni ’60 e sotto la presidenza di Vittorio Bachelet,
rivide la propria organizzazione per svolgere al meglio questa opera sociale.
Il nuovo corso durò circa dieci
anni. L’autonomia riconosciuta al laicato ne comportò la frammentazione, in
particolare tra le correnti democratiche e quelle neo-intransigenti. Non si riuscì mai a far posto,
nell’organizzazione ecclesiastica ancora di tipo feudale, a laici autonomi.
Tutto fu sospeso, come congelato, e cominciò quella che ho definito era glaciale. Fu il tempo in cui il
papato romano si federò sostanzialmente con l’Occidente capitalista. Stavano
crollando i regimi comunisti che dominavano nell’Europa orientale: si ritenne
che questa fosse la scelta migliore. Il papato romano ebbe una svolta neo-intransigente per quanto riguarda la politica specificamente
italiana, che stava manifestando di dirigersi in direzione contraria. Il papato
si avvalse maggiormente delle componenti neo-intransigenti
del laicato, piuttosto che
dell’Azione Cattolica. Quest’ultima ha resistito fino all’ultima svolta del
papato romano, nel 2013, perché profondamente radicata nella società italiana,
in particolare tra i ceti colti. Ha continuato ad essere una delle principali
scuole italiane di politica e di azione
sociale in genere e ad esprimere un ceto politico ai vertici dello Stato.
Con il regno di papa Francesco,
iniziato nel 2013, i fedeli laici, senza più considerare principalmente quelli
italiani, sono stati esortati ad una nuova azione politica per salvare l’intero
mondo dalla rovina. E’ questa la Politica
con la maiuscola, i cui principi
sono sintetizzati nell’enciclica Laudato
si’ del 2015. Quest’ultimo documento recepisce le conclusioni di diverse
scienze contemporanee, sull’ecologia, sull’economia e sulla politica. Non si
tratta propriamente più di una dottrina, ma di una prospettazione che,
innanzi tutto, deve essere confermata dall’analisi, perché la situazione
mondiale è in continua e rapida evoluzione, e poi sviluppata. Questo sviluppo,
che comprende anche i principi di azione sociale, è il campo proprio dei laici. Le componenti neo-intransigenti, mondi chiusi e in lotta ciò che è al loro
esterno, non sono adatte a questo lavoro. Solo l’Azione Cattolica e altre
componenti laicali che seguono il suo metodo, il dialogo e la mediazione
culturale, lo sono. Questo il senso dell’appello del Papa.
47. La questione democratica
Un altro Campo, dove tra il giovane Clero si va trovando pur troppo
ansia ed eccitamento a professare e propugnare la esenzione da ogni giogo di
legittima autorità, è quello della cosi detta azione popolare cristiana. Non
già, o Venerabili Fratelli, perché questa azione sia in sé riprovevole o porti
di sua natura al disprezzo dell'autorità; ma perché non pochi, fraintendendone
la natura, si sono volontariamente allontanati dalle norme che a rettamente
promuoverla furono prescritte dal Predecessore Nostro d'immortale memoria [il papa Vincenzo Gioacchino Pecci - Leone
13°]
[…]
Del resto, Venerabili Fratelli, a
porre un argine efficace a questo fuorviare di idee ed a questo dilatarsi di
spirito di indipendenza, colla Nostra autorità proibiamo d'oggi innanzi
assolutamente a tutti i chierici e sacerdoti di dare il nome a qualsiasi
società che non dipenda dai Vescovi. In modo più speciale, nominatamente,
proibiamo ai medesimi, sotto pena pei chierici di inabilità agli Ordini sacri e
pei sacerdoti di sospensione ipso facto a divinis, di
iscriversi alla Lega democratica nazionale, il cui programma fu
dato da Roma-Torrette il 20 ottobre 1905, e lo Statuto, pur senza nome
dell'autore, fu nell'anno stesso stampato a Bologna presso la Commissione
provvisoria.
[dall’enciclica Con animo pieno (di salutare timore) diffusa nel 1906 dal
papa Giuseppe Sarto - Pio 10°]
Quando
si parla di “150 anni di storia dell’Azione Cattolica” non si fa
memoria fedele, e quindi purificata, di quella storia: se ne fa una
versione emendata dei tratti più duri. L’Azione cattolica
nasce nel 1905 nel mezzo della persecuzione antimodernista, che oggi stupisce
per la sua indiscriminata violenza. Il modernismo fu essenzialmente un movimento
intellettuale che proponeva un aggiornamento della cultura religiosa. Fu
colpito perché violava il monopolio che in questo campo era rivendicato dal
papato romano nelle cose spirituali. In Italia venne confuso con le correnti
democratiche del movimento cattolico, che contrastavano invece il monopolio
politico all’epoca rivendicato dal papato romano. Esse avevano una forte
impronta sociale, per venire incontro alle classi lavoratrici, in particolare
nel settore dell’agricoltura in Emilia Romagna, ed erano animate da molti
giovani preti. Uno di essi fu Romolo Murri, fondatore nel 1896 della
Federazione Universitaria Cattolica Italiana - FUCI, poi integrata nell’Azione
Cattolica pur mantenendo autonomia organizzativa, e nel 1905 della Lega
Democratica Nazionale, che può essere considerato il primo partito politico
di ispirazione religiosa. La reazione disciplinare del papato romano colpì
aspramente le correnti democratiche del movimento cattolico assimilandole al
modernismo, quindi ad un movimento considerato come eretico. Ma l’eresia dei
cattolico-democratici era fondamentalmente la loro pretesa di indipendenza dal
papato romano nelle questioni politiche e il loro parteggiare per le classi più
umili della società.
La diffidenza
del papato romano per i processi democratici lo portò poi, in Italia, a
compromettersi con il fascismo, dopo aver consentito, molto cautamente, con
molte riserve e vietando denominazioni come democrazia cristiana e
simili, esperimenti di politica democratica tra il 1912 e il 1926. La
disfatta del fascismo lo costrinse ad accettare la collaborazione dei
cattolico-democratici, i quali, formatisi in buona parte nelle organizzazioni
intellettuali dell’Azione Cattolica, la FUCI e il Movimento Laureati, avevano
partecipato alla guerra di Resistenza. Esso quindi accettò, non senza riserve,
la proposta politica di Alcide De Gasperi.
Negli anni
’60, la svolta impressa dal Concilio Vaticano 2° nei rapporti con le società
civili, consentì lo sviluppo di processi democratici nel movimento cattolico
nazionale, in particolare nell’Azione Cattolica, la quale, con il nuovo statuto
del 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, volle
definirsi palestra di democrazia. L’accettazione senza riserve
della democrazia politica da parte del papato romano risale però solo al 1991,
con l’enciclica Il Centenario, di Karol Wojtyla - Giovanni Paolo
2°. Non vi sono però molte sedi, in religione, per fare pratica di democrazia,
al di fuori dell’Azione Cattolica. In particolare, non la si fa, in genere,
nelle parrocchie. L’impegno politico richiesto oggi del papato romano, la
richiederebbe. Infatti non si tratta più di preservare il potere politico del
papato in Italia, ma, addirittura, di salvare il mondo, progettando un nuovo
modello di sviluppo economico. Questo esige di collaborare con altre componenti
sociali e lo si può fare solo con metodo democratico, quello basato sul
dialogo. E l’esortazione al dialogo è stata al centro del recente messaggio di
papa Francesco all’Azione Cattolica.
Dal papato romano
non è mai venuta alcuna autocritica per la lunga persecuzione antidemocratica,
ma essa è necessaria per chi voglia procedere con metodo democratico. L’idea di
democrazia non deve più essere accostata a quella di indisciplina e addirittura
di eresia. Questo comporta un processo di riforma, che non verrà dall’alto per
i limiti intrinseci all’organizzazione feudale delle nostre organizzazioni
religiose. Esso può invece cominciare ad essere sperimentato dal basso,
su scala più piccola, per diffondersi ed estendersi in ciò che di buono
produrrà. Il primo passo è di fare tirocinio di democrazia nelle decisioni
delle esperienze sociali di prossimità, a tutte le età, fin da molto piccoli.
48. Informazioni sulla democrazia.
48.1. La democrazia è una forma di
organizzazione della società in cui si vuole realizzare un’ampia partecipazione
alle decisioni comuni.
Democrazia è
una parola greca che si compone di altre due parole greche: dèmos,
che significa popolo, e cràtos, che significa potere.
Dunque significa il potere del popolo.
Gli antichi greci furono tra i
primi a ragionare sul potere sociale.
Contrapponevano la democrazia,
il potere dei più, alla monarchia, il potere di uno solo, e
alla oligarchia, il potere di pochi.
Anche in democrazia i capi sono
pochi, ma devono rispondere ai più, non hanno un potere illimitato e possono
essere periodicamente sostituiti.
Ciò che distingue una
democrazia da una oligarchia è dunque la possibilità di critica sociale
e l’esistenza di regole che limitino il
potere dei capi e ne prevedano la periodica sostituzione con metodi che
coinvolgano i più.
Schematicamente: in una
democrazia il potere tende a salire dal basso, perché i più possono scegliere i
pochi che saranno i loro capi; in una oligarchia il potere scende dall’alto,
perché i pochi che comandano scelgono i loro successori e quelli che
comanda ai livelli inferiori.
Ogni democrazia, degenerando,
tende a diventare una oligarchia, mentre ogni oligarchia è insidiata dai
processi democratici, così come ogni monarchia.
Nelle società complesse non
esistono vere monarchie: queste ultime, a ben vedere, sono in genere delle
oligarchie dinastiche, quindi basate su una rete di famiglia, per cui il potere
supremo rimane tra parenti che se lo trasmettono di generazione in generazione.
Un altro tipo di oligarchia è
la ierocrazia (un'altra parola greca composta da ieròs,
che significa sacro, e da cràtos): in essa i capi
ritengono di essere stati scelti in modo soprannaturale per fare da tramite tra
il Cielo e il mondo umano.
Attualmente la nostra Chiesa
è, dal punto di vista dell’organizzazione del potere, una oligarchia-ierocrazia
in cui si stanno sviluppando processi democratici.
La Repubblica italiana è
invece attualmente una democrazia in cui si stanno sviluppando processi
oligarchici: questa è una tendenza che è in atto in tutto il mondo, salvo che
in pochi stati.
Paradossalmente le monarchie
dell’Europa settentrionale sono i sistemi politici in cui i processi
democratici sono più attivi e al sicuro. La degenerazione oligarchica è
segnalata dalla restrizione della possibilità di critica sociale, ad esempio di
quella giornalistica, dell’ampliamento in durata ed estensione dei poteri dei
capi e dal contemporaneo indebolirsi dei limiti a questi poteri, ad esempio
della possibilità di ricorrere in giudizio contro le loro decisioni, e
dalla difficoltà della periodica sostituzione di chi comanda ai vertici
supremi.
Le monarchie e le oligarchie
in genere cadono a seguito di processi rivoluzionari, più o meno violenti. Le
democrazie possono evolvere in oligarchie senza atti formalmente rivoluzionari.
Queste informazioni vengono
date di solito agli studenti all’inizio dei corsi di Legge, Scienze politiche e
Sociologia, ma dovrebbero rientrare nel patrimonio culturale di tutti i
cittadini. Se ne dovrebbe parlare anche in parrocchia, se si vuole che prepari
i laici di fede a svolgere in società i compiti impegnativi indicati
nell’enciclica Laudato si’.
48.2 Ogni forma di organizzazione
sociale cambia continuamente. Questa è la lezione che ci viene dallo studio dei
fatti umani, fin da quelli più antichi.
Possiamo farci un’idea di come si era in tempi molto lontani studiando
le società umane meno evolute che ancora ci sono e che verosimilmente vivono
come i primitivi.
L’evoluzione delle società umane è stata favorita dalla conquista del
linguaggio e soprattutto da quella della scrittura. Con la produzione di
documenti scritti inizia la storia umana.
A quel punto le società erano già piuttosto complesse.
Dal
punto di vista biologico discendiamo da esseri viventi sociali. Come erano i
nostri progenitori non umani? Si pensa che fossero simili alle scimmie
antropomorfe (parola che significa: con
aspetti fisici e movenze simili a quelle umane) che vivono in gruppi sociali
dominati da un maschio che si accoppia con molte femmine e al quale altri
maschi sono sottomessi. L’evoluzione biologica è sociale ha reso possibile
organizzazioni più complesse, dominate da oligarchie di maschi o, più
raramente, di femmine. Tra i maschi probabilmente contavano di più i cacciatori
e i guerrieri e gli anziani, questi ultimi perché sapevano come andavano le
cose del mondo sulla base di una lunga esperienza. Nelle società primitive
contemporanee i capi sono anche mediatori con le divinità. Fin dalle origini
probabilmente era così. Gli esseri umani capivano di essere dominati da potenze
non umane, innanzi tutto quelle della natura, e le deificavano. Per rendersele
propizie si escogitarono dei riti, delle cerimonie simboliche, che avevano bisogno
di chi compisse le azioni prescritte: questo era il compito dei sacerdoti. I
re, le figure dominanti tra gli oligarchi, erano in genere sacerdoti. Fin dalle
origini troviamo quindi il potere connesso con la religione. Uno dei compiti
degli oligarchi, e i particolare dei re, era quello di risolvere le
controversie civili e religiose: questo produsse una giurisprudenza, vale a
dire una tradizione nelle decisioni con cui si risolvevano le liti, connotata
religiosamente. C’era un ordine nell’universo, di carattere sacro perché non in dominio umano, e, nel caso
venisse turbato, occorreva rimediare per ripristinarlo. La religione e il diritto servivano a questo e venivano
somministrati da giudici/sacerdoti. A ben vedere qualcosa delle origini rimane
anche nelle contemporanee ideologie religiose e giuridiche e questa è una
costante nelle cose umane, sia di quelle biologiche che sociali.
Ai
tempi nostri si ha talvolta l’idea che le società umani siano radicate in certi posti. Questo è uno sviluppo politico relativamente
recente nella storia umana, che si è avuto probabilmente con lo sviluppo
dell’agricoltura tra i 20.000 e i 10.000 anni addietro. Le società umane delle
origini erano verosimilmente nomadi e troviamo tracce di loro lunghissime
migrazioni per tutta la Terra. Abbiamo indizi molto convincenti che i
progenitori degli attuali Europei provenissero dal centro dell’Africa.
Il radicamento politico su un territorio sviluppò molto la
concezione giuridica della proprietà,
sulla base delle controversie che sorgevano. Si divenne proprietari di terra e
anche di altri esseri umani. I re, che concepivano sé stessi inizialmente come
figure paterne, come padri
del loro popolo, iniziarono ad agire
come proprietari di esso. Cercarono a lungo un’investitura
divina. E’ significativo che, ad un certo punto, gli antichi imperatori romani
assumessero anche la carica di pontefice
massimo, il più importante sacerdote dei lori tempi. E sommo Pontefice è uno dei
nomi con cui oggi si indica il Papa. Il potere politico veniva in questo modo
collegato all’ordine universale, cosmico (cosmo
è una parola del greco antico che significa universo).
Si ebbe così una sacralizzazione del potere, che significa appunto collegare il
potere all’ordine cosmico. Quest’ultimo veniva considerato come voluto dagli dei soprannaturali. Ciò che riguardava le cose
soprannaturali era sacro, nel senso
di sottratto religiosamente al potere degli esseri umani sotto pena di gravi
conseguenze. Solo speciali mediatori tra gli umani e il soprannaturale potevano
accostare il sacro. Sacralizzare il potere significò volerlo sottrarre alle
contestazioni e ad altri pretendenti. Il potere sacerdotale, di mediazione tra umani e soprannaturale, era
accentrato in chi deteneva il potere politico
e costituiva un’arma in più a presidio di quel potere. Vi furono anche
re che vollero farsi dei, ma in genere dei tra altri dei: vollero essere
considerati una delle potenze soprannaturali del mondo. Questa sacralizzazione del potere è ancora molto forte nella nostra
organizzazione religiosa.
48.3. La sacralizzazione del potere politico
spiega perché i processi democratici siano stati considerati anche delle eresie e
l’importanza che ha per la loro affermazione il principio della laicità delle
istituzioni pubbliche.
Secondo il
principio della laicità dello stato, le istituzioni pubbliche
non devono far ricorso alla religione per motivare quello che fanno ed è
vietata ogni discriminazione su base religiosa.
La sacralizzazione del potere
si è sviluppata in varie forme nelle civiltà del mondo. In un discorso sulla
democrazia, però, interessa particolarmente il modo europeo, perché è da
europei che sono state ideate le prime democrazie contemporanee. E poi noi
italiani siamo europei.
Dal Quarto secolo della
nostra era, in Europa, la sacralizzazione del potere avvenne secondo la
teologia della nostra fede. Questo la mette in questione e ci mette
in questione, come persone di fede, parlando di democrazia. I sistemi politici
che scelsero come sede suprema del loro potere la città di Bisanzio,
nella regione greca della Tracia, furono il modello originario di quella
sacralizzazione: di là dominarono l’imperoromano, ridottosi
poi progressivamente a porzioni sempre più piccole del territorio originario,
procedendo le invasioni di popoli dal nord Europa e quelle arabe nel
meridione. Quello fu anche il modello della magnificenza liturgica dei
cerimoniali del potere europei. Ogni sovrano europeo vi si richiamò, compresi i
Papi. E’ significativo che tutti i Concili ecumenici, vale
a dire le assemblee deliberative comprendenti tutti i capi religiosi della
nostra fede, del primo Millennio della nostra era siano stati indetti
dagli imperatori di Bisanzio. In questo modello c’era
un sovrano celeste, soprannaturale, di cui quello terreno, l’imperatore era
un delegato. Le culture dei popoli che dal nord Europa avevano conquistato la
parte occidentale dell’Impero romano lo assimilarono. Nel Nono secolo della
nostra era, oligarchie di popolazioni germaniche costituirono un Sacro
Romano Impero, un’organizzazione politica sacralizzata secondo la nostra
fede durata circa mille anni. Possiamo riconoscere che la sacralizzazione del
potere politico funzionò bene nel renderlo più stabile. Traccia di questa
sacralizzazione la troviamo nei preamboli delle leggi del Regno d’Italia,
piuttosto vicino a noi nel tempo, dove è scritto che il sovrano regna e
legifera “per grazia di Dio”. Il Trattato tra la Santa
Sede e l’Italia, concluso l’11-2-1929 tra il papato romano, regnante
Achille Ratti - Pio 11°, e il Regno d’Italia, rappresentato da capo del Governo
dell’epoca Benito Mussolini, Duce del Fascismo, inizia con “In nome della
Santissima Trinità”. Formule analoghe furono impiegate negli atti
legislativi e di governo degli stati europei, ma il riferimento alla divinità
si trova anche in quelli di diversi stati islamici contemporanei.
La sacralizzazione giustifica
il potere assoluto, vale a dire senza limiti, del
sovrano. Non c’è autorità più alta di quella celeste, dunque anche quella del delegato
terreno di quella potenza non può riconoscerne un’altra superiore nel mondo. La
sacralizzazione del suo potere spiega perché, ancora oggi, il Papa è, secondo
il diritto canonico, quello della nostra organizzazione religiosa, un sovrano
assoluto. Si tratta, nelle nostre organizzazioni religiose, di un processo che
si è sviluppato nel secondo millennio della nostra era, non era originario
nella nostra fede. Nei secoli precedenti il papato, all’inizio, era stato
politicamente subordinato all’imperatore romano, in realtà al
potere politico supremo con sede in Bisanzio. Successivamente divenne
politicamente un feudatario (che significa principe di
livello inferiore, legato alla fedeltà ad un sovrano superiore) degli
imperatori germanici e da questi ebbe il suo regno nell’Italia centrale. Nel
secondo millennio della nostra era volle costituirsi come un impero religioso,
come supremo mandatario (che significa delegato) celeste, con un
potere più alto di quello dell’imperatore civile. Da qui una serie molto lunga
di conflitti politici tra il papato romano e le monarchie civili europee, e tra
queste ultime per ragioni anche religiose che coinvolgevano la loro sacralizzazione, quindi
la giustificazione del loro potere assoluto, con alterne vicende, fino a che,
tra il Cinquecento e il Seicento cominciò a svilupparsi il processo di laicizzazione del
potere politico. Questo consentì lo sviluppo e l’affermazione dei processi
democratici. Indebolitasi la giustificazione sacrale del
potere, ne occorreva trovare un’altra. Ma come giustificare, in questo nuovo
quadro, un potere assoluto, per di più attribuito a una sola
persona, scelta nelle generazioni di un’unica famiglia, come accadeva nelle
monarchie europee dinastiche? La persistente attuale, forte, sacralizzazione
del potere del papato romano ha impedito finora l’affermazione di processi
analoghi nella nostra organizzazione religiosa.
48.4. Gli esseri umani, nella loro biologia
e nella loro psicologia, quindi nel corpo e nella mente, e le loro
organizzazioni sociali, in ogni loro aspetto, mutano continuamente.
Se non se ne è convinti, è inutile procedere con i ragionamenti sulla
democrazia, in particolare sulla democrazia come la si concepisce dalla metà
del secolo scorso. Perché, appunto, quel tipo di democrazia serve a far
cambiare la società pacificamente, ma a farla cambiare. La sacralizzazione del
potere politico serve invece a contrastare la tendenza delle società a
cambiare, travolgendo che le domina. In una società dominata da un potere sacralizzato un
cambiamento può essere solo rivoluzionario e violento. Un potere è sacralizzato quando
lo si ritiene frutto di una volontà soprannaturale, la volontà del Cielo. Si
istituisce così un continuità tra l’ordine dell’universo e quello politico, che
si ritiene scaturire da una medesima volontà. Ciò che è sacro si
ritiene sottratto al dominio umano sotto pena di gravi conseguenze, di
punizioni divine. Un potere sacralizzato, in cui chi domina
concepisce sé stesso come delegato del Cielo, si sentirà autorizzato
a irrogarle per conto della potenza celeste che
l’ha delegato. Tutte le società europee in cui si svilupparono, dalla
metà del Settecento, processi democratici erano dominate da regimi
assolutistici sacralizzati, nelle quali le dinastie regnanti, e i sovrani di
volta in volta da esse espressi, governavano“per grazia di Dio”.
Anche nel mondo contemporaneo vi sono poteri politici sacralizzati.
Siamo europei: anche nelle nostre società è così. La massima sacralizzazione
del potere politico si riscontra, nelle società europee, quelle del nostro
continente e quelle di colonizzazione europee, nella nostra Chiesa. Essa sotto
molti aspetti è ancora organizzata come un impero religioso, quindi come uno
stato, e ne possiede anche un simulacro qui da noi in città, nel quartiere
romano di Borgo. Lo definisce stato in modo non del
tutto conforme al Trattato che nel 1929 il papato romano,
regnante Achille Ratti - Pio 11°, concluse “ In nome della Santissima
Trinità”, come è scritto nel preambolo di quell’accordo internazionale,
con il Regno d’Italia, rappresentato nell’occasione del Duce del
Fascismo, Benito Mussolini. Infatti in quel Trattato si
legge che “è istituita la Città del Vaticano”, e mai si parla di
tale entità politica come di uno stato. Ma anche negli stati
dell’Unione Europea, benché basata sul principio della laicità delle
istituzioni pubbliche, si avvertono vari livelli di sacralizzazione del
potere politico. Una ripresa di sacralizzazione politica si avverte negli stati
dell’Europa orientale che all’inizio degli anni ’90 uscirono dal dominio dei
regimi comunisti. A livello simbolico, il mantenere il Crocifisso negli spazi
pubblici è una manifestazione di sacralizzazione delle
istituzioni pubbliche, anche se ora se ne propongono altre giustificazioni, in
genere poco convincenti dove vige il principio supremo della laicità
dello Stato.
Il principio giuridico,
e addirittura costituzionale, della laicità dello Stato significa
prendere atto che non vi è potere politico che possa arrogarsi di governare “per
grazia di Dio, sottraendosi così al giudizio collettivo e alla possibilità
di essere cambiato. Esso è fondamentale per lo sviluppo dei processi
democratici. E’ chiaro che non è in questione la nostra religione, ma la
sua strumentalizzazione politica, per lasacralizzazione del
potere politico.
Storicamente il processo
di desacralizzazione del potere politico iniziò con il
finire dell’era storia che definiamo Medioevo europeo,
nel Quattrocento. Esso fu innescato da sviluppi dell’economia che andarono di
pari passo a quelli delle scienze. Nelle città si aprirono nuovi spazi di
libertà per aumentare il benessere privato e collettivo, le relazioni
commerciali si intensificarono, si scoprirono nuove terre, che apparivano come
nuovi mondi. Lo sviluppo delle scienze, nelleuniversità europee
cominciò a rendere un’immagine più realistica del cosmo e dei fatti naturali.
Dal Duecento in Europa si
svilupparono università degli studi, istituzioni di studi
superiori, le quali in genere, in epoca e ambienti sociali di fortissima sacralizzazione del
potere politico, erano dominate dalla teologia della nostra fede. L’ordine
naturale e sociale dovevano combaciare, andare di pari passo, perché frutto di
una medesima volontà celeste, che aveva istituito sulla terra dei delegati, tra
i quali il papato romano, proprio in quell’epoca, pretendeva di essere il più
potente. A quel periodo risale l’istituzione del potente sistema di polizia
politica del papato romano, l’Inquisizione, che segnò tragicamente il
secondo Millennio, travagliando le vite di quasi tutti i riformatori in ogni
campo, fino all’affermazione dei processi democratici nel Settecento. Un
esempio di come la si pensava a quei tempi lo si ritrova nella Divina
Commedia di Dante Alighieri, scritta nel Trecento, un documento
essenzialmente di critica politica e religiosa in cui si riflettono le
concezioni dell’epoca sull’universo.
Il primo regno ad essere
colpito dal processo di desacralizzazione, quindi ad essere messo
in questione nella sua legittimazione sacrale, fu, nel Cinquecento,
il papato romano, con la Riforma promossa del monaco
agostiniano Martin Lutero (1483-1546) professore nell’università di Wittemberg,
nella regione tedesca della Sassonia, nel Nord-Est della Germania. Questo
processo, originato da controversie teologiche, ebbe prestissimo risvolti
politici, manifestando chiaramente di riguardare anche la sacralizzazione del
potere politico, anche se ad essere contestata era la sacralizzazione del
papato romano non la sacralizzazione del potere politico in sé. Il vero
processo di desacralizzazione iniziò invece dopo una lunga serie di conflitti
bellici tra regni europei che rivendicavano diverse forme di propria
sacralizzazione e in genere lo si fa risalire ad accordi di pace conclusi nel
1648 nella regione tedesca della Vestfalia, nel Nord-Ovest della
Germania.
Il papato romano, fino ad
epoca recente, reagì sempre duramente ai tentativi di desacralizzare il
suo potere politico. Una della ultime manifestazioni di ciò fu
l’enciclica Quas primas [= Nella prima (enciclica)],
del papa Achille Ratti - Pio 11°, diffusa nel 1925, in cui, criticando il laicismo (l’orientamento
culturale volto ad escludere la religione dai discorsi pubblici), si critica in
realtà il principio della laicitàdello stato. In essa si legge
(testo integrale su
https://w2.vatican.va/content/pius-xi/it/encyclicals/documents/hf_p-xi_enc_11121925_quas-primas.html )
Il "laicismo"
La peste della età nostra è il così
detto laicismo coi suoi errori e i suoi empi incentivi; e voi sapete, o
Venerabili Fratelli, che tale empietà non maturò in un solo giorno ma da gran
tempo covava nelle viscere della società. Infatti si cominciò a negare l'impero
di Cristo su tutte le genti;si negò alla Chiesa il diritto — che scaturisce
dal diritto di Gesù Cristo — di ammaestrare, cioè, le genti, di far leggi, di
governare i popoli per condurli alla eterna felicità. E a poco a poco
la religione cristiana fu uguagliata con altre religioni false e
indecorosamente abbassata al livello di queste; quindi la si sottomise al
potere civile e fu lasciata quasi all'arbitrio dei principi e dei magistrati.
Si andò più innanzi ancora: vi furono di quelli che pensarono di sostituire
alla religione di Cristo un certo sentimento religioso naturale. Né mancarono
Stati i quali opinarono di poter fare a meno di Dio, riposero la loro religione
nell'irreligione e nel disprezzo di Dio stesso.
In seguito il papato romano usò
toni più sfumati, riconducendo la sua pretesa di potere all’ambito
essenzialmente spirituale. Di fatto rimase uno dei principali agenti politici
in Italia, e lo è stato fino all’inizio del regno di papa Francesco, ma
operando attraverso la mediazione prima di un partito cristiano desacralizzato,
vale a dire di ispirazione religiosa ma senza la pretesa di essere delegato da
poteri soprannaturali, e poi di più correnti politiche desacralizzate,
presenti in vari partiti politici, trasversali come si suole dire.
A conclusione di questo
discorso, tengo a precisare che bisogna convincersi di questo: non sono
le religioni che minacciano la pace politica, come talvolta sento
sostenere, ma la sacralizzazione del potere politico. Se il potere
politico è sacralizzato, allora viene a
dipendere per la propria stabilità da una, e una sola,
religione. Per questo diventerà intollerante della altre e queste ultime lo
avverseranno per affermare il proprio diritto civico ad esistere o per
affermare un potere politico sacralizzato basato sulle proprie convizioni di
fede. Se invece lo si desacralizza, quindi se trova giustificazioni
non religiose per la propria sussistenza, potrà reggere società in cui si
manifestano più concezioni religiose e anche concezioni ateistiche. Un esempio
di ciò lo vediamo nella prima delle democrazie contemporanee, gli Stati Uniti
d’America, in cui un potere politico totalmente desacralizzato regge una
società complessivamente molto religiosa, secondo diverse confessioni.
48.5. L’evoluzione degli organismi e delle società lascia tracce di
ciò che c’era prima in ciò che si è evoluto. Ecco perché, ragionando sul
futuro, è importante conoscere la storia, quindi gli eventi passati. Sotto
certi profili il passato non è sempre veramente passato. Lo
vediamo, ad esempio, nelle lingue umane. Dico “lingua” e parlo
latino, la lingua della Roma di duemila anni fa, ma insieme anche l’italiano di
oggi.
La Questione romana ha
travagliato la storia italiana dall’unità nazionale, nel 1861, alle elezioni
politiche del 1913, le prime a cui poterono votare tutti gli adulti maschi
cittadini italiani. Il papato romano, come reazione alla conquista militare del
suo piccolo stato nell’Italia centrale da parte del Regno d’Italia, vietò
ai fedeli italiani, obbligandoli per fede e quindi considerando in peccato
mortale i trasgressori, la partecipazione alle elezioni politiche nazionali,
sia come candidati sia come elettori. Il Re Savoia venne scomunicato (in un
Regno che nel suo Statuto proclamava: “La Religione
Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato”!).
Successivamente il papato romano contrastò duramente i processi democratici
nazionali, vietando espressamente di considerarli validi per portare valori di
fede nell’organizzazione sociale italiana, vietando quindi ogni idea di una democrazia
cristiana, punendo come eretici coloro che non si uniformavano a
quest’orientamento. Negli anni Venti del secolo scorso contrattò con il
Mussolini, il Duce del Fascismo, il simulacro di stato che ancora possiede nel
quartiere romano di Borgo, concludendo nel 1929 accordi con i quali accettava
gravissime limitazioni alla libertà di azione dei preti, che fino ad allora
erano stati protagonisti della vita sociale italiana, e di tutti gli altri
fedeli, considerando così chiuso provvidenzialmente il
conflitto con il Regno d’Italia. E, infine, con l’enciclica Il Quarantennale,
del 1931, spinse gli italiani verso il fascismo proclamando di apprezzarne
l’ordinamento corporativo, invitando i fedeli a collaborarvi, ma anche l’azione
repressiva politica contro le organizzazioni socialiste. Nessuna autocritica è
mai venuta dal papato per questa tragedia nazionale, salvo il riconoscere, come
fece il papa Montini, la natura provvidenziale della
fine dello Stato Pontificio, il regno politico dei papi. Questa autocritica
deve però venire da noi fedeli: dobbiamo essere consapevoli dell’influenza
negativa che, a lungo, la religione ha avuto nello sviluppo della democrazia
nazionale.
La lunghissima sacralizzazione dei
poteri politici in Europa fece ritenere al papato romano di non essere sacro a
sufficienza senza un proprio dominio politico territoriale, senza un
proprio stato. Questo perché, fino alla fine della Seconda guerra
mondiale, nel 1945, lo stato era ritenuto la sede del potere
supremo, vale a dire di quello che non riconosceva altri poteri sopra
di sé (questa è proprio la formula che definiva il potere statale nei
manuali di diritto pubblico di una volta): il papato romano storicamente,
dall’inizio del Secondo millennio della nostra era, non volle riconoscere alcun
potere politico sopra di sé e dunque ritenne che gli fosse
indispensabile possedere uno stato. Nel mondo di oggi
non è più così. Si è costituita una potente organizzazione sovranazionale,
quella delle Nazioni Unite, che dà direttive agli stati e questi
ultimi sono spesso legati ad altre organizzazioni simili, come accade nella
nostra Unione Europea. Si organizzano azioni internazionali per
deporre dittatori o per far cessare crudeltà e guerre. Un potere
che possieda uno stato non può più essere considerato
solo per questo supremo. Se ne sono accorti anche nel piccolo regno
di quartiere dei papi, quando non avevano adeguato le loro procedure di
controllo finanziario alla normativa internazionale antiriciclaggio e allora
gli si sono spenti i bancomat. Sono dovuti di corsa correre ai ripari.
Ecco come la
rivista Panorama ha sintetizzato quella vicenda in un
articolo del gennaio 2013:
I bancomat funzionano in tutta la Capitale, ma non in quei 44
ettari che stando alle leggi (umane e anche divine) proprio Roma non sono: si
tratta del perimetro della Città del Vaticano.
È così dal primo gennaio: ai musei Vaticani, ma anche al
distributore, al supermercato, al magazzino abbigliamento, al tabacchi ed
elettronica, alla posta e in farmacia, si paga come una volta: solo in contanti
o al massimo tramite il bancomat interno emesso dallo Ior, l'Istituto per le opere di
Religione , che però i numerosi turisti e italiani che
frequentano i Sacri Palazzi non hanno.
Colpa di Bankitalia, che non ha
poteri in quei 44 ettari, ma che ha imposto a Deutsche Bank Italia,
braccio italiano della prima banca privata tedesca, di disattivare i POS a San
Pietro e dintorni, che gestisce dal 1997.
E per farlo Via Nazionale ha più di una ragione: il Vaticano non
può utilizzare POS gestiti con banche italiane, perché - secondo la normativa
antiriciclaggio - è un soggetto extracomunitario non
equivalente a fini della vigilanza sul riciclaggio del denaro .
San Pietro, in altre parole, trattato come la peggiore isola
caraibica. Ma le regole sono regole: Deutsche Bank Italia, infatti, è un
soggetto di diritto italiano e quindi controllato da Bankitalia. Quindici anni
fa aveva aperto POS in Vaticano senza richiedere la necessaria autorizzazione.
La storia ci ha lasciato in eredità
il piccolo regno di quartiere dei Papi che oggi è sentito più che altro come un
impaccio da chi lo governa. Sotto certi aspetti è un po’ un parco a
tema, come Disneyland, con tanti pittoreschi figuranti. Non è
come capi di stato che i papi contano nel mondo, ma come
capi spirituali di circa un miliardo di fedeli. Possedere uno
stato è anche sotto certi altri aspetti controproducente per il papato romano,
come segnalarono ai tempi del compromesso con il fascismo gli studiosi di
diritto ecclesiastico: i fedeli infatti vi entrano un po’ come stranieri. Si
potrebbe tornare indietro? Il Papa è un sovrano assoluto nel suo piccolo regno,
certo che potrebbe farlo, ma, in realtà, non può. Quella storia di
cui parlavo lo condiziona, lo limita. Accade anche a noi qualcosa di simile in
tante cose e, in particolare, nella questione della democrazia. Questo perché
il cedimento al fascismo, avvenuto ormai tanto tempo fa, ha lasciato tracce
profonde in noi, nella cultura a cui ci riferiamo prendendo decisioni. Fascismo
e religione si compenetrarono reciprocamente e, sotto certi aspetti, quando
pensiamo al modello ideale di fedele, a volte ci richiamiamo al modello
clerico-fascista. In genere non ce ne accorgiamo, perché non curiamo a
sufficienza la memoria storica. Accade ad esempio quando ci confrontiamo con
l’ebraismo o con le genti che arrivano da noi dall’Africa. Nelle questioni
sulla famiglia. Su quella del Crocifisso nelle aule pubbliche. E in molte
altre. Quando si sostiene superficialmente che la Chiesa non è una
democrazia si ragiona in quel modo. Innanzi tutto: la
Chiesa non è uno stato e non dovrebbe nemmeno possederne uno.
Ne siamo convinti? Prendiamo sul serio le parole del Maestro quando disse
che il suo Regno non era di questo mondo? Se però, nel
mondo, si costituiscono delle istituzioni per vivere collettivamente
la religione, come possono essere un ente caritativo, un’università, o una
parrocchia, perché non si dovrebbe praticarvi il metodo democratico, che
oggi è generalmente riconosciuto come migliore di quello feudale di tanti
secoli fa? Perché, si sostiene, altrimenti i valori di fede
sarebbero nelle mani delle maggioranze. Bene, su questo si può discutere.
Bisogna capire bene, innanzi tutto, che cosa intendiamo, ai tempi nostri,
per democrazia.
48.6. Per chi scrivo queste brevi note sulla
democrazia? Non per chi ne sa già abbastanza: chi ha studiato Legge, Scienze
politiche e Sociologia, i preti, chi fa il dirigente in
Azione Cattolica, chi è interessato all’argomento e ha già approfondito per suo
conto. Scrivo per tutti gli altri, in particolare per i più giovani. La
democrazia infatti è nelle loro mani, è una loro responsabilità per costruire
il futuro. L’Azione Cattolica ritiene proprio compito specifico sviluppare una
formazione per quel lavoro in società. Ed eccomi qui a scrivere. Ne so un po’
di più? Ho studiato Legge e ho approfondito un po’.
La democrazia, più o meno come
noi ancora oggi la intendiamo, è un regime politico che si manifestò
nell’antica Grecia, nel 6° secolo dell’era antica, quindi circa cinquecento
anni prima che si formassero le nostre prime collettività di fede. Gli antichi
greci produssero anche un pensiero molto sofisticato sulla politica, che era
legato ad una sapienza più ampia e profonda che si chiedeva il senso della vita
umana e dell’universo, la filosofia. Molti dei concetti che usiamo
parlando di democrazia risalgono a quei tempi. Ma le nostre democrazie sono
molto diverse da quelle dell’antica Grecia e, anzi, queste ultime, con i
criteri dei nostri tempi, non le considereremmo nemmeno democrazie. Perché
coinvolgevano una esigua minoranza di maschi adulti, forse un dieci per cento,
si pensa, di tutta la popolazione degli adulti residenti. Questa era la quota
degli adulti maschi liberi. Liberi da
che cosa? Fondamentalmente dal lavoro. Occuparsi dello stato veniva
considerato incompatibile con il lavoro servile, vale a dire di
quello che facevano gli schiavi, gente in proprietà altrui, ma anche le donne,
e che consentiva di produrre i beni indispensabili per la vita quotidiana.
La schiavitù non venne posta
in questione dalla nostra religione e venne abolita solo in virtù
dell’affermarsi dei processi democratici in Europa. E, tuttavia, ragioni per
abolirla vennero trovate proprio nella teologia della nostra fede: nel fatto
che riteniamo di essere stati creati e di essere
all'origine figli di un unico Padre. Da qui
l’idea che si sia creati uguali. Quindi i processi
democratici contemporanei sorsero in Europa, nel Settecento, sulla base
di concezioni che intendevano liberare gli esseri umani dalle
schiavitù sociali perché li si considerava uguali per
natura, vale a dire all’origine. Certo, ognuno era diverso dall’altro,
ma come ogni figlio è diverso dal fratello.
Il padre tra loro fa parti uguali.
Evidenzio che la liberazione delle donne è molto più recente di quella
degli schiavi.
Benché dette con le parole
della teologia della nostra fede, si tratta di concezioni che fecero fatica ad
affermarsi in religione. Oggi non sono più avversate dalla nostra dottrina. Di
solito cito, a questo proposito, la nota n.793 del Compendio della
dottrina sociale della Chiesa (2004), dove, a proposito dell’amicizia
civile da intendere come forma di fraternità alla base della pacifica
convivenza sociale, si citano le parole di Karol Wojtyla - Giovanni Paolo
2° in un’omelia tenuta il 1 giugno 1980 durante il suo primo viaggio in
Francia: «“Libertà, uguaglianza, fraternità’” è stato il motto della
Rivoluzione francese. In fondo sono idee cristiane ». Che
progresso da quando una simile frase sarebbe stata invece condannata come eretica,
solo poco più di un secolo prima! Ma si dovette arrivare al 1991, con
l’enciclica del Wojtyla Il Centenario, nell’anniversario dei cento
anni dalla prima enciclica della dottrina sociale, la Le Novità,
del 1891, del papa Vincenzo Gioacchino Pecci - Leone 13°, per arrivare alla
piena accettazione della democrazia contemporanea. Si tratta comunque di
argomenti ancora controversi in religione. I reazionari considerano
l’accettazione della democrazia una degenerazione del magistero e
giungono a contestare i papi più recenti perché, soprattutto in politica, hanno
detto cose diverse dai papi di un tempo.
Certo, ai tempi in cui si
formarono le nostre collettività delle origini, gli antichi processi
democratici si erano da tempo estinti. Il regno e l’impero erano le forme
politiche dominanti. E negli scritti sacri prodotti dall’esperienza di quelle
collettività non troviamo dottrine politiche. Il Maestro non fu un capo
politico. Parlò di un Regno, ma non di questo mondo.
Il detto che gli è attribuito “Date a Cesare quel che è di
Cesare…”, non va inteso, naturalmente, come una sorta di regolamento di
condominio tra poteri nel mondo, quello di Cesare, il
nome a cui si richiamarono tutti gli imperatori romani, e quello Celeste,
ma nel senso che su tutto prevalgono le esigenze della fede. Così appunto lo
intesero i primi nostri fedeli che si fecero ammazzare in forme in genere
particolarmente crudeli, quando non poterono procurarsi carte false attestanti
l’adempimento dell’obbligo di compiere atti sacri per l’imperatore romano, pur
di non riconoscere, con un atto rituale, la divinità dei Cesari. Fatto sta che
le nostre prime organizzazioni religiose assunsero presto un aspetto
monarchico, come piccoli regni federati tra loro con intese di comunione:
si riconoscevano reciprocamente con lettere di comunione, in cui ci
si attestava di andare d’accordo. Ci si scambiavano anche lettere di scomunica,
e piuttosto frequentemente! Una situazione piuttosto effervescente alla quale
venne posta fine quando l’imperatore, Cesare, all’esito di un
processo ancora piuttosto misterioso, decise di assumere la nostra fede come
propria forma di sacralizzazione politica, e quindi come
ideologia dei proprio regno politico, nel Quarto secolo della
nostra era.
48.7. Gli antichi filosofi greci,
ragionando sulle esperienze politiche dei loro tempi, diffidarono della
democrazia. Vi partecipava una minoranza della popolazione che
praticamente non doveva occuparsi d’altro, ma anche questa gente si lasciava
trascinare dall’emotività, non aveva la pazienza d’approfondire, seguiva quelli
che meglio mostravano di saper agitare le collettività
divenendone guide. I più decidevano secondo i propri interessi
privati o di gruppo, premiando le guide che mostravano di voleri favorire, ma
chi arrivava al potere promettendo di farlo spesso ne
abusava. Ogni potere supremo tendeva rapidamente a degenerare, per cui
occorreva correre ai ripari. Non sarebbe stato meglio scegliere guide
politiche tra persone competenti e animate dall’intenzione di fare il
bene di tutti? Ecco perché gli antichi filosofi greci pensarono a loro stessi
come alle migliori guide delle collettività politiche, ma non riuscirono mai ad
esserlo. Al massimo furonoconsiglieri di chi comandava di
volta in volta. Ma che cos’è poi il bene? Al dunque rimangono i rapporti di
forza nella società. E chi giunge ai vertici tende a mantenere il potere che
ha: poiché è il numero che fa la forza, tende a creare una sua corte,
un gruppo che lo spalleggia per avere in cambio un po’ del potere sugli altri.
Le assemblee limitano chi comanda e allora chi ha il potere tende a limitarle a
sua volta, riducendone gli spazi di decisione, fino ad abolirle addirittura.
Ogni potere politico tende a diventare assoluto, libero da vincoli, da limiti.
In fondo è storia anche dei nostri giorni.
In un mondo fatto di
tanti servi abbruttiti dal lavoro, in cui l’accesso alla conoscenza era di
pochi, sembrava inverosimile che la gente comune avesse voce in capitolo nelle
cose della politica. E questo anche nelle epoche storiche in cui si
manifestarono processi democratici, come nell’antica Roma prima che cadesse nel
dominio di imperatori assoluti, nel primo secolo dell’era antica,
nell’età d’oro dei Comuni europei, le esperienze di libertà
delle industriose città dall’inizio del Secondo Millennio della nostra era e
fino al Trecento, o nel regno inglese dal Duecento. La magnificenza della corti
che si riunivano intorno a chi era riuscito ad assolutizzare il
proprio potere politico supremo gravava sul duro lavoro dei più, che, oppressi
dal lavoro, non avevano la capacità di occuparsi della politica, in
particolare organizzandosi collettivamente, e cadevano in mani altrui, anche se
non fino alla condizione di schiavi. A lungo si ritenne che questa fosse una
situazione naturale e che la ribellione fosse un grave
delitto. I poteri assoluti proposero diverse
giustificazioni di loro stessi, del perché dovessero essere assoluti. La
loro sacralizzazione li aiutò in questo: si presentarono
come delegati dal Cielo per fare il bene di tutti. Altrimenti la società
sarebbe caduta in rovina, in preda alla violenza e all’arbitrio. A lungo questa
situazione di temuta anarchia fu assimilata alla democrazia,
dove di quest’ultima si erano perse esperienza e memoria.
Quello che ho cercato di
sintetizzare spiega perché, quando ci si propose di coinvolgere tutti nei
processi politici, nelle decisioni comuni, si iniziò con l’idea di liberare
il lavoro. E’ un processo recente: risale alla seconda metà dell’Ottocento.
Nella Costituzione italiana vigente ne vediamo il frutto maturo: proclama
l’Italia come una repubblica democratica fondata
sul lavoro. Ma su un lavoro libero. Ai nostri tempi ha
iniziato ad esserlo sempre meno, lo sappiamo. E anche i processi democratici
sono entrati in crisi.
48.8. Fare memoria del passato serve a organizzare il presente e a
progettare il futuro. Parliamo della storia dei processi democratici
e, quando costruiamo un nuovo gruppo sociale, ci troviamo di fronte a tutti i
problemi che si sono presentati in quella evoluzione. E’ come se, per arrivare
là dove ci si propone, occorresse ripetere, sintetizzandola, tutta quella lunga
e complessa storia, tutti i suoi processi: la si rivive e i
problemi vengono superati se si seguono la vie che in passato hanno avuto successo.
La democrazia è quindi una conquista culturale che va raggiunta di generazione
in generazione e così si consolida nella società. Tutti i fatti umani, la vita
biologica come le società, sono così: sono processi, sia a
livello collettivo che individuale. Un processo è una serie di eventi che si
sviluppa nel tempo e in cui i precedenti influiscono sui successivi. Poiché la
vita degli esseri umani è limitata nel tempo, in un certo senso di generazione
in generazione si deve ripartire sempre da capo. Le generazioni però coesistono
per una parte della loro storia, per cui quelle più anziane istruiscono le più
giovani. Ma, in definitiva, il futuro è nelle mani di quelle più giovani. Le
culture delle società umane si tramandano e questo processo viene chiamato tradizione.
Essa è molto importante, in particolare, nelle questioni di fede. La tradizione
culturale consente di mantenere certe conquiste sociali,
scientifiche, culturali in genere, ma ostacola il cambiamento. C’è una tendenza
a ripetere, nelle cose sociali, perché quando si presentano problemi si cercano
soluzioni nell’esperienza passata. Così, come in tutte le cose umane, il nuovo
reca tracce dell’antico e questo accade anche nel caso di cambiamenti sociali
molto veloci, a carattere rivoluzionario, quando tutto
improvvisamente sembra essere messo sottosopra. I cambiamenti più rivoluzionari
sono avvenuti, nell’ultimo secolo, nel mondo della scienza. Lì il patrimonio
culturale si è talmente ampliato che al problema di tramandarlo si è aggiunto
quello di dominarlo nel presente: nessun individuo è in grado di farlo, ci si
riesce solo in comunità molto vaste di specialisti, ciascuno dei
quali controlla un settore molto limitato e dialoga con
gli altri integrando le proprie conoscenze con quelle altrui. E’ un processo
che ha interessato anche i fatti sociali: l’umanità è diventata tanto numerosa,
le società umane tanto complesse e interconnesse a livello mondiale, che
nessun imperatore potrebbe governare da sovrano assoluto; la
politica è, ai tempi nostri, necessariamente un fatto condiviso da molti, se si
vuole che consenta la sopravvivenza dei più. Questo significa che la via
dell’umanità sarà necessariamente quella della democrazia o quella della
catastrofe. Ma la democrazia che ci salverà non sarà quella delle origini,
quella che aveva come problema principale il conquistare spazi di libertà verso
oligarchie dinastiche, perché avrà davanti come problema principale quello di
realizzare una pace stabile a livello globale.
Fare pace è
tanto difficile anche nelle realtà di prossimità, lo possiamo toccare con mano.
Costruiamo un piccolo gruppo e subito sorgono dissapori, gelosie, liti sul da
farsi. Qualcuno riesce a tirarsi dietro i più, diventa loro capo e poi li
tiranneggia. Ci sono quelli che hanno successo e gli umiliati. Ognuno pensa per
sé e cerca di accaparrarsi il meglio. Si allea con altri, salvo poi tradirli
appena non gli conviene più stare dalla loro parte. Ogni autorità tende ad
espandersi e a liberarsi dai limiti. Nelle riunioni tendono a parlare sempre
gli stessi e, in genere, chi ha la parola la tiene troppo a lungo. Il tempo
passa veloce e si ha la sensazione di non aver concluso nulla. Alla fine si
finisce per seguire i più svelti di lingua e di mano, quelli che si fanno
meno scrupoli. Attorno a loro e, in genere, a chi comanda si creano
piccole corti. Ecco che, allora, si rivive il passato, la
monarchia, l’oligarchia, varie forme di democrazia e anche l’anarchia, quando
si cerca di fare a meno di regole e di autorità per dare il massimo spazio alla
vita degli individui. La società fa soffrire, ma presto si capisce che ci è
indispensabile per vivere. Si vorrebbe essere più liberi, ma allo stesso tempo
si ci lega agli altri: la vita sembra non avere senso senza di loro. Un tempo
lo si capiva fin da piccoli, giocando in cortile con torme di ragazzini: oggi i
più piccoli vivono come piccoli monaci e questa esperienza viene ritardata. Ma
alle medie, quando si comincia a uscire da soli, ci si accorge che senza gli
altri non si sa che fare. Ma anche che, se con si dà ordine alle proprie
esperienze sociali, non si arriva a nulla e ci si limita ad aspettare, con gli
altri, che il tempo passi: si è ragazzi del muretto, come
diceva il titolo di un serie televisiva di qualche tempo fa.
La democrazia si impara, non è
innata nelle persone: è stata un conquista culturale per l’umanità e lo è, di
generazione in generazione, per gli individui. Non basta leggerne sui libri,
occorre farne tirocinio, metterla in pratica. Gli esseri umani imparano dagli
errori: è anche così che evolvono i fatti sociali e, in particolare, è così che
evolvono le scienze contemporanee. Io ho imparato la democrazia in FUCI, tra
gli universitari cattolici. Può sembrare paradossale, tenendo conto che in
religione la si è tanto a lungo avversata. Ad un certo punto, però, si è
capito che era l’unica via per influire sulla società e la si è cominciata a
insegnare, consentendone il tirocinio. E’ in FUCI che, ad esempio, ho imparato
come si lavora in un’assemblea in cui bisogna prendere delle decisioni, il
lavoro che deve fare la presidenza, come si propongono le deliberazioni su cui
votare, come si propongono modifiche, gli emendamenti, come si vota, come si
scrive un testo unificato delle decisioni prese. Alcuni di quelli che vidi in
FUCI da ragazzo oggi sono parlamentari che fanno un lavoro molto importante in
società, sono diventati dei protagonisti della politica italiana. E comunque
tutti, in posti diversi, lavoriamo mettendo a frutto quella pratica di
democrazia che si fece da giovani. Estendere questo tirocinio a realtà più
ampie di ristretti settori di intellettuali, farne un fatto di massa, è
la sfida di oggi, ma in fondo quella di sempre da quando si sono sviluppati i
processi democratici contemporanei ed essi sono diventati indispensabili per la
sopravvivenza dell’umanità.
Nei processi democratici gli
individui non sono legati solo da rapporti di forza, come avviene nei fatti
sociali elementari. In un certo senso ci si sceglie, come accade tra amici. In
religione si è cominciato a parlare di democrazia come di un’amicizia
sociale (si è ancora piuttosto cauti a nominarla esplicitamente in
dottrina, e questo è qualcosa del passato che rimane). Le società umane sono
quindi caratterizzate da qualcosa di comune che si pensa
esserci tra gente che vuole andare d’accordo e che storicamente è stato
riassunto, ad esempio, in un mito, una storia leggendaria su
origini comuni, o in certo modo di vivere e di pensare che si pensa scaturire
dalle persone come le piante dalla terra. Quindi le società umane nascono come
esperienze definite, con dei confini, con
un dentro e un fuori, gli
amici dentro, i nemici fuori. Le democrazie
nascono per consentire i più ampi spazi di libertà dentro una
società: ce li si deve riconoscere reciprocamente e quindi ci si deve
riconoscere uguali in questo. Si è sperimentato che in società
più libere si vive meglio perché le risorse sono meglio distribuite. Per
essere liberi in molti occorre però condividere delle
regole, porre dei limiti ad ogni autorità e ad ogni arbitrio individuale, dentro
la società. Alle origini le democrazie riguardavano, in ogni società, una
minoranza di gente che si riconosceva l’uguaglianza reciproca.
Poi, più recentemente, si vollero includere nei processi
democratici tutti gli adulti di una società, quelli che
stavano dentro una società. Si scoprì, però, che
l’uguaglianza doveva essere realizzata, costruita, perché, a quel punto, non
era più originaria. Lo si fece potenziando la solidarietà sociale all’interno delle
società. Ora la sfida è di realizzarlaglobalmente, lì dove prima non si
ammettevano limiti all’arbitrio umano e alla violenza (di chi era fuori si
poteva fare ciò che si voleva: le guerre europee di conquista dell’intero mondo
furono fondate su questo principio). Questo perché servono processi
democratici a livello mondiale per salvare l’umanità. E allora serve anche
solidarietà a livello globale. E’ una realtà che ci si impone, anche a voler
chiudere gli occhi su di essa: ad esempio attraverso i fenomeni delle migrazioni
di popoli dai posti dove si sta peggio a quelli dove si sta meglio. Ma che cosa
ci lega a livello globale per cui si debba essere solidali a
quel livello invece di massacrarci e rapinarci, a livello globale, come è
sempre avvenuto?
Oggi pensiamo che democrazia e pace vadano
d’accordo: pensiamo ad un ordine democratico come a un ordine pacifico. Non è
sempre stato così. E’, anzi, uno sviluppo piuttosto recente dei processi
democratici. Storicamente le democrazie sono state piuttosto bellicose. Lo è
stata, dall’origine, la prima democrazia contemporanea, gli Stati Uniti
d’America, che hanno vissuto pochi periodi di vera pace. Sono stati l’unica
potenza mondiale ad usare l’arma nucleare in una guerra, non una ma addirittura
due volte, distruggendo due città giapponesi, durante la Seconda Guerra
mondiale! La storia d’Italia, ai tempi in cui si realizzò l’unità nazionale,
nell’Ottocento, vide processi democratici e conflitti bellici strettamente
connessi. In questo le democrazie a lungo non si distinsero dai
regimi assolutistici che vollero sostituire.
I nostri orientamenti
religiosi oggi prevalenti ci propongono un impegno per una pace
globale che può servire a sorreggere processi democratici
pacifici a livello mondiale: questo tema è al centro della predicazione di papa
Francesco e si trova sintetizzato molto efficacemente nell’enciclica Laudato
si’, del 2015. Ecco dunque che l’esperienza sociale che si fa ai tempi
nostri in religione può avere, e anzi dovrebbe avere, questo significato anche
civico a livello molto ampio. In un certo senso, a cominciare dalle realtà di
prossimità, come è quella della parrocchia, si può cominciare a cambiare
il mondo. Si tratta di avviare nuovi processi democratici.
48.9. Qui si ragiona di democrazia per metterla in pratica. Non
dobbiamo mai perdere di vista questo obiettivo. Secondo le idee oggi correnti
in religione, questo ha un significato anche per la vita di fede. Questo perché
la democrazia, come ai tempi nostri la si pensa e la si vive, è legata a valori,
vale a dire a principi di azione sociale, che sono condivisi dalla
fede e, anzi, in buona parte originano da essa, anche se non sempre se ne è
mantenuta consapevolezza. Quando la si è persa, la democrazia viene pensata
come la sede dell’arbitrio delle maggioranze in danno di quei
valori. A maggioranza si potrebbe decidere tutto. Sarebbe meglio, allora,
mettere i valori nelle mani di oligarchie illuminate: sono i reazionari a
pensarla così, quelli che vorrebbero che la storia umana tornasse sui suoi
passi. Non è impossibile che accada: nella storia osserviamo civiltà che sono
regredite. Ogni conquista culturale va rinnovata di generazione in generazione,
altrimenti può essere perduta. L’umanità, quindi, potrebbe ancora tornare nelle
mani di sovrani assoluti e, in effetti, di questi tempi si
osservano processi sociali che vanno in questo senso. Rimane sempre nell’aria
l’idea che alle controversie e alla violenze possa porsi rimedio solo con
un’autorità superiore che imponga la pacificazione:
nella dottrina sociale la si vorrebbe a livello mondiale e talvolta sembra che
il modello siano, in fondo, gli antichi imperatori dei primi tempi, quelli
che sacralizzarono il proprio potere politico secondo la
nostra fede. Non si tiene conto che una simile concentrazione di potere
fatalmente annienterebbe le libertà civili se non governata con metodi
democratici ancora da pensare a livello globale, mondiale, di democrazia universale.
Produrrebbe proprie corti, che degenererebbero in oligarchie,
le quali, non limitate da processi democratici, si impadronirebbero delle
cose e delle persone e inizierebbero a farsi guerra. Se si riporta indietro la
storia, si è condannati a riviverla. In un mondo che si avvia agli otto
miliardi di persone, molto complesso e interconnesso, attuare progetti
reazionari porterebbe alla catastrofe, agli incubi sociali proposti in
tanti film di fantascienza, che presentano le conseguenze di una crisi di
regressione della civiltà.
Opporre democrazia e valori,
come fanno i reazionari, anche quelli che abbiamo in religione, non è corretto,
perché nelle democrazie contemporanee i principi di azione sociali più
importanti sono sottratti alla volontà delle maggioranze. Fin dalle origini dei
processi democratici contemporanei, nel Settecento, si ebbe chiara
consapevolezza che le democrazie degenerano se cadono in mano atirannie di
maggioranze. Quando i reazionari accusano la democrazia di indifferenza ai
valori, la diffamano. Da quale parte stanno? Dalla parte dei valori?
A ben vedere la loro critica si riversa contro i più. Questo fa
sospettare che siano dalla parte di una qualche oligarchia, di gruppi di
pochi che vogliono acquisire il controllo sociale liberandosi da
limiti dal basso, per poi distribuire il potere sociale a loro discrezione,
dall’alto verso il basso, secondo i costumi di sempre delle oligarchie. In
religione, a volte, mimano, l’organizzazione del clero, che funziona ancora più
o meno così: oggi però la sua struttura feudale non
fa più gran danno perché è un’oligarchia prevalentemente solo spirituale
ed esercita la propria influenza politica, che rimane comunque rilevante, con
la mediazione di un laicato che agisce secondo principi e metodi democratici,
in contesto che relativizza ogni autorità pubblica. Nei movimenti reazionari
laicali, e in genere politici, questa mediazione salta: in fondo essi
sono l’immagine di come diverrebbe la società se prevalessero.
Se consideriamo la nostra
Costituzione, un documento che contiene regole che possono essere cambiate solo
con maggioranze molto vaste e alcuni principi che non possono essere
cambiati, vediamo che è piena di valori, di principi di azione
sociale che vengono imposti anche al legislatore, come ad ogni autorità
pubblica. Ci sono , ad esempio, quelli della libertà religiosa e quello della
laicità dello stato: in Italia non sono mai stati completamente attuati. C’è
quello di uguaglianza, che oggi è a rischio. C’è quello di solidarietà sociale,
anche questo oggi a rischio. Si tratta di principi che nessuna
maggioranza potrebbe abolire: ragionandoci sopra lo ha stabilito la Corte
Costituzionale, il collegio di giuristi ai quali è affidata l’interpretazione
autentica della Costituzione per stabilire se le altre leggi la rispettano. I
valori costituzionali in Italia si sono affermati prima tra la gente che nelle
assemblee legislative. Scaturirono dalla disfatta del fascismo storico,
all’inizio degli scorsi anni ’40: si ebbe un processo di conversione popolare,
partito dal rifiuto della guerra e dalla presa di coscienza che ci si era
trovati in mezzo ad essa a causa delle idee del fascismo, un regime oligarchico
che proponeva la disparità sociale a fondamento della gerarchia pubblica, la
violenza come via per la risoluzione dei conflitti sociali, l’aggressione
internazionale come via per la ricchezza nazionale, la guerra come igiene della
razza. Era un regime che metteva le armi in mano ai più piccoli, spingeva la
gente alla violenza e alla guerra. Mantenne ciò che prometteva. Gli italiani
ebbero la guerra. La disfatta del fascismo fu prima culturale che bellica. La
gente non gli credette più, ammaestrata dal dolore: non fu una svolta
opportunistica, come taluni sostengono. E infatti fu duratura. Ancora oggi i
valori democratici sono vivi tra la gente, in particolare nei più giovani.
Vivono, ma spesso se ne è perduta consapevolezza, non li si chiama con il loro
nome. A volte li si vive, ma ce se ne vergogna, perché sono diffamati da gente
potente.
Negli anni passati, si sono
considerati i quartieri romani, e anche il nostro, come terra di missione.
Non sono mai stato d’accordo con questa visione delle cose. L’ho sempre
considerata piuttosto clericale. Mi offendeva. Se le Valli fossero
veramente terra di missione significherebbe che tra la nostra gente i fedeli
sono diventati minoranza, e minoranza esigua. Non è così, ancora. In una
prospettiva clericale si è insoddisfatti della gente e allora si
fa come se non fosse più della nostra fede. Una scomunica di fatto che
è un vero arbitrio. E perché poi? La gente non segue la vita
buona raccomandata, dicono. Questa però è stata più o meno la
condizione di sempre della gente della nostra fede: che cosa è cambiato? Ci si
sforza di essere migliori, ma in genere ci si approssima solo
a quella vita buona idealizzata. E’ quello che accade
anche tra il clero, dove sono molti di quelli che ci fanno la predica. Non
sempre possono proporsi come esempi di moralità, in particolare ai livelli più
alti. Lo ha detto il Papa ed è persona che penso di certe cose se ne intenda.
Del resto: la vita buona raccomandata è veramente praticabile?
In religione si ragiona di famiglia, ad esempio, e della famiglia non si ha una
visione realistica. Del resto chi legifera in materia non ne ha esperienza se
non da figlio e zio. E così va nelle cose del sesso, ma lì è anche peggio
perché chi legifera se lo vieta come peccato. I nostri capi religiosi sono
scontenti delle nostre famiglie e di come facciamo sesso, ma in che cosa si è
veramente peggiori dal passato? Le nostre famiglie di oggi sono molto meno
violente e dispotiche che nel passato, nei rapporti tra i sessi è lo stesso.
Non è un progresso? Le società del passato, permeate di religiosità tradizionale,
esprimevano incubi famigliari. Intorno all'anno Mille gli stessi papi
condussero vita sessuale dissoluta: si parlò, a proposito del loro potere,
di pornocrazia. In seguito ciclicamente ci ricaddero, assumendo i
costumi dei principi del loro tempo. Ed erano anche dei capi violenti. E' dal
Settecento che la qualità dei papi cambiò: non è un caso che ciò avvenne con lo
sviluppo di processi democratici che li sottoposero a critiche serrate. Ai
tempi nostri sono dei sant'uomini. A ben vedere, dietro
l'insoddisfazione dei nostri capi religiosi per le nostre vite, c’è la
politica, si è scontenti di noi perché non assecondiamo più certi disegni
politici nella società e siamo molto più coinvolti nei processi democratici.
Pretendiamo di avere voce nella formulazione dei principi di azione sociale,
del resto secondo la prospettiva dell’ultimo Concilio. Non accettiamo più certe
discriminazioni, certe umiliazioni, di essere solo gregge condotto
qua e là da certi pastori. Siamo insofferenti di autorità che si propongono
come assolute. Questo, anche se non sempre se ne è
consapevoli, è frutto di una compiuta assimilazione interiore dei valori
democratici.
Le Valli all’ultimo
censimento avevano circa ventimila residenti: circa quindicimila di loro,
secondo le statistiche nazionali, dovrebbero prendere come riferimento morale
la nostra fede, anche se non vengono spesso in parrocchia o non ci vengono più.
E’ tra questa gente che dobbiamo sviluppare processi democratici per poi
parlare di valori e metterli in pratica. Si tratta di popolo vero, non
dell’immagine clericale che se ne ha di solito quando se ne parla tra addetti
ai lavori: c’è il buono e c’è il cattivo, e anche il molto cattivo. Ogni
persona però è un processo: può cambiare, in meglio o in peggio. E così è per
la società. Creare le condizioni per un miglioramento collettivo e
individuale è il lavoro delle democrazia come oggi la si concepisce, piena
di valori dei quali le maggioranze non sono arbitre. Non
interveniamo sul quartiere da fuori, da colonizzatori, da missionari.
Ne siamo parte, nel bene e nel male. Viviamo in famiglia, ci prendiamo cura di
altri, dei più giovani, dei più anziani, molte ore al giorno siamo al lavoro e
come tutti soffriamo dei mali sociali. Queste nostre vite hanno un significato
sia civile che religioso. Non è senza valore religioso ciò che facciamo in
società, ma anche vero l'inverso: non è senza valore civile ciò che facciamo in
religione. Migliorando in religione possiamo divenire anche cittadini migliori
e divenendo cittadini migliori possiamo anche migliorare la nostra vita di
fede, personale e collettiva. Ma come migliorare? Bisogna innanzi tutto riprendere
a incontrarsi: la parrocchia è un’opportunità perché ha le strutture per farlo.
Ed è uno spazio in un certo senso pubblico, perché pagato anche con
soldi pubblici, con una parte dei proventi dei nostri tributi che confluiscono
in presa diretta nelle casse della nostra organizzazione religiosa. La
società si migliora solo lavorando insieme, di generazione in generazione.
Non si tratta divenire in chiesa come spettatori. Già proporsi che
i più giovani abbiano in parrocchia un posto loro dove crescere insieme è
importante: non ve ne sono altri nel quartiere, per quanto ne so. Accoglierli
richiede la collaborazione degli adulti e si collabora efficacemente solo
sviluppando processi democratici, imparando la
democrazia, che è potere condiviso, in cui si condividono innanzi tutto grandi
principi umanitari, come quello che nessuno è meno degno di vivere di
altri. Nella pratica, ad esempio, questo significa che, in un’assemblea, si
cerca di ascoltare e capire gli altri, si rispetta il tempo loro concesso
per parlare, non li si zittisce e non li si sovrasta gridando. Nessuno
umilia, nessuno esclude, c’è un posto per tutti, nessuna autorità senza
limiti. Si pratica la democrazia e in essa si può scoprire l’agàpe della
fede, specialmente quando non la si affronta con spirito di circolo, ma
cercando di espanderla per includervi nuovi amici.
48.10. E’ evidente quello
che non ha bisogno di essere dimostrato, sul quale, quindi, non è necessario
dare spiegazioni o anche giustificazioni. Lo vedono e lo capiscono tutti che è
così, e basta.
Il Sole sorge e tramonta:
è evidente. Che però giri intorno
alla Terra può sembrare, solo sembrare, evidente,
ma poi abbiamo scoperto che è falso. Sono state necessarie, però, complicate
dimostrazioni per convincersene. Per nulla evidente è che sia la Terra a girare intorno
al Sole. Se ne sono date spiegazioni, ma a lungo la si è ritenuta un’enormità
impossibile da credere, addirittura un’eresia. Come anche che la Terra e poi il
Sole non fossero al centro dell’Universo. Nel secolo scorso, mandando macchine
e astronauti nello spazio cosmico è emerso che il Sole è in posizione
piuttosto decentrata in una tra le tantissime galassie dell’Universo, che non è
ben chiaro come e dove evolva e che fine farà, se poi una fine ci sarà
mai ad un certo punto.
In religione quasi nulla
è evidente, anche se qualcosa talvolta sembra esserlo,
perché la fede religiosa tratta di potenze invisibili. Sono
invece evidenti l’empatia e la compassione: realtà interiori, in un certo
senso invisibili, ma di cui facciamo esperienza. Siamo capaci
di immedesimarci negli altri, nelle loro gioie e nei loro
dolori, e ci sentiamo spinti ad andare in loro soccorso quanto soffrono. La
psicologia, le neuroscienze e l’antropologia ne danno spiegazioni, certo, ma si
tratta di realtà evidenti, e, innanzi tutto, proprio di realtà,
appunto perché ne facciamo esperienza quotidiana, tutti, almeno quando in noi
non prevale la natura di antiche belve. In religione questo si chiama misericordia e
il Papa ci torna spesso sopra. Si tratta quindi di realtà che hanno significato
per la fede e sono al fondo della concezione religiosa dell’agàpe,
del pensare di poter riunire tutti in un lieto convito in cui ce ne sia per
tutti, nessuno escluso.
Al di fuori della misericordia,
che è evidente nel senso che ho precisato, mi pare che tutto
in religione necessiti di complicate, e anzi complicatissime, spiegazioni,
delle quali si occupa la teologia. Trattando dell’invisibile, è assai
raro che i teologi siano d’accordo tra loro, quindi poi ci sono, più o
meno, tante teologie quanti sono i teologi. Questo però non ci deve
scoraggiare, perché quasi tutto, nella vita umana, va così. La scienza, in
particolare, funziona così, e per certi versi, nel suo argomentare razionale, conseguente,
cercando di accordare conclusioni e premesse, la stessa teologia si è fatta
scienza. Questo non significa che non si cerchino accordi, intese. Ci si
incontra, si ragiona insieme, e talvolta si riesce ad arrivare a soluzioni
condivise. Ma spesso in politica e nella religione che si fa politica, come
anche nella politica sacralizzata, quella che strumentalizza la
religione, si va per le spicce, non si ha tanto tempo da perdere. Allora si
stabilisce che la verità esce da una certa fonte, sia
proclamata da una certa autorità, e che si sia obbligati a convincersene.
Storicamente la faccenda della verità appare strettamente
connessa con l’autorità. Che cosa è la verità? E’ un problema
filosofico, ma anche politico. La domanda risuona nei racconti della Passione e
venne attribuita a Ponzio Pilato, il Procuratore della Giudea, funzionario di
medio livello dell’imperatore romano, quindi, tutto sommato, a un
politico. Egli la pose, ma non stette ad attendere la risposta del Maestro. In
politica appare inutile discutere di verità: e se
poi ci fosse sfavorevole? Nessun politico di solito è disposto a lasciare il
campo per questioni di verità. Preferisce quindi aggiustarsela. E
gli argomenti non mancano mai. Quindi sceglie, tra le opinioni correnti, quelle
che gli servono meglio e le impone agli altri con la forza del diritto,
facendone norme giuridiche. Una verità vale quanto gli
argomenti che si portano a suo sostegno, a meno che non sia evidente;
un verità normativa, invece, è una legge e vale
quanto l’autorità di chi l’ha imposta e, in politica, quanto la forza del
potere che ha legiferato, militare, poliziesca, giudiziaria e via dicendo.
Anche le religioni impongono verità normative, in particolare nelle società
dove i poteri pubblici sono sacralizzati e quindi inglobano la
religione nella propria giustificazione sociale. In esse poteri
pubblici e verità normative si rafforzano
a vicenda. Che accade però quando, in società con poteri sacralizzati,
una verità normativa viene posta in questione dai fatti,
da argomenti seri? Il potere che l’ha imposta fa in genere resistenza, porta i
dissenzienti davanti ai suoi tribunali e, se non cambiano idea, li condanna.
Dal Cinquecento e per circa trecento anni è stato questo il dramma delle
scienze tra gli europei. Dalla fine del Settecento è toccato alla
democrazia subire lo stesso travaglio. La faccenda è di solito,
superficialmente, presentata come conflitto tra scienza e fede, ma, in realtà,
si è trattato di un conflitto tra scienza e poteri sacralizzati e poi tra
concezioni democratiche e poteri assolutistici sacralizzati.
In democrazia si è tratto
insegnamento dalla tremenda nostra storia del passato e si ripudia ogni
sacralizzazione del potere: è questo il senso del principio della laicità dei
poteri pubblici. E’ uno di quei principi inderogabili, che non
dipendono da questa o quella maggioranza. Se non lo si applica non c’è, o non
c’è più, democrazia. Ma, allora, nei regimi democratici, non è che quel
principio della laicità dei poteri pubblici sta virando
in fondo verso la verità normativa, e finisce per rientrare in
quelle idee sul mondo che non possono essere messe in questione solo perché
sono divenute legge e si rischia forte ponendo dei dubbi? E’ la contestazione
di sempre di ogni specie di reazionari. Si ribatte, di solito, che è cosa che
ha a che fare con la morale. Non è come quando in religione si sosteneva che il
Sole girasse intorno alla Terra e si voleva imporre questa idea per legge,
altrimenti, si pensava, l’Universo e con esso tutti i poteri politici e
religiosi legati al Cielo sarebbero stati rovesciati. Teniamo conto
degli altri e ci poniamo dei limiti. Per questo
rinunciamo a sacralizzare, quindi ad assolutizzare rendendolo illimitato, il
potere politico che esercitiamo. E’ necessario se si vuole che quel potere sia
condiviso e che, quindi, ognuno se ne senta responsabile. Capiamo
che non possiamo fare degli altri tutto ciò che ci piace o ci conviene. Non
sono nostro trastullo, ha detto il Papa criticando la prostituzione, né nostro
strumento. Dobbiamo tener conto delle loro vite, ci sono, esistono, se pongono
questioni ci sentiamo obbligati ad ascoltarli. Non abbiamo cuore di
annientarli: questo ha a che fare con la misericordia e l’agàpe.
Che cosa resta al dunque? Questo
resta: è scritto. La democrazia, in fondo, come oggi la si intende, è un
sistema di limiti che ciascuno pone al proprio arbitrio, per
questioni di cuore, di misericordia, sulla base di esperienze
interiori evidenti. E’ evidente, a questo punto,
anche il collegamento con la nostra fede.
49.
Pensare il popolo
AVERE CORAGGIO E AUDACIA PROFETICA»
Dialogo di papa Francesco con i gesuiti
riuniti nella 36a Congregazione Generale (ottobre 2016)
[…]
Dopo la 35a Congregazione
Generale la Compagnia ha percorso un cammino nella comprensione delle sfide
ambientali. Abbiamo accolto con gioia l’enciclica «Laudato si’». Sentiamo che
il Papa ci ha aperto porte per il dialogo con le istituzioni. Che cosa possiamo
fare per continuare a sentirci coinvolti in questo tema?
La Laudato si’ è un’enciclica a
cui hanno lavorato in molti, ed era stato chiesto agli scienziati che ci hanno
lavorato di dire cose ben fondate e non semplici ipotesi. Ci hanno lavorato
molte persone. Il mio lavoro in effetti è stato quello di dare gli orientamenti,
fare questa o quella correzione e poi elaborare la redazione conclusiva: questo
sì, con il mio stile e riprendendo alcune cose. E credo che bisogna continuare
a lavorare, attraverso movimenti, accademicamente e anche politicamente.
Infatti è evidente che il mondo sta soffrendo, non soltanto per il
surriscaldamento globale, ma per il cattivo uso delle cose e perché la natura
viene maltrattata… Bisogna anche tenere presente, nell’interpretazione della
Laudato si’, che non è un’«enciclica verde». È un’enciclica sociale. Parte
dalla realtà di questo momento, che è ecologica, ma è un’enciclica sociale. È
evidente che a soffrirne le conseguenze sono i più poveri, quelli che vengono
scartati. È un’enciclica che affronta questa cultura dello scarto delle
persone. Bisogna lavorare molto sulla parte sociale dell’enciclica, perché i
teologi che ci hanno lavorato si sono preoccupati molto nel vedere quanta
ripercussione sociale hanno i fatti ecologici. E questo è di grande aiuto: va
vista come un’enciclica sociale.
[testo integrale in
http://www.laciviltacattolica.it/wp-content/uploads/2016/11/Q.-3995-3-DIALOGO-PAPA-FRANCESCO-PP.-417-431.pdf
Lunedì scorso, al termine della
discussione al termine degli incontri di approfondimento sull’enciclica Laudato si’, è stato proiettato il testo
che ho trascritto sopra, che è la trascrizione di una parte del dialogo avuto dal papa Francesco con i gesuiti, nella
loro 36° Congregazione generale, svoltasi nell’ottobre 2016.
Fin dal primo momento il Papa,
nel 2015 quando l’enciclica fu diffusa, ha tenuto a precisare che non si
trattava solo di un’enciclica che si occupava di ambiente naturale, ma che
riguardava la società e il suo sviluppo. Leggendola lo si capisce bene, ma ad
uno sguardo frettoloso, come quello che di solito si riserva a quel tipo di
letteratura religiosa, non è proprio evidente. Il significato sociale del
documento è stato bene inteso, ad esempio, negli Stati Uniti d’America, dai
settori della destra politica che rappresentano politicamente le grandi imprese
che guadagnano dal modello di sviluppo criticato nell’enciclica: infatti hanno
subito intimato al Papa di rimanere nel campo spirituale e, quindi, di farsi
gli affari propri, non turbando quelli altrui.
E’ sempre stato noto che le
encicliche sociali erano state frutto di
un lavoro collettivo, e questo fin dalla prima dei tempi moderni, la Le Novità, nel 1891, del papa Vincenzo
Gioacchino Pecci - Leone 13°.
Si
legge in Gabriele De Rosa.
De Rosa, Il Movimento cattolico in Italia,Bari,Laterza, 1979:
“La redazione dell’enciclica leoniana fu
affidata a uomini di forte
preparazione filosofica,
come il gesuita Matteo Liberatore e il cardinale Tommaso Zigliara,
autori rispettivamente del primo e del secondo schema”.
Tuttavia la particolarità
dell’enciclica Laudato si’ è che la cultura religiosa che c’è dentro si
è sforzata di non essere auto-referenziale, quindi di fare riferimento a quella
scientifica, sia con riferimento alle scienze naturali che a quelle sociali. Si
sono volute dire “cose ben fondate e non
semplici ipotesi”. Non si tratta quindi della solita invettiva contro lo spirito dei tempi e i mali sociali derivati da non seguire la
morale religiosa prescritta, ma di una visione della storia e della società
attuale che vuole essere realistica. Un modello di sviluppo basato su un
intenso consumo delle risorse naturali sta conducendo il mondo ad una crisi
globale. La competizione lo anima, ma anche lo minaccia. Si compete per
avere la parte più grossa della torta e per molti è lotta per la vita, perché a
loro non tocca nemmeno ciò che è indispensabile per sopravvivere. Per molti
altri la vita torna ad essere solo fatica, come nell’Ottocento, ai tempi della
rivoluzione industriale. A quell’epoca la condizione di chi stava peggio
migliorò con lotte sociali di massa, nel confronto tra le classi, che in
Occidente portò nella seconda metà del Novecento allo stato sociale, in cui le istituzioni pubbliche, rette
democraticamente, si assunsero il compito di riequilibrare le parti. Dal 1990,
con lo sviluppo della globalizzazione dell’economia mondiale, sorretta da una rete
giuridica di accordi internazionali, quel modello è stato superato. Questo
perché la forza esprimibile nello scontro sociale da chi sta peggio è molto
diminuita: l’azione di massa per i diritti civili e sociali si è fatta meno
efficace. Era basata su masse di produttori, essenzialmente di operai, che
rivendicavano parti più giuste. Chi controllava le imprese ne aveva bisogno,
non poteva farne a meno nella produzione, e quindi, alla fine, veniva a patti. Nel mondo di oggi può limitarsi a
produrre da un’altra parte del mondo, dove le lotte sono meno efficaci o
addirittura vietate, come nella Repubblica popolare di Cina di oggi, da cui
proviene molta parte dei nostri oggetti di uso quotidiano. In Occidente ormai
si conta di più come consumatori che come lavoratori, ha osservato il sociologo
Zygmunt Bauman. Il lavoro si è molto svalutato
e infatti viene retribuito sempre
meno. Come consumatori si è però fascinati dalle tecniche di psicologia di
massa utilizzate nella pubblicità commerciale, e il pubblico dei consumatori,
sotto certi aspetti, assomiglia sempre di più a quel gregge docile vagheggiato
dal clero come modello ideale di popolo.
Che cosa è e soprattutto chi è il popolo?
Non è facile rispondere, in
religione, ma ormai anche da altri punti di vista, quello giuridico e quello
sociologico, ad esempio.
E’ importante stabilirlo
perché, secondo la fede, ci proponiamo di fare di tutte le genti della terra un
unico popolo. Fino a non molto tempo
fa questo appariva un obiettivo destinato alla fine dei tempi. Oggi è una
prospettiva resa concretamente possibile dalla globalizzazione dell’economia e del diritto. Ma anche
indispensabile per consentire la sopravvivenza dell’umanità sul pianeta. Il
secolo scorso essa appariva minacciata dal conflitto nucleare globale, oggi
dagli stessi costumi consumistici quotidiani, banali.
Da un certo punto di vista ci
siamo uniti, nella fitta rete di relazioni commerciali, ma anche di altro
genere, ad esempio nell’informazione e nella cultura, che ci connette a livello
mondiale, ma da altri punti di vista ci stiamo dividendo e schierando. I
sistemi politici non sono integrati e lungo le linee di contatto territoriali
si generano frizioni e motivi di conflitto. Nell’era della globalizzazione si è
ricominciato a credere possibili e utili guerre locali per risolverli e gravi
conflitti, per ora a bassa intensità, sono ormai endemici ai
confini orientali e meridionali dell’Unione Europea.
I popoli sembrano, come sempre,
avere scarsa voce nella politica mondiale. Ci siamo abituati a considerare
principalmente le personalità che le dominano, giunte ai vertici delle più
grandi confederazioni di potere politico. Eppure le oligarchie che li dominano
ne sono influenzate molto più che in passato, quando, organizzate in sistemi
dinastici, li dominavano e basta. Mutamenti di massa di stili di vita possono
cambiare le cose. Essi sono possibili anche a partire da realtà di prossimità.
In un sistema globale basato sull’accaparramento del consenso dei consumatori, nelle grandi guerre
commerciali, un mutamento delle propensione al consumo può fare la differenza.
Questo è sperimentale anche su piccola scala. Nel nostro quartiere si tentò di
fascinare commercialmente la gente, cercando di farle vedere i benefici di
un’edificazione intensiva sul pratone.
Ci fu, anni fa, un’intensa attività di pubblicità in quel senso, forse alcuni
lo ricordano. La gente la respinse ed avemmo il pratone e poi il Parco delle Valli. Ma fui il consenso
dei consumatori a consentire lo sviluppo del mercatino ad capo del parco, alla fine di via Conca d’Oro. I
consumatori del quartiere, ad un certo punto, decisero di non essere più solo gregge.
Quando i dirigenti delle nostre
collettività religiose, anche in AC, iniziano a progettare l’azione sociale,
non si sa bene dove vogliano andare a parare. Iniziano a parlare in ecclesialese, il gergo di quegli
ambienti, e chi li capisce più? Si mantengono sul vago, in genere limitandosi
all’analisi della situazione. Al dunque sembra che non sappiano che pesci
pigliare. Sembrano stretti in limiti invisibili, timorosi di allargarsi. In realtà, anche se non
credo se ne rendano conto, si tengono ancora nei limiti fissati all’azione
sociale in religione dal vecchio Concordato concluso nel 1929 con il Mussolini,
che vietava la politica alle istituzioni religiose. Ma quel Concordato è stato
quasi completamente abrogato dagli accordi di revisione del 1984. Ora sono
stati riconosciuti come campo proprio delle istituzioni religiose la promozione dell’uomo e il bene del Paese, vale a dire la politica
(art.1 dell’Accordo di revisione 1984).
Non bisogna illudersi: anche dialogando, non si resisterà al degrado
senza azioni di lotta, e non solo di lotta interiore. La politica è anche questo. Ma nella nostra tradizione
religiosa la lotta è stata prevalentemente intesa come resistenza passiva. E la passività del papato nel corso del fascismo storico gli
è stata imputata come grave colpa, ma la sentenza dovrebbe estendersi a tutto
il popolo italiano di quell’epoca, salvo che per i tempi dopo quella
conversione di massa che consentì la Resistenza tra il ’43 e il ’45 e l’avvio
di processi democratici. La dottrina sociale, fino dall’enciclica Le novità, è stata avversa alle agitazioni di massa. Del
resto essa è espressa da sovrani assoluti. Pensare la politica di popolo è la sfida di
oggi anche in religione, ora che ci si propone di salvare il mondo (è appunto
questa la grande politica, quella con la P maiuscola.
50.
Costruire il popolo
Una volta ci si ritrovava nel
dominio della nostra Chiesa come ci si trovava in quello dello Stato e i due
poteri erano collegati: entrambi erano sacralizzati,
vale a dire assolutizzati secondo la nostra fede, e si sostenevano a vicenda
nel dominio sulla gente. Non c’era nulla da decidere per le persone e nelle
statistiche nazionali si veniva contati come cittadini e credenti religiosi in quanto
italiani. Il principio liberale “libera
Chiesa in libero Stato” era una
specie di regolamento di condominio tra oligarchie politiche. Questa era la
situazione alla caduta del fascismo storico italiano, nel 1945. E’ continuata a
lungo più o meno tale e quale anche in democrazia, durante il dominio del
partito cristiano, la Democrazia Cristiana. E’ cambiata a cominciare dagli scorsi anni
Sessanta, fondamentalmente per la de-sacralizzazione
del potere politico indotta dai
nuovi principi enunciati dai saggi del Concilio Vaticano 2°. Quella religiosa
fu presentata sempre più come una scelta,
che richiedeva un’adesione. Negli
anni ’80 si produsse una grave crisi della politica, che si sentì e fu
analizzata dagli studiosi come delegittimata, in crisi di consenso
popolare. Fu un processo causato dall’aumento del potere auto-referenziale di
oligarchie collegate ad un nuovo dominio di classe, della classe che riusciva
ad avvantaggiarsi dei processi economici globalizzati. I politici nazionali
iniziarono ad imitarne i costumi, così come taluni principi regnanti delle
residue monarchie occidentali assumevano quelli dei più ricchi. Sia in
religione che in politica la maggior parte della gente finì per essere tagliata fuori:
in religione perché non rispondente ai criteri più selettivi proposti per
ottenere il riconoscimento come credenti (l’asticella
era stata molto alzata, la religione
non era più a buon mercato); in
politica perché ritenuta incapace di capire il nuovo mondo e di interagirvi positivamente.
Dagli anni ’90 la politica, sia
quella religiosa che quella civile, si separò
dal popolo. Si rese autoreferenziale dal suo consenso. Bastò accattivarsene
periodicamente i consenso plebiscitario con tecniche di marketing, quelle che servono a fascinare il pubblico dei consumatori. In
religione si impiegarono i grandi eventi costruiti intorno ai papi, ingenerando un
neo-papismo di tipo personalistico che mai c’era stato prima di allora.
Il popolo ridotto a pubblico non è però sufficiente per sostenere le
politiche che servono per contrastare le minacce che vengono da uno sviluppo
economico e sociale scompensato. Le relazioni tra le persone sono troppo
labili, tendono a sfaldarsi rapidamente e capricciosamente. Le oligarchie
politiche hanno voluto assumere l’immagine di referenti di consumatori, fascinando la gente, e si trovano a
subire il contrappasso, una punizione
corrispondente alla loro colpa, perché è una colpa aver ridotto in quel modo i
processi democratici, per cui hanno solo il credito che può essere ottenuto con
quel tipo di fascinazione, a
brevissima scadenza: si sono fatte estremamente precarie e navigano a vista.
Gli studiosi, pensando
all’origine dello stato, vi videro o il risultato di un dominio ottenuto con un
atto di forza di un’oligarchia, a cui gli altri si
assoggettano per quieto vivere, cedendo il proprio potere sociale per desiderio di
protezione, o un patto sociale. In entrambi i casi, a partire dagli
anni ’80, il potere in Italia divenne il risultato precario di uno scambio, potere contro favori di
categoria (fenomeno che viene definito consociativismo), e poi, con l’emergere di
oligarchie di potere consumistico, il risultato ancora più precario, perché non
fondato nemmeno su un labile accordo commerciale, di una combinazione episodica
tra potere e fascinazione, per cui,
ad un certo punto, si riesce a convincere un adulto a tracciare un segno sulla
scheda elettorale, senza troppo pensarci. In questa situazione le promesse
politiche possono tranquillamente non essere mantenute e nessuno se ne adombra.
La sfida dell’oggi è quindi
quella di una nuova democratizzazione della società, costruendo relazioni forti,
una nuova trama di popolo, generando
una nuova metamorfosi da pubblico/folla a popolo
democratico.
51. Processi democratici nella costruzione di un popolo: la festa
Nelle nostre collettività
religiose lo sviluppo di processi democratici è ostacolato dall’ingombrante
gerarchia feudale del clero. Occorre trovarle un posto e non è facile. Fatto
sta che, quando si parla di organizzarsi per fare
qualcosa, si finisce di solito per andare molto sul vago, non trattando
veramente di come si è e di come si
dovrebbe o vorrebbe essere, ma di qualche obiettivo che sta fuori di
un certo gruppo di riferimento. Si cerca sempre di mostrarsi nella
condizione di gregge, pronto a seguire pastori.
Ma che di che parlano gli esseri umani/gregge quando stanno
tra loro? Si parla in ecclesialese, il gergo/chiacchiericcio
infarcito di parole della teologia, che serve a parlare senza dire nulla, per
fare bella figura senza rischiare. Ogni decisione collettiva è frutto di
un difficile compromesso con il clero, che di solito viene raggiunto in
mediazioni riservate. Le assemblee servono solo per ratificare.
Nell’organizzarsi collettivamente gli
esseri umani sono ostacolati dai loro naturali limiti cognitivi. Secondo gli
antropologi non siamo capaci di relazioni profonde, stabili, con più di circa
centocinquanta persone. E’ chiaro però che le nostre società sono organizzate per
collettività molto, molto più vaste, e addirittura a livello mondiale. La gente
allora fa come gli uccelli nello stormo: prende le misure su quelli che sono
intorno più vicini e su chi sta avanti a tutti. Vi è poi un modo di comportarsi
in società che dipende dalle culture e consiste nel far riferimento ad un
sistema di miti e di idee: è la via delle religioni e del diritto. La cultura
allora è come una cartina topografica che ognuno tiene in tasca e dice come
fare per raggiungere un certo posto
Di solito non abbiamo
bisogno di contatti profondi con tutti quelli che incontriamo. Circolando per
strada incrociamo migliaia di persone senza mai incontrarle.
Ognuno sa come comportarsi in questi rapporti fugaci, istantanei e labili. Se
dovessimo approfondire, la vita sociale si bloccherebbe. Ora, è importante
discutere di un tema che è diventato particolarmente critico nella nostra
civiltà: i rapporti che si hanno interagendo sul WEB, su
“internet”, sono di questo tipo, anche se chi interagisce vi investe molta
emotività, come per rapporti profondi. In realtà non si creano relazioni
stabili e profonde tra le persone. Questo significa che chi sta molto su
“internet” è un isolato, anche se sembra interagire tutto il tempo con altri.
E’ una condizione che spiega perché “internet” abbia fallito nella costruzione
di processi democratici, ad esempio nelle “primavere arabe” degli
anni scorsi, ma anche da noi in politica. Che cosa corre tra le persone quando
stanno su “internet”? Corre solo la cultura altamente formalizzata, quella
delle piattaforme, dei portali, organizzata e
diretta da altri (quelli che hanno il potere di ammettere e
di escludere e fissano le regole
dell'interazione), quella che consente i contatti tra utenti.
“Internet” non è quindi il regno della libertà e della spontaneità, ma il suo
contrario.
Se si considerano solo le
persone più vicine, le realtà di prossimità, si costruiscono solo gruppi molto
piccoli e dalla vita breve. Se ci si orienta sui capi, si perdono le realtà di
prossimità. Ogni potere tende ad assolutizzarsi, su grande e piccola scala, e a
togliere spazio alle altre persone. Anche nell’associazionismo religioso. Lo ha
detto anche l’attuale Papa ed è sorprendente, perché l’ingenuo papismo
mediatico e personalistico inaugurato dal Wojtyla consiste
proprio in questo. La scarsa familiarità con rapporti collettivi profondi fa
perdere senso alle culture condivise, sfascia le tradizioni. Questi,
riassumendo, sono alcuni tra i problemi principali delle società
occidentali contemporanee nell'organizzarsi collettivamente. Nell’ecclesialese corrente
sono cose risapute. Quando poi si tratta di passare dall’analisi critica alla
costruzione del cambiamento le cose si imbrogliano e ci si arresta, rimandando
alla prossima settimana sociale o assemblea.
L’altro giorno abbiamo
fatto una festa in parrocchia e abbiamo visto che le molte persone che sono
venute sono rimaste sostanzialmente estranee tra loro. E questo anche se si era
organizzato un ricco rinfresco. Di solito il mangiare insieme è una delle
basi naturali degli incontri. Era però un
rinfresco in piedi, e in occasioni del genere si tende a ruotare intorno
ai tavoli per poi trovare un posto laterale per
mangiare. Nessuno ha un proprio posto e ogni posto in
cui ci si ferma un attimo di solito non è quello che si riuscirà a
conquistare nella fase successiva. Nella socialità del party secondo
il modello statunitense (party nell’angloamericano significa
sia festa che partito), che è appunto
l’incontro di i un gruppo per un rinfresco in piedi, le persone girano
presentandosi le une alle altre, intrattenendo brevi conversazioni con molti dei
partecipanti nel corso delle quali programmano incontri
più ravvicinati e profondi, ad esempio per questioni di lavoro. Al centro
dell’evento c’è l’incontrarsi per conoscersi.
Una festa in società dovrebbe avere questo obiettivo. E’
diversa dalla festa parentale in cui ci si conosce già
tutti. Spesso le assemblee che si fanno nelle collettività religiose hanno il
tono delle feste parentali. Occorre trasformarle in feste
per conoscersi, che chiamerei feste/partito, in
angloamericano “party/party”, quelle che fanno movimento. Un
processo democratico parte da occasioni come queste. Si deve proporre un minimo
di formalità, vale a dire un rito, perché ognuno senta
di avere un posto; ci deve essere una persona di
riferimento, ma non ingombrante come un capo, quindi un potere non sacralizzato;
infine deve essere proposto il metodo, e l’etica, dell’incontro,
per cui ci si deve presentare, parlare con più persone di volta in volta per
averne un’idea più precisa, senza però monopolizzare gli altri perché questo
riduce il numero degli incontri possibili. Liturgie troppo pervasive e
formalizzate impediscono gli incontri personali. Lo stesso accade con capi
troppo ingombranti. Negli incontri personali occorre garantire una certa
libertà con l’avvertenza che è sconveniente aprirsi troppo o chiedere troppo
agli altri. Il rapporto con gli altri va costruito progressivamente, di tappa
in tappa, conoscendoli meglio. Avvicinandoli più spesso si ha occasione di
farlo. Relazionandosi su “internet” se ne ha solo l’impressione (falsa), ma si
rimane sempre allo stesso punto.
Le feste/partito sono
alla base dei processi democratici, anche di quelli popolari, di massa. Quando
i lavoratori contarono di più in società organizzarono la Festa dei
lavoratori (non del lavoro, come talvolta, sbagliando, si
dice). Un politico come Giorgio La Pira ne fu ben consapevole. Inaugurando
da sindaco, il quartiere di case popolari dell'Isolotto, a Firenze, consigliò
ai sacerdoti che erano stati inviati nella nuova parrocchia di fare
molte feste.
52. Un
lavoro di lungo respiro: il serio dialogo fondato sulla buona volontà
[da Z.Bauman - E. Mauro, Babel, Laterza,
2015, pag.147-148]
Z.Bauman
Per noi ci sono voluti millenni
perché mettessimo nell’agenda pubblica l’abolizione della pena capitale. Per noi ci sono voluti millenni perché
vietassimo la schiavitù. E ci sono voluti millenni perché promuovessimo
l’uguaglianza dei sessi. E chi sarà tanto arrogante da sostenere che abbiamo
effettivamente raggiunto tutti questi
obiettivi un volta per tutte? Noi possiamo sperare (io lo spero quanto te) che
la nostra verità si imporrà alla fine sul pianete che abbiamo in comune, così
com’è accaduto (quasi) nella «nostra» parte del globo. Ma abbiamo comunque bisogno di attrezzarci per la estenuante lunghezza
del cammino, per la scabrosità della strada e per la limitata affidabilità dei
veicoli a nostra disposizione. Quello che abbiamo davanti a noi da
affrontare è quello che i francesi
chiamano un travail de longue haleine [un
lavoro di lungo respiro, trad. mia].
In ogni caso, continuo a
ripetere che fra i veicoli disponibili per percorrere questa strada c’è il
serio dialogo fondato sulla buona volontà (informale, aperto, cooperativo, per
citare di nuovo le qualificazioni di Richard Sennet), che miri alla
comprensione reciproca e al mutuo beneficio, che meriti la massima fiducia
(anche se non certo assoluta e incondizionata). Un dialogo di questo tipo non è
compito facile né -diciamolo pure- allegro; richiede una determinazione solida
e costante, capace di resistere a ripetuti e anche molto negativi risultati, un
forte senso dell’obiettivo finale, una grande arte, e la disponibilità ad
ammettere i propri errori insieme con l’arduo e faticoso dovere di porre riparo
ad essi; e soprattutto tanta pacatezza, equilibrio e pazienza.
53. Imparare la democrazia
La democrazia non è un fatto innato, si impara. Nella società
italiana di oggi mancano gli insegnanti. Storicamente l’Azione Cattolica è
stata una delle principali scuole di democrazia in Italia: prima però ha dovuto
essa stessa impararla e, innanzi tutto, convincersi del fatto che fede e
democrazia potessero andare d’accordo. All’inizio del Novecento questa idea
veniva considerata parte dell’eresia modernista. Questo significa
che, all’origine, la dottrina sociale, le idee dei papi
sulla riforma sociale, non comprendeva la democrazia. Infatti si riteneva che i
progetti di miglioramento sociale dovessero discendere dall’alto,
dedotti con ragionamenti teologici e proclamati con autorità. Progettare il bene
veniva considerato monopolio dei papi. L’osservazione e la comprensione
realistica della società in religione vennero progressivamente, in particolare,
in Italia, con il lavoro che si fece in Azione Cattolica, dopo la sua
fondazione, che risale al 1905, e per la sua organica collegamento con la
gerarchia del clero.
La democrazia non è solo
un metodo per prendere decisioni a maggioranza, ma
un sistema di valori. Principio fondamentale della democrazia è di
considerare tutti uguali in dignità. L’uguaglianza, però, va
costruita in ciascuno. Lo si fa rendendo libere le
persone, che non significa lasciarle alle loro passioni, ma fare in modo che
possano decidere consapevolmente. Senza vera libertà, ciascuno cade preda
dei più forti. Il motto del primo partito di ispirazione religiosa,
il Partito popolare italiano, fondato nel 1919 dal prete Luigi Sturzo e da
altri suoi amici, fu Liberi e forti. Ma nessuno è veramente
libero da solo. E’ la società nel suo insieme che va liberata. Chi la
libererà? “Non esistono liberatori, ma persone che si liberano”, fu
il motto di un gruppo resistenziale milanese di cui fecero parte il prete
Giovanni Barbareschi e Teresio Olivelli. La liberazione è un compito collettivo
che richiede di essere solidali, di considerare anche gli altri, di tener conto
di loro e, in particolare, di chi sta peggio, perché non ci sono persone che
abbiano più urgenza di liberazione di quelle che stanno peggio, e di solito si
sta così quando si finisce in mani altrui. Libertà, uguaglianza, fraternità sono
valori assoluti in democrazia, sottratti all’arbitrio di qualsiasi maggioranza.
Nella nota n.793 del Compendio della dottrina sociale della Chiesa (2004),
a proposito dell’amicizia civile da intendere come forma di
fraternità alla base della pacifica convivenza sociale, si citano le parole di
Karol Wojtyla - Giovanni Paolo 2° in un’omelia tenuta il 1 giugno 1980
durante il suo primo viaggio in Francia: «“Libertà, uguaglianza,
fraternità’” è stato il motto della Rivoluzione francese. In fondo sono
idee cristiane ». Quando quelle parole furono pronunciate la
democrazia non era ancora completamente una conquista culturale nella
nostra fede: lo divenne solo circa dieci anni dopo, nel 1991, con una storica
enciclica del medesimo papa, Il Centenario, in occasione dai cento
anni dalla prima enciclica della dottrina sociale moderna. C’è voluto quindi un
secolo perché, in religione, l’idea di riforma sociale fosse abbinata a
processi democratici. Ma si tratta di un conquista che va rinnovata di generazione
in generazione.
L’idea che proprio la Chiesa
insegni la democrazia appare ancora oggi un po’ strana. E’ il residuo, in
genere inconsapevole, del passato. Chi parla di democrazia in religione a volte
viene collegato con i comunisti. La bestia nera della prima
dottrina sociale fu il socialismo. Urtava pensare che le masse dovessero
liberarsi con un proprio movimento sociale e non attendere la giustizia sociale
da chi dall’affermarsi della giustizia sociale avrebbe subito solo un danno
patrimoniale. In effetti socialisti e comunisti, e in particolare questi
ultimi, dovettero imparare la democrazia negli stessi anni, e con le stesse
difficoltà, in cui lo si fece in religione. Imparandola, la
trasformarono. La innervarono di idee di giustizia sociale molto più che alle
origini. A lungo i comunisti ritennero la democrazia un imbroglio borghese, in
particolare constatando che, anche dopo l’introduzione del suffragio
universale, le masse davano credito elettorale a chi non faceva, o non
faceva del tutto i loro interessi. Come può succedere? Successe perché, in
ambito democratico, si temperarono le asprezze sociali, venendo incontro a chi
stava peggio. Si raggiunsero accordi che convennero a tutti. La crisi di quegli
accordi è all’origine di quella della società di oggi. Non è un caso che si
accompagni ad una crisi dei processi democratici: la gente non ha fiducia nella
democrazia e chi comanda cerca di avere il consenso fascinando i
singoli, più che coinvolgendoli nelle decisioni collettive.
54. Democrazia
e virtù
C’è in giro l’idea che la
democrazia sia politica debole e corrotta. Ci è rimasta dal fascismo,
tramandata di generazione in generazione.
In realtà vediamo come dalla
Seconda Guerra Mondiale, finita nel 1945, più della metà del mondo è stata dominato
da grandi democrazie piuttosto bellicose, quindi forti. E la democrazia si regge su un sistema di virtù personali e collettive, senza le quali non può
esistere. Una delle principali è la giustizia: non ci arrende alle prepotenze.
In democrazia il potere è condiviso, ma non lo si può fare senza essere giusti,
perché, altrimenti, l’arbitrio di pochi sarà legge. In democrazia non si
impiegano le potenti polizie politiche costruite dai principali totalitarismi
suoi avversari. Ciascuno osserva le leggi per poter essere liberi: è cosa che
si è capita fin dall’antichità sulla democrazia. La violazione della legge è
vista come arbitrio e prepotenza. Può accadere che, ragionando seriamente e
nell’interesse comune, collettivo, si finisca per ritenere una legge ingiusta e
quindi non degna di una democrazia: ma non è
decisione che si prende a cuor leggero. Chi viola una legge di solito lo
fa di nascosto e non vuole essere scoperto. Chi, in circostanze eccezionali,
non osserva una legge perché ingiusta, e quindi indegna, lo fa apertamente,
subendone le conseguenze. Questo rientra
nel metodo della non-violenza praticato e insegnato dal politico indiano Mohandas Karamchand Gandhi, Mahatma cioè grande anima, (1869-1948).
In un sistema politico non democratico viene
insegnata la virtù dell’obbedienza incondizionata. In democrazia l’obbedienza
non è più una virtù, ma la più subdola
delle tentazioni, come scrisse Lorenzo Milani. In democrazia non si
osservano le leggi per obbedienza, ma
perché è giusto fare così. Le singole leggi possono essere
anche imperfette, quindi ingiuste, ma sono frutto di procedure
condivise e possono essere cambiate nello stesso modo: non sono nelle mani
dell’arbitrio di nessuno. Se lo fossero, non ci sarebbe più la democrazia.
Ripeto questo insegnamento che ci viene dall’antichità: la democrazia è un
sistema in cui ciascuno pone dei limiti al proprio arbitrio, non per obbedienza o peggio per
paura, ma perché tutti si possa essere liberi. E’ per questo che il grande
filosofo greco Socrate, vissuto nell’Atene del 5° secolo dell’era antica,
decise di assoggettarsi alla condanna capitale che gli era stata inflitta,
benché, a suo avviso, ingiusta.
Senza virtù personali e
collettive le democrazie muoiono, finiscono. Le democrazie che appaiono corrotte
e deboli sono democrazie che stanno morendo. E’ in fondo questa la causa della
crisi anche della nostra democrazia. Si tiene troppo poco conto degli altri,
delle loro sofferenza, in particolare quando agiamo da consumatori. Così ci
facciamo complici dei carnefici di chi sta peggio nel mondo.
Per insegnare la democrazia
bisogna innanzi tutto far riscoprire le virtù democratiche. Si vedrà che in
questo modo la società funziona meglio. Lo si può fare fin da bambini: mai
umiliare, mai far soffrire, mai escludere, dividere ciò che si ha, mai tradire
la fiducia degli altri, resistere all’arbitrio e alla violenza. E’ cosa che un
tempo si imparava nei giochi collettivi: ora i ragazzini fanno vita da piccoli
monaci. Il primo passo potrebbe essere questo: fare bei giochi di gruppo in
parrocchia.
55. La salvezza dell’umanità come problema religioso e politico
La salvezza dell’umanità in
questo mondo non è stata sempre un problema religioso: lo è diventata, anzi,
molto di recente. Da quando si è cominciato a ragionare in grande. Si è
iniziato a farlo da metà Ottocento, ma è dalla metà dello scorso secolo che si
è cominciato progressivamente a capire che l'intera umanità
era minacciata di annientamento. Quindi è molto importante conoscere la storia
degli ultimi due secoli. Sono quelli in cui tante prospettive religiose sono
cambiate, appunto perché si è cominciato a pensare in grande, oggi si
dice su scala globale, tenendo conto, appunto, di tutta l’umanità.
Questo pone un problema che riguarda la teologia dei secoli precedenti, la
quale si è sviluppata in una prospettiva diversa. Le questioni che trattava non
erano quelle che sono oggi al centro della nostra attenzione. Con la teologia è
in questione anche l’intera formazione religiosa, che consente di tramandare
una tradizione di generazione in generazione.
A lungo, molto a lungo, le
questioni di salvezza erano trattate a partire dall’anima.
La morte è un fatto umano ineludibile, lo tocchiamo con mano, letteralmente. In
religione si è convinti che l’essenziale di noi sopravviva, che si vada
incontro a un giudizio dopo la morte, e che alla fine dei tempi tutto ciò che
siamo risorga, anima e corpo, per il premio eterno o la dannazione
eterna. Quali saranno i criteri del giudizio? Si sarà giudicati da come ci si è
comportati nella vita fisica, terrena. La vita religiosa dovrebbe essere quella
che porta al premio eterno. Questo è stato, dalle origini e praticamente fino
all’altro ieri della storia, il principale problema della religione. Il
miglioramento della società veniva considerato in questa prospettiva, che, per
la verità, è ancora quella di molti, specialmente dei più anziani, perché la
formazione personale puntava a quello, e allora aveva molto importanza, ad
esempio, la devozione personale. La persona pia si sforza di essere buona e
questo impegno, se si diffonde in una società, la migliora. C’era ad esempio, e
c’è ancora naturalmente, la questione della penitenza, quella mortificazione
che ci si impone perché si sa di aver agito male, per correggersi ma anche per
dimostrare concretamente di volerlo fare, e quindi poi per non essere esclusi
dalla salvezza eterna. Ma la salvezza dell’anima,
nell'aldilà, non è la stessa cosa della salvezza
dell’umanità qui in questo mondo, che significa creare, oggi, durante
questa vita, società migliori, non solo persone pie, e ciò per diminuire la
sofferenza e fare di tutta l’umanità una sola famiglia (così si
espressero i saggi dell’ultimo Concilio). Se si prende questa via, se ci si
propone questo tipo di salvezza, allora si pongono questioni
specificamente politiche, perché la politica è l’azione collettiva
per organizzare le società. In religione si è sempre fatta politica, anche
molto prima che la nostra fede divenisse anche ideologia politica dell'impero
mediterraneo in cui si diffuse, dal Quarto secolo della nostra era. Non sarebbe
potuta diventarlo se non si fosse ragionato di politica già prima.
Del resto la condanna del Maestro fu motivata come punizione di un
crimine politico: l’aver voluto farsi re. Questo anche se egli non
fu certamente un capo politico. La politica venne dopo, quando si trattò di
dare un’organizzazione a collettività sempre più vaste. Ma troviamo traccia di
questo pensiero politico già negli scritti sacri nella nostra fede, in
particolare nell’ultimo libro che li compone, dove, dopo la prefigurazione di
una serie di immani tragedie della storia umana, in cui si criticano aspramente
le prassi politiche del dominio romano, c’è la visione di una nuova
città che scende dall’alto, perché tutto quello che c’era prima
non c’è più, e allora sarà asciugata ogni lacrima. La politica è parte
importante del pensiero del teologo e vescovo nord-africano Agostino d’Ippona,
vissuto tra Quarto e il Quinto secolo della nostra era: ne trattò in un libro
intitolato La Città di Dio, nel quale si contrappongono due
concezioni della politica viste come in conflitto insanabile.
Presto le nostre
organizzazioni religiose si diedero struttura politica e iniziarono a fare politica
trattando con i sovrani civili. Più o meno dall’Ottavo secolo il vertice
religioso ebbe un piccolo regno nell’Italia centrale e fu anche un
sovrano civile. Si ritenne che questo fosse indispensabile per trattare da pari
con gli altri sovrani. Due secoli dopo quel vertice volle farsi impero e
quindi dominare tutti gli altri sovrani, dettare
loro legge da un trono religioso. La giustificazione di questo potere
rivendicato come supremo, e talvolta anche riconosciuto effettivamente come
tale, era che consentiva di ammaestrare le genti, per farne collettività devote
e in tal modo per condurle alla vita eterna. La salvezza terrena dell’umanità
era fuori del campo d’azione praticato: per questo non si mise in questione che
potessero esserci guerre, anche molte sanguinose, alcune delle quali promosse
direttamente o comunque assentite dai capi religiosi. Né, in genere, costituì
un problema religioso il genocidio degli amerindi, delle popolazioni di antica
origine asiatica che i colonizzatori europei trovarono scoprendo le
Americhe, attuato da potenze europee sacralizzate secondo la
nostra religione. Né, più vicino a noi e a riguardo della politica italiana, lo
costituirono le sanguinose guerre coloniali attuate dal Regno d’Italia in
Eritrea ed Etiopia, abitate da genti della nostra fede benché di altra
confessione, e in Libia. In Etiopia ci fu un fatto di sterminio di religiosi,
come vendetta militare. Si consideravano tutti questi eventi come fatti umani
fisiologici dal punto di vista sociale e, in definitiva,
insuperabili, se non alla fine dei tempi. L’importante è che ai morituri e
morenti fosse aperta la via per la vita eterna, attraverso l’ammaestramento
religioso. A tal fine occorreva garantire immunità al clero, ai religiosi (gli
appartenenti a congregazioni di frati, e suore, monaci e monache) e ai loro
beni. Raggiunta questa, in particolare mediante concordati e
altri accordi, conclusi e formalizzati al modo di quelli che si
concludevano tra potenze civili, non si considerava che occorresse fare molto
altro, dal punto di vista politico, e, anzi, si accordava di buon grado
la sacralizzazione al potere civile con cui ci si era,
sostanzialmente, federati. L’essere anche un potere civile al
modo di uno stato, più che la sua maestà religiosa,
sottraeva il papato al dominio degli altri sovrani civili. Il papato fu
concepito molto presto come un potere assoluto e questo lo espose al degrado
etico a cui sono soggetti i poteri politici senza limiti. Questo fu
particolarmente sensibile intorno all’anno Mille, ma la situazione non migliorò
sostanzialmente fino al Cinquecento, secolo in cui, stimolati dalla Riforma
luterana, si diede un migliore profilo etico ai poteri ecclesiastici.
Fino a quell’epoca, come per le dinastie politiche sacralizzate non
si esigeva che i regnanti fossero personalmente e in
tutto rispettosi dei precetti religiosi, si adottarono gli stessi
criteri per determinare la coerenza morale dei poteri religiosi, che si fecero
lecito una parte di ciò che vietavano ai fedeli comuni e che rientrava nelle
abitudini correnti dei regnanti. Quindi, a lungo non ci furono molte differenze
tra un principe civile e uno religioso, in particolare nel modo in cui si
relazionavano con i loro sudditi. L’attuazione della
giustizia sociale come oggi la intendiamo non era considerata
indispensabile per i regnanti, i quali se ne occupavano molto poco.
La situazione iniziò a
mutare con l’emergere dei processi democratici di massa, nell’Ottocento e in
Europa e nelle parti del mondo colonizzate dagli europei. Inizialmente fu in
questione la libertà, che presto in teologia si diffamò come arbitrio,
licenza immorale e insubordinazione. Poi, con lo
strutturarsi di movimenti di massa, in particolare di quelli socialisti,
cominciò ad essere rivendicata la giustizia sociale, sulla base di eguaglianza
in dignità e di solidarietà civile. Tutti i
poteri assoluti furono minacciati e dovettero venire a patti politici,
fondamentalmente ponendo dei limiti al proprio potere, in particolare
concedendo statuti. Il papato non vi fu costretto perché, nel
processo di unificazione nazionale, nel 1870 perse il suo piccolo regno
italiano, rimanendo solo una potenza religiosa. Si sentì menomato. Reagì
politicamente cercando di suscitare un movimento di massa ostile ai movimenti
liberali e nazionalisti che dominavano la politica dell’invasore, del Regno
d’Italia, e che lo avevano spinto contro il piccolo regno del papato. Utilizzò
ciò che c’era già, vale a dire il vasto e multiforme mondo dell’associazionismo
solidale che si era formato in Italia su ispirazione religiosa, animato dal
clero di base, e i ceti colti che avevano suscitato. dal Settecento, la
polemica religiosa contro l’Illuminismo. Volle animare il
popolo minuto, in particolare quello del mondo contadino, ritenuto ancora
fedele al suo potere, a differenza della borghesia liberale. Per farlo costruì
una dottrina di giustizia sociale, quella che viene definita dottrina
sociale, che è parte del magistero, quindi della teologia insegnata
d’autorità dal papato. Questo generò un pensiero sociale e correnti
democratiche: si pensava anche a una democrazia animata dai valori
sociali della fede. A cavallo tra Ottocento e Novecento si venne a una
resa dei conti tra esse e quelle, dette intransigenti (verso
lo stato liberale), che ponevano al centro di tutto i diritti politici violati
del papato e i suoi interessi patrimoniali colpiti pesantemente dalla prima
legislazione del Regno d’Italia (il clero e gli ordini religiosi erano, e sono,
tra i maggiori proprietari immobiliari). Intervenne il papato d’autorità, tra
il 1902 e il 1906, scomunicando, nel vero senso della parola, le correnti democratico
cristiane, e costruendo l’Azione Cattolica, come
movimento di indottrinamento di massa secondo la dottrina sociale. Questa
organizzazione ebbe uno straordinario successo popolare, in particolare fra le
donne. Fu la maggiore scuola di politica di massa fino agli scorsi anni ’70.
Era organicamente collegata alla gerarchia del clero, che ne nominava i capi.
Quando il papato romano si compromise con il regime fascista, nel 1929, risolvendo
la questione romana con i Patti Lateranensi, ritornando
sovrano politico nel quartiere romano di Borgo e ricevendo ingenti indennizzi
patrimoniali, fu spinta a fascistizzarsi politicamente, ma le sue
organizzazioni intellettuali, FUCI(gli universitari) e Movimento
Laureati Cattolici, resistettero, svilupparono un pensiero politico sociale
autonomo sulle suggestioni del personalismo francese dei filosofi Jacques
Maritain ed Emmanuel Mounier e formarono la classe politica che, dopo aver
partecipato alla guerra di Resistenza contro il regime fascista e l’occupante
tedesco combattuta tra il 1943 e il 1945, dominò poi la politica democratica
italiana fino al 1994, sostenuta dalle masse di Azione Cattolica.
A partire dalla Prima Guerra
Mondiale (1914-1918) nella dottrina sociale comparì il tema della pace.
Non si arrivò ancora a contestare il diritto dei poteri civili di fare
guerra, ad esempio liberando i militari dall’obbligo di fedeltà ai governi
che la proclamavano. Ma si iniziarono a qualificare come inutili le
stragi belliche. Inutili perché? Così furono definite da un
papa verso la fine di quella guerra, nel 1917. Sembrava che le controversie
potessero essere risolte con accordi:
“un giusto accordo
di tutti nella diminuzione simultanea e reciproca degli armamenti secondo norme
e garanzie da stabilire, nella misura necessaria e sufficiente al mantenimento
dell'ordine pubblico nei singoli Stati; e, in sostituzione delle armi,
l'istituto dell'arbitrato con la sua alta funzione pacificatrice, secondo e norme
da concertare e la sanzione da convenire contro lo Stato che ricusasse o di
sottoporre le questioni internazionali all'arbitro o di accettarne la
decisione.” [dalla lettera del
papa Giacomo della Chiesa - Benedetto 15° ai capi delle nazioni belligeranti,
del 1-8-1917].
E, allora, perché la guerra?
In primo
piano, però, non apparivano le stragi, ma il disordine politico conseguente
ai conflitti. Per progredire nell’ideologia di pace occorse altro tempo e
un’altra guerra mondiale.
Dalla Prima
Guerra Mondiale l’Europa uscì molto cambiata e in modo del tutto inaspettato
per i più. I movimenti politici di massa emersero con particolare
forza, perché le masse erano stato molto ideologizzate per spingerle verso il
conflitto (è solo così che si convince la gente ad andare a farsi ammazzare):
in diverse nazioni europee finirono nel dominio di organizzazioni fasciste e in
Russia dei bolscevichi comunisti. Vent’anni dopo si combatté un’altra guerra
mondiale, che viene considerata un po’ come una prosecuzione della prima.
L’Europa orientale finì sotto il dominio dell’Unione Sovietica e nell’altra si
svilupparono movimenti democratici di massa, salvo che in Spagna e Portogallo,
rimasti nel dominio di regimi di tipo nazionalista e fascista non colpiti dalla
guerra in quanto non vi avevano preso parte. Il mondo si divise in due: la
parte con economia capitalista e l’altra con economia comunista. Entrambe le
potenze egemoni nei due schieramenti avevano l’arma nucleare e si constatò che
una guerra nucleare, con l’impiego di quelle armi, avrebbe portato alla fine
dell’umanità, per la ricaduta di particelle radioattive derivate dalle
esplosioni. Fu proprio a quel tempo che il problema della salvezza
dell’umanità in questo mondo cominciò a diventare un problema anche
religioso. Quest’ultimo fu al centro di uno dei documenti più
importanti del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), la costituzione La
gioia e la speranza.
L’appello
alla Politica con la “P” maiuscola che
ci è venuto recentemente dal Papa si inserisce in quel filone ideologico.
E' tale infatti la politica che si propone la salvezza dell’umanità, in
questo mondo, mediante la riforma sociale. Essa ha anche un valore
religioso, perché senza umanità non ci sarebbe più fede e
si ritiene che la fede venga pregiudicata dalla distruzione massiva delle
collettività umane. Dagli anni ’90, dopo la fine della contrapposizione
armata tra blocchi e quindi della possibilità concreta
dello scoppio di un conflitto nucleare terminale, al centro delle
preoccupazioni vi è lo sviluppo economico globale basato
sulla competizione aggressiva, disordinata, insofferente dei
limiti e riluttante alla solidarietà: è questo che, secondo molti osservatori,
minaccia la sopravvivenza degli umani, portando al rapido degrado degli
ambienti naturali e sociali. Questo tema è al centro dell’enciclica Laudato
si’, del 2015, ma era stato già trattato in precedenti documenti
del genere. La novità sta nell’appello all’azione politica, e anche alla lotta,
di massa per evitare la catastrofe naturale e sociale. In un certo senso da noi
cade nel momento sbagliato, perché in Europa la politica è in crisi, sia quella
di governo che quella di massa. Occorre riproporne i fondamenti e, innanzi
tutto, riprendere ad educare alla politica. L’educazione alla
politica comincia facendone tirocinio. Lo si dice, ma raramente si
riescono a fare progetti in materia. E se poi la situazione ci sfuggisse di
mano? E se, invece, la situazione ci fosse già sfuggita di mano e, in
definitiva, imparare la politica fosse l’unico modo per cambiare una situazione
che va rapidamente degenerando?
56. Educare alla democrazia globale
Il mondo è diventato
interconnesso su scala globale. Che significa?
Ieri sono stato al grande
magazzino che c’è vicino casa mia è ho comprato: un cappello, due cravatte, una
cintura. Ho guardato le etichette: tutti sono stati fatti in Cina, dall’altra
parte della Terra. E così è per la gran parte degli abiti che indossiamo e
degli oggetti di uso quotidiano. Ma anche di ciò che mangiamo. E’ una situazione
che ci conviene, come consumatori, perché i prodotti hanno prezzi bassi, alla
portato delle masse, in Europa. Lo sono perché i lavoratori, nei posti dove
vengono prodotti, vengono pagati meno che da noi. Ma anche perché da quelle
parti è arrivata l’automazione e il lavoro produce di più. E’ un fenomeno che è
iniziato più o meno negli anni ’80 del secolo scorso. All’inizio era le
imprese occidentali che organizzavano stabilimenti dove il lavoro veniva pagato
di meno, per aumentare i propri profitti. Ora, però, comincia ad essere
diverso. Anche lì dove si andava a produrre perché il lavoro costava meno si
stanno organizzando grandi imprese locali che si stanno rendendo autonome dagli
occidentali: anche se questi ultimi riportassero in Occidente le produzioni, la
situazione, quindi, non cambierebbe; fallirebbero presto sotto la concorrenza
dell’estero, a meno che il lavoro iniziasse a costare molto meno o i processi
di automazione progredissero molto di più. Quello che sembra incomprimibile è
il profitto, l’utile netto che viene a chi possiede le imprese, detratti
costi di produzione. Ma anche se le imprese che producono le merci di uso
quotidiano decidessero di accettare di ridurne l’entità, non potrebbero farlo,
perché le imprese di produzione sono sempre in debito verso che presta loro
il denaro per produrre. Quando vanno in crisi e falliscono il loro tesoro ha
già da tempo preso il volo, sotto forma di restituzione di prestiti.
Quando i lavoratori reagiscono occupando le fabbriche scoprono che sono sono di
proprietà dei datori di lavoro, erano tutte in prestito.
Non ci sono norme che consenta di coinvolgere la responsabilità di chi ci
ha tanto guadagnato, finché le cose andavano bene. La legge stabilisce una limitazione
di responsabilità. Chi controlla l'economia opera in gran parte in
regime di limitazione di responsabilità. Ad occuparsi delle macerie
sociali che lascia sono le istituzioni pubbliche, alle quali però, per varie
ragioni, mancano le risorse per farlo.
Il denaro è una merce come le
altre. Chi commercia il denaro controlla l’economia. Non produce, non ha
nazionalità, né stabilimenti: il denaro, nel mondo di oggi, può viaggiare
velocemente e rapidamente, sulle reti telematiche che avvolgono il globo. E’ al
sicuro dalle crisi economiche appunto perché può spostarsi in quel modo ed è
diventato un bene immateriale, essenzialmente un fatto contabile. Tutto questo
è consentito da una fitta rete di accordi internazionali, da una realtà
giuridica a livello mondiale che non era pensabile fino agli anni ’80, con il
mondo diviso in due blocchi contrapposti, con sistemi giuridici profondamente
diversi. Non ci sono strumenti giuridici per collegare i grandi profitti che,
anche in tempi di crisi, derivano dal commercio del denaro a responsabilità
sociali quando le cose agli altri vanno male. Il capitale, il denaro impiegato
in attività d'impresa, si può sganciare molto rapidamente da
qualsiasi crisi: tutto coopera a questo, il diritto e la tecnologia.
E’ appunto negli anni ’80 che tutto è cambiato, perché, in definitiva,
si è scelto di produrre e commerciare secondo le stesse norme giuridiche, che
consentono al capitale quella grande libertà. L’effetto sociale, a
livello globale, è che chi è coinvolto in vari modi nel commercio del denaro,
come proprietario di denaro o come collaboratori dei proprietari di denaro,
come i dirigenti d’impresa, gli avvocati, i commercialisti, i proprietari di
brevetti industriali per le nuove invenzioni che servono nella produzione e che
danno diritto a compensi se sfruttate, è emerso, sta molto meglio di tutti gli
altri, mentre i lavoratori, a livello mondiale, si stanno allineando su livelli
di reddito più bassi, molto più bassi. Per gli occidentali questo ha
significato una riduzione dei redditi. In Oriente e in altre parti del mondo è
stato diverso, perché, rispetto alla situazione di prima, i redditi sono
aumentati. I consumatori sono in maggior parte lavoratori. Per loro, come
consumatori va ancora bene, perché le merci costano poco. Per farle costare
poco bisogna pagare meno i lavoratori, i quali, quindi, progressivamente hanno
meno denaro da impiegare nei consumi. Per favorire i consumi si riducono le
retribuzione dei lavoratori, o si cerca di produrre dove le retribuzioni sono
più basse o si riducono i lavoratori impiegando l’automazione. A livello
mondiale, le norme che consentono al sistema di funzionare, non pongono limiti.
La solidarietà funziona, e sempre meno, solo all’interno di
ogni singola nazione, o, al più, all’interno di ogni
singola federazione di nazione. Tutto ciò è all’origine dei problemi
sociali che affrontiamo oggi.
Se un problema è di
dimensioni globali, può essere affrontato a livello locale?
Evidentemente no. Eppure spesso è questa la soluzione che viene proposta dalle
politiche nazionali e non solo in Italia. E’ in questione la giustizia
sociale. Ma lo è su dimensione globale e non ci sono
soluzioni valide che non comprendano anche di farsi carico di genti lontane,
dove si producono le cose di nostro uso quotidiano. Ecco perché oggi la sfida è
quella di creare una democrazia globale per ottenere che nei
fatti dell’economia si tenga conto anche della maggioranza della gente che
produce e consuma e non solo della piccola minoranza della finanza che
controlla il mercato del denaro. L’impegno è questo, per ciascuno di noi,
perché la democrazia è basata su ciascuno di noi: bisogna convincersi innanzi
tutto che di questa situazione siamo tutti responsabili,
in quanto in qualche modo complici di chi l'ha determinata, e
che, insieme, si può cercare di cambiarla. Non è infatti un evento della
natura, come i temporali e i terremoti, o un prodotto di volontà
soprannaturale, ma solo una costruzione umana. E' stata fatta e la si può
cambiare.
57. Il contributo della religione ad una nuova democrazia globale
Pensare in termini di
sopravvivenza dell’umanità è un’esigenza nuova e infatti riesce difficile ai
grandi come ai piccoli. In religione si hanno le risorse per imparare a farlo.
Ma solo da pochi decenni la teologia ha cominciato a ragionarci sopra e quindi
questo suo lavoro, ancora troppo recente, non si è tradotto effettivamente in
processi formativi delle masse dei fedeli. In passato si è in genere ragionato
il termini dipopoli di fedeli contrapposti alle potenze infedeli che
si opponevano alla religione. Nelle guerre ci si sforzava di convincersi che il
Cielo stesse dalla propria parte. La guerra, in definitiva, veniva considerata
come un fatto umano insuperabile se non alla fine dei tempi, un flagello come
gli eventi naturali avversi, una catastrofe come un terremoto o un ciclone o un
stagione di forte siccità. Nel mondo globalizzato di oggi si ricomincia a
pensarla così, non si esclude la possibilità di conflitti anche di grande
entità: è la cultura internazionale, quella praticata da chi domina il mondo, a
spingere verso questo modo di ragionare. Sembra che la sopravvivenza
dell’umanità non si più legata ad un ordine pacifico mondiale. Quello su cui
tutti concordano è un ordine giuridico mondiale che consenta la massima libertà ai
capitali, sia di movimento che di sfruttamento del lavoro e dell’ambiente. Un
pensiero che va in direzione contraria è quello espresso nell’enciclica Laudato
si’, del 2015, nella quale sono sintetizzate le idee critiche sulla
situazione globale.
Di solito nei conflitti
chi sta meglio in società ha più probabilità di scamparla. A rimetterci sono di
solito le masse, e questo anche se sono spinte le une contro le altre con la
prospettiva di rapinare le ricchezze altrui e di guadagnarci, come fecero i
fascismi europei. Chi predicava, da noi, la guerra come igiene nel
mondo, non pensava a sé stesso come sporco da eliminare,
ma alle masse, che trovava imbelli e troppo attaccate alle loro misere cose. E’
una situazione che fatalmente si ripropone tutte le volte che si ricomincia a
pensare al conflitto come via di risoluzione delle controversie tra i popoli.
La nostra Costituzione lo vieta, ma questo finora non ha costituito un serio
problema, quando i capi politici hanno deciso che era il momento di fare di
nuovo guerra. L’Italia è infatti impegnata su diversi fronti di guerra. Nella
Costituzione c’è anche il collegamento tra lavoro e democrazia e il divieto di
umiliare il lavoro, lo ha ricordato il Papa l’altro giorno a Genova. “E’
anticostituzionale”, ha detto. E’ così: un ordine che umilia il lavoro vacontro la
Costituzione vigente in Italia, è quindi eversivo. E’ significativo
che sia rimasto quasi solo un Papa a proclamarlo alle masse, e per di più un
Papa americano, venuto veramente da un altro mondo. Da noi con molta disinvoltura
si passa sopra alla volontà delle masse, anche quando si è espressa
formalmente, ad esempio con la richiesta di referendum sui tagliandi-lavoro,
quella forma di retribuzione veramente poco impegnativa per chi utilizza il
lavoro, senza ferie, senza sicurezza nella malattia e in gravidanza, senza
limiti d’orario di lavoro, senza garanzie di qualifica, insomma senza
vera responsabilità sociale. Si era chiesto un
referendum sulla legge che li prevedeva. Si sono raccolte le firme sufficienti
perché fosse indetto. Allora si è cambiata la legge e si sono aboliti i tagliandi-lavoro.
Il referendum, così, non si farà più. Ma dopo poco tempo, mesi addirittura, li
si vuole reintrodurre con un'altra legge. Così per ottenere che la questione
venga sottoposta al voto popolare bisognerebbe raccogliere le firme non una, ma
due volte.
Si parla di queste cose e si
viene presi per agitatori sociali. Ma in effetti è proprio questo che occorre
diventare. Il quieto vivere non ripara le masse nei conflitti. Se non si agitano
soccomberanno, avranno la peggio. E’ sempre andata così. Nei conflitti vengono
strumentalizzate, ideologizzandole, perché le guerre devono pur essere
combattute da qualcuno, qualcuno deve rischiare la pelle e tutto ciò che ha e
che è, ma di solito le combatte veramente chi ha solo da rimetterci,
comunque vadano le cose. La storia ce lo insegna. Così la Festa della
Repubblica, che si celebra il 2 Giugno, non dovrebbe essere centrata su una
parata militare. Si celebra la scelta del popolo italiano, il 2 giugno 1946, di
essere una repubblica, da regno che era. Questa scelta fu possibile solo con il
ritorno della pace, che era avvenuto circa un anno prima. Fu allora che,
finalmente, il popolo fu ascoltato. Si era conquistato il diritto ad esserlo,
cambiando profondamente, in un processo che era stato propriamente una
conversione di massa. Non era scontato che ci si riuscisse dopo decenni di
indottrinamento in senso contrario. In Germania, ad esempio, il processo fu
molto più lento. In Italia, però, c’erano le premesse per riuscirci più
rapidamente. Non fu un caso che dal 1946 al 1994 la politica italiana sia stata
dominata da un partito cristiano, ispirato alla dottrina sociale.
Di solito la democrazia
viene inquadrata in un orizzonte di tipo nazionalista: da noi quello,
richiamato nell’inno nazionale, dei fratelli d’Italia. E’ già
molto, naturalmente, in una nazione che a lungo fu divisa in tanti staterelli e
che solo di recente ha conquistato una lingua comune. Si capì che divisi si
contava di meno in campo internazionale. Ma ora questo non basta più. Si deve
ragionare su scala globale e in questo si è favoriti dal fatto che i costumi
dell’umanità si sono molto ravvicinati negli ultimi cinquant’anni. Viaggiamo di
più, sappiamo di più. Il problema è quello di incontrarsi veramente
per suscitare un movimento mondiale che potremmo definire della pace e
del lavoro. Una potenza così c’è già ed è appunto, attualmente, la nostra
Chiesa. Nella quale tuttavia le dinamiche democratiche sono solo allo stato
embrionale. C’è molto da fare. E si può cominciare da realtà locali, come
quella della parrocchia.
Fare tirocinio di
democrazia globale richiede una visione religiosa, che
consenta di pensare in grande. Essa permette di porsi dal punto di vista del
Cielo. Ma richiede anche la pratica dei valori democratici,
prima ancora che dei metodi democratici. In parrocchia
sembra che la gente conti poco, che ci sia o non ci sia in fondo non è
così importante, le cose vanno avanti lo stesso, e infatti partecipa poco. Viene
più che altro da spettatrice. Invece la democrazia esige quel tipo di giustizia
che viene definita giustizia partecipativa: occorre fare qualcosa,
impegnarsi, contribuire al lavoro collettivo, non si tratta solo di alzare la
mano o di infilare una scheda in una scatola per votare. E’ partecipando che
si conquista il diritto ad essere considerati, a contare veramente. In una
dinamica così, l’autorità del parroco virerà progressivamente, di fatto, da
quella di un funzionario locale di un principato religioso a quella di un
presidente di assemblea. A partire dal tirocinio locale di democrazia globale
le cose possono cambiare. E’ da realtà così che sono emersi molti dei
capi politici democratici di oggi in Europa occidentale. Non è come negli Stati
Uniti d’America, in cui di solito si riesce a salire al vertice
solo se si è molto ricchi e, in genere, da diverse generazioni. Si tratta di
riprendere quel lavoro di formazione che in una realtà come l’Azione Cattolica
si è sempre fatto, dalla sua fondazione, ripensandolo, tuttavia, per la realtà
globalizzata di oggi.
58. Sperimentare soluzioni nuove: rivitalizzare i mondi
vitali
Negli anni ’70, in
Italia si visse un periodo di crisi sociale, politica e religiosa, ma non si
era d’accordo nell’individuarne le cause e nel prevederne le prospettive. Si
chiedeva consiglio ai sociologi, i profeti dei tempi moderni, e loro
rispondevano. Mio zio Achille era uno di loro. C’era chi si aspettava molto dal
nuovo capitalismo che cominciava ad essere osservato, quello che oggi domina il
mondo; c’era invece chi confidava ancora di poter trasformare la nostra società
secondo i principi del socialismo; c’era chi voleva innanzi tutto liberare le
persone dalle costrizioni sociali: mio zio sviluppò una teoria che vedeva nella
crisi dei mondi vitali, i luoghi sociali in cui si produce il senso
personale e collettivo della vita, l’origine dei problemi. In questa visione la
dimensione giusta per ripartire era a livello locale, di prossimità.
Oggi tutti sono d’accordo
sulle cause della crisi e sui suoi sviluppi. Si sa come andranno a finire le
cose. Ci si divide tra chi ritiene questo processo ineluttabile, come lo sono i
terremoti e le eruzioni vulcaniche, e pensa che non resti che cercare di
adattarvicisi, e chi ancora vorrebbe reagire per cambiare il corso degli
eventi. Alcuni, e tra essi gli autori dell’enciclica Laudato si’,
pensano che sia in questione la sopravvivenza dell’umanità, che quindi,
procedendo così come si sta facendo, si andrà a finire molto male; altri
prevedono solo la fine di forme sociali che sembravano molto radicate e che
invece si stanno rapidamente sfaldando. Le fini dei mondi sociali non sono mai
indolori. Negli scorsi anni ’70 si era però ottimisti sulle prospettive: dalla
fine del Settecento i cambiamenti sociali avevano prodotto, sia pure attraverso
percorsi piuttosto travagliati e in particolare conflitti accesi, miglioramenti
di massa, un aumento del benessere, almeno tra gli europei, quelli del nostro
continente e quelli della colonizzazione delle altri parti del globo. Le
previsioni di oggi non vanno in quel senso. In particolare, si è convinti che,
se anche si sopravvivrà, ci sarà molta meno libertà. Si costruiranno ingranaggi
sociali e giuridici che incastreranno gli individui in ruoli molto definiti;
le società saranno dominate da oligarchie molto ristrette, che accentreranno il
controllo della gran parte delle ricchezze e che troveranno sempre minori
limiti. Già oggi è sensibile questa nuova situazione. I sociologi osservano che
il nostro profilo prevalente è quello di consumatori: le nostre scelte sono in
gran parte orientate da tecnologie su base psicologica, da persuasori che
ci fanno sentire a disagio, strani, se non seguiamo certe
abitudini.
La progressiva mancanza di
libertà incide sulla tradizione religiosa e questo benché storicamente la
religione sia apparsa spesso in antitesi con la libertà delle persone, come un
sistema molto costrittivo di limiti sociali controllato da oligarchie
gerarchiche con molte pretese. La modernità è stata quindi vista
come un processo di liberazione da questo giogo. In
realtà la possiamo concepire come un processo di sostituzione di
un ordine con un altro, anch’esso molto pervasivo. Ma al fondo delle esigenze
religiose c’è un’esigenza di libertà: si pensa infatti che ci sia una verità sulle
persone e la loro vita che rende liberi. Essa è stata all’origine
di tutti i movimenti di riforma religiosa. Ed anche
all’origine delle democrazie contemporanee, che si basano sull’idea religiosa
che si sia tutti creati uguali. Essa risultava evidente
ai rivoluzionari statunitense i quali nel 1776 proclamarono:
“Riteniamo verità evidenti che tutti
gli esseri umani sono stati creati uguali, dotati dal loro Creatore di certi
inalienabili Diritti, e tra questi quello alla Vita, alla Libertà e alla
ricerca della Felicità”.
Questi principi giustificavano,
secondo loro, non solo la secessione dalla monarchia europea
di origine, ma anche una rivoluzione sociale.
Evidente significa
che non ha bisogno di essere provato. Quelle verità lo sono ancora? Fino
agli scorsi anni ’70 lo sembravano ancora. Ma la cultura sociale è molto
cambiata. E certe convinzioni sono messe a dura prova della realtà
contemporanea, in particolare dai rimescolamenti di popoli prodotti dalle migrazioni
caratteristiche della globalizzazione, per cui dall’altra parte del
mondo non ci vengono sono le merci di uso comune, ma anche altre vite umane.
Una realtà che, alla fine del Settecento, quando iniziarono i processi
democratici contemporanei, con difficoltà si poteva immaginare e prevedere in
tutti i suoi sviluppi. I rivoluzionari statunitensi che ho ricordato non
avevano difficoltà, ad esempio, ad importare e impiegare manodopera schiava
nelle loro aziende agricole.
In definitiva la nostra
fede fa resistenza agli sviluppi della globalizzazione
che tutti più o meno prevedono. La prospettiva di un’umanità ridotta a un
formicaio non soddisfa da un punto di vista religioso. Si pensava di
farne un’unica famiglia. Ecco quindi che
nell’enciclica Laudato si’ troviamo espresse idee che
hanno una portata rivoluzionaria rispetto alla mentalità corrente. Si va be’, rivoluzione,
ma chi la farà poi? Non si vede all’opera un agente rivoluzionario.
Le nostre collettività, in genere, sono state dalla parte di chi dominava,
hanno cercato accordi, accomodamenti, hanno sacralizzato più
o meno tutti i poteri che ambivano ad esserlo. Va a finire che anche adesso
finirà così. Ma non sarà così semplice farlo. Perché si dovrebbe rinunciare a
cose essenziali, ribaltare la dottrina. Ci si sta pensando? L’altro giorno,
su Avvenire, è sorta una polemica sul personalismo,
che è la via alla democrazia e alla libertà originata nell’ambito della
nostra fede e che gente della nostra fede ha inserito tra i principi
fondamentali della Costituzione vigente: c’è chi vorrebbe abbandonarlo e chi
invece replica che occorre praticarlo fino a tutte le sue conseguenze. Fa difficoltà attribuire i diritti
delle persone proprio a tutti gli esseri umani; non
potendo negarglieli, perché questo modo di fare è ancora vissuto come
sconveniente, si pensa di abbandonare l’idea di persona e
il personalismo.
Mio zio Achille, quando gli
chiedevano che fare, dava ricette concrete. Suggeriva, ad esempio, di fare i
congressi di partito e delle grandi associazioni in piccoli paesi, in modo
da pervaderli totalmente suscitando o rafforzando realtà
di mondo vitale. Nel 1986 il congresso nazionale del partito cristiano,
all’epoca ancora egemone, si tenne a Cervia, in Romagna, proprio nella piazza
davanti casa sua. Oggi gli esperti che ci chiariscono con molta precisione le
cause della crisi, al dunque non ci sono utili per definire vie di resistenza e
di cambiamento. E’ il neocapitalismo all’origine di tutto, ma loro, in
sostanza, ci dicono di insistere su quella strada, quella della competizione e
dello sfruttamento. Alcuni pensano di reagire chiudendosi in
comunità corazzate: è questa la via che molto a lungo, fino all’ottobre del
2015, si è seguita in parrocchia. Ora la gente è molto sospettosa, teme
di venire catturata, ha ripreso a venire numerosa, ma, a qualsiasi
proposta di impegno, risponde in genere come Trump al Papa durante la visita di
qualche giorno fa, che ci penserà tra qualche giorno.
Rivitalizzare le realtà di mondo vitale del quartiere può
essere una buona prospettiva. Se la gente ritrova il senso della vita si
impegnerà nuovamente in un lavoro comune. Non va sottovalutato l’impatto che un
quartiere può avere nella vita cittadina. Migliaia di persone sono una
massa critica, vale a dire sufficiente per innescare una reazione
sociale significativa, ad esempio a influenzare l’offerta di mercato, quindi
l’economia locale, orientando i consumi. In definitiva si apre la prospettiva
di una vita più bella. In particolare per i più giovani. Quando i genitori
chiedono loro se vogliono proseguire sulla via della Cresima, spesso i bambini
tentennano. Non sanno di che si privano. Del resto sono bambini. E i
genitori lo sanno?
La prima cosa su cui
riflettere, in un’ottica di rivitalizzazione di mondi vitali, è
quella che viene definita giustizia partecipativa. E’ molto
importante nei processi democratici. Chi si riconosce, oggi, in
debito di partecipazione? Eppure, a pensarci bene, è chiaro che
siamo addirittura insolventi in questo campo. Ognuno se ne sta un po’ sulle
sue. E’ il consumismo che ci spinge a questo. Un consumatore isolato è
indifeso, malleabile: è questo l’ideale per i tecnologi persuasori.
Non c’è critica sociale se si rimane isolati. E’ questo il limite gravissimo
della democrazia digitale che si vorrebbe sostituire a quella
formale, basata sulla tradizione democratica. La sensazione di libertà che
ciascuno ha digitando avanti al proprio pc è falsa. E’ solo incontrandosi che
ci si libera. Questa è appunto la via della religione. Ancora oggi, nel
nostro quartiere, il suono della campane chiama alla vita comune.