Appunti sulla riforma costituzionale sottoposta a
referendum
Occorre informarsi
personalmente sulla materia oggetto
del prossimo referendum costituzionale: l'altro giorno siamo stati invitati a farlo dal presidente della Conferenza Episcopale Italiana. E’ un compito che
non ci compete solo come cittadini, ma anche come persone di fede. Ha a che
fare con la politica, che significa prendersi
cura della casa comune, come indicato nell’enciclica Laudato si’. Ma richiede uno
sforzo, per andare oltre gli slogan semplicistici che vengono proposti per
convincerci a decidere in un senso o in un altro. Una buona parte di essi non
solo semplificano, ma lo fanno anche arbitrariamente, vale a dire che sono falsi.
Un politico che semplifica in quel modo non è un buon politico. Chi lo segue non è un buon cittadino. La
prima esigenza della politica è quella della verità, ma quest’ultima va
ricercata pazientemente e conquistata, vagliando realisticamente fatti e
affermazioni. E soprattutto: il buon
cittadino non accetta cambiali in bianco dai capi politici. Gli atteggiamenti
fideistici sono l’antitesi della democrazia.
Per contribuire a quell’informarsi a cui tutti
dobbiamo sentirci chiamati, ripubblico in un solo documento il testo dei vari
interventi sulla recente riforma costituzionale che ho pubblicato a partire
dallo scorso luglio.
Indice:
1.
Il testo della riforma costituzionale
2. La riforma a volo d’angelo
3. Servizio parlamentare
come tirocinio di governo democratico
4. La
Nazione
5. Tempo
per fare politica
6. Degrado della politica ed eclisse del Parlamento -
parte prima
7. Degrado della politica ed eclisse del Parlamento - parte seconda
8. Degrado della politica ed eclisse del Parlamento - parte terza
9. Degrado della politica ed eclisse del Parlamento - parte quarta
10. Degrado della politica ed eclisse del Parlamento - parte quinta
11. Degrado della politica ed eclisse del Parlamento - parte sesta
12. Il Senato come imputato
13. Ho conosciuto uno dei nuovi padri costituenti
14. Un Senato depotenziato: farà meno cose, ma quelle
che farà saranno quasi tutte le stesse della Camera dei Deputati
15. La riforma costituzionale e le "riforme"
16. La controriforma regionale
17. La società atomizzata, il referendum, la
democrazia
18. Prendersi cura della casa comune
19. Democrazia: un
sistema di potere collettivo con limiti stringenti a ciascuna autorità pubblica
sulla base di valori condivisi
20. L’illusione dell’«uomo forte»
21. Come bambini
22. Non un referendum
sulla Costituzione, ma solo su una legge di revisione costituzionale
23. Capire la politica
- 1 -
Il testo della riforma costituzionale
CAMERA DEI DEPUTATI
Testo
di legge costituzionale approvato in seconda
votazione a maggioranza assoluta, ma inferiore ai
due terzi dei membri di ciascuna Camera,
recante: «Disposizioni per il superamento
del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il
contenimento dei costi di funzionamento delle
istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del
titolo V della parte II della Costituzione».
(16A03075)
(Gazzetta
Ufficiale n.88 del 15-4-16)
Avvertenza:
Il testo della legge costituzionale e' stato
approvato dal Senato della Repubblica, in seconda votazione, con la
maggioranza assoluta dei suoi componenti, nella seduta del 20
gennaio 2016, e dalla Camera dei deputati, in seconda votazione, con la
maggioranza assoluta dei suoi componenti, nella seduta del 12
aprile 2016.
Entro tre mesi dalla pubblicazione nella
Gazzetta Ufficiale del testo seguente, un quinto dei membri
di una Camera, o cinquecentomila elettori, o cinque Consigli
regionali potevano domandare che si proceda al
referendum popolare. Ciò è avvenuto. Il prossimo 4 dicembre si svolgerà il referendum sulla riforma costituzionale.
Capo I
MODIFICHE
AL TITOLO I DELLA PARTE II DELLA COSTITUZIONE
Art. 1.
(Funzioni delle
Camere).
1. L'articolo 55 della Costituzione è sostituito
dal seguente:
«Art. 55. – Il Parlamento si compone della
Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.
Le leggi che stabiliscono le modalità di
elezione delle Camere promuovono l'equilibrio tra donne e uomini nella
rappresentanza.
Ciascun membro della Camera dei deputati
rappresenta la Nazione.
La Camera dei deputati è titolare del rapporto
di fiducia con il Governo ed esercita la funzione di indirizzo politico, la
funzione legislativa e quella di controllo dell'operato del Governo.
Il Senato della Repubblica rappresenta le
istituzioni territoriali ed esercita funzioni di raccordo tra lo Stato e gli
altri enti costitutivi della Repubblica. Concorre all'esercizio della funzione
legislativa nei casi e secondo le modalità stabiliti dalla Costituzione, nonché
all'esercizio delle funzioni di raccordo tra lo Stato, gli altri enti
costitutivi della Repubblica e l'Unione europea. Partecipa alle decisioni
dirette alla formazione e all'attuazione degli atti normativi e delle politiche
dell'Unione europea. Valuta le politiche pubbliche e l'attività delle pubbliche
amministrazioni e verifica l'impatto delle politiche dell'Unione europea sui
territori. Concorre ad esprimere pareri sulle nomine di competenza del Governo
nei casi previsti dalla legge e a verificare l'attuazione delle leggi dello
Stato.
Il Parlamento si riunisce in seduta comune dei
membri delle due Camere nei soli casi stabiliti dalla Costituzione».
Art. 2.
(Composizione
ed elezione del Senato della Repubblica).
1. L'articolo 57 della Costituzione è sostituito
dal seguente:
«Art. 57. – Il Senato della Repubblica è
composto da novantacinque senatori rappresentativi delle istituzioni
territoriali e da cinque senatori che possono essere nominati dal Presidente
della Repubblica.
I Consigli regionali e i Consigli delle Province
autonome di Trento e di Bolzano eleggono, con metodo proporzionale, i senatori
tra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, tra i sindaci dei
Comuni dei rispettivi territori.
Nessuna Regione può avere un numero di senatori
inferiore a due; ciascuna delle Province autonome di Trento e di Bolzano ne ha
due.
La ripartizione dei seggi tra le Regioni si
effettua, previa applicazione delle disposizioni del precedente comma, in
proporzione alla loro popolazione, quale risulta dall'ultimo censimento
generale, sulla base dei quozienti interi e dei più alti resti.
La durata del mandato dei senatori coincide con
quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti,
in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri
in occasione del rinnovo dei medesimi organi, secondo le modalità stabilite
dalla legge di cui al sesto comma.
Con legge approvata da entrambe le Camere sono
regolate le modalità di attribuzione dei seggi e di elezione dei membri del
Senato della Repubblica tra i consiglieri e i sindaci, nonché quelle per la
loro sostituzione, in caso di cessazione dalla carica elettiva regionale o
locale. I seggi sono attribuiti in ragione dei voti espressi e della
composizione di ciascun Consiglio».
Art. 3.
(Modifica
all'articolo 59 della Costituzione).
1. All'articolo 59 della Costituzione, il
secondo comma è sostituito dal seguente:
«Il Presidente della Repubblica può nominare
senatori cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel
campo sociale, scientifico, artistico e letterario. Tali senatori durano in
carica sette anni e non possono essere nuovamente nominati».
Art. 4.
(Durata
della Camera dei deputati).
1. L'articolo 60 della Costituzione è sostituito
dal seguente:
«Art. 60. – La Camera dei deputati è eletta per
cinque anni.
La durata della Camera dei deputati non può
essere prorogata se non per legge e soltanto in caso di guerra».
Art. 5.
(Modifica
all'articolo 63 della Costituzione).
1. All'articolo 63 della Costituzione, dopo il
primo comma è inserito il seguente:
«Il regolamento stabilisce in quali casi
l'elezione o la nomina alle cariche negli organi del Senato della Repubblica possono
essere limitate in ragione dell'esercizio di funzioni di governo regionali o
locali».
Art. 6.
(Modifiche
all'articolo 64 della Costituzione).
1. All'articolo 64 della Costituzione sono
apportate le seguenti modificazioni:
a) dopo il primo comma è inserito il seguente:
«I regolamenti delle Camere garantiscono i
diritti delle minoranze parlamentari.
Il regolamento della Camera dei deputati
disciplina lo statuto delle opposizioni»;
b) il quarto comma è sostituito dal seguente:
«I membri del Governo hanno diritto, e se
richiesti obbligo, di assistere alle sedute delle Camere. Devono essere sentiti
ogni volta che lo richiedono»;
c) è aggiunto, in fine, il seguente comma:
«I membri del Parlamento hanno il dovere di
partecipare alle sedute dell'Assemblea e ai lavori delle Commissioni».
Art. 7.
(Titoli di ammissione
dei componenti del Senato della Repubblica).
1. All'articolo 66 della Costituzione è
aggiunto, in fine, il seguente comma:
«Il Senato della Repubblica prende atto della
cessazione dalla carica elettiva regionale o locale e della conseguente
decadenza da senatore».
Art. 8.
(Vincolo di
mandato).
1. L'articolo 67 della Costituzione è sostituito
dal seguente:
«Art. 67. – I membri del Parlamento esercitano
le loro funzioni senza vincolo di mandato».
Art. 9.
(Indennità
parlamentare).
1. All'articolo 69 della Costituzione, le
parole: «del Parlamento» sono sostituite dalle seguenti: «della Camera dei
deputati».
Art. 10.
(Procedimento
legislativo).
1. L'articolo 70 della Costituzione è sostituito
dal seguente:
«Art. 70. – La funzione legislativa è esercitata
collettivamente dalle due Camere per le leggi di revisione della Costituzione e
le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle
disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche,
i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all'articolo 71,
per le leggi che determinano l'ordinamento, la legislazione elettorale, gli
organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città
metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei
Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini
della partecipazione dell'Italia alla formazione e all'attuazione della normativa
e delle politiche dell'Unione europea, per quella che determina i casi di
ineleggibilità e di incompatibilità con l'ufficio di senatore di cui
all'articolo 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto
comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e
nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132,
secondo comma. Le stesse leggi, ciascuna con oggetto proprio, possono essere
abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi approvate a
norma del presente comma.
Le altre leggi sono approvate dalla Camera dei
deputati.
Ogni disegno di legge approvato dalla Camera dei
deputati è immediatamente trasmesso al Senato della Repubblica che, entro dieci
giorni, su richiesta di un terzo dei suoi componenti, può disporre di
esaminarlo. Nei trenta giorni successivi il Senato della Repubblica può
deliberare proposte di modificazione del testo, sulle quali la Camera dei
deputati si pronuncia in via definitiva. Qualora il Senato della Repubblica non
disponga di procedere all'esame o sia inutilmente decorso il termine per
deliberare, ovvero quando la Camera dei deputati si sia pronunciata in via
definitiva, la legge può essere promulgata.
L'esame del Senato della Repubblica per le leggi
che danno attuazione all'articolo 117, quarto comma, è disposto nel termine di
dieci giorni dalla data di trasmissione. Per i medesimi disegni di legge, la
Camera dei deputati può non conformarsi alle modificazioni proposte dal Senato
della Repubblica a maggioranza assoluta dei suoi componenti, solo
pronunciandosi nella votazione finale a maggioranza assoluta dei propri
componenti.
I disegni di legge di cui all'articolo 81,
quarto comma, approvati dalla Camera dei deputati, sono esaminati dal Senato
della Repubblica, che può deliberare proposte di modificazione entro quindici
giorni dalla data della trasmissione.
I Presidenti delle Camere decidono, d'intesa tra
loro, le eventuali questioni di competenza, sollevate secondo le norme dei
rispettivi regolamenti.
Il Senato della Repubblica può, secondo quanto
previsto dal proprio regolamento, svolgere attività conoscitive, nonché
formulare osservazioni su atti o documenti all'esame della Camera dei
deputati».
Art. 11.
(Iniziativa
legislativa).
1. All'articolo 71 della Costituzione sono
apportate le seguenti modificazioni:
a) dopo il primo comma è inserito il seguente:
«Il Senato della Repubblica può, con
deliberazione adottata a maggioranza assoluta dei suoi componenti, richiedere
alla Camera dei deputati di procedere all'esame di un disegno di legge. In tal
caso, la Camera dei deputati procede all'esame e si pronuncia entro il termine
di sei mesi dalla data della deliberazione del Senato della Repubblica»;
b) al secondo comma, la parola: «cinquantamila» è
sostituita dalla seguente: «centocinquantamila» ed è aggiunto, in fine, il
seguente periodo: «La discussione e la deliberazione conclusiva sulle proposte
di legge d'iniziativa popolare sono garantite nei tempi, nelle forme e nei
limiti stabiliti dai regolamenti parlamentari»;
c) è aggiunto, in fine, il seguente comma:
«Al fine di favorire la partecipazione dei
cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche, la legge
costituzionale stabilisce condizioni ed effetti di referendum popolari
propositivi e d'indirizzo, nonché di altre forme di consultazione, anche delle
formazioni sociali. Con legge approvata da entrambe le Camere sono disposte le
modalità di attuazione».
Art. 12.
(Modifica
dell'articolo 72 della Costituzione).
1. L'articolo 72 della Costituzione è sostituito
dal seguente:
«Art. 72. – Ogni disegno di legge di cui
all'articolo 70, primo comma, presentato ad una Camera, è, secondo le norme del
suo regolamento, esaminato da una Commissione e poi dalla Camera stessa, che
l'approva articolo per articolo e con votazione finale.
Ogni altro disegno di legge è presentato alla
Camera dei deputati e, secondo le norme del suo regolamento, esaminato da una
Commissione e poi dalla Camera stessa, che l'approva articolo per articolo e
con votazione finale.
I regolamenti stabiliscono procedimenti
abbreviati per i disegni di legge dei quali è dichiarata l'urgenza.
Possono altresì stabilire in quali casi e forme
l'esame e l'approvazione dei disegni di legge sono deferiti a Commissioni,
anche permanenti, che, alla Camera dei deputati, sono composte in modo da
rispecchiare la proporzione dei gruppi parlamentari. Anche in tali casi, fino
al momento della sua approvazione definitiva, il disegno di legge è rimesso
alla Camera, se il Governo o un decimo dei componenti della Camera o un quinto
della Commissione richiedono che sia discusso e votato dalla Camera stessa
oppure che sia sottoposto alla sua approvazione finale con sole dichiarazioni
di voto. I regolamenti determinano le forme di pubblicità dei lavori delle
Commissioni.
La procedura normale di esame e di approvazione
diretta da parte della Camera è sempre adottata per i disegni di legge in
materia costituzionale ed elettorale, per quelli di delegazione legislativa,
per quelli di conversione in legge di decreti, per quelli di autorizzazione a
ratificare trattati internazionali e per quelli di approvazione di bilanci e
consuntivi.
Il regolamento del Senato della Repubblica
disciplina le modalità di esame dei disegni di legge trasmessi dalla Camera dei
deputati ai sensi dell'articolo 70.
Esclusi i casi di cui all'articolo 70, primo
comma, e, in ogni caso, le leggi in materia elettorale, le leggi di
autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali e le leggi di cui agli
articoli 79 e 81, sesto comma, il Governo può chiedere alla Camera dei deputati
di deliberare, entro cinque giorni dalla richiesta, che un disegno di legge
indicato come essenziale per l'attuazione del programma di governo sia iscritto
con priorità all'ordine del giorno e sottoposto alla pronuncia in via
definitiva della Camera dei deputati entro il termine di settanta giorni dalla
deliberazione. In tali casi, i termini di cui all'articolo 70, terzo comma,
sono ridotti della metà. Il termine può essere differito di non oltre quindici giorni,
in relazione ai tempi di esame da parte della Commissione nonché alla
complessità del disegno di legge. Il regolamento della Camera dei deputati
stabilisce le modalità e i limiti del procedimento, anche con riferimento
all'omogeneità del disegno di legge».
Art. 13.
(Modifiche
agli articoli 73 e 134 della Costituzione).
1. All'articolo 73 della Costituzione, il primo
comma è sostituito dai seguenti:
«Le leggi sono promulgate dal Presidente della
Repubblica entro un mese dall'approvazione.
Le leggi che disciplinano l'elezione dei membri
della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica possono essere
sottoposte, prima della loro promulgazione, al giudizio preventivo di
legittimità costituzionale da parte della Corte costituzionale, su ricorso
motivato presentato da almeno un quarto dei componenti della Camera dei
deputati o da almeno un terzo dei componenti del Senato della Repubblica entro
dieci giorni dall'approvazione della legge, prima dei quali la legge non può
essere promulgata. La Corte costituzionale si pronuncia entro il termine di
trenta giorni e, fino ad allora, resta sospeso il termine per la promulgazione
della legge. In caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale, la legge
non può essere promulgata».
2. All'articolo 134 della Costituzione, dopo il
primo comma è aggiunto il seguente:
«La Corte costituzionale giudica altresì della
legittimità costituzionale delle leggi che disciplinano l'elezione dei membri
della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica ai sensi dell'articolo
73, secondo comma».
Art. 14.
(Modifica
dell'articolo 74 della Costituzione).
1. L'articolo 74 della Costituzione è sostituito
dal seguente:
«Art. 74. – Il Presidente della Repubblica,
prima di promulgare la legge, può con messaggio motivato alle Camere
chiedere una nuova deliberazione.
Qualora la richiesta riguardi la legge di
conversione di un decreto adottato a norma dell'articolo 77, il termine per la
conversione in legge è differito di trenta giorni.
Se la legge è nuovamente approvata, questa deve
essere promulgata».
Art. 15.
(Modifica
dell'articolo 75 della Costituzione).
1. L'articolo 75 della Costituzione è sostituito
dal seguente:
«Art. 75. – È indetto referendum popolare per
deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente
forza di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli
regionali.
Non è ammesso il referendum per le leggi
tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a
ratificare trattati internazionali.
Hanno diritto di partecipare al referendum tutti
gli elettori.
La proposta soggetta a referendum è approvata se
ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto o, se
avanzata da ottocentomila elettori, la maggioranza dei votanti alle ultime
elezioni della Camera dei deputati, e se è raggiunta la maggioranza dei voti
validamente espressi.
La legge determina le modalità di attuazione del
referendum».
Art. 16.
(Disposizioni in
materia di decretazione d'urgenza).
1. All'articolo 77 della Costituzione sono
apportate le seguenti modificazioni:
a) al primo comma, le parole: «delle Camere»
sono sostituite dalle seguenti: «disposta con legge»;
b) al secondo comma, le parole: «alle Camere
che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono» sono
sostituite dalle seguenti: «alla Camera dei deputati, anche quando la funzione
legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere. La Camera dei
deputati, anche se sciolta, è appositamente convocata e si riunisce»;
c) al terzo comma:
1) al primo periodo sono aggiunte, in fine, le
seguenti parole: « o, nei casi in cui il Presidente della Repubblica abbia
chiesto, a norma dell'articolo 74, una nuova deliberazione, entro novanta
giorni dalla loro pubblicazione»;
2) al secondo periodo, le parole: «Le Camere
possono» sono sostituite dalle seguenti: «La legge può» e le parole: «con
legge» sono soppresse;
d) sono aggiunti, in fine, i seguenti commi:
«Il Governo non può, mediante provvedimenti
provvisori con forza di legge: disciplinare le materie indicate nell'articolo
72, quinto comma, con esclusione, per la materia elettorale, della disciplina
dell'organizzazione del procedimento elettorale e dello svolgimento delle
elezioni; reiterare disposizioni adottate con decreti non convertiti in legge e
regolare i rapporti giuridici sorti sulla base dei medesimi; ripristinare
l'efficacia di norme di legge o di atti aventi forza di legge che la Corte
costituzionale ha dichiarato illegittimi per vizi non attinenti al procedimento.
I decreti recano misure di immediata
applicazione e di contenuto specifico, omogeneo e corrispondente al titolo.
L'esame, a norma dell'articolo 70, terzo e
quarto comma, dei disegni di legge di conversione dei decreti è disposto dal
Senato della Repubblica entro trenta giorni dalla loro presentazione alla
Camera dei deputati. Le proposte di modificazione possono essere deliberate
entro dieci giorni dalla data di trasmissione del disegno di legge di
conversione, che deve avvenire non oltre quaranta giorni dalla presentazione.
Nel corso dell'esame dei disegni di legge di
conversione dei decreti non possono essere approvate disposizioni estranee
all'oggetto o alle finalità del decreto».
Art. 17.
(Deliberazione dello
stato di guerra).
1. L'articolo 78 della Costituzione è sostituito
dal seguente:
«Art. 78. – La Camera dei deputati delibera a
maggioranza assoluta lo stato di guerra e conferisce al Governo i poteri
necessari».
Art. 18.
(Leggi
di amnistia e indulto).
1. All'articolo 79, primo comma, della
Costituzione, le parole: «di ciascuna Camera,» sono sostituite dalle seguenti:
«della Camera dei deputati,».
Art. 19.
(Autorizzazione
alla ratifica di trattati internazionali).
1. All'articolo 80 della Costituzione, le
parole: «Le Camere autorizzano» sono sostituite dalle seguenti: «La Camera dei
deputati autorizza» ed è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «Le leggi che
autorizzano la ratifica dei trattati relativi all'appartenenza dell'Italia
all'Unione europea sono approvate da entrambe le Camere».
Art. 20.
(Inchieste
parlamentari).
1. L'articolo 82 della Costituzione è sostituito
dal seguente:
«Art. 82. – La Camera dei deputati può disporre
inchieste su materie di pubblico interesse. Il Senato della Repubblica può
disporre inchieste su materie di pubblico interesse concernenti le
autonomie territoriali.
A tale scopo ciascuna Camera nomina fra i propri
componenti una Commissione. Alla Camera dei deputati la Commissione è formata
in modo da rispecchiare la proporzione dei vari gruppi. La Commissione
d'inchiesta procede alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le
stesse limitazioni dell'autorità giudiziaria».
Capo II
MODIFICHE
AL TITOLO II DELLA PARTE II DELLA COSTITUZIONE
Art. 21.
(Modifiche
all'articolo 83 della Costituzione in materia di delegati regionali e di quorum
per l'elezione del Presidente della Repubblica).
1. All'articolo 83 della Costituzione sono
apportate le seguenti modificazioni:
a) il secondo comma è abrogato;
b) al terzo comma, il secondo periodo è sostituito
dai seguenti: «Dal quarto scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti
dell'assemblea. Dal settimo scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre
quinti dei votanti».
Art. 22.
(Disposizioni in tema
di elezione del Presidente della Repubblica).
1. All'articolo 85 della Costituzione sono
apportate le seguenti modificazioni:
a) al secondo comma, le parole: «e i delegati
regionali,» sono soppresse e dopo il primo periodo è aggiunto il seguente:
«Quando il Presidente della Camera esercita le funzioni del Presidente della
Repubblica nel caso in cui questi non possa adempierle, il Presidente del
Senato convoca e presiede il Parlamento in seduta comune»;
b) al terzo comma, il primo periodo è sostituito
dal seguente: «Se la Camera dei deputati è sciolta, o manca meno di tre mesi
alla sua cessazione, l'elezione ha luogo entro quindici giorni dalla riunione
della Camera nuova».
Art. 23.
(Esercizio
delle funzioni del Presidente della Repubblica).
1. All'articolo 86 della Costituzione sono apportate
le seguenti modificazioni:
a) al primo comma, le parole: «del Senato» sono
sostituite dalle seguenti: «della Camera dei deputati»;
b) al secondo comma, le parole: «il Presidente
della Camera dei deputati indice» sono sostituite dalle seguenti: «il Presidente
del Senato indice», le parole: «le Camere sono sciolte» sono sostituite dalle
seguenti: «la Camera dei deputati è sciolta» e la parola: «loro» è sostituita
dalla seguente: «sua».
Art. 24.
(Scioglimento della
Camera dei deputati).
1. All'articolo 88 della Costituzione, il primo
comma è sostituito dal seguente:
«Il Presidente della Repubblica può, sentito il
suo Presidente, sciogliere la Camera dei deputati».
Capo III
MODIFICHE
AL TITOLO III DELLA PARTE II DELLA COSTITUZIONE
Art. 25.
(Fiducia
al Governo).
1. All'articolo 94 della Costituzione sono
apportate le seguenti modificazioni:
a) al primo comma, le parole: «delle due Camere»
sono sostituite dalle seguenti: «della Camera dei deputati»;
b) al secondo comma, le parole: «Ciascuna Camera
accorda o revoca la fiducia» sono sostituite dalle seguenti: «La fiducia è
accordata o revocata»;
c) al terzo comma, le parole: «alle Camere» sono
sostituite dalle seguenti: «innanzi alla Camera dei deputati»;
d) al quarto comma, le parole: «di una o
d'entrambe le Camere» sono sostituite dalle seguenti: «della Camera dei
deputati»;
e) al quinto comma, dopo la parola: «Camera»
sono inserite le seguenti: «dei deputati».
Art. 26.
(Modifica all'articolo
96 della Costituzione).
1. All'articolo 96 della Costituzione, le
parole: «del Senato della Repubblica o» sono soppresse.
Art. 27.
(Modifica all'articolo
97 della Costituzione).
1. Il secondo comma dell'articolo 97 della
Costituzione è sostituito dal seguente:
«I pubblici uffici sono organizzati secondo
disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento,
l'imparzialità e la trasparenza dell'amministrazione».
Art. 28.
(Soppressione del
CNEL).
1. L'articolo 99 della Costituzione è abrogato.
Capo IV
MODIFICHE
AL TITOLO V DELLA PARTE II DELLA COSTITUZIONE
Art. 29.
(Abolizione
delle Province).
1. All'articolo 114 della Costituzione sono
apportate le seguenti modificazioni:
a) al primo comma, le parole: «dalle Province,»
sono soppresse;
b) al secondo comma, le parole: «le Province,»
sono soppresse.
Art. 30.
(Modifica all'articolo
116 della Costituzione).
1. All'articolo 116 della Costituzione, il terzo
comma è sostituito dal seguente:
«Ulteriori forme e condizioni particolari di
autonomia, concernenti le materie di cui all'articolo 117, secondo comma,
lettere l), limitatamente all'organizzazione della giustizia di pace, m),
limitatamente alle disposizioni generali e comuni per le politiche sociali, n),
o), limitatamente alle politiche attive del lavoro e all'istruzione e
formazione professionale, q), limitatamente al commercio con l'estero, s) e u),
limitatamente al governo del territorio, possono essere attribuite ad altre
Regioni, con legge dello Stato, anche su richiesta delle stesse, sentiti gli
enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all'articolo 119, purché la
Regione sia in condizione di equilibrio tra le entrate e le spese del proprio
bilancio. La legge è approvata da entrambe le Camere, sulla base di intesa tra
lo Stato e la Regione interessata».
Art. 31.
(Modifica
dell'articolo 117 della Costituzione).
1. L'articolo 117 della Costituzione è
sostituito dal seguente:
«Art. 117. – La potestà legislativa è esercitata
dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli
derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea e dagli obblighi internazionali.
Lo Stato ha legislazione esclusiva nelle
seguenti materie:
a) politica estera e rapporti internazionali
dello Stato; rapporti dello Stato con l'Unione europea; diritto di asilo e condizione
giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all'Unione europea;
b) immigrazione;
c) rapporti tra la Repubblica e le confessioni
religiose;
d) difesa e Forze armate; sicurezza dello Stato;
armi, munizioni ed esplosivi;
e) moneta, tutela del risparmio e mercati
finanziari e assicurativi; tutela e promozione della concorrenza; sistema
valutario; sistema tributario e contabile dello Stato; armonizzazione dei
bilanci pubblici; coordinamento della finanza pubblica e del sistema
tributario; perequazione delle risorse finanziarie;
f) organi dello Stato e relative leggi
elettorali; referendum statali; elezione del Parlamento europeo;
g) ordinamento e organizzazione amministrativa
dello Stato e degli enti pubblici nazionali; norme sul procedimento
amministrativo e sulla disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle
amministrazioni pubbliche tese ad assicurarne l'uniformità sul territorio
nazionale;
h) ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione
della polizia amministrativa locale;
i) cittadinanza, stato civile e anagrafi;
l) giurisdizione e norme processuali;
ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa;
m) determinazione dei livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti
su tutto il territorio nazionale; disposizioni generali e comuni per la tutela
della salute, per le politiche sociali e per la sicurezza alimentare;
n) disposizioni generali e comuni
sull'istruzione; ordinamento scolastico; istruzione universitaria e programmazione
strategica della ricerca scientifica e tecnologica;
o) previdenza sociale, ivi compresa la
previdenza complementare e integrativa; tutela e sicurezza del lavoro;
politiche attive del lavoro; disposizioni generali e comuni sull'istruzione e
formazione professionale;
p) ordinamento, legislazione elettorale, organi
di governo e funzioni fondamentali di Comuni e Città metropolitane;
disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni;
q) dogane, protezione dei confini nazionali e
profilassi internazionale; commercio con l'estero;
r) pesi, misure e determinazione del tempo;
coordinamento informativo statistico e informatico dei dati, dei processi e
delle relative infrastrutture e piattaforme informatiche dell'amministrazione
statale, regionale e locale; opere dell'ingegno;
s) tutela e valorizzazione dei beni culturali e
paesaggistici; ambiente ed ecosistema; ordinamento sportivo; disposizioni
generali e comuni sulle attività culturali e sul turismo;
t) ordinamento delle professioni e della
comunicazione;
u) disposizioni generali e comuni sul governo
del territorio; sistema nazionale e coordinamento della protezione civile;
v) produzione, trasporto e distribuzione
nazionali dell'energia;
z) infrastrutture strategiche e grandi reti di
trasporto e di navigazione di interesse nazionale e relative norme di
sicurezza; porti e aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale.
Spetta alle Regioni la potestà legislativa in
materia di rappresentanza delle minoranze linguistiche, di pianificazione del
territorio regionale e mobilità al suo interno, di dotazione infrastrutturale,
di programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali, di
promozione dello sviluppo economico locale e organizzazione in ambito regionale
dei servizi alle imprese e della formazione professionale; salva l'autonomia
delle istituzioni scolastiche, in materia di servizi scolastici, di promozione
del diritto allo studio, anche universitario; in materia di disciplina, per
quanto di interesse regionale, delle attività culturali, della promozione dei
beni ambientali, culturali e paesaggistici, di valorizzazione e organizzazione
regionale del turismo, di regolazione, sulla base di apposite intese concluse
in ambito regionale, delle relazioni finanziarie tra gli enti territoriali
della Regione per il rispetto degli obiettivi programmatici regionali e locali
di finanza pubblica, nonché in ogni materia non espressamente riservata alla
competenza esclusiva dello Stato.
Su proposta del Governo, la legge dello Stato può
intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo
richieda la tutela dell'unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la
tutela dell'interesse nazionale.
Le Regioni e le Province autonome di Trento e di
Bolzano, nelle materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette
alla formazione degli atti normativi dell'Unione europea e provvedono
all'attuazione e all'esecuzione degli accordi internazionali e degli atti
dell'Unione europea, nel rispetto delle norme di procedura stabilite con legge
dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in
caso di inadempienza.
La potestà regolamentare spetta allo Stato e
alle Regioni secondo le rispettive competenze legislative. È fatta salva la
facoltà dello Stato di delegare alle Regioni l'esercizio di tale potestà nelle
materie di competenza legislativa esclusiva. I Comuni e le Città metropolitane
hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione e
dello svolgimento delle funzioni loro attribuite, nel rispetto della legge
statale o regionale.
Le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che
impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale,
culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini
alle cariche elettive.
La legge regionale ratifica le intese della
Regione con altre Regioni per il migliore esercizio delle proprie funzioni,
anche con individuazione di organi comuni.
Nelle materie di sua competenza la Regione può
concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro
Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato».
Art. 32.
(Modifiche
all'articolo 118 della Costituzione).
1. All'articolo 118 della Costituzione sono
apportate le seguenti modificazioni:
a) al primo comma, la parola: «Province,» è
soppressa;
b) dopo il primo comma è inserito il seguente:
«Le funzioni amministrative sono esercitate in
modo da assicurare la semplificazione e la trasparenza dell'azione
amministrativa, secondo criteri di efficienza e di responsabilità degli
amministratori»;
c) al secondo comma, le parole: «, le Province»
sono soppresse;
d) al terzo comma, le parole: «nella materia
della tutela dei beni culturali» sono sostituite dalle seguenti: «in materia di
tutela dei beni culturali e paesaggistici»;
e) al quarto comma, la parola: «, Province» è
soppressa.
Art. 33.
(Modifica
dell'articolo 119 della Costituzione).
1. L'articolo 119 della Costituzione è sostituito dal
seguente:
«Art. 119. – I Comuni, le Città metropolitane e
le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa, nel rispetto
dell'equilibrio dei relativi bilanci, e concorrono ad assicurare l'osservanza
dei vincoli economici e finanziari derivanti dall'ordinamento dell'Unione europea.
I Comuni, le Città metropolitane e le Regioni
hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri e
dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al
loro territorio, in armonia con la Costituzione e secondo quanto disposto dalla
legge dello Stato ai fini del coordinamento della finanza pubblica e del
sistema tributario.
La legge dello Stato istituisce un fondo
perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità
fiscale per abitante.
Le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi
precedenti assicurano il finanziamento integrale delle funzioni pubbliche dei
Comuni, delle Città metropolitane e delle Regioni. Con legge dello Stato sono
definiti indicatori di riferimento di costo e di fabbisogno che promuovono
condizioni di efficienza nell'esercizio delle medesime funzioni.
Per promuovere lo sviluppo economico, la
coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e
sociali, per favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona, o per
provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato
destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di
determinati Comuni, Città metropolitane e Regioni.
I Comuni, le Città metropolitane e le Regioni
hanno un proprio patrimonio, attribuito secondo i princìpi generali determinati
dalla legge dello Stato. Possono ricorrere all'indebitamento solo per
finanziare spese di investimento, con la contestuale definizione di piani di
ammortamento e a condizione che per il complesso degli enti di ciascuna Regione
sia rispettato l'equilibrio di bilancio. È esclusa ogni garanzia dello Stato
sui prestiti dagli stessi contratti».
Art. 34.
(Modifica all'articolo
120 della Costituzione).
1. All'articolo 120, secondo comma, della
Costituzione, dopo le parole: «Il Governo» sono inserite le seguenti: «,
acquisito, salvi i casi di motivata urgenza, il parere del Senato della
Repubblica, che deve essere reso entro quindici giorni dalla richiesta,» e sono
aggiunte, in fine, le seguenti parole: «e stabilisce i casi di esclusione dei
titolari di organi di governo regionali e locali dall'esercizio delle
rispettive funzioni quando è stato accertato lo stato di grave dissesto
finanziario dell'ente».
Art. 35.
(Limiti agli
emolumenti dei componenti degli organi regionali ed equilibrio tra i sessi
nella rappresentanza).
1. All'articolo 122, primo comma, della
Costituzione, sono aggiunte, in fine, le seguenti parole: «e i relativi
emolumenti nel limite dell'importo di quelli attribuiti ai sindaci dei Comuni
capoluogo di Regione. La legge della Repubblica stabilisce altresì i princìpi
fondamentali per promuovere l'equilibrio tra donne e uomini nella
rappresentanza».
Art. 36.
(Soppressione della Commissione
parlamentare per le questioni regionali).
1. All'articolo 126, primo comma, della
Costituzione, l'ultimo periodo è sostituito dal seguente: «Il decreto è
adottato previo parere del Senato della Repubblica».
Capo V
MODIFICHE
AL TITOLO VI DELLA PARTE II DELLA COSTITUZIONE
Art. 37.
(Elezione dei giudici
della Corte costituzionale).
1. All'articolo 135 della Costituzione sono
apportate le seguenti modificazioni:
a) il primo comma è sostituito dal seguente:
«La Corte costituzionale è composta da quindici
giudici, dei quali un terzo nominati dal Presidente della Repubblica, un terzo
dalle supreme magistrature ordinaria ed amministrative, tre dalla Camera dei
deputati e due dal Senato della Repubblica»;
b) al settimo comma, la parola: «senatore» è
sostituita dalla seguente: «deputato».
Capo VI
DISPOSIZIONI
FINALI
Art. 38.
(Disposizioni
consequenziali e di coordinamento).
1. All'articolo 48, terzo comma, della
Costituzione, le parole: «delle Camere» sono sostituite dalle seguenti: «della
Camera dei deputati».
2. L'articolo 58 della Costituzione è abrogato.
3. L'articolo 61 della Costituzione è sostituito
dal seguente:
«Art. 61. – L'elezione della nuova Camera dei
deputati ha luogo entro settanta giorni dalla fine della precedente. La prima
riunione ha luogo non oltre il ventesimo giorno dall'elezione.
Finché non sia riunita la nuova Camera dei
deputati sono prorogati i poteri della precedente».
4. All'articolo 62 della Costituzione, il terzo
comma è abrogato.
5. All'articolo 73, secondo comma, della
Costituzione, le parole: «Se le Camere, ciascuna a maggioranza assoluta dei
propri componenti, ne dichiarano» sono sostituite dalle seguenti: «Se la Camera
dei deputati, a maggioranza assoluta dei suoi componenti, ne dichiara».
6. All'articolo 81 della Costituzione sono
apportate le seguenti modificazioni:
a) al secondo comma, le parole: «delle Camere»
sono sostituite dalle seguenti: «della Camera dei deputati» e la parola:
«rispettivi» è sostituita dalla seguente: «suoi»;
b) al quarto comma, le parole: «Le Camere ogni
anno approvano» sono sostituite dalle seguenti: «La Camera dei deputati ogni
anno approva»;
c) al sesto comma, le parole: «di ciascuna
Camera,» sono sostituite dalle seguenti: «della Camera dei deputati,».
7. All'articolo 87 della Costituzione sono
apportate le seguenti modificazioni:
a) al terzo comma, le parole: «delle nuove
Camere» sono sostituite dalle seguenti: «della nuova Camera dei deputati»;
b) all'ottavo comma, le parole: «delle Camere»
sono sostituite dalle seguenti: «della Camera dei deputati. Ratifica i trattati
relativi all'appartenenza dell'Italia all'Unione europea, previa
l'autorizzazione di entrambe le Camere»;
c) al nono comma, le parole: «dalle Camere» sono
sostituite dalle seguenti: «dalla Camera dei deputati».
8. La rubrica del titolo V della parte II della
Costituzione è sostituita dalla seguente: «Le Regioni, le Città metropolitane e
i Comuni».
9. All'articolo 120, secondo comma, della
Costituzione, dopo le parole: «, delle Province» sono inserite le seguenti:
«autonome di Trento e di Bolzano».
10. All'articolo 121, secondo comma, della
Costituzione, le parole: «alle Camere» sono sostituite dalle seguenti: «alla
Camera dei deputati».
11. All'articolo 122, secondo comma, della
Costituzione, le parole: «ad una delle Camere del Parlamento» sono sostituite
dalle seguenti: «alla Camera dei deputati».
12. All'articolo 132, secondo comma, della
Costituzione, le parole: «della Provincia o delle Province interessate e» sono
soppresse e le parole: «Province e Comuni,» sono sostituite dalle seguenti: «i
Comuni,».
13. All'articolo 133 della Costituzione, il
primo comma è abrogato.
14. Il comma 2 dell'articolo 12 della legge
costituzionale 11 marzo 1953, n. 1, e successive modificazioni, è sostituito
dal seguente:
«2. Il Comitato di cui al comma 1 è presieduto
dal Presidente della Giunta della Camera dei deputati».
15. Alla legge costituzionale 16 gennaio 1989,
n. 1, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) l'articolo 5 è sostituito dal seguente:
«Art. 5. – 1. L'autorizzazione prevista
dall'articolo 96 della Costituzione spetta alla Camera dei deputati, anche se
il procedimento riguardi altresì soggetti che non sono membri della medesima
Camera dei deputati»;
b) le parole: «Camera competente ai sensi dell'articolo
5» e «Camera competente», ovunque ricorrono, sono sostituite dalle seguenti:
«Camera dei deputati».
16. All'articolo 3 della legge costituzionale 22
novembre 1967, n. 2, al primo periodo, le parole: «da questo in seduta comune
delle due Camere» sono sostituite dalle seguenti: «da ciascuna Camera» e le
parole: «componenti l'Assemblea» sono sostituite dalle seguenti: «propri
componenti»; al secondo periodo, le parole: «l'Assemblea» sono sostituite dalle
seguenti: «di ciascuna Camera».
Art. 39.
(Disposizioni
transitorie).
1. In sede di prima applicazione e sino alla
data di entrata in vigore della legge di cui all'articolo 57, sesto comma,
della Costituzione, come modificato dall'articolo 2 della presente legge
costituzionale, per l'elezione del Senato della Repubblica, nei Consigli
regionali e della Provincia autonoma di Trento, ogni consigliere può votare per
una sola lista di candidati, formata da consiglieri e da sindaci dei rispettivi
territori. Al fine dell'assegnazione dei seggi a ciascuna lista di candidati si
divide il numero dei voti espressi per il numero dei seggi attribuiti e si
ottiene il quoziente elettorale. Si divide poi per tale quoziente il numero dei
voti espressi in favore di ciascuna lista di candidati. I seggi sono assegnati
a ciascuna lista di candidati in numero pari ai quozienti interi ottenuti,
secondo l'ordine di presentazione nella lista dei candidati medesimi, e i seggi
residui sono assegnati alle liste che hanno conseguito i maggiori resti; a
parità di resti, il seggio è assegnato alla lista che non ha ottenuto seggi o,
in mancanza, a quella che ha ottenuto il numero minore di seggi. Per la lista
che ha ottenuto il maggior numero di voti, può essere esercitata l'opzione per
l'elezione del sindaco o, in alternativa, di un consigliere, nell'ambito dei
seggi spettanti. In caso di cessazione di un senatore dalla carica di
consigliere o di sindaco, è proclamato eletto rispettivamente il consigliere o
sindaco primo tra i non eletti della stessa lista.
2. Quando, in base all'ultimo censimento
generale della popolazione, il numero di senatori spettanti a una Regione, ai
sensi dell'articolo 57 della Costituzione, come modificato dall'articolo 2
della presente legge costituzionale, è diverso da quello risultante in base al
censimento precedente, il Consiglio regionale elegge i senatori nel numero
corrispondente all'ultimo censimento, anche in deroga al primo comma del
medesimo articolo 57 della Costituzione. Si applicano in ogni caso le
disposizioni di cui al comma 1.
3. Nella legislatura in corso alla data di
entrata in vigore della presente legge costituzionale, sciolte entrambe le
Camere, non si procede alla convocazione dei comizi elettorali per il rinnovo
del Senato della Repubblica.
4. Fino alla data di entrata in vigore della
legge di cui all'articolo 57, sesto comma, della Costituzione, come modificato
dall'articolo 2 della presente legge costituzionale, la prima costituzione del
Senato della Repubblica ha luogo, in base alle disposizioni del presente
articolo, entro dieci giorni dalla data della prima riunione della Camera dei
deputati successiva alle elezioni svolte dopo la data di entrata in vigore
della presente legge costituzionale. Qualora alla data di svolgimento delle
elezioni della Camera dei deputati di cui al periodo precedente si svolgano
anche elezioni di Consigli regionali o dei Consigli delle Province autonome di
Trento e di Bolzano, i medesimi Consigli sono convocati in collegio elettorale
entro tre giorni dal loro insediamento.
5. I senatori eletti sono proclamati dal
Presidente della Giunta regionale o provinciale.
6. La legge di cui all'articolo 57, sesto comma,
della Costituzione, come modificato dall'articolo 2 della presente legge
costituzionale, è approvata entro sei mesi dalla data di svolgimento delle
elezioni della Camera dei deputati di cui al comma 4.
7. I senatori a vita in carica alla data di
entrata in vigore della presente legge costituzionale permangono nella stessa
carica, ad ogni effetto, quali membri del Senato della Repubblica.
8. Le disposizioni dei regolamenti parlamentari
vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale
continuano ad applicarsi, in quanto compatibili, fino alla data di entrata in
vigore delle loro modificazioni, adottate secondo i rispettivi ordinamenti
dalla Camera dei deputati e dal Senato della Repubblica, conseguenti alla
medesima legge costituzionale.
9. Fino all'adeguamento del regolamento della
Camera dei deputati a quanto previsto dall'articolo 72, settimo comma, della
Costituzione, come modificato dall'articolo 12 della presente legge
costituzionale, in ogni caso il differimento del termine previsto dal medesimo
articolo non può essere inferiore a dieci giorni.
10. In sede di prima applicazione dell'articolo
135 della Costituzione, come modificato dall'articolo 37 della presente legge
costituzionale, alla cessazione dalla carica dei giudici della Corte
costituzionale nominati dal Parlamento in seduta comune, le nuove nomine sono
attribuite alternativamente, nell'ordine, alla Camera dei deputati e al Senato
della Repubblica.
11. In sede di prima applicazione, nella
legislatura in corso alla data di entrata in vigore della presente legge
costituzionale, su ricorso motivato presentato entro dieci giorni da tale data,
o entro dieci giorni dalla data di entrata in vigore della legge di cui
all'articolo 57, sesto comma, della Costituzione, come modificato dalla
presente legge costituzionale, da almeno un quarto dei componenti della Camera
dei deputati o un terzo dei componenti del Senato della Repubblica, le leggi
promulgate nella medesima legislatura che disciplinano l'elezione dei membri
della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica possono essere
sottoposte al giudizio di legittimità della Corte costituzionale. La Corte costituzionale
si pronuncia entro il termine di trenta giorni. Anche ai fini di cui al
presente comma, il termine di cui al comma 6 decorre dalla data di entrata in
vigore della presente legge costituzionale.
Entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore
della legge di cui all'articolo 57, sesto comma, della Costituzione, come
modificato dalla presente legge costituzionale, le Regioni e le Province
autonome di Trento e di Bolzano conformano le rispettive disposizioni
legislative e regolamentari a quanto ivi stabilito.
12. Le leggi delle Regioni adottate ai sensi
dell'articolo 117, terzo e quarto comma, della Costituzione, nel testo vigente
fino alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale,
continuano ad applicarsi fino alla data di entrata in vigore delle leggi
adottate ai sensi dell'articolo 117, secondo e terzo comma, della Costituzione,
come modificato dall'articolo 31 della presente legge costituzionale.
13. Le disposizioni di cui al capo IV della
presente legge costituzionale non si applicano alle Regioni a statuto speciale
e alle Province autonome di Trento e di Bolzano fino alla revisione dei
rispettivi statuti sulla base di intese con le medesime Regioni e Province
autonome. A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge
costituzionale, e sino alla revisione dei predetti statuti speciali, alle
Regioni a statuto speciale e alle Province autonome si applicano le
disposizioni di cui all'articolo 116, terzo comma, ad esclusione di quelle che
si riferiscono alle materie di cui all'articolo 117, terzo comma, della
Costituzione, nel testo vigente fino alla data di entrata in vigore della
presente legge costituzionale e resta ferma la disciplina vigente prevista dai
medesimi statuti e dalle relative norme di attuazione ai fini di quanto
previsto dall'articolo 120 della Costituzione; a seguito della suddetta
revisione, alle medesime Regioni a statuto speciale e Province autonome si
applicano le disposizioni di cui all'articolo 116, terzo comma, della
Costituzione, come modificato dalla presente legge costituzionale.
14. La Regione autonoma Valle d'Aosta/Vallée
d'Aoste esercita le funzioni provinciali già attribuite alla data di entrata in
vigore della presente legge costituzionale.
Art. 40.
(Disposizioni finali).
1. Il Consiglio nazionale dell'economia e del
lavoro (CNEL) è soppresso. Entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore
della presente legge costituzionale, il Presidente del Consiglio dei ministri,
su proposta del Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione,
d'intesa con il Ministro dell'economia e delle finanze, nomina, con proprio
decreto, un commissario straordinario cui è affidata la gestione provvisoria
del CNEL, per le attività relative al patrimonio, compreso quello immobiliare,
nonché per la riallocazione delle risorse umane e strumentali presso la Corte
dei conti e per gli altri adempimenti conseguenti alla soppressione. All'atto
dell'insediamento del commissario straordinario decadono dall'incarico gli
organi del CNEL e i suoi componenti per ogni funzione di istituto, compresa
quella di rappresentanza.
2. Non possono essere corrisposti rimborsi o
analoghi trasferimenti monetari recanti oneri a carico della finanza pubblica
in favore dei gruppi politici presenti nei Consigli regionali.
3. Tenuto conto di quanto disposto dalla
presente legge costituzionale, entro la legislatura in corso alla data della
sua entrata in vigore, la Camera dei deputati e il Senato della Repubblica
provvedono, secondo criteri di efficienza e razionalizzazione, all'integrazione
funzionale delle amministrazioni parlamentari, mediante servizi comuni, impiego
coordinato di risorse umane e strumentali e ogni altra forma di collaborazione.
A tal fine è istituito il ruolo unico dei dipendenti del Parlamento, formato
dal personale di ruolo delle due Camere, che adottano uno statuto unico del
personale dipendente, nel quale sono raccolte e coordinate le disposizioni già
vigenti nei rispettivi ordinamenti e stabilite le procedure per le
modificazioni successive da approvare in conformità ai princìpi di autonomia,
imparzialità e accesso esclusivo e diretto con apposito concorso. Le Camere
definiscono altresì di comune accordo le norme che regolano i contratti di
lavoro alle dipendenze delle formazioni organizzate dei membri del Parlamento,
previste dai regolamenti. Restano validi a ogni effetto i rapporti giuridici,
attivi e passivi, instaurati anche con i terzi.
4. Per gli enti di area vasta, tenuto conto
anche delle aree montane, fatti salvi i profili ordinamentali generali relativi
agli enti di area vasta definiti con legge dello Stato, le ulteriori
disposizioni in materia sono adottate con legge regionale. Il mutamento delle
circoscrizioni delle Città metropolitane è stabilito con legge della
Repubblica, su iniziativa dei Comuni, sentita la Regione.
5. Fermo restando quanto stabilito dall'articolo
59, primo comma, della Costituzione, i senatori di cui al medesimo articolo 59,
secondo comma, come sostituito dall'articolo 3 della presente legge
costituzionale, non possono eccedere, in ogni caso, il numero complessivo di
cinque, tenuto conto della permanenza in carica dei senatori a vita già
nominati alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale. Lo
stato e le prerogative dei senatori di diritto e a vita restano regolati
secondo le disposizioni già vigenti alla data di entrata in vigore della
presente legge costituzionale.
6. I senatori della Provincia autonoma di
Bolzano/Autonome Provinz Bozen sono eletti tenendo conto della consistenza dei gruppi
linguistici in base all'ultimo censimento. In sede di prima applicazione ogni
consigliere può votare per due liste di candidati, formate ciascuna da
consiglieri e da sindaci dei rispettivi territori.
Art. 41.
(Entrata in
vigore).
1. La presente legge costituzionale entra in
vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta
Ufficiale successiva alla promulgazione. Le disposizioni della presente legge
costituzionale si applicano a decorrere dalla legislatura successiva allo
scioglimento di entrambe le Camere, salvo quelle previste dagli articoli
28, 35, 39, commi 3, 7 e 11, e 40, commi 1, 2, 3 e 4, che sono di immediata
applicazione.
- 2 -
La riforma costituzionale a volo d'angelo
Esaminare il testo
e capire i contenuti della riforma costituzionale oggetto del prossimo
referendum è impegnativo per chi sa di diritto e molto di più per chi non ne è
pratico. Occorrerebbe avere almeno dei rudimenti di educazione civica, al
livello delle scuole medie inferiori di oggi. Si tratta di una legge che incide
profondamente nella Costituzione, in particolare in quella parte, la seconda,
che disciplina la struttura e il funzionamento delle istituzioni di vertice
della Repubblica. Da essa però dipendono la difesa e lo sviluppo dei principi e
valori civili che sono trattati nella prima parte della Costituzione.
La campagna per il referendum,
fatta in genere per slogan, sul modello della pubblicità commerciale, non
aiuta. Gli argomenti che principalmente vengono proposti o sono superficiali o
sono parzialmente fuorvianti.
Il risparmio di denaro
pubblico che si conseguirà sarà poca cosa rispetto all'intero bilancio
pubblico. Si è calcolato che, quanto alle spese per il Senato, potrebbe
aggirarsi intorno ad un 10%, ma avremo meno senatori e soprattutto senatori a
mezzo servizio, perché dovranno fare anche i consiglieri regionali e i sindaci.
La semplificazione delle procedure parlamentari sarà anch'essa poca cosa, sia
per il fatto che in molte materie le leggi dovranno continuare ad essere
approvate da entrambe le Camere, sia perché il nuovo Senato potrà comunque
deliberare di chiedere alla Camera dei Deputati modifiche delle leggi di
competenza esclusiva di quest'ultima, sia perché, data la non chiarissima
formulazione delle nuove norme, è prevedibile che insorgano controversie
interpretative che, coinvolgendo organi di vertice, non saranno di facile
soluzione. La riforma non garantirà "le" riforme alle quali spesso si
accenna genericamente e che si dice siano indispensabili per la ripresa
dell'economia nazionale. Si tratta infatti di una legge che modifica o abolisce
organi dello Stato, quindi che non incide direttamente sulla società. Se e come
fare le riforme dipenderà dalla formazione di una sufficiente forza politica
riformatrice e la riforma costituzionale oggetto del referendum è in un
certo senso indifferente rispetto alla successiva azione riformatrice nella
società, in altre parole non garantisce riforme "buone", e non è
detto neanche che garantisca riforme più celeri.
Stanno uscendo diversi libri
divulgativi per orientarsi nella riforma costituzionale. L'altro giorno ho
indicato quello di Giatwvo Zagrebelsky, ex presidente della Corte
Costituzionale", "Loro diranno, noi diciamo", edito da Laterza,
orientato in senso negativo alla riforma. Della medesima opinione sono Luigi
Ciotti, Alessandra Agostino, Tomaso Montanari e Livio Pepino nel libro "Io
dico no", pubblicato dalle Edizioni Gruppo Abele. Favorevoli alla riforma
sono due professori universitari di diritto che da giovani furono presidenti
della FUCI, gli universitari cattolici: Stefano Ceccanti, in "La
transizione e (quasi finita)" edito da Giappichelli, e Giovanni Guzzetta,
in "Italia, si cambia", edito da Rubettino. Guzzetta fin da liceale
fu per qualche tempo nel gruppo romano della Fuci di cui facevo parte anch'io,
ma iniziò precocemente a collaborare nella presidenza dell'organizzazione,
perché era un ragazzo molto capace. Ceccanti è fonte particolarmente
affidabile in quanto è considerato uno dei "Padri", vale a dire degli
ideatori e autori, della riforma; ha fatto parte della commissione di saggi
nominata dal Presidente della Repubblica Napolitano per formulare proposte per
la riforma dello stato. Altro testo scritto da esperti autorevoli è
"Perché è saggio dire no", pubblicato da Rubettino è scritto da
Valerio Onida, ex presidente della Corte Costituzionale, e da Gaetano
Quagliarello, professore universitario, costituzionalista e già membro della
menzionata commissione di saggi. Informarsi su uno di questi testi, o su uno
degli altri analoghi che stanno uscendo di questi tempi, è utile perché radio e
televisione, le fonti informative più utilizzate dagli italiani espongono
prevalentemente le ragioni favorevoli alla riforma e lo fanno in modo
superficiale e soprattutto indicando, in genere, quelle sul risparmio di spesa
pubblica e sulla velocizzazione delle procedure parlamentari che abbiamo visto
prestare il fianco a diverse e serie obiezioni, che però in genere non vengono
esposte. Le ragioni dei contrari alla riforma vengono presentate, quando lo
sono, come dei partiti presi. Non si entra mai nel merito. E soprattutto non
viene trattato l'argomento che mi appare quello che realmente ha motivato la
riforma e che ho letto esposto in un sito web politico del Trentino, vale a
dire quello di potenziare la capacità di azione del Governo, in modo che non
sia un "governicchio". Questo effetto sicuramente si otterrebbe con
la promulgazione della riforma costituzionale, perché tutti i governi che si
sono succeduti dal '94 ad oggi, compreso quello attuale, hanno avuto difficoltà
e dispiaceri nel cercare di ottenere la "fiducia" dal Senato e il
nuovo Senato non sarà più competente a dare questa fiducia.
All'inizio di questa serie di
post dedicati alla riforma costituzionale, in quello del 29 luglio, ho
pubblicato il testo della legge costituzionale oggetto del prossimo referendum.
Essa è stata approvata dal Parlamento, con le speciali modalità previste dalla
Costituzione, quindi con una doppia deliberazione conforme di Camera dei
Deputati e Senato, ma entrerà in vigore, con la promulgazione del Presidente
della Repubblica, solo se otterrà il consenso dei,cittadini elettori nel
prossimo referendum costituzionale.
La legge si compone di 41
articoli, che cambiano il testo della Costituzione della Repubblica.
L'importanza della riforma è evidente se si tiene conto che la Costituzione ha
139 articoli e 18 disposizioni transitorie e finali.
Il cuore della riforma è nella
modifica della struttura, modalità di elezione e funzioni del Senato, delle
funzioni della Camera dei Deputati, e del riparto del potere di fare leggi tra
lo Stato e le Regioni. Innova però anche in altre materie: sulle leggi di
iniziativa popolare e sul referendum abrogativo delle leggi; sulle modalità di
elezione e sulle funzioni del Presidente della Repubblica, sulle modalità di
nomina dei giudici della Corte Costituzionale e sulle funzioni della Corte, sui
poteri del Governo di emanare decreti legge, limitandoli; sull'attività della
pubblica amministrazione, introducendo i criteri costituzionali di trasparenza
e semplificazione. Infine abolisce le Province, tranne quelle, con statuto
particolare, di Trento e Bolzano, e il Consiglio Nazionale dell'Economia e del
Lavoro, organo ausiliario previsto dalla Costituzione che si è dimostrato
scarsamente produttivo nella sua storia, anche dopo la riforma che di esso è
stata attuata nel 1986.
Una prima osservazione che faccio
è che la legge costituzionale oggetto del referendum contiene non una ma varie
riforme e che il giudizio su ciascuna di esse, ad esempio quello sulla modifica
del Senato e quello sul l'abrogazione del CNEL, potrebbe essere diverso, ma che
dovremo pronunciarci, al referendum, con un sì o un no complessivo: si dovrà
tener conto quindi delle parti più importanti, quelle che costituiscono il
"cuore" della legge ed è un peccato, perché, se prevarrà il no,
saranno pregiudicate anche riforme sulle quali, se presentate separatamente, ci
sarebbe stato un consenso molto largo.
- 3 -
Servizio parlamentare come tirocinio di governo democratico
Prima
di ragionare sulla riforma costituzionale recentemente approvata dal Parlamento
e su cui tra pochi mesi dovremo dire la nostra in un referendum, come cittadini
e secondo modalità di sovranità popolare, è utile scrivere qualcosa sul
servizio parlamentare. Di questi tempi lo sento spesso descrivere come un
privilegio inutile alla società, utile solo a chi riesce ad aggiudicarsi i
ricchi stipendi parlamentari e i molti servizi gratuiti ad essi connessi. In
ambienti religiosi non aiuta certamente la struttura non democratica
dell'organizzazione delle nostre collettività religiose. In religione
siamo governati da una oligarchia, un sistema di potere in cui i pochi dominano
sui più, cooptata, vale a dire scelta da gerarchi di livello superiore. Sopra
tutti governa uno solo, il cui potere è configurato come quello di un
imperatore religioso. In realtà, come può immaginarsi che una sola persona
possa veramente dominare diverse centinaia di milioni di persone, quante
sono quelle che seguono la nostra confessione? E in effetti i nostri imperatori
religiosi confessano qualche volta di sentirsi come prigionieri nella
cittadella vaticana, centro del loro potere. È più verosimile pensare che al
vertice vi siano oligarchie autoreferenziali, quali, ad esempio, si manifestano
nel collegio cardinalizio.
Dunque, il servizio parlamentare
sarebbe uno spreco, una fonte di spesa non produttiva. Un sovrano illuminato,
competente, o meglio oligarchie illuminate e competenti farebbero meglio e con
minor dispendio di denaro pubblico, che viene raccolto prelevando una quota dei
redditi dei cittadini.
Del resto l'economia delle nostre
società, quella che produce i beni essenziali della vita, è organizzata per
oligarchie cooptate: è la struttura delle imprese capitalistiche. Di fronte ad
esse l'altra gente assume due ruoli, quello di lavoratore e quello di
consumatore. Finché essi furono rivestiti dalla stessa gente, in un unico
contesto nazionale, tutto è andato, in fondo, per il meglio. Infatti le
imprese, per avere consumatori, dovevano anche fornire ai propri lavoratori
retribuzioni che consentissero di spendere per i consumi. Nel mondo
contemporaneo, invece, in cui la produzione economica e il commercio sono
globalizzati, e ciò significa che le imprese e il capitale in esse investito
non hanno più frontiere davanti a sé sia nella produzione come nel commercio,
la situazione è diversa. Si produce dove costa meno produrre e si vende dove si
possono fare i prezzi più alti. In Italia la gran parte degli oggetti di uso
quotidiano (verificate) sono prodotti in Asia. I costi di produzione più bassi
hanno comportato anche prezzi più bassi al consumo, da noi, per cui i
lavoratori italiani, da consumatori, hanno beneficiato dei salari più bassi
pagati ai lavoratori asiatici. Alla lunga, però, lo spostamento delle
produzioni all'estero ha comportato una riduzione dell'occupazione in Italia.
Le imprese potrebbero ritornare a produrre in Italia? Certo, se a loro
convenisse. Se le condizioni di lavoro e le retribuzioni diventassero più
simili a quelle asiatiche. Da qui, Italia, un progressivo peggioramento delle
condizioni di lavoro, che si sono fatte più precarie, e delle retribuzioni.
Così l'occupazione in Italia è in lenta ripresa in alcuni settori, per la
stessa ragione per cui, ad esempio, avvenne la stessa cosa in Romania, al tempo
in cui le produzioni italiane vennero "de localizzate", vale a dire
trasferite in quello stato. Perché costa di meno produrre. Questo processo ê
stato assecondato negli ultimi anni dalla nostra politica nazionale. Ma i lavoratori italiani hanno perso qualcosa, rispetto ai tempi dei loro
genitori. Sebbene siano in maggioranza nella Repubblica, sui loro interessi
hanno prevalso quelli dei pochi che, in oligarchie private, dominano produzione
e commercio. In definitiva, si vede che le oligarchie non funzionano tanto bene
quando devono fare gli interessi dei più. Sono insofferenti dei limiti posti
nell'interesse generale e di fronte ad esse i lavoratori/consumatori sembrano,
e in effetti sono, impotenti, salvo che si elevino alla cittadinanza, alla
sovranità politica di massa, ciò che richiede di uscire dal proprio micromondo
familiare o aziendale e farsi carico, collettivamente, della politica
generale. Questo richiede un tirocinio, è cosa che si impara, non è
innata. È una conquista culturale che va rinnovata di generazione in
generazione. Non basta studiarla sui libri. I luoghi dove si fa questo
tirocinio sono gli organi collegiali elettivi delle istituzioni pubbliche, il Parlamento
in primo luogo. In Parlamento, se si fa il servizio parlamentare come si deve,
si cresce, in umanità, sapienza, competenza, capacità di sviluppare una
politica democratica. È quello che è appunto accaduto negli anni della nostra
Repubblica: la creazione e il mantenimento, dopo il ventennio del fascismo
storico, di una classe dirigente politica di derivazione popolare, che ha
"reso presenti", questo appunto significa "rappresentanza
parlamentare", gli interessi dei più. E che, nelle gravi emergenze che l'Italia
ha vissuto, in particolare negli scorsi anni '70, hanno salvato pace politica e
democrazia.
In un sistema di democrazia di
popolo, come il nostro vuole ancora essere, non si dovrebbe arrivare a dirigere
un governo nazionale senza aver fatto quel tirocinio parlamentare. Eppure, come
è stato osservato e come si può facilmente verificare, oggi le figure di
riferimento dei due maggiori partiti politici nazionali non l'hanno svolto. In
un certo senso la recente riforma costituzionale riguardante il Parlamento è
opera di neofiti nel lavoro parlamentare, di persone che solo da poco hanno
fatto esperienza parlamentare, o addirittura mai. E questo anche che se si sono
serviti di consulenti costituzionalisti. La decisione finale, tra le diverse
forme parlamentari possibili, è stata però loro, hanno avuto l'ultima parola.
Non è stato così, in fondo, si potrebbe ribattere, anche nel 1946 e 1947, in
quell'anno e mezzo in cui fu scritta la nostra Costituzione, da persone molte
delle quali molte, in particolare quelle più giovani, erano neofite nel lavoro
Parlamentare? È vero, fu così. Ma tra quei tempi e quelli nostri c'è una grande
differenza: dopo l'esperienza della dittatura fascista, c'era negli anni
Quaranta una gran voglia di Parlamento, visto come il più importante antidoto
alla ripresa del totalitarismo, che solo da pochissimo era stato vinto è
abbattuto. Oggi il clima è un altro, come tutti possono accorgersi.
Nei sessantacinque anni della
storia parlamentare della nostra Repubblica gli interessi dei più, tre
generazioni di italiani, che sono state compresenti e nel tempo si sono
succedute, tra morti e viventi forse un centinaio di milioni di persone o giù
di lì, sono stati rappresentati da circa 15.000 parlamentari, 900 ogni
quattro anni in media tenuto conto delle legislature chiuse anticipatamente,
che si sono succeduti nel servizio parlamentare. Davvero li possiamo
considerare troppi o inutili? Tenuto conto che da essi è dipesa la nostra vita
sociale, quasi tutta, ogni nostra libertà e il benessere e la pace.
- 4 -
La Nazione
Nella Costituzione vigente si fa
riferimento al concetto di nazione in tre punti, e in due di essi si parla di
"Nazione", con l'iniziale maiuscola. È scritto che i
"parlamentari" (deputati e senatori) rappresentano la "Nazione"
(art.67). I pubblici impiegati sono al servizio della "Nazione"
(art.98). Il Presidente della Repubblica rappresenta l' "unità
nazionale" (art.87).
Con la riforma costituzionale i
senatori non rappresenteranno più la "Nazione". Nel commento alla
riforma preparato dall'Ufficio studi della Camera dei Deputati si ricorda che
questa modifica è tra i principi fondanti della riforma, prevista nell'iniziale
disegno di legge costituzionale del Governo e non oggetto di successive
modifiche. Si vuole infatti che il Senato sia espressione delle autonomie
locali. Questa modifica è stata oggetto di aspre critiche tra i
costituzionalisti.
Che cosa è la "Nazione"?
La Costituzione non lo precisa. Non c'entrano lingua, stirpe e religione,
perché esse non possono essere fattori di particolare connotazione della
Repubblica: lo stabilisce L'art.3 della Costituzione. Di ciò che in genere, in
campo culturale, si ritiene definire la nazione, rimane una storia comune, che
significa anche una consuetudine di vita comune, di convivenza pacifica, in
particolare sotto il profilo politico, e solidarietà civile.
La storia della nostra costruzione
nazionale è stata particolarmente travagliata. Si dovettero combattere anche
resistenze politico/religiose, perché essa si fece anche contro il papato,
nell'Ottocento. Fatta l'Italia, si dovettero fare gli italiani, come fu
osservato. Da un certo punto di vista, l'Italia unita, politicamente
organizzata intorno alla monarchia Savoia, era fatta di tante nazioni, ciascuna
con una propria storia particolare, una propria lingua e una propria cultura.
L'Italiano era solo lingua letteraria. I Re Savoia parlavano correntemente
francese e piemontese. La gran parte della gente era analfabeta e quindi
confinata nelle culture particolari. Nella storia d'Italia, quindi, quando ci
riferisce alla Nazione, si intende una realtà che si è venuta costruendo
nell'arco di circa un secolo tra Ottocento e Novecento, in particolare sulla
base dell'ideologia politica di Giuseppe Mazzini. Nazione significa gente che
volle vivere insieme, per non essere "calpesti e derisi", e lo
eravamo perché non eravamo popolo, perché eravamo divisi, proprio come si canta
nell'inno nazionale. L'unità culturale italiana fu conseguita però, veramente,
solo nel secondo dopoguerra, in particolare per le vie dell'istruzione pubblica
di massa e di radio e televisione. È a partire da questa epoca che veramente la
Nazione si manifestò. Ed è significativo l'abbandono dei progetti
secessionistici che ebbero corso negli anni Novanta. Cercarono di parlare ai
popoli ma tra i popoli italiani ebbero un limitato seguito. Tuttavia ogni
processo storico-culturale lascia sempre qualche strascico. Togliere ai
senatori la rappresentanza della "Nazione" può essere considerato uno
di essi. Proprio nella riforma che si propone di fare del Senato una sede di
"raccordo" (viene utilizzato proprio questo termine, piuttosto
criticato da alcuni esperti perché non tecnico, impreciso) tra Stato e
autonomie locali, si toglie dai riferimenti ideali del nuovo Senato uno dei più
potenti motori ideologici unificanti, quello di Nazione come comunanza di
storia di progressivo avvicinamento delle diverse culture italiane e di
pacifica e solidale convivenza.
Come si sentiranno, è stato
osservato, nel nuovo Senato gli ex Presidenti della Repubblica, il cui titolo
di onore per essere senatori è quello di aver rappresentato l'unità nazionale?
E i cinque senatori di nomina presidenziale per aver "illustrato la
Patria"? Che c'entreranno con gli altri senatori? Ma soprattutto che
c'entra nel Parlamento un gruppo di parlamentari che non ha più riferimento
alla Nazione? Si è voluto "raccordare" ma sembra, è stato osservato
dai critici della riforma, che si sia introdotto un forte elemento di
potenziale divisione, nel cuore della Repubblica.
- 5 -
Tempo per fare politica
Chi sostiene la recente riforma
costituzionale sulla quale, nel prossimo referendum di autunno, dovremo
pronunciarci, elenca, tra gli argomenti a favore, la riduzione di due terzi dei
senatori, da oltre trecento (compresi gli ex Presidenti della Repubblica
e i membri di nomina presidenziale) a cento, e il fatto che i senatori non
avranno stipendio per il loro lavoro parlamentare. In effetti i senatori
saranno eletti tra i consiglieri regionali e sindaci e avranno solo lo stipendio
che già spetterà loro negli enti locali di appartenenza. Sarà difficile però
non riconoscere loro un rimborso spese, in particolare per quelli che
risiedono fuori Roma. Li pagheremo meno, ma saranno, per così dire, a mezzo
servizio. Continueranno infatti ad essere consiglieri regionali e sindaci e,
cessando da quegli incarichi cesseranno anche di essere senatori. Come si farà
a sostituirli lo deciderà una futura legge. Sarebbe stato meglio approvarla con
la riforma costituzionale, per darci un'idea più completa della nuova
istituzione. Ci conviene avere, in un ruolo così importante gente a mezzo
servizio? Avranno il tempo sufficiente per occuparsi dello Stato e, insieme,
degli enti locali di appartenenza? Con un solo stipendio dovranno fare un doppio
lavoro. Ma ci daranno anche meno tempo.
La riduzione del numero dei
parlamentari non è, in sé, un fatto positivo. Significa meno gente che fa
tirocinio nel servizio parlamentare. Ma anche un servizio parlamentare meno
intenso, visto che lo si fa a mezzo servizio. E soprattutto con meno
autonomia, visto che la carica di senatore viene a dipendere, per i senatori
elettivi, da come vanno le cose negli enti locali di appartenenza. È un
vantaggio, tenendo conto che i senatori avranno voce in capitolo negli affari
di stato più importanti, nella nomina del Presidente della Repubblica e nella
nomina dei giudici costituzionali?
Occuparsi dello Stato richiede
tempo. Nell'antica Atene, dove originò la cultura democratica, solo gli uomini
liberi, la piccola minoranza dei cittadini che non lavoravano essendo i
lavori necessari alla vita quotidiana affidati alla grande maggioranza degli
schiavi, facevano politica. L'elevazione di tutti il popolo alla
cittadinanza è stato possibile solo con il miglioramento delle condizioni dei
lavoratori, che hanno avuto tempo, istruzione e libertà per la politica. Ma la
formazione di una ceto di politici di derivazione popolare in Parlamento ha
richiesto la liberazione dei parlamentari da ogni altro lavoro al di fuori
della politica democratica: a questo servono gli stipendi dei parlamentari.
Suo sito www.camera.ti,, scheda
"documenti"' poi "temi dell'attività parlamentare" e
"il testo di legge della riforma costituzionale" trovate il testo
della riforma comparato con la Costituzione vigente, un sunto della riforma e
un commento articolo per articolo. Leggeteli tutti, cercate di comprenderli
bene, e vedete quanto tempi vi serve. Pensate quanto tempo ci è voluto per
ideare e scrivere la riforma. Sono cose che possiamo affidare a gente a mezzo
servizio?
I nuovi senatori finiranno per
essere parlamentari di complemento, ma potranno essere decisivi su questioni
molto importanti.
- 6 -
Degrado della politica ed eclisse
del Parlamento - parte prima
Nel corso dei passati anni
'90 si cominciò a presentare il Parlamento come un'istituzione troppo
affollata, inutilmente complicata, troppo lenta nel decidere, troppo costosa, e
i parlamentari come un ceto parassitario. La ragione può essere individuata nel
degrado della politica che si era manifestato nel corso del decennio
precedente. Esso era dipeso fondamentalmente dalla degenerazione della politica
controllata dai partiti, che si presentarono platealmente, nel corso di
inchieste giudiziarie svolte con una certa sistematicità dal 1992, come minati
dalla corruzione. Essi infatti avevano preso a finanziarsi pretendendo una
quota del denaro pubblico erogato per appalti pubblici da chi aveva assunto gli
appalti. E influivano sulla scelta degli appaltatori, facendo preferire
illegalmente quelli che avevano accettato di versare quel tributo. I partiti
avevano preso consapevolezza di questi fatti molto prima che emergessero in
sede giudiziaria: all'inizio degli anni Ottanta si iniziò a parlare di "
questione morale" e si faceva riferimento proprio al fatto che i partiti
avevano iniziato a controllare a proprio beneficio, non nell'interesse
pubblico, ogni settore della vita nazionale in cui venivano spese risorse
pubbliche.
Ma la corruzione pubblica non fu
l'unica ragione del degrado. Un'altra può essere individuata nella dissoluzione
del sistema sovietico, a cavallo tra gli anni '80 e gli anni '90, e nella
contemporanea metamorfosi del Partito Comunista Italiano, che attenuò le
istanze critiche verso la società di quel tempo. La presenza in Italia del più
forte partito comunista dell'Occidente democratico era stata storicamente un
potente stimolo, nel secondo dopoguerra, alla costituzione e mantenimento di
partiti politici forti e strutturati che gli si opponevano, cercando in
particolare di contendergli l'influsso sui lavoratori. La presenza
dell'opposizione comunista, con la sua ideologia fortemente centrata sui temi
della giustizia sociale e sulla riforma dello stato nel senso della piena
attuazione dei valori e principi costituzionali, con la sua critica politica
irriducibile, colta, perseverante, avevano indotto i partiti che ai comunisti
si opponevano a tener conto di coloro che nella società stavano peggio e a una
più attenta selezione del ceto politico ammesso a occuparsi in Parlamento degli
affari di stato. Il partito originato dalla riforma di quello comunista non
ebbe lo stesso effetto, perché si comincio a pensare che il capitalismo di tipo
statunitense e la società da esso prodotta non avessero alternative. Si scrisse
addirittura di una "fine della storia". In Italia l'idea di
sviluppo sostituì quella di giustizia sociale, che era stata alla base delle
ideologie dei partiti popolari. Lo sviluppo divenne faccenda da tecnocrati e le
basi sociali dei vecchi partiti di massa un ostacolo. I neo-partiti del nuovo
corso tesero a ricostruirle come comitati elettorali e non ne curarono più la
formazione politica. I movimenti laicali cattolici furono tra le poche
formazioni sociali a continuare a occuparsene sulla base dell'esteso corpo ideologico
della dottrina sociale e del pensiero sviluppato nelle università religiose.
Che c'entrano i partiti con il
Parlamento? La loro occupazione del Parlamento non è all'origine del
progressivo minor credito dell'istituzione tra la gente?
In realtà, nel sistema
istituzionale disegnato nella Costituzione repubblicana entrata in vigore nel
1948, approvata dall'Assemblea Costituente nel 1947 al termine dei suoi lavori
svolti dalla metà del 1946, il nesso tra partiti politici e Parlamento era
fondamentale per realizzare la sovranità popolare, quindi un sistema politico
in cui le masse avessero voce in capitolo sulle sorti dello stato. Infatti il
popolo che i costituenti vollero elevare alla sovranità non era composto da
individui atomizzati, ma da collettività politiche organizzate nei partiti,
attraverso i quali i cittadini avrebbero potuto/dovuto concorrere a determinare
la politica nazionale (come è scritto nell'art.49 della Costituzione). Ed erano
stati infatti i partiti politici a organizzare la guerra di Resistenza contro
l'ultimo fascismo, dal settembre 1943, a riorganizzare le basi collettive e
ideologiche della politica democratica nel corso di quella lotta e, infine, a
pretendere la guida dello stato dopo la caduta del regime e a progettarne la
riforma Anche le basi culturali e giuridiche del nuovo stato democratico erano
state ideate e proposte in seno ai partiti.
Il faticoso processo di
elevazione del popolo alla cittadinanza democratica si era anche prima espresso
nei partiti di popolo, fin dalla seconda metà dell'Ottocento. Per i partiti di
popolo, che si proponevano di organizzare politicamente le masse, il metodo
democratico fu una conquista culturale, da un'iniziale diffidenza, determinata
dal fatto che la democrazia liberale che aveva realizzato l'unità nazionale era
stata un fatto elitario, essenzialmente espressione di una borghesia
illuminata, in una situazione in cui il diritto di voto era attribuito a meno
del 10% della popolazione.
Il primo grande partito politico
di massa italiano fu oggettivamente, al di là delle formali prese di distanza,
la Chiesa cattolica e fu antidemocratico. Questo segnò profondamente la storia
nazionale.
- 7 -
Degrado della politica ed eclisse del Parlamento - parte seconda
Ho
scritto di degrado della politica come origine della crisi dei partiti,
trattando della riforma costituzionale oggetto del prossimo referendum, perché
si tratta di fatti collegati. Più precisamente, la riforma indebolisce il
Parlamento come espressione della sovranità popolare, in quanto istituisce un
Senato come espressione di un ceto politico di apparato, del governo locale.
Può essere considerata come un'eclisse del Parlamento. Essa è conseguita ad una
crisi dei partiti provocata dal degrado della politica.
L'affermazione della democrazia di
popolo fu storicamente legata in modo molto stretto all'affermazione dei
partiti di massa e alla conquista culturale, da parte di essi, dei principi
democratici. Quest'ultima si manifestò in particolare nel lavoro parlamentare,
che determinò la formazione di una classe politica di derivazione popolare e al
popolo collegata in maniera vitale.
Il primo partito politico italiano
popolare, di massa, fu la Chiesa cattolica, naturalmente intesa come realtà di
rilevanza sociologica, non nei suoi aspetti soprannaturali descritti dalla
teologia. Questa realtà politica della nostra Chiesa ci interessa
particolarmente come fedeli e cittadini italiani.
Bisogna ricordare che la Chiesa
cattolica ha cominciato a sviluppare un pensiero propriamente politico molto precocemente,
fin dal primo secolo della nostra era. Proprio Clemente romano, a cui è
intitolata la nostra parrocchia, ne fu una delle fonti. Successivamente, dal
Sesto secolo circa, la Chiesa cattolica divenne una attrice propriamente
politica e dall'Undicesimo secolo un soggetto politico sovrano, non più
feudatario di altre entità politiche. Tuttavia, fino alla metà dell'Ottocento,
agì politicamente al modo delle altre monarchie europee, trattando i popoli
solo come un insieme di sudditi e valendosi della sua autorità sacrale per
accreditare le proprie gerarchie in politica. Dall'Undicesimo secolo si
strutturò giuridicamente come un impero politico/religioso e questa
configurazione è quella che fondamentalmente ha e rivendica ancora oggi, pur
dopo le molte riforme che si è data con il Concilio Vaticano secondo
(1962-1965). Ha cominciato ad agire politicamente come un partito di massa in
concomitanza con la conclusione del processo di unificazione nazionale italiano
e più precisamente tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta dell'Ottocento,
quando la gerarchia del clero si rese conto che non avrebbe recuperato il suo
piccolo regno nell'Italia centrale, con capitale Roma, appoggiandosi agli altri
sovrani europei. A quel punto diede il via libera all'attivismo sociale del
laicato di fede italiano, che già si era venuto organizzando spontaneamente per
sostenere le pretese politiche del Papato. Tuttavia i papi accentrarono nelle
loro mani la direzione politica di quello che rapidamente assunse forma di
movimento di massa: essi divennero sostanzialmente i capi del primo partito
politico di massa, diffuso capillarmente sul territorio, che ebbe nell'Opera
dei Congressi, fondata nel 1871, praticamente all'indomani della caduta del
Regno pontificio, la sua centrale di coordinamento nazionale e nel socialismo
molti riferimenti ideali quanto a giustizia sociale e modi di intervento a
favore delle masse. L'enciclica "Le novità", del papa Gioscchino
Pecci, diffusa nel 1891, fu il suo manifesto ideologico. Essa è tutta in polemica
con il socialismo, ma ne recepì, dando loro una copertura teologica, molti
degli ideali. In particolare diede il via libera all'attivismo sociale nelle
masse con finalità di elevazione sociale.
Altri partiti di massa furono il
Partito socialista, fondato nel 1892, il Partito Repubblicano, di ideologia
mazziniana, fondato nel 1895, e, più tardi, quando finalmente il Papato rimosse
il divieto per i fedeli cattolici di partecipare alla politica nazionale
nell'attività parlamentare, il Partito Popolare Italiano, fondato dal prete don
Luigi Sturzo e da altri esponenti cattolici nel 1919. Nel 1921 vennero fondati
il Partito Comunista Italiano e il Partito Nazionale Fascista, entrambi
collegati all'esperienza socialista, in quanto il primo originò per scissione
dai socialisti e il secondo ebbe in Benito Mussolini, che era stato uno dei
massimi esponenti del socialismo italiano, il suo "Duce", vale
a dire il capo supremo carismatico. Nel corso della Seconda guerra mondiale,
nel 1942, sulla base dell'esperienza del Partito Popolare e di quella dei
giovani intellettuali cattolici formatisi alla democrazia negli anni del
fascismo, in particolare nella FUCI (gli universitari cattolici), nel
Movimento Laureati e nell'Università Cattolica di Milano, fu fondata la Democrazia
Cristiana, la quale ebbe in Alcide De Gasperi uno dei suoi principali
esponenti. Infine, nel 1946, esponenti del disciolto Partito Nazionale Fascista
fondarono il Movimento Sociale Italiano, partito che ebbe un seguito
popolare significativo, in particolare a Roma dove fu a lungo il terzo partito
cittadino, e che, pur nell'accettazione dei principi istituzionali e dei metodi
della nuova democrazia repubblicana, riproponeva alcuni temi del fascismo
storico, in particolare l'anticomunismo, il nazionalismo, la preferenza per un
Governo nazionale forte e accentratore, un certo militarismo, un'etica sociale
basata sul principio gerarchico, un'etica familiare maschilista e paternalista,
un ordinamento sindacale ispirato al corporativismo, che escludesse quindi il
conflitto sociale tra lavoratori e datori di lavoro.
Ecco dunque descritti i principali
attori dei processi democratici dai quali, dalla metà degli anni Quaranta del
secolo scorso, originò la nostra democrazia repubblicana popolare, centrata sul
Parlamento, quella che bruscamente entrò in crisi all'inizio degli anni
Novanta. La recente riforma costituzionale può essere considerata una
manifestazione di questa crisi. Essa infatti allontana il popolo dal Parlamento
introducendo in quest'ultimo un'anomalia, elevando alla sovranità esponenti
politici locali svincolati dal dovere di considerare, nell'occuparsi delle
questioni di stato, gli interessi della Nazione.
- 8 -
Degrado della politica ed eclisse del Parlamento - terza parte
Per valutare la
recente riforma costituzionale occorre avere a portata di mano il libro
di storia dell'ultimo anno delle scuole superiori: infatti essa scaturisce,
come tutti i fatti politici, da un lungo processo storico e sociale, che per
chi ha meno di cinquant'anni è iniziato prima della sua partecipazione
consapevole alla vita civile. Non basta quindi leggere e cercare di capire i
quarantuno articoli della legge costituzionale di riforma e confrontare la
Costituzione vigente con quella progettata. E non basta neanche cercare di
immaginare come funzionerà la nuova Costituzione. Poiché la riforma scaturisce
da un processo storico, le cose tenderanno ad evolvere nella direzione che
hanno preso, salvo che si decida di correggerne il movimento, ciò che appunto
si può fare nel prossimo referendum costituzionale, che si prevede si terrà nel
prossimo novembre. E' necessario quindi comprendere il senso del movimento in
atto.
La riforma incide profondamente
nella struttura della Repubblica, in particolare in quella del Parlamento e
delle autonomie locali, ma ha riflessi importanti anche sulla Presidenza della
Repubblica e sulla Corte Costituzionale. E i principi costituzionali sono
sostanzialmente nelle mani di chi svolge quelle funzioni, o nella fase
normativa o in quella attuativa.
Il processo storico dal quale è
scaturita la riforma è quello di una crisi della politica. La riforma ne è il
rimedio o una delle manifestazioni?
La politica italiana è entrata in
crisi negli scorsi anni '70.
Nel secondo dopoguerra si era prodotto
in Italia, negli anni Cinquanta e Sessanta, un lungo periodo di espansione
economica basato su due fattori: il basso costo dell'energia e del lavoro.
Questo aveva favorito il varo di una estesa normativa di carattere sociale a
favore della popolazione meno ricca. Essa rientrava nei programmi sia del
partito egemone, la Democrazia Cristiana, ispirati alla dottrina sociale della
Chiesa, sia in quelli di socialisti e comunisti. Questo produsse anche
movimenti di rivendicazione sociale per ottenere ulteriori miglioramenti. Le
tensioni sociali giunsero al culmine nel corso degli anni '70, quando un
improvviso aumento dei prezzi del petrolio come ritorsione degli stati arabi
per la questione palestinese indusse una lunga crisi economica. Furono anni
colpiti da fatti di terrorismo politico gravi e ripetuti. In questo periodo i
partiti di governo iniziarono a contrattare il consenso sociale a fronte di
provvidenze a varie categorie. Il governo all'epoca aveva un largo margine
d'azione in quanto, direttamente o partecipando al capitale azionario di
società d'impresa, controllava larga parte dell'economia. E non aveva i limiti
di bilancio imposti oggi dalla partecipazione all'Unione Europea. Lo scontro
politico si fece meno ideologico, anche per l'evoluzione in del Partito
Comunista Italiani, che proprio in quegli anni prese una posizione molto più
autonoma dai partiti comunisti dell'Europa orientale. Questo però fece
degenerare la politica, perché le varie categorie cominciarono a ragionare in
termini di tornaconto particolare invece che di interessi nazionali. Si
produsse una "crisi di legittimazione" della politica e una
conseguente " crisi di governabilità". Mio zio Achille, sociologo
bolognese, ne trattò in un libro del 1980 intitolato "Crisi di
governabilità e mondi vitali". I "mondi vitali" sono quelli che
forniscono alle persone il senso della vita, ad esempio le famiglie o le
comunità religiose, ma anche alcune collettività politiche. Mio zio vedeva
nella crisi di queste realtà di mondo vitale la causa della perdita di senso
della politica, che quindi doveva "comprare" il consenso politico a
costi crescenti e insostenibili. La soluzione alla crisi della politica era
quindi per lui sostenere quei mondi vitali, innanzi tutto con un lavoro di
formazione e di sostegno. Per altri la soluzione giusta era invece quella di
consentire al governo di non dover più "contrattare" il consenso
politico, attribuendo un maggiore potere a chi alle elezioni fosse risultato
preferito, un potere non più "proporzionale" al suo "peso"
elettorale. Chi vinceva alle elezioni doveva avere garantita la maggioranza
parlamentare che lo sosteneva, fino alla tornata elettorale successiva. Tutti
i progetti di modifica istituzionale della politica abortiti o approvati
dagli anni '80 sono andati in questo senso. La proposta di mio zio fu seguita
dalla Democrazia Cristiana agli inizi degli anni '80 cercando di coinvolgere in
un nuovo progetto di riforma sociale la base cattolica, ma questa iniziativa
non ebbe successo, venendo penalizzata alle elezioni politiche, per la ragione
che nel frattempo il partito aveva virato a destra, laicizzandosi molto, e le
realtà sociali cattoliche faticavano a riconoscersi in esso.
L'attuale riforma costituzionale
si inserisce nei tentativi di rendere il governo più indipendente dalla base
sociale, realizzando così quella "governabilità" di cui si iniziò a
discutere molto nel corso degli anni '80, in particolare sulle sollecitazioni
del politico di governo più connotante quel periodo storico, il neo- socialista
Bettino Craxi. Essa va letta insieme alla recente riforma del sistema
elettorale della Camera dei Deputati, che consente alla formazione politica che
"vince" le elezioni, raggiungendo anche solo una maggioranza
"relativa", vale a dire inferiore al 50%, ed essendo preferita nel
"ballottaggio" tra le due formazioni che hanno avuto il maggior
numero di voti, di avere una solida e sicura maggioranza parlamentare,
sufficiente anche per modificare la Costituzione.
Negli anni della Repubblica
democratica, caratterizzati da intensi scontri ideologici e politici, il
Parlamento, con le sue due Camere, ha fatto il lavoro che ci si attendeva, vale
a dire ha garantito la stabilità democratica, nella progressiva attuazione
della Costituzione, pur nel veloce mutare dei governi in carica. Il sistema fu
"bloccato" fino all'inizio degli anni Novanta, in quanto i partiti
che si riconoscevano nell'ideologia dell'Occidente democratico e capitalista
avevano convenuto di lasciare il Movimento Sociale Italiano, per i suoi legami
culturali con il fascismo storico, e il Partito Comunista Italiano, per quelli
con l'Unione Sovietica, fuori delle coalizioni di governo. Tuttavia il
lavoro parlamentare aveva consentito di accogliere, traducendole in norme di
legge, alcune istanze di giustizia sociale dell'opposizione comunista e di dare
comunque voce a quella "missina" ( come venivano chiamati gli
aderenti al Movimenti Sociale Italiano). E questo rispondere alle attese aveva
riguardato anche il Senato, che aveva svolto il ruolo di Camera "alta"
che gli era stato proprio di dalla sua istituzione nel Regno Sabaudo, nel 1848.
In una società che non era ancora invecchiata come l'attuale, il solo fatto che
i suoi membri fossero almeno quarantenni aveva garantito quella maggiore
riflessività e ponderazione che ci si aspetta dagli anziani. Ma non era stato
solo questo: i partiti politici, nello scegliere i candidati, vi avevano
mandato le loro persone più autorevoli. La presenza, come membri di diritto,
degli ex Presidenti della Repubblica, e quella dei cittadini nominati da questi
ultimi per avere "illustrato la Patria" aveva rafforzato questa
immagine. Insomma, almeno fino agli inizi degli anni '90, il Senato non apparì
assolutamente come una istituzione inutile, anche se i costituzionalisti, fin
dai tempi della Costituente, consigliavano di specializzarne le funzioni in
modo che non fosse un puro e semplice "doppione" della Camera dei
deputati. In effetti il Senato non lo fu mai, almeno fino agli anni Novanta,
quando si manifestò la politica come ora la viviamo, l'epoca di quella che
venne chiamata "Seconda Repubblica", che è quella in cui caddero
tutte le preclusioni di un tempo all'accesso al governo e, insieme, la politica
parlamentare iniziò ad essere considerata una perdita di tempo.
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Degrado della politica e degrado del parlamento - parte quarta
Coloro che condividono
la riforma costituzionale, sulla quale a novembre prossimo dovremo decidere
come cittadini in un referendum, sostengono che essa ridurrà i costi
dell'attività parlamentare e che renderà più veloce il procedimento
legislativo. Sono questi i soli argomenti che dovrebbero indurci a dare il
nostro consenso alla riforma? In realtà la riduzione dei costi si limiterà agli
stipendi dei nuovi senatori, che però saranno, per così dire, a mezzo servizio,
perché dovranno occuparsi anche di altro. Sarà difficile però non riconoscere
loro rimborsi spese e indennità di partecipazione ai lavori parlamentari, in
particolare per quelli che non risiedono a Roma. Il Senato non viene abolito e richiederà
l'impiego dei dipendenti che attualmente vi prestano servizio, così come di
disporre degli immobili, molti di gran pregio e quindi di costosa gestione, in
cui ha sede. Quanto alle procedure parlamentari, le nuove norme contemplano
molti e importanti casi in cui le due Camere esercitano collettivamente la
funzione legislativa e inoltre è previsto che il Senato possa richiedere
modifiche ai disegni di legge approvati dalla Camera dei Deputati, con
necessità, in questi casi, di tre delibere parlamentari (Camera dei
Deputati>Senato>Camera dei deputati, in via definitiva). Infine la
formulazione dell'elenco delle materie di competenza legislativa bicamerale
appare imprecisa e lascia molti margini di dubbio, per cui si può immaginare un
contenzioso costituzionale in merito. Insomma, quanto a costi e a velocità del
procedimento legislativo i vantaggi non appaiono poi così eclatanti. Come
controindicazioni vi sono il fatto che i nuovi senatori non saranno eletti dal
popolo, ma dalla classe politica locale, che ha manifestato molti problemi di
adeguatezza negli anni passati, ed inoltre il fatto che saranno parlamentari a
mezzo servizio con la conseguente difficoltà a impratichirsi nelle questioni di
stato e di sviluppare reti di relazioni con i colleghi e l'assai problematica
rappresentatività delle autonomie locali regionali di rispettiva appartenenza,
tenuto conto che i nuovi senatori lavoreranno senza vincolo di mandato e anche
in considerazione della procedura per la loro elezione (non è detto infatti
che siano scelti gli esponenti dai quali dipende l'indirizzo politico
delle autonomie regionali),
Alle obiezioni che precedono i
fautori della riforma ne riconoscono i difetti, ma ritengono che sia stato
comunque un grande risultato abolire il Senato come è attualmente. Eppure
l'esperienza costituzionale dal 1948 dimostra che il Parlamento bicamerale così
com'è oggi ci ha consentito di superare molte brutte esperienze, tempi
difficili. I regolamenti parlamentari e la tradizione parlamentare, che si è tramandata
da ufficio di presidenza ad ufficio di presidenza, hanno consentito di affinare
i procedimenti legislativi, risolvendo nella pratica molte questioni
controverse. Sostituire a ciò che c'è e funziona norme che gli stessi loro
artefici riconoscono per lo meno come perfettibili, costituisce un bel rischio.
Ma è poi vero che il problema che ha oggi la politica risiede nel bicameralismo
"perfetto", in un Parlamento con due Camere che fanno le stesse cose
e che per produrre leggi devono approvare testi normativi identici? La mia
tesi, basata innanzi tutto sulla mia esperienza di cittadino, è che non è così.
Il principale problema della politica è il suo progressivo degrado e, quando
parlo di politica, non mi riferisco solo a quella espressa dalla classe dei politici,
ma innanzi tutto alla politica che è manifestata, consapevolmente o non, da noi
cittadini. Questa è una storia molto più lunga e complessa e, innanzi tutto, è
storia.
A che servono gli anziani, dei
quali dal gennaio prossimo inizierò a fare parte raggiungendo i sessant'anni?
Servono proprio a fare memoria della storia dei quali sono stati partecipi e
responsabili.
Scrivendo di storia, ho accennato
agli anni '70 e '80, dove risiedono gli inizi del degrado della politica di
oggi. Il mondo, e anche l'Italia, cambiò improvvisamente tra le elezioni
politiche italiane del 1987 e del 1994...
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Degrado della politica
ed eclisse del Parlamento - parte quinta
Com'è che, cercando di ragionare
sulla recente riforma costituzionale per arrivare preparato al prossimo
referendum che si farà per decidere se bloccarla o farla diventare parte della
Costituzione, ho cominciato a scrivere del degrado della politica e di
educazione alla democrazia? È perché sono argomenti collegati e la riforma
costituzionale è concepita anche come una soluzione al degrado della politica
democratica. È la soluzione giusta o essa stessa è manifestazione di quel
degrado?
Che cosa è la democrazia e, in
particolare, la democrazia di popolo che si è voluto attuare con la Costituzione repubblicana progettata e approvata dai membri dell'Assemblea
Costituente tra il 1946 e il 1947 ed entrata in vigore il 1 gennaio 1948?
Sarebbe importante discuterne in parrocchia, nel quadro di attività di
autoformazione alla politica democratica. E questo perché la Chiesa cattolica è
oggi in Italia uno dei più importanti attori politici e l'unico ad aver
mantenuto un'organizzazione di educazione alla politica analoga a quelle dei
partiti politici "forti" e "solidi" che ebbero corso in
Italia fino alla fine degli anni '80, quando il mondo improvvisamente cambiò.
Si
sostiene che democrazia è quando decide la maggioranza, ma, in realtà, nella
concezione contemporanea e, in particolare, nelle democrazie popolari è molto
più di questo: è un sistema molto esteso di valori e di procedure che servono a
proteggerli e che impediscono quello che fu definito fin dal Settecento, agli
albori del pensiero democratico moderno, il "dispotismo" delle
maggioranze. Tra i valori più importanti e fondativi vi è quelli della
partecipazione di tutti, e di ognuno, alla sovranità, vale a dire alle
decisioni più importanti per una collettività, anche quando si tratta di vita o
di morte. In una democrazia di popolo si vorrebbe che tutti, e ognuno, fossero
re: questo richiede di essere re giusti, non come gran parte dei re della
storia dell'umanità, che furono dei despoti e predarono e mantennero il potere
con l'arbitrio e la violenza, pretendendo anche di sacralizzare il loro potere
di despoti. La via della democrazia come oggi la concepiamo e uno sforzo per
essere virtuosi, che si vorrebbe coinvolgesse tutti. Nell'antichità si pensò
invece che la democrazia, proprio perché "potere di tutti", quindi
espressione delle masse, non fosse la migliore forma di organizzazione politica
perché le masse non sanno essere virtuose. Si pensò che lo stato dovesse essere
diretto da "illuminati", che si ritenne di volta in volta di
individuare nei filosofi, in certi sovrani, in certi capi religiosi ai quali si
volle riconoscere la virtù soprannaturale dell'infallibilità. La democrazia
moderna sorge quando si ritenne possibile "illuminare" le masse. Essa
ne richiede l'elevazione e questo fu uno di principali obiettivi sia del
socialismo storico che della dottrina sociale. Zagrebelsky nel libro che ho
consigliato ieri, "La difficile democrazia" critica questo obiettivo,
perché in tal modo il potere non sarebbe più in mano al popolo, ma, con
pretesto di fare gli interessi del popolo, in mano, di nuovo, a un gruppo di
sedicenti "illuminati". Su questo non mi sento di poter essere
d'accordo con lui. E questo sulla base innanzi tutto della mia storia personale
di cittadino: non si è cittadini "democratici" per natura, anzi è il
contrario. Come scrisse pessimisticamente il grande giurista romano Marco Tullio
Cicerone nel suo libro intitolato "Lo Stato", la gente, specie se
inserita in una massa di individui, può assumere aspetto e abitudini di belva.
E dalle belve noi tutti, in fondo, discendiamo. La democrazia è una faticosa
conquista culturale e un fatto sociale, per cui ognuno, nello sforzo per
attuarla, deve sentirsi maestro e discepolo. In questo consiste
l'autoformazione. È impegno di illuminazione interiore che, in un certo senso,
richiede di emanciparsi dagli "illuminati" che pretendano di avere il
monopolio della dottrina democratica. In questo senso è anche azione di
liberazione. Questa la rende sospetta ai gerarchi sociali in carica.
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Degrado della politica ed eclisse del Parlamento - parte sesta
Il nuovo art.57 della Costituzione,
sostituito dalla legge costituzionale che entrerà in vigore se al
prossimo referendum costituzionale i Sì saranno più dei No, prevede che il
Senato sia composto da novantacinque membri (ora i senatori elettivi sono
trecentoquindici) nominati dai consiglieri regionali e dai consiglieri delle
Provincie autonome di Trento e di Bolzano scegliendoli, su base regionale, tra
i consiglieri regionali e i sindaci. A questi si aggiungono cinque senatori che
il Presidente della Repubblica può nominare scegliendoli tra i cittadini che
abbiano "illustrato la Patria" e che durano in carica sette anni,
senza possibilità di nuova nomina, ( ora è prevista la nomina di cinque
senatori a vita) e gli ex Presidenti della Repubblica (che rimangono gli unici
senatori a vita, unitamente ai senatori a vita di nomina presidenziale in
carica al momento di entrata in vigore della riforma). I senatori eletti tra i
membri degli enti locali e i nuovi senatori di nomina presidenziale non avranno
stipendio. A parte gli ex Presidenti della Repubblica, i nuovi senatori saranno
a mezzo servizio, perché quelli scelti negli enti locali dovranno anche fare il
loro lavoro di consiglieri regionali e di sindaci e quelli di nomina
presidenziale avranno il proprio lavoro, a meno che non siano scelti tra i pensionati.
I senatori scelti tra i membri di enti locali dureranno in carica quanto i
relativi consigli regionali e comunali. Se cesseranno di essere
consiglieri regionali o sindaci decadranno anche dalla carica di senatori. Le
modalità di elezione dei senatori scelti tra i consiglieri regionali e i
sindaci saranno stabilite da una futura legge approvata da entrambe le Camere.
La deliberazione delle due Camere
del Parlamento, quindi della Camera dei Deputati e del Senato, sarà necessaria,
come ora, per molti tipi di leggi, in particolare per quelle più importanti e
riguardanti i massimi principi della Repubblica, come le leggi di revisione
della Costituzione e le altre leggi costituzionali, per quelle concernenti
l'ordinamento degli enti locali e, soprattutto, per quelle che riguardano i
rapporti tra la Repubblica e l'Unione Europea e l'attuazione della normativa
europea, vale a dire, si è stimato, circa il 70% delle leggi dello Stato. In
queste decisioni i senatori però non rappresenteranno la Nazione, come è
scritto per i deputati, ma le "istituzioni territoriali". Però
decideranno senza vincolo di mandato, vale a dire che non saranno semplici
portavoce degli enti locali di appartenenza. Dovrebbero "raccordare"
lo Stato e gli "altri elementi costitutivi della Repubblica". Ma come
assicurarsi che questo raccordo si effettivo? E se ad un certo punto
decidessero di fare di testa propria? Ed è possibile occuparsi degli affari di
stato senza tener conto della Nazione?
L'idea che senatori a mezzo
servizio, eletti a suffragio ristretto da membri di altri organi pubblici e non
direttamente dal corpo elettorale, potessero andare bene per occuparsi degli
affari di stato al massimo livello sarebbe apparsa stravagante in altre ere
della storia della Repubblica. Ad certo punto gli stessi riformatori
costituzionali hanno avuto qualche remora e hanno introdotto nel nuovo testo
dell'art.57 della Costituzione un quarto comma in cui, in un testo zoppicante
dal punto di vista sintattico, sembra che i consiglieri regionali destinati ad
essere eletti senatori debbano essere indicati dal corpo elettorale in
occasione della loro nomina a consiglieri regionali. Ho scritto
"sembra", perché il testo non è chiaro e, soprattutto, non dà un'idea
di come sarà la procedura di scelta dei nuovi senatori in modo da tener conto
della volontà del corpo elettorale. Tutto è rinviato a una legge ordinaria.
Quel comma è stato introdotto per realizzare un accordo politico con chi voleva
che, nella scelta dei nuovi senatori, si tenesse conto della volontà del
cittadini. Il testo costituzionale poco chiaro si rifletterà sul giudizio di
costituzionalità della nuova legge elettorale sul nuovo Senato, rendendolo
problematico.
Per inciso: le norme
costituzionali dovrebbero essere scritte in modo chiaro, in buona lingua
italiana sotto il profilo sintattico e grammaticale. La legge di riforma
costituzionale oggetto del prossimo referendum non sembra essere stata
sottoposta a revisione sotto questo aspetto, come invece lo fu il testo della
Costituzione repubblicana entrata in vigore nel 1948. Anche la cattiva qualità
sintattica e grammaticale delle norme può essere considerata una manifestazione
del degrado della politica.
Concepire i consigli eletti dal
corpo elettorale come istituzioni inutili, dispendiose e fonti di
complicazioni ingiustificate è un'altra manifestazione del degrado della
politica democratica. In parte si tratta di pregiudizi ingiustificati, in parte
della constatazione del reale scadimento del personale della politica. Si
tratta di un fenomeno che può ricondursi alla crisi della forma sociale dei
partiti politici che, originata verso la metà degli anni '70, è giunta ad uno
stadio per così dire terminale a seguito della riforma della legge elettorale
del 2005 ( quella che ha previsto liste bloccate ed elevato premio di
maggioranza alla coalizione vincente), dichiarata incostituzionale nel 2014 sia
con riferimento al premio di maggioranza sia in quanto negava ai cittadini
elettori la possibilità di esprimere preferenze per i candidati. La crisi ha
cominciato a prodursi al momento del passaggio del controllo della politica
democratica dalla generazione che aveva partecipato alla Resistenza contro il
fascismo storico e l'occupazione nazista alle generazioni successive di
politici. Ha trovato storicamente terreno fertile tra i partiti di governo nel
potere sul sistema, un tempo molto più vasto di oggi, delle industrie
pubbliche, gestite direttamente o mediante partecipazione al loro capitale
sociale. Non ha riguardato solo il personale politico, ma anche il corpo
elettorale. Il consenso politico iniziò ad essere contrattato sulla base delle
elargizioni fatte alle diverse categorie sociali, le cui pretese sono andate
crescendo. I partiti politici iniziarono a prelevare una quota crescente di
denaro pubblico come pezzo della mediazione sociale. Il personale della
politica inoziò ad essere autoreferenziale, perdendo il contatto vitale con,le
formazioni sociali dalle quali era emerso: iniziò a concepire sé stesso come un
insieme di "tecnici" della politica, quasi al modo dei
"manager", dei capi delle imprese industriali, e a pretendere
corrispondenti gratificazioni economiche. Si produsse in tal modi una crisi di
legittimazione della politica, fatta,di disprezzo reciproco tra cittadini e
personale della politica, che i sociologi iniziarono a segnalare a partire
dagli anni '80. In quel decenni si tentò di porvi rimedio occupandosi
nuovamente di formazione alla politica: furono gli anni delle "scuole di
politica" (famosa quella creata in Sicilia dai padri gesuiti Pintacuda e
Sorge). A cavallo tra gli anni '80 e '90 i partiti politici italiani cambiarono
volto a seguito del crollo del comunismo sovietico e della fine della
"guerra fredda" a sfondo ideologico tra gli alleati degli
statunitensi e gli alleati dei sovietici. Il Partito Comunista Italiano,
storicamente legato al comunismo sovietico, cambio nome e struttura,
completando la sua trasformazione in partito di tipo occidentale e rinunciando
alla sua particolare diversità ideologica. Correlativamente, si trasformarono
anche i partiti che gli si opponevano, in particolare la Democrazia Cristiana,
partito-federazione di molte componenti eterogenee che presero a dividersi. In
quella fase emerse in sede giudiziaria l'immane corruzione della politica
organizzata dai partiti. Ciò accrebbe enormemente il discredito di questi
ultimi, che divennero instabili e più simili a comitati elettorali catalizzati
da singole personalità. Venute meno molte delle risorse di un tempo, alcuni dei
maggiori partiti entrarono in crisi economica e dovettero chiudere le loro
grandi sedi e licenziare gran parte del loro personale, a favore del quale nel
1993 vennero anche disposti ammortizzatori sociali. Il collegamento con la base
sociale di cittadini si fece episodico, generalmente solo in occasione delle
elezioni. Conseguito il risultato elettorale, chi aveva "vinto" si
aspettò di avere le mani libere fino alle successive elezioni. A quel punto,
concentrata la direzione politica intorno alle segreterie nazionali dei partiti
si perse il senso dell'utilità degli organi collegiali elettivi, vista la
sempre più ridotta autonomia degli eletti, i quali sempre più spesso vennero
scelti per il loro potenziale richiamo verso gli elettori, ad esempio tra il
personale dello spettacolo, a prescindere dal loro legame vitale con i
cittadini e della reale disponibilità di tempo per la politica.
La prima manifestazione di
politici a mezzo servizio si ebbe, tra il 2011 e il 2015, con l'abolizione dei
consigli provinciali eletti dai cittadini, sostituiti da consigli eletti dai
sindaci e dai consiglieri comunali dei comuni compresi nella provincia. Per le
14 città metropolitane che sostituirono altrettante province, nelle province in
cui erano comprese le più grandi città italiane, si provvide nello stesso modo.
Con la legge di revisione costituzionale oggetto di referendum anche le residue
province verranno soppresse e le loro funzioni sono destinate ad essere svolte
da città metropolitane.
Con la riforma del senato si è
seguita la stessa logica.
Come per province e città
metropolitane si avrà una riduzione del personale della poliica e politici che
dovranno occuparsi contemporaneamente di problemi su scala diversa. Questo può
essere considerato un vantaggio solo se si pensa che la politica non sia redimibile,
che non possa recuperare un rapporto vitale con i cittadini e che meno politici
ci sono meglio è. In questo modo però la politica diventerà sempre più
questione di apparato, autoreferenziale. Verrà ridotta l'autonomia del
personale della politica, che dipende dall'esistenza di quel rapporto vitale.
Le organizzazioni di partito e le stesse istituzioni pubbliche di derivazione
elettiva diverranno sempre più simili alle organizzazioni delle imprese
industriali, in cui sono egemoni le oligarchie dei dirigenti d'azienda, che
pretendono di essere obbediti. Come faranno i cittadini, a prescindere dagli
eventi elettorali, a concorrere con metodo democratico a determinare la
politica nazionale, come prevede L'art.49 della Costituzione? E, soprattutto lo
vogliono ancora fare?
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Il Senato come imputato
Dietro la riforma costituzionale vi
l’accusa al Senato di costituire un inefficiente, inutile e costoso
fattore di rallentamento dell'attività parlamentare. Questa è l'accusa che,
secondo gli ideatori e i fautori della recente riforma costituzionale, ne ha
comportato, come urgenza prioritaria, la metamorfosi (non l'abolizione).
Una delle qualità più apprezzabili
in chi fa politica è una certa veridicità nell'esporre i propri programmi.
Può sembrare ovvio raccontarla
giusta agli elettori, ma se consideriamo le vicende della nostra vita privata
possiamo convincerci facilmente del contrario. Molto spesso prima prendiamo una
certa decisione e poi cerchiamo di giustificarla di fronte al prossimo che ce
ne chiede ragione. A volte accade che anche i politici facciano così.
Di fronte alle accuse mosse al
Senato dovremmo cercare di immedesimarsi nel lavoro di un giudice, che vaglia
con imparzialità gli argomenti, cercando di capirne il fondamento, non
determinandosi per sentito dire, superficialmente, o per simpatie o fedeltà
personali.
È fondata l'imputazione?
E la soluzione proposta è
adeguata a risolvere il problema?
Quando il Senato com'è
organizzato attualmente è stato d'impaccio alla realizzazione delle più
importanti riforme della Repubblica? Quando si cerca di andare nei particolari,
di ricevere risposte precise, non se ne esce mai soddisfatti. In effetti dagli
anni '90 l'Italia è cambiata moltissimo mediante riforme legislative prodotte
da Parlamento com'è ora. Da un'economia controllata in larga parte dallo Stato
si è passati ad una privatizzazione spinta. Il sistema elettorale per il
Parlamento è cambiato non una, ma due volte. Non c'è stato praticamente nessun
settore delle attività pubbliche e della vita sociale su cui non abbiano inciso
leggi approvate dal Parlamento com'è ora. Ad esempio è stato abolito il
servizio militare di leva, sono cambiate le norme in materia di igiene e
sicurezza del lavoro, quelle in materia di ambiente, in materia di commercio e
industria, quelle in materia di formazione del bilancio dello stato, quelle in
materia di banche e assicurazioni, quelle in materia di adozione, stato
giuridico dei figli e poteri e responsabilità dei genitori e via seguitando,
fini all'approvazione di due riforme fortemente controverse come quelle sulla
disciplina dei contratti di lavoro, detta "Jobs act" e quella sulle
unioni civili delle persone omosessuali e sulle convivenze. Sono state anche
approvate due importanti ed estese leggi di modifica della costituzione, nel
2001 e nel 2006, entrambe sottoposte a referendum costituzionale, con esito
positivo per la prima e negativo per la seconda. La riforma del 2006,
bocciata nel referendum costituzionale, prevedeva un senato "federale",
con competenze limitate a certe materie che riguardavano le autonomie locali,
che possiamo considerare il modello della riforma sulla quale si svolgerà il
prossimo referendum costituzionale. Nel sistema ideato nel 2006 i senatori
erano però eletti direttamente dal corpo elettorale, anche se
contemporaneamente all'elezione dei consiglieri regionali. E, con scelta più
coerente dal punto di vista logico-istituzionale, si prevedeva, una volta
trasformato il senato in una "camera delle autonomie locali", che i
"senatori a vita" divenissero "deputati a vita". Dunque il
Parlamento com'è ora non ha impedito di cambiare l'Italia per via legislativa.
Ha certamente impedito, in particolare nel corso dei lavori delle Commissioni
bicamerali a cui si vollero affidare poteri in qualche modo simili a quelli
dell'Assemblea costituente del 1946, che la Costituzione fosse riformata in
senso sostanzialmente presidenziale, secondo il desiderio di alcune parti
politiche. Ma possiamo considerarla una colpa? Dal 1990,comunque, i poteri del Consiglio
dei ministri e dei singoli ministri sono stati comunque notevolmente
incrementati, sia prevedendo che il dettaglio delle maggiori riforme fosse
deciso dal Governo, all'interno di principi generali dettati dal Parlamento con
leggi delega, sia attraverso una estesa opera di "delegificazione",
affidando ai poteri normativi del Governo, attuati con regolamenti, materie che
prima erano regolate da leggi dello Stato.
Ragionando sugli argomenti che ho
sopra proposto, come trovate il Senato: colpevole o innocente?
Concludo osservando che può
essere individuata facilmente una ragione di marcata inimicizia tra i Governi,
di opposta tendenza, succedutisi dal 1994 ad oggi e il Senato com'è ora.
Il motivo risiede proprio nel fatto che il Senato non è un "doppione"
della Camera dei deputati: a causa della sua elezione su base regionale, ha
prodotto, sia vigente la legge elettorale proposta dall'allora deputato
Mattarella con cui votammo dal 1994, sia vigente quella proposta dal senatore
Calderoli con cui abbiamo votato dal 2008, forze parlamentari leggermente
differenti tra Camera dei deputati e Senato. Proprio come i Costituenti avevano
voluto e previsto, Con la conseguenza che i Governi hanno avuto più difficoltà
ad ottenere la fiducia e a far approvare i loro disegni di legge in Senato.
Questo ha costretto i Governi a trattative per cercare di consolidare e
allargare le loro maggioranze parlamentari, facendo concessioni nel
quadro di questi accordi. Questo inconveniente (dal punto di vista governativo
naturalmente), sicuramente si è verificato: ma lo possiamo veramente
considerare un male? Non si è trattato semplicemente del fatto che il
Senato ha svolto la funzione che i Costituenti del '46/'47 gli avevano
assegnato, vale a dire di essere un limite a governi tendenzialmente troppo
autosufficienti e di garantire una migliore ponderazione dei temi in
discussione e delle decisioni proposte?
Il nuovo Senato non avrà più la
funzione di votare la fiducia ai Governo. Un impedimento di meno dal punto di
vista governativo. I Governi, sula base della nuova legge elettorale per la
Camera dei deputati approvata l'anno scorso, potranno contare su una solida
maggioranza nelle questioni in cui è implicata la "fiducia", anche se
dovessero essere espressione di un singolo partito che non riesca ad ottenere
la maggioranza assoluta dei voti, ma almeno il 40% dei voti, una maggioranza
"relativa". Nel nuovo Senato, comunque, a causa della procedura di
nomina dei suoi membri, è prevedibile un risultato simile: i nuovi senatori saranno
prevalentemente espressione della maggioranza in Consiglio regionale. Non
sappiamo se e in che modo le minoranze potranno avere comunque una loro
rappresentanza: la legge che disciplina i dettagli della elezione dei nuovi
senatori ancora non c'è. Quindi un risultato sicuramente sarà conseguito con la
riforma costituzionale: un rafforzamento della posizione dei governi. Dopo le
elezioni non solo si saprà subito chi ha vinto, ma anche chi governerà e sarà
più difficile per i cittadini condizionare democraticamente l'azione di
governo. I governi avranno quindi le mani più libere. Governi con le mani più
libere potrebbero trasformare a loro immagine e somiglianza le istituzioni
chiave dello Stato. È un'opportunità o un rischio? Abbiamo avuto presidenti del
Consiglio dei ministri della levatura di De Gasperi e di Moro, ma siamo anche
la nazione in cui fu capo del Governo Mussolini. E qualche lezione sul tema
potremmo trarre dalla storia politica degli ultimi venti anni, in cui il
Parlamento, nelle sue due Camere, ha avuto un ruolo molto attivo nel sindacare
l'azione governativa.
- 13 -
Ho conosciuto uno dei nuovi Padri Costituenti
Sul L'Espresso in
edicola si scrive di uno dei nuovi Padri Costituenti, uno degli artefici della
riforma costituzionale sulla quale saremo chiamati a pronunciarci come
cittadini in un referendum, ed è un professore universitario che fu presidente
della FUCI, l'organizzazione degli universitari cattolici dei miei tempi di
gioventù: lo conobbi allora e l'ho incontrato nuovamente in eventi organizzati
dal MEIC, il Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale, come si chiama ora
l'antico Movimenti Laureati. È un po' più giovane di me. Negli anni '80 in FUCI
si discuteva di una "nuova" politica. Il suo impegno è stato quello
di una vita. È stato anche parlamentare, senatore.
Un po' meglio ho conosciuto altri
due antichi fucini, che furono rispettivamente presidente della FUCI e
condirettore di "Ricerca" nei miei tempi da universitari e che ora
sono rispettivamente senatore e deputato. Hanno avuto un ruolo importante
nell'elaborazione e approvazione della recente riforma costituzionale. Con il
secondo partecipai, all'inizio degli anni '80, alla fondazione di un gruppo
politico di giovani cattolici catalizzati da Paolo Giuntella, un giornalista
che fu uno straordinario formatore di coscienze giovanili. All'inizio fu
chiamato "setta" e poi "Rosa Bianca", richiamandosi
all'omonimo gruppo di resistenti tedeschi sotto il regime nazista, ed esiste
ancora. Organizza scuole di politica. Le prime, a cui partecipai, furono a
Limone sul Garda e a Malcesine. Io poi smisi di frequentare quel gruppo, per il
dovere di imparzialità inerente all'ufficio pubblico che presi a svolgere dall'
'85.
Quei tre antichi fucini sono a
favore della riforma costituzionale, della quale, a diverso titolo, sono stati
tra gli artefici.
Ho ricordato quelle biografie per
evidenziare una continuità di impegno politico democratico che è andata
dall'esperienza fucina, e la FUCI all'epoca era ancora una organizzazione di
Azione Cattolica, alla politica parlamentare. L'Azione Cattolica fu anche
scuola di politica democratica e, soprattutto, sede di tirocinio democratico.
Fu in FUCI che quei Padri Costituenti di oggi iniziarono, ad esempio, a
organizzare e a presiedere assemblee deliberanti, a scrivere regolamenti e
statuti, a dirigere amministrazioni, ad avere relazioni internazionali con
altre organizzazioni giovanili simili.
Mi stupisce sempre chi propone di
insegnare ad occuparsi di "bene comune" senza far svolgere tirocinio
democratico, gestendo tutto da autocrate. E, a ben vedere, purtroppo questo è
in genere il modo in cui lo si fa in molte parrocchie. Individuare e promuovere
il "bene comune" richiede processi democratici e la democrazia la si
impara studiando ma soprattutto facendone tirocinio. La democrazia è una
conquista culturale, non si è democratici "per natura". È stata una
conquista culturale (recente) anche nelle nostre organizzazioni religiose,
nelle quali se ne continua comunque a diffidare. E per questa diffidenza che
non se ne consente il tirocinio, quindi di metterla in pratica e ciò anche nei
processi decisionali in piccoli gruppi. Affidare il potere al
"popolo" è ancora considerato rischioso. Perché il popolo che
si ha intorno non appare ancora pronto a ragionare in termini di bene comune.
Ma soprattutto perché sembra troppo superficiale, volubile e influenzabile dal
punto di vista ideologico. E in religione la teologia corrente ci spinge a
dipendere da "pastori", Però poi si tralascia di lavorare per elevarlo
alla democrazia. Che quindi rimane sempre una "difficile democrazia",
il titolo di un bel libro divulgativo di formazione alla democrazia scritto da
Gustavo Zagrebelsky nel 2010 e disponibile anche come e-book. Ve lo consiglio.
Lo stesso autore ha pubblicato quest'anno anche un libro sulla recente riforma
costituzionale: "Loro diranno, noi diciamo", edito da Laterza. Mi
limito a segnalarlo perché non l'ho ancora letto. Le recensioni sono molto
buone.
14
Un Senato
depotenziato: farà meno cose, ma quelle che farà saranno quasi tutte le stesse
della Camera dei Deputati
1. Una delle critiche al Parlamento
com'è ora è che è composto di due Camere, la Camera dei Deputati e il Senato,
che fanno le stesse cose.
Con la riforma costituzionale
approvata quest'anno ( dal Parlamento com'è ora), la situazione
cambierebbe?
Sì e no.
È vero che, nel Parlamento
riformato, il Senato farebbe meno cose della Camera dei
Deputati, ma le cose che farebbe sarebbero le stesse della
Camera dei Deputati, salvo, principalmente, tre: l'elaborazione e approvazione
(con delibera dell'assemblea del Senato) del proprio regolamento (che
stabilisce le procedure parlamentari e altro), la richiesta di modifica a leggi
approvate solo dalla Camera dei Deputati e l'elaborazione e presentazione
(anche in questi casi con delibera dell'Assemblea del Senato) di disegni di
legge alla Camera dei Deputati. La maggior parte di queste attività, e in
particolare quelle più importanti, sarebbero svolte dal nuovo Senato, come
ora, collettivamente con la Camera dei Deputati, quindi con
necessità di deliberazioni conformi del Senato e della Camera dei Deputati. In
nessuna delle materie attribuite dalla riforma costituzionale alla legislazione
statale il Senato delibererebbe senza il concorso della Camera dei Deputati,
anche se quest'ultima in alcune potrebbe deliberare senza il concorso del
Senato, il quale tuttavia potrebbe richiedere, con propria deliberazione
assembleare, modifiche, sulle quali la Camera dei Deputati dovrebbe effettuare
una ulteriore deliberazione, pronunciandosi in via definitiva.
Di seguito riassumo le varie
funzioni che la Costituzione riformata attribuirebbe al nuovo Senato.
Vi invito a verificare
personalmente la correttezza della mia esposizione, utilizzando i testi della
Costituzione attualmente vigente e di quella riformata che potete leggere
accostati, in quella che viene definita "sinossi", per un più agevole
confronto, nel documento in formato PDF pubblicato sul sito WEB della Camera
dei Deputati, nella sezione "Documenti", sottosezione "riforma
costituzionale".
2. Dunque il nuovo Senato delibererebbe
collettivamente con la Camera dei Deputati su:
- leggi di revisione costituzionale e
altre leggi costituzionali,
- leggi attuative delle disposizioni
costituzionali riguardanti le minoranze linguistiche, i referendum popolari e
le altre forme di consultazione popolare previste dalla Costituzione;
- leggi sull'ordinamento, elezioni,
organi di governo e funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città
metropolitane e sulle disposizioni di principio sulle associazioni di Comuni;
- leggi sulle norme generali riguardanti
forme e termini della partecipazione dell'Italia alla formazione e attuazione
della normativa e della politica dell'Unione Europea;
- leggi sull'ineleggibilità e incompatibilità
relative all'ufficio di senatore, previste dall'art.65,1^ comma della
Costituzione;
- elezione del Presidente della
Repubblica (in seduta comune con la Camera dei Deputati);
- elezione di otto membri del Consiglio
Superiore della Magistratura (in seduta comune con la Camera dei Deputati);
- concorso nel dare pareri a nomine di
competenza del Governo;
ed inoltre sulle leggi statali
riguardanti:
-l'attribuzione dei seggi senatoriali
alle Regioni, l'elezione dei senatori e la loro sostituzione a seguito di
cessazione delle cariche negli enti locali (art.57, 6^ comma, Costituzione);
- ratifica dei trattati
sull'appartenenza dell'Italia all'Unione Europea (art.80, 2^ periodo,
Costituzione);
- ordinamenti di Roma Capitale ( art.
114, 3^ comma, Costituzione);
- ulteriore forme e condizioni
particolare di autonomia delle Regioni (art.116, 3^ comma, Costituzione);
- poteri delle Province autonome di
Trento e di Bolzano in materia di attuazione ed esecuzione di accordi
internazionali e di atti dell'Unione Europea e competenza delle Regioni in
materia di accordi con altri stati e con enti territoriali di altri stati
(art.117, commi 5 e 9, Costituzione);
- principi generali in materia di
patrimoni dei Comuni, delle Città metropolitane e delle Regioni (art.119, 6^
comma, Costituzione);
- poteri del Governo di sostituirsi agli
organi degli enti locali (art.120, 2^ comma, Costituzione);
- principi fondamentali in materia di
elezione e ineleggibilità del presidente e dei componenti delle Giunte
regionali e dei consiglieri regionali, durata degli organi elettivi delle
Regioni, equilibrio tra uomini e donne nella rappresentanza in tali organi,
determinazione degli stipendi dei componenti della Giunta regionale e dei
consiglieri regionali nel limite di quelli dei sindaci dei Comuni capoluogo di
Regione (art.122, 1^ comma, Costituzione);
- spostamento di un Comune da una
regione all'altra (art.132, 2^ comma, Costituzione).
Il Senato delibererebbe senza il
concorso della Camera dei Deputati su:
- richiesta di modifica di disegni di
legge approvati solo dalla Camera dei Deputati e presentazione di disegni di
legge alla Camera dei Deputati (art. 70, 3^ comma, e 71,2^ comma,
Costituzione)
- nomina di due giudici della Corte
Costituzionale (art.135, 1^ comma, Costituzione. È un potere analogo a quello
esercitato dalla Camera dei Deputati, che nominerà tre giudici costituzionali);
- approvazione del proprio regolamento,
che disciplinerebbe anche le limitazioni alla elezione e nomina di senatori in
ragione dell'esercizio di funzioni di governo negli enti locali (art. 63, 2^
comma, Costituzione);
- presa d'atto della decadenza dei
propri membri nel caso di cessazione di carica elettiva regionale o locale
(art.66, 2^ comma, Costituzione);
- ricorso di almeno 1/3 dei senatori per
promuovere un giudizio preventivo di costituzionalità sulle leggi elettorali
riguardanti il Senato e la Camera dei Deputati ( art. 73,2^ comma,
Costituzione);
- attività conoscitive, osservazioni su
atti e documenti all'esame della Camera dei Deputati (art.70, ultimo comma, Costituzione),
inchieste su materie di pubblico interesse riguardanti gli enti locali
(art.82,1^ comma, Costituzione; è un potere analogo a quello più ampio
attribuito alla Camera dei Deputati).
Il nuovo Senato, in particolare,
non avrebbe più competenza a deliberare la fiducia al Governo e in materia di
bilancio e rendiconto consuntivo (atti elaborati e presentati dal Governo).
Questo eliminerebbe complicazioni (dal punto di vista governativo) che i
Governi hanno incontrato nell'attuale sistema parlamentare bicamerale su quei
temi.
3. Le materie attribuite dalla riforma
costituzionale al nuovo Senato non riguardano solo problemi locali. Comprendono
principi e funzioni fondamentali in una società democratica e, in particolare,
quello compresi nella Costituzione.
Che cosa rende il Senato
riformato, composto in massima parte da consiglieri regionali e sindaci eletti
senatori da consiglieri regionali proprio in quanto membri di quegli organi di
enti locali, più idoneo, o almeno egualmente idoneo, del Senato com'è
attualmente a occuparsi anche di quei delicati affari di stato, oltre che delle
questioni locali?
Il nuovo Senato ci costerà un po'
meno (hanno calcolato circa il 10% in meno ogni anno), in quanto i suoi membri
eletti dai consiglieri regionali e i nuovi membri di nomina presidenziale non
avranno uno stipendio da parlamentari (ma sarà difficile non riconoscere loro,
in particolare a quelli che non abitano a Roma, un qualche rimborso spese e
anche altri sussidi che oggi integrano in maniera significativa gli stipendi
dei senatori). Ma questo nuovo Senato, che ci costerà un po' di meno,
funzionerà almeno con lo stesso livello di qualità di quello attuale, o
addirittura meglio?
Dipenderà naturalmente dalla
qualità degli eletti, che saranno molto meno di oggi. La scelte dei
parlamentari oggi dipende da due fattori: il lavori dei partiti per
l'individuazione dei candidati alle elezioni e un giudizio dei cittadini che
compongono il corpo elettorale, quelli che hanno diritto di voto per la Camera
dei Deputati e per il Senato. Nel Senato riformato avranno un ruolo
preponderante le componenti regionali, quindi locali, dei partiti politici, in
quanto i senatori elettivi saranno scelti mediante una procedura che
coinvolgerà essenzialmente un ceto politico concentrato sui problemi locali e i
cui membri eletti senatori continueranno a occuparsi di quelle materie. Saranno
infatti senatori a mezzo servizio. È vero che una disposizione introdotta nel
faticoso percorso di deliberazione della riforma costituzionale, per superare
forti riserve espresse dai parlamentari ad una Camera svincolata da un giudizio
dei cittadini, prevede che, con modalità che gli stessi costituzionalisti hanno
difficoltà ad immaginare e che dovranno essere previste da una legge ordinaria
successiva, i candidati consiglieri regionali destinati, in caso di loro
elezione, ad essere anche senatori siano indicati dal corpo elettorale chiamato
ad eleggere il consiglio regionale, ma, comunque, l'ultima parola sulla scelta
dei nuovi senatori tra i consiglieri regionali eletti l'avranno i consiglieri
regionali, i nuovi senatori emergeranno dal loro stesso ceto politico locale.
Quest'ultimo li selezionerà principalmente in vista dell'esercizio di funzioni
locali, che i senatori continueranno ad esercitare contemporaneamente a quelle
parlamentari. E, comunque, la scelta dei senatori scelti tra i sindaci non
vedrà coinvolto il corpo elettorale, ma solo i consiglieri regionali. Ma i
senatori in Parlamento non dovranno occuparsi di questioni relative alle
autonomie locali, ma di affari di stato fondamentali, come le questioni
costituzionali e quelle relative ai rapporti della Repubblica con l'Unione
Europea, ad esempio se si dovesse decidere l'uscita dell'Italia
dall'organizzazione, come taluni chiedono. Parteciperanno alla elezione del
Presidente della Repubblica e alla nomina di otto membri del Consiglio
superiore della magistratura; nominando due giudici della Corte Costituzionale
influiranno sugli equilibri di questo importantissimo organo dello Stato, e
quest'ultima funzione eserciteranno senza il concorso dei colleghi
deputati.
Pagheremo meno per il nuovo
Senato, che però avrà molti meno membri e per di più a mezzo servizio e farà
meno cose.
Tenuto conto che lavorerà con
senatori a tempi parziale e scelti principalmente per occuparsi di questioni
locali, si può seriamente temere che la qualità del servizio reso dal nuovo
Senato possa non essere all'altezza di quello fornito dall'attuale Senato.
Dunque è possibile che si paghi di meno, ma per un servizio peggiore.
Storicamente il Senato fu
istituito nel 1848 nel Regno di Sardegna, poi divenuto Regno d'Italia nel 1861
e poi Repubblica italiana dal 1946, come organo costituzionale, a fianco di una
Camera dei Deputati elettiva (a suffragio estremamente ristretto, si calcola
inferiore al 10% della popolazione e solo con voti di uomini), composto da
membri particolarmente qualificati (ad esempio deputati di lungo corso,
ministri, alti magistrati, ufficiali, vescovi cattolici e anche persone che avessero
"illustrato" la Patria) e di età superiore ai quarant'anni, nominati
a vita dal Re. Il nuovo Senato repubblicano, eletto nel 1948 a suffragio
elettorale universale e diretto maschile e femminile sulla base della nuova
Costituzione entrata in vigore quello stesso anno, si caratterizzò formalmente
rispetto alla Camera dei deputati solo per un minor numero di membri (315
invece dei 630 dell'altra Camera), per un'età minima dei senatori più elevata
(venne mantenuta quella di quarant'anni) e anche per un'età minima più elevata,
venticinque anni, per partecipare alle elezioni. Tuttavia il Senato
repubblicano conservò, per consuetudine dei partiti politici, il carattere di
"Camera alta", in quanto i candidati al Senato furono scelti, almeno
fino a qualche anno fa, tra gli esponenti più qualificati della politica
nazionale. Questa connotazione venne avvalorata dalla partecipazione al
l'organo, come senatori a vita, degli ex Presidenti della Repubblica e dei
senatori di nomina presidenziale per aver "illustrato la Patria".
Progressivamente questa caratteristica si venne perdendo con il nuovo corso
istituzionale inaugurato nel 1994, con le prime elezioni politiche svolte con
una nuova legge elettorale che introdusse un sistema parzialmente
maggioritario, che poi produsse, come si voleva, l'alternanza al Governo di due
contrapposte coalizioni politiche. Poiché il sistema elettorale del Senato era
strutturato su base regionale, si ebbe, come conseguenza non prevista, che la
forza parlamentare della maggioranza di governo era minore al Senato che alla
Camera dei deputati, per cui i Governi incontrarono più difficoltà ad ottenere
la "fiducia" in Senato. Si ebbe allora sempre più di vista,
nell'individuare i candidati al Senato, il consenso elettorale che essi
potevano riscuotere, più che la qualità e la costanza del lavoro parlamentare
che essi potevano garantire. L'autorevolezza del Senato finì per esserne
coinvolta, come mai prima, anche se continuarono indubbiamente ad essere elette
persone significative. Questo processo può essere considerato l'ambiente
in cui è maturata l'idea di un Senato come "Camera minore",
depotenziata in particolare della competenza sulla "fiducia" al
Governo, espressione di interessi locali, destinati a cedere dinanzi a un
indefinito "interesse nazionale" ( criterio introdotto dalla riforma
costituzionale per consentire l'ingerenza statale negli affari regionali)
rappresentato sostanzialmente dalla sola Camera dei deputati, i cui membri, e
solo loro, diverranno appunto rappresentanti della "Nazione".
Ma lo stesso collegamento del
Senato con gli interessi locali appare piuttosto problematico, in quanto
l'azione parlamentare dei senatori eletti dai consiglieri regionali non sarà
determinata meccanicamente dagli enti locali di appartenenza, ma sarà decisa
autonomamente dai senatori, senza vincolo di mandato. I primi commentatori tra
i costituzionalisti hanno notato che essi verosimilmente decideranno secondo le
indicazioni dei dirigenti locali di partiti politici di riferimento, quindi del
ceto politico locale da cui emergeranno, più che secondo quelle delle loro
comunità politiche locali, e che, date le modalità della loro elezione, saranno
poi più sensibili alle pressioni del ceto politico locale, quello in cui negli
ultimi anni si sono manifestati problemi molto seri in materia di etica
pubblica, evidenziati in diversi casi giudiziari venuti all'attenzione delle
cronache. Ciò tanto più in quanto provocando la crisi politica degli enti di
appartenenza, lo scioglimento dei consigli regionali e le dimissioni dei
sindaci senatori, sarà possibile provocare la decadenza dei senatori eletti.
Nel dibattito referendario sulla
riforma costituzionale si è poi presa consapevolezza che, in ragione dei tempi
diversi di elezione di deputati e senatori (la durata di quelli elettivi
coinciderà con quella dei consigli regionali che li eleggeranno e i senatori
elettivi decadranno da senatore cessando dalla carica regionale o locale in
base alla quale vennero individuati; i senatori di nomina presidenziale
dureranno sette anni) si potranno avere maggioranze politiche sensibilmente
diverse alla Camera dei deputati e al Senato, con paralisi dei lavori
parlamentari nelle questioni più importanti, quelle in cui le Camere devono
deliberare collettivamente. Una situazione molto peggiore dell'attuale.
In definitiva gli unici effetti
veramente importanti della riforma costituzionale sicuramente ottenibili
saranno quelli di rendere più agevole e veloce al Governo di ottenere la
fiducia, di far approvare il bilancio (che è il presupposto indispensabile
perché il Governo possa manovrare i fondi statali) e di varare nuove normative
in materia di economia e lavoro e dell'organizzazione della pubblica
amministrazione statale, giustizia compresa, appunto ciò che si intende quando
si allude genericamente alle "riforme". Il risparmio di spesa sarà
invece modesto con conseguenze temibili, però, sulla qualità del lavoro
parlamentare, mentre la semplificazione delle procedure parlamentari è
piuttosto dubbia, potendo prodursi addirittura una più grave paralisi del
Parlamento, non rimediabile con lo scioglimento del Senato, che non rientrerà
più tra i poteri del Presidente della Repubblica (nuovo art.88, 1^ comma,
Costituzione).
- 15 -
La riforma costituzionale e le "riforme"
Esaminando la parte della recente riforma costituzionale che riguarda la
struttura e le funzioni del Senato, emerge che le motivazioni proposte dai
fautori delle nuove norme e riguardanti il risparmio di denaro pubblico e la
semplificazione delle procedure parlamentari non convincono del tutto. Infatti,
a un modesto risparmio negli stipendi dei parlamentari corrisponderà una
Camera, il Senato, con molti meno membri, e per di più a mezzo servizio, scelti
tra persone individuate principalmente per occuparsi di affari localo, non
delle più delicate questioni di stato, con un prevedibile decrementi della
qualità del lavoro parlamentare, che sarà inoltre più sensibile alle influenze
dei partiti di appartenenza dei nuovi senatori.
D'altro canto, il collegamento che
anche la riforma costituzionale prevede tra il lavoro della Camera dei Deputati
e quello del nuovo Senato, mentre mantiene il bicameralismo
"perfetto", vale dire paritario con necessità di deliberazione
conforme delle due Camere, per un buona parte del lavoro legislativo, e in
particolare per quella più importante consentirà comunque al nuovo Senato, con
la presentazione di disegni di legge (sui quali la Camera dei deputati dovrà
deliberare) e con la richiesta di modifiche di leggi approvate solo dall'altra
Camera, di provocare ulteriori deliberazioni della Camera dei deputati, anche
nelle materie attribuite alla competenza legislativa esclusiva di quest'ultima.
Una situazione che potrebbe addirittura sfociare in una vera e propria paralisi
del Parlamento, in particolare nelle materie più importanti, qualora, come
potrebbe accadere con buona probabilità, si creassero maggioranze parlamentari
di diverso orientamento nelle due Camere. Questo accade già nell'attuale
Parlamento, per le diverse modalità di elezione delle due Camere, ma potrebbe
verificarsi in maniera molto maggiore perché, a seguito della riforma
costituzionale, le due Camere si rinnoveranno in tempi diversi e con modalità
completamente diverse. In particolare, il nuovo Senato sarà un organo a
rinnovamento "parziale e continuo", come osservato nella relazione
dell'Ufficio studi della Camera dei deputati che potrete trovare sul Web,
all'indirizzo <www.camera.it>, sezione " documenti",
sottosezione "riforma costituzionale".
Dunque, sotto questi profili, mentre
i vantaggi economici sarebbero modesto, i problemi presentati dall'attuale
Parlamento potrebbero addirittura aggravarsi.
Abbiamo anche notato che uno degli
effetti, solitamente non evidenziato dai sostenitori della riforma
costituzionale, che effettivamente si produrrebbe secondo le intenzioni degli
artefici delle nuove norme sarebbe un rafforzamento dei poteri del Governo
rispetto al Parlamento (e alle Regioni, come in seguito si dirà), in quanto,
nel nuovo ordinamento, è previsto che sarà solo la Camera dei deputati a
deliberare la "fiducia" al Governo, legittimando l'azione politica e
amministrativa. A questo va aggiunto che sarà solo la Camera dei deputati a
legiferare in via definitiva si una serie di materie, in sintesi nei campi dell'economia
e lavoro, pubblica amministrazione e giustizia, tributi, che, nel complesso,
inquadrano lo spazio di quelle che i sostenitori della riforma costituzionale
definiscono genericamente come "le riforme", che a loro avviso
sarebbero indispensabili e urgenti per lo sviluppo nazionale. Essi presentano
la riforma costituzionale oggetto del referendum come lo strumento per
approvare quelle ulteriori riforme. In questo senso la riforma costituzionale è
stata presentata come parte molto importante dell'attuale programma di Governo,
anche se non è detto che essa, se approvata con il referendum, servirà ad
approvare proprio le riforme alle quali pensa il Governo attualmente in carica:
dipenderà da quale partito politico avrà il controllo della maggioranza della
forza parlamentare alla Camera dei deputati. Infine, in quelle stesse materie
delle "riforme", L'art.72,6^ comma, della Costituzione, nel testo
introdotto dalla riforma costituzionale, prevede che il Governo possa ottenere
dalla Camera dei deputati l'esame prioritario, con termini procedurali
abbreviati, di disegni di legge indicati come essenziali per l'attuazione del
suo programma.
Il rafforzamento della posizione
del Governo, in particolare nelle materie concernenti le "riforme",
risulta ancora maggiore se si tiene conto dell'effetto della nuova legge
elettorale per l'elezione della Camera dei deputati. In base ad essa, un
partito, non la coalizione di partiti, di sola maggioranza relativa, vale
a dire uno che ottenga alle elezioni per la Camera dei deputati un numero di
voti superiore agli altri sebbene non superiore al 50%, potrebbe vedersi
attribuita una forza parlamentare, quindi in numero di deputati, ampiamente
superiore al 50%, quindi la maggioranza assoluta. Con questa maggioranza
parlamentare, quel partito potrebbe votare la fiducia al Governo da esso
espresso e far approvare, con la sola deliberazione della Camera dei deputati,
le "riforme" di cui sopra.
Questo, del rafforzamento della
posizione del Governo, viene considerato dai critici della riforma costituzionale
il principale effetto delle nuove norme, che ne evidenziano le temibili
controindicazioni. Ma, in fondo, sono della stessa opinione i sostenitori della
riforma, quando dichiarano che la riforma costituzionale aprirà la strada alle
"riforme" che rientrano nel programma di governo.
Il problema, evidenziato da
diversi commentatori della riforma, è che al centro del successivo movimento
riformatore non sarà più, in effetti, il Parlamento, ma, in definitiva, il
partito di governo e il Governo da esso espresso.
Infatti in Senato riformato no
avrà più competenza in quei campi in cui l'attuale Governo vuole riformare,
mentre la Camera dei deputati sarà dominata da una forza parlamentare espressa
dal partito di governo. Va aggiunto che, negli ultimi anni, vi è stata la
tendenza ad attribuire la direzione del Governo, quindi la presidenza del
Consiglio dei ministri, al principale esponente del partito egemone della
maggioranza di governo, segretario o presidente che fosse a seconda degli
statuti di quel partito, in ciò volendosi ispirare alle consuetudini inglesi.
Questo per evitare che la posizione della coalizione di governi potesse
differenziarsi politicamente dal Governo da essa espresso, come storicamente
era accaduto durante l'egemonia politica della Democrazia Cristiana. Con la
coincidenza del capo del Governo e del capo del partito politico di governo si
potrebbe verificare il caso di una maggioranza parlamentare di governi
controllata dal Governo da essa sostenuto, invece del contrario. Ciò comporterebbe
una eclisse del Parlamento.
Quel processo di declino del
Parlamento ha cominciato in realtà a manifestarsi in un'epoca recente della
storia nazionale particolarmente travagliata, precisamente dagli ultimi mesi
del 2011, quando, a fronte di serie difficoltà di Governo e Parlamento a far
fronte ad una grave crisi economica internazionale, che richiedeva anche
importanti aggiustamenti nella gestione della finanza pubblica, le forze
politiche nazionali convennero per affidare la direzione politica del Governo
ad una persona ritenuta autorevole individuata dall'allora Presidente della
Repubblica, che ne rafforzò l'immagine pubblica e politica nominandolo senatore
a vita. A differenza però degli altri senatori a vita, nominati per aver
"illustrato la Patria" ma con una funzione tutto sommato marginale
nel lavoro parlamentare, quel particolare senatore a vita ebbe affidata dal
Presidente della Repubblica una missione prettamente politica di altissimo
livello. Egli riuscì poi, da Presidente del Consiglio dei ministri incaricato,
a coalizzare una maggioranza politica di governo, diversa da quella che aveva
espresso il precedente governo e risultante da un accordo politico di emergenza
tra forze politiche di opposto orientamento, e ad attuare in tempi brevi varie
riforme, in particolare in materia economica, che incisero significativamente
nelle prestazioni rese alla pubblica amministrazione ai cittadini, ad esempio
in materia pensionistica. L'obiettivo fu principalmente quello di riportare
sotto controllo la spesa pubblica, finanziata in misura crescente mediante
debito pubblico dipendente dalle condizioni dei mercati finanziari
internazionali, non solo con, le "tasse", in modo che crescesse
mercati finanziari la fiducia nei titoli del debito pubblico italiano, con
conseguente discesa dei tassi di interesse da pagare agli acquirenti di tali
titoli, portandolo più vicini a quelli offerti dalle nazioni europee più forti,
in particolare la Germania.
Ora, le "riforme" che
poi, dalla fine del 2012, sono state attuate dai successivi governi
"politici", detti così per distinguerli da quello "tecnico"
di quel senatore a vita, sono andate più o meno nella stessa direzione. L'idea
dei sostenitori della riforma costituzionale è che, continuando ad attuarle,
riducendo gli "sprechi" e liberando l'iniziativa privata da ostacoli
burocratici, non solo potranno essere ottenute in sede europea deroghe ai
limiti rigidi all'indebitamenti pubblico, ma anche si libereranno risorse
mediante le quali l'economia privata inizierà un ciclo positivo, di sviluppo e
di espansione, anche con un aumento dell'occupazione; in quest'ottica sono stati considerate
ostacoli da rimuovere anche le norme limitative dei licenziamenti individuali.
Esse sono star modificate per quanto riguarda i rapporti di lavoro privati, ma
le si vuole modificare anche in quelli pubblici.
Qualche giorno fa un politico di
primo piano, a chi gli proponeva obiezioni al suo progetto riformatore basate
sulla sofferenza sociale che l'attuazione delle "riforme" aveva e
avrebbe ancora prodotto ha replicato che l'era delle ideologie politiche del
benessere portato dalle strutture pubbliche è finita e che il mercato si è
mangiato tutto. Dunque, in definitiva, si vorrebbe che il Governo avesse le
mani più l'onere per varare riforme che assecondino le dinamiche di mercato.
Questa direzione riformistica è però antitetica a quella inaugurata con quella
che può essere considerate la "riforma delle riforma", la più
importante di tutte le riforme, vale a dire con la Costituzione repubblicana
entrata in vigore nel 1948. Essa infatti prevede che il mercato non abbia
l'ultima parola, ma che le istituzioni pubbliche intervengano per correggerne
le dinamiche dove limitino la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impedendo
il pieno sviluppo della persona umana (art.3, 2^ comma, della Costituzione, uno
dei principi costituzionali fondamentali). Si tratta di proteggere da dinamiche
distorte di mercato beni come il lavoro, la salute, l'istruzione, la previdenza
sociale, la libertà sindacale, la partecipazione di tutti attraverso i partiti
a determinare la politica nazionale, e si assicurare il coordinamento
dell'economia pubblica e privata perché possa essere indirizzata a fini
sociali. Nella Costituzione, dunque, il mercato non è il legislatore supremo, e
l'iniziativa economica privata, seppure libera, non può svolgersi in contrasto
con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e
alla dignità umana (art.41 della Costituzione).
Dal '48 all'inizio degli anni '90
il movimento riformatore è stato indirizzato dai principi sociali
costituzionali ed ebbe come criterio fondamentale la giustizia sociale. Esso fu
promosso da due agenti sociali: il Parlamento, nel quale le istanze di
promozione sociale dei lavoratori proposte dalle opposizioni socialiste e
comuniste furono accolte dal partiti di governo, in particolare quando i
socialisti divennero parte delle maggioranze di governo, e la Corte
costituzionale, la quale, prevista dalla Costituzione ma funzionante solo dal
1956, svolse un lavoro di rimozione dalla legislazione delle norme contrastanti
con quelle Costituzionali, promuovendo anche una corrispondente cultura
giuridica di alto livello.
In concomitanza con le crisi
economiche ricorrenti verificatesi dall'inizio degli anni '90, il criterio di
riferimento di invece sempre più quello dello sviluppo, nella convinzione, in
particolare, che le conquiste sociali dei decenni precedenti fossero troppo
onerose per le finanze pubbliche, comportando tributi e costi del lavoro troppo
onerosi per il sistema delle imprese, con la conseguenza che essi, venendo
computati nel prezzo delle merci praticato ai consumatori, rendevano le merci
prodotte in Italia meno competitive sul mercato. Con la fine delle tensioni
politiche determinato dalla contrapposizione dei sistemi economici capitalisti
e comunisti, a seguito della dissoluzione del comunismo di tipo sovietico e la
profonda metamorfosi di quello cinese, e con la creazione di un mercato globale
della produzione e commercio in cui le imprese di tipo capitalistico potevamo
produrre e vendere in ogni parte del mondo, la produzione venne trasferita
nelle nazioni in cui il costo del lavoro e i tributi erano più bassi e la
vendita dei prodotti nei mercati dove i consumatori erano disposti ad accettare
di pagare prezzi più alti. Quindi, ad esempio, imprese europee trasferirono le
produzioni in Asia, vendendo però i prodotti in Occidente. Questo comportò una
forte diminuzione dei posti di lavoro in Europa, ma anche una diminuzione dei
prezzi al consumo. I governi occidentali assecondarono questa dinamica, nella
convinzione che, alla fine, uniformandosi le condizioni di lavoro sui mercati
mondiali, si sarebbe tornato a produrre in Occidente. In realtà questo effetto
non si verificò mai, perché, da un lato, i governi delle nazioni in cui il
costo del lavoro e i tributi erano più bassi non lavorarono per cambiare questa
situazione, in particolare migliorando le condizioni dei lavoratori mediante
prestazioni sociali finanziate, come in Occidente, con tributi più alti,
dall'altro lato, mente alle imprese era consentito di muoversi
liberamente nel mondo "globalizzato", altrettanto non era consentito
ai lavoratori, come quotidianamente possiamo constatare nell'Europa
contemporanea: si cerca infatti, con misure di polizia, e addirittura militari,
di fermare le migrazioni di forza lavoro dall'Asia e dall'Africa, dove i salari
sono più bassi o addirittura inesistente l'occupazione, all'Europa. Le
politiche di governo basate sullo sviluppo assecondando le dinamiche
dell'economia capitalistica di mercato hanno comportato invece modesti
risultati sul fronte dell'occupazione, in particolare a causa della crescente
automazione delle lavorazioni, e un marcato peggioramento delle condizioni di
lavoro, sia sotto il profilo salariale che della stabilità dei rapporti di
lavoro. Di questi giorni è la pubblicazione di statistiche economiche secondo
le quali i livelli di benessere delle famiglie dei lavoratori italiani sono
regrediti più o meno a quelli di diversi decenni addietro.
Si è pensato che assecondando le
dinamiche di mercato si sarebbero ottenuto lo sviluppo economico e, con questo,
la giustizia sociale. Tuttavia le aspettative sono andate deluse nell'uno e
nell'altro campo. In particolare, per quanto si siano attuate misure che sempre
più hanno inciso sulla giustizia sociale, ad esempio in materia di stabilità
dei rapporto di lavoro, non si è riusciti ad innescare lo sviluppo. I redditi
delle famiglie sono diminuiti e la stessa possibilità di costituirsi una famiglia
e di progettare una prole ne è risultata pregiudicata, per la difficoltà di
trovare lavoro, per l'instabilità crescente dei rapporti di lavoro, per le
retribuzioni insufficienti (in contrasto con quanto previsto dall'art 36 della
Costituzione) per la difficoltà di trovare, a prezzi commisurati alle
retribuzioni lavorative, appartamenti adatti per famiglie con figli. Giorgio La
Pira, politico cattolico di primo piano ispirato alla dottrina sociale, disse
che "Il lavoro è sacro, il pane è sacro, la casa è sacra", principi
che ispirarono la legislazione sociale Italiana fino agli anni '90.
"Sacro" significa che si tratta di bene che non può essere lasciato
alle dinamiche di mercato perché ha un valore correlato alla dignità della
persona umana. È evidente che si tempi nostri si ragiona diversamente.
I fautori della riforma
costituzionale hanno dato la colpa dell'insuccesso delle politiche degli anni
passati basate sull'idea di sviluppo al Senato elettivo, per le complicazioni
derivate dal fatto che era sostanzialmente in doppione della Camera dei
deputato, e l'hanno soppresso. In realtà, a ben vedere, le difficoltà che sono
derivate dagli anni '90 ai riformatori che intendevano assecondare le dinamiche
di mercato dipendevano proprio dal fatto che il Senato NON era un doppione
della Camera dei deputati e il Governo ha incontrato maggiori difficoltà ad
ottenere la fiducia al Senato. Se la riforma costituzionale verrà approvata al
prossimo referendum questo non accadrà più perché la fiducia sarà votata solo
alla Camera dei deputati dove il partito di governo, per l'effetto della nuova
legge elettorale per tale Camera, disporrà di una solida maggioranza assoluta.
Il Governo, non è detto che sia sempre quello attualmente in carica, avrà mano
libera per le "riforme".
Perché però occorre affidarsi a
questa riforma di struttura per ottenere il consenso politico ad un'azione
riformatrice la cui necessità i sostenitori delle nuove norme reputano ovvia,
indiscutibile? Non dovrebbero tutte le forze politiche concordare con il
progetto riformatore. Il problema è che le riforme che vengono indicate come
necessarie allo sviluppo incidono sul benessere dei più e favoriscono le
imprese, controllate dalla minoranza della gente che sta meglio. È questo il
problema: andare contro gli interessi di una maggioranza del popolo, per
favorire una minoranza. Si suppone che, però, favorendo le imprese queste
creeranno sviluppo e occupazione, dei quali beneficerà anche la maggioranza.
Bisogna però ricordare che la
riforma costituzionale modifica solo strutture, procedure e funzioni di organi
costituzionali e di enti territoriali locali della Repubblica, ma non consiste
delle "riforme" che attraverso di essa ci si propone di facilitare,
nè ne indica la direzione: rispetto ad esse è, per così diere, neutrale. Così,
studiando la riforma costituzionale, non si può avere un'idea precisa di come
saranno le successive "riforme". Esse dipenderanno dalle idee di chi
conquisterà il Governo, che poi avrà le mani più libere. E i partiti che si
contendono il Governo in genere rimangono piuttosto sul vago, quando si tratta
di rendere un'idea precisa delle "riforme" che hanno in progetto di
varare. Questo dovrebbe essere un segnale di allarme, soprattutto per la
maggioranza di chi dalle passate riforme (tutte attuare dal Parlamento com'è
ora) ci ha rimesso in benessere.
In merito agli effetti della
riforma costituzionale in discussione si può dire quanto segue.
Con un Senato depotenziato come
quello riformato, e sostanzialmente nelle mani dei partiti egemoni nelle
Regioni più popolose, il partito che, con i meccanismi di premio di maggioranza
introdotti anche negli enti locali come per la Camera dei deputati, riuscisse a
controllare maggioranze parlamentari omogenee nelle due Camere, avrebbe a
disposizione del suo virtuosismo riformatore l'intera Costituzione, anche nei
suoi principi fondamentali, che oggettivamente costituiscono ostacoli
all'assecondamento delle leggi di mercato.
In caso contrario, di maggioranze
parlamentari non omogenee nelle due Camere, si aprirebbe una lunga stagione di
conflitti tra le due Camere, con l'impossibilità di legiferare nelle materie
più importanti, quelle che ancora richiederanno una deliberazione conforme
delle due Camere, aggravati dalle incertezze interpretative sulle norme sulla
competenza delle due Camere e sul riparto di competenza legislativa tra Stato
Regioni causate dalla non ottimale formulazione delle modifiche costituzionali
(eclatante il caso del nuovo art.70 della Costituzione, veramente di difficile
lettura).
Insomma, con la riforma
costituzionale si aprirà verosimilmente una stagione di riforme di
iniziative governativa, ma non si può sapere dove esse andranno a parare, quali
conseguenze avranno per la vita della maggioranza della gente, che dipende per
il proprio benessere da prestazioni sociali pubbliche, e neanche quale Governo
cercherà di attuarle. La riforma costituzionale agevolerà la via al Governo,
qualunque esso sia, nei confronti del quale, una volta che abbia conseguito il
controllo politico delle due Camere, o anche della sola Camera dei deputati,
per l'effetto dei meccanismi elettorali maggioritari stabiliti dalle leggi
vigenti, sarà più difficile esercitare un'azione politica diretta a incidere
sui suoi progetti. Un'azione politica del genere, possibile nel Parlamenti
com'è ora, ha invece moderato l'azione riformatrice dispiegatasi dall'inizio
degli anni '90 ad opera di Governi di opposte tendenze, ad esempio nel campo
della giustizia, quando la giustizia diventò materia di scontro politico.
Sulla valutazione dell'incidenza
delle dinamiche di mercato sui valori fondamentali inerenti alla dignità delle
persone umane, e sui compiti dei pubblici poteri in merito, a livello nazionale
e internazionale possono leggersi pagine significative, specialmente per
persone religiose, nell'enciclica papale Laudato si', del 2015, che potete
leggere sul Web sul sito <www.vatican.va>.
- 16 -
La controriforma regionale
Oltre che della struttura e delle
funzioni del Senato, la recente riforma costituzionale si occupa delle Regioni,
dei Comuni e delle Città metropolitane, enti questi ultimi che andranno a
sostituire le Province (come già avvenuto per quattordici Province, tra le
quali quella di Roma). La parte riguardante le Regioni è in realtà una
"controriforma", perché limiterà significativamente l'autonomia
legislativa e amministrativa regionale rispetto alla disciplina introdotta
nella Costituzione nel 2001.
L'istituzione delle Regioni come
enti territoriali con governo di natura politica espresso da un consiglio di
origine elettiva venne prevista dalla Costituzione fin dalla sua entrata in
vigore, nel 1948, ma iniziarono a funzionare solo nel 1970. Tuttavia solo dal
1979 l'adeguamento della normativa e dell'amministrazione statali consenti alle
Regioni di operare realmente nelle materie che la Costituzione attribuiva alla
loro competenza. Dagli anni '80 si svilupparono movimenti politici che
reclamavano una maggiore autonomia della Regioni, fino a fare della Repubblica
italiana uno stato federale. Si prendeva come riferimento talvolta gli Stati
Uniti e la Repubblica federale di Germania, ma anche, sopratutto nella fase
drammatica della sua dissoluzione, negli anni '90, la Federazione Iugoslava. Il
regionalismo settentrionale si pose talvolta l'obiettivo della secessione dalla
Repubblica Italiana, proponendosi la creazione di un nuovo stato nel Nord
Italia, a settentrione del fiume Po, individuato culturalmente, storicamente e
sociologicamente come "Padania". L'esigenza di una maggiore autonomia
regionale venne ampiamente condivisa dalle forze politiche nazionali, che però
erano in contrasto tra loro sulle modalità concrete della sua attuazione,
portando nel 2001 a una revisione costituzionale in quella direzione,
confermata da un referendum popolare analogo a quello che si terrà il prossimo
autunno.
Fin dall'inizio le Regioni si
occuparono di materie molto importanti: tra di esse l'urbanistica (in
particolare dei "piani" che disciplinano le costruzioni di edifici),
la sanità, le strade, i trasporti e i lavori pubblici locali, l'agricoltura e
foreste. Dovevano però operare secondo principi fondamentali fissati da leggi
dello Stato e, sopratutto, senza entrare in contrasto con l' "interesse
nazionale". Quest'ultimo costituiva quindi, con quello dei principi fondamentali,
uno dei principali criteri per valutare la legittimità costituzionale della
legislazione regionale.
Con la revisione costituzionale
del 2001 la competenza regionale venne molto aumentata. Quella statale divenne
residuale. Alcune materie erano riservate allo Stato, come la politica estera,
la difesa, la moneta, il sistema tributario, la giustizia, la previdenza
sociale, la legislazione elettorale, la tutela dell'ambiente e dei beni
culturali. In altre la legislazione regionale doveva svolgersi nel quadro di
principi fondamentali fissati da leggi dello Stato: ad esempio in materia di
sanità, professioni, sicurezza sul lavoro, istruzione, protezione civile,
banche locali. Tutte le altre materie divennero di competenza regionale. Venne
tolto il limite dell'interesse nazionale e fu attribuito alle Regioni, ma anche
agli altrimenti territoriali quindi ai Comuni, alle Città Metropolitane e alle
Province, il potere di stabilire tributi propri. Il nuovo sistema
costituzionale delle autonomie locali creò dei problemi perché le Regioni
presero a contestare davanti alla Corte Costituzionale le leggi dello Stato,
lamentando che avevano invaso illegittimamente la competenza regionale.
Tensioni tra Stato e Regioni si crearono in particolare dove i movimenti secessionisti
ebbero più seguito. Divenne più difficile assicurare l'uniformità di
certe prestazioni pubbliche sul territorio nazionale, ad esempio in materia
sanitaria. Alcune Regioni funzionarono meglio, altre peggio.
Nel 2005 il Parlamento approvò una
legge di revisione costituzionale che aumentava ulteriormente la competenza
legislativa e amministrativa delle Regioni, avvicinandola a quella delle
istituzioni territoriali costitutive degli stati federali, introducendo però un
potere di ingerenza governativa nel caso lo richiedesse l'interesse nazionale:
il governo, dopo aver inutilmente richiesto modifiche alla disciplina
regionale, poteva ottenere una deliberazione del Parlamento in seduta comune
per annullare la legge regionale ritenuta contrastante con l'interesse
nazionale. Questo meccanismo giuridico si ritrova sostanzialmente nella
revisione costituzionale oggetto del prossimo referendum, con la differenza che
l'ultima parola l'avrà solo la Camera dei deputati. Questa riforma non entrò in
vigore perché non confermata dal referendum costituzionale svoltosi nel 2006.
L'idea di fare della Repubblica
italiana uno stato federale contrasta con il processo storico con cui si
realizzò l'unità d'Italia. Quest'ultima non avvenne per aggregazione degli
stati in cui l'Italia era divisa ad inizio Ottocento, ma per conquista militare
da parte del Regno di Sardegna, che nel 1861 divenne il Regno d'Italia. Le
attuali Regioni, salvo la Toscana, non corrispondono agli stati italiani
precedenti l'unità nazionale. Ricalcano invece circoscrizioni amministrative
definite dal Regno d'Italia, con una certa arbitrarietà, sulla base di affinità
linguistiche e territoriali. Lo stato liberale e poi quello fascista,
fortemente accentratori, si proposero di destrutturare le autonomie statali
precedenti l'unità d'Italia, al fine di "fare gli italiani". Ci
riuscirono.
Grosso modo gli stati in cui
l'Italia era divisa prima dell'unità nazionale comprendevano Piemonte, Liguria
e Sardegna, sotto la monarchia dei Savoia; il Lombardo-Veneto sotto dominazione
austriaca; il Granducato di Toscana; l'Italia centrale sotto il dominio
pontificio, e l'Italia meridionale sotto il dominio della monarchia dei
Borboni. Le città di Parma, Piacenza, Guastalla, Modena e Reggio erano
governate da monarchie locali, costituite in ducati. Il Regno dei Savoia si
espanse nelle altre regioni d'Italia, destituendo le altre monarchie locali,
compresa quella romana del Papa, e annettendosi il lombardoveneto sotto
dominazione austriaca. L'autonomia politica di queste regioni italiane venne
annientata: bisogna considerare che la partecipazione politica del popolo agli
stati abbattuti era limitata ai ceti dei nobili e dei borghesi.
L'Italia conserva ancora
una marcata diversità culturale sul suo territorio, in particolare linguistica,
e forti diversità di struttura economica. Pensare, ad esempio, ad un
Settentrione omogeneo è superficiale. L'idea proposta dai
federalisti/secessionisti italiani "nordisti" dagli anni
'80 era che le regioni del nord Italia, con economie più ricche, non fossero
più onerate del sostegno di quelle delle altre parti d'Italia. Le economie del
centro-meridionali venivano presentate come parassitarie. In realtà la storia
economica d'Italia evidenzia che le regioni settentrionali, durante la fase
dello statalismo liberale e fascista, furono maggiormente sostenute dallo
stato, anche attraverso il sistema delle commesse pubbliche e delle
partecipazioni statali. Solo dalla caduta del fascismo in avanti, quindi dal
1945, si cominciarono ad attuare politiche di sviluppo nel Centro e Meridione
d'Italia. In questo quadro vennero delineate nella Costituzione entrata in
vigore nel 1948 le nuove autonomie regionali. Queste ultimi erano sostenute in
particolare dal democratici cristiani. La destre e i social-comunisti erano
diffidenti. Favorevoli anche i repubblicani e gli azionisti (del Partito
d'Azione, che ora non c'è più). Si temeva l'impossibilità di attuare politiche
nazionali, in caso di divergenze di quelle regionali. Come detto, solo nel 1970
le nuove Regioni italiane iniziarono ad operare, ma solo alla fine degli anni
'70 furono loro trasferite realmente gran parte delle funzioni che la
Costituzione attribuiva loro.
Il regionalismo del secondo
dopoguerra riteneva che lo sviluppo locale sarebbe stato più efficacemente
realizzato da una classe politica più vicina ai problemi del territorio. Nei
primi anni dell'esperienza regionale questo obiettivo fu limitato dall'assenza
di risorse proprie delle Regioni, le cui risorse erano fornite sostanzialmente da
trasferimenti statali. A ciò si rimediò con la revisione costituzionale del
2001.
Con la revisione costituzionale
approvata quest'anno e oggetto del prossimo referendum costituzionale, la
competenza regionale viene limitata. Nel tentativo di limitare motivi di
contrasto si è soppresso il comma dell'art.117 della Costituzione che prevedeva
la cosiddetta legislazione concorrente, vale a dire le materie in cui le
Regioni potevano legiferare nel quadro di principi fondamentali fissati da una
legge statale. Tuttavia è stato osservato che anche la nuova formulazione di
quell'articolo prevede ancora, sostanzialmente, una legislazione concorrente
analoga, con la conseguenza che sono prevedibili gli stessi problemi di
competenza del passato. Ma la novità più importante è che si è introdotto,
sulla scia della precedente riforma del 2005 non confermata dal referendum
costituzionale dell'anno seguente, il potere esclusivo del Governo di ottenere
che la Camera dei deputati legiferi nelle materie di competenza regionale sulla
base del criterio dell' "interesse nazionale", quanto mai generico.
In mano ad un Governo autoritario, che per l'effetto della nuova legge
elettorale maggioritaria controllasse la Camera dei Deputati, ciò potrebbe
portare ad una compressione significativa dell'autonomia regionale. Queste
leggi di supremazia in base all'interesse nazionale sono soggette ad una
procedura di approvazione "rafforzata", nel senso che la Camera dei
deputati dovrà pronunciarsi a maggioranza assoluta dei propri componenti,
qualora non intenda accogliere modifiche proposte a maggioranza assoluta dei
propri componenti dal nuovo Senato. La disposizione che prevede questa
procedura, il nuovo articolo 70, 4° comma, della Costituzione, è
formulata in modo impreciso e lascia spazi a molti dubbi interpretativi, come
evidenziato nel commento preparato dall'Ufficio studi della Camera dei
deputati. Comunque, tenendo conto dell'effetto della legge elettorale
maggioritaria sulla composizione della Camera dei deputati, può prevedersi che
il Governo non avrà difficoltà a far approvare leggi invasive della competenza
regionale.
In conclusione: la legge di
revisione costituzionale di quest'anno realizza un notevole rafforzamento dei
poteri del Governo anche in materia di autonomia regionale. In questo senso si
tratta di una "controriforma".
- 17 -
La società atomizzata,
il referendum, la democrazia
Che cosa è in ballo
nel prossimo referendum costituzionale?
E’ credibile che possa aprire la
strada ad una dittatura?
Se ne è discusso ieri in radio e
televisione. L’argomento è affrontato anche sui giornali di oggi. Infatti ieri
un politico di primo piano, in un breve messaggio telematico, ha paragonato
l’esperienza politica dell’attuale Presidente del Consiglio dei ministri a
quella del dittatore militare Augusto Pinochet, il quale nel 1973 in Cile
capeggiò un colpo di stato militare destituendo il governo socialista del
presidente Salvator Allende, e rimanendo poi al potere, come capo di
stato, fino al 1990, attuando un governo autoritario e antidemocratico. Alla
gente fu vietata la politica e l’azione degli oppositori al regime venne
repressa con misure di polizia non rispettose della dignità e incolumità delle
persone e senza possibilità di reale difesa in sede giudiziaria. Si legge
in
http://www.treccani.it/scuola/tesine/dittature_extraeuropee_degli_anni_70/2.html in
un articolo sintetico sul colpo di stato di Pinochet dedicato agli studenti
delle scuole la cui lettura consiglio a tutti: “Dal
1973 al 1990 in Cile sparirono oltre trentamila persone, uccise e torturate
barbaramente”.
Vanno sottolineate alcune
importanti differenze del caso italiano rispetto alla svolta cilena degli anni
’70.
L’attuale presidente del
Consiglio è il capo di un partito politico, non un capo militare. Egli governa
con la fiducia di una maggioranza parlamentare. Il suo è un partito che ingloba
parte della sinistra politica nazionale e non ha propositi reazionari, di
restaurazione contro una politica socialista. Il suo è e rimarrà un potere
costituzionale, in un contesto costituzionale democratico. Quindi, anche in
caso di conferma della revisione costituzionale sottoposta al referendum,
rimarranno gli altri partiti e sarà possibile cambiare linea con elezioni
politiche. Per quanto infatti la revisione costituzionale rafforzi molto la
posizione del Governo nei confronti degli altri poteri dello stato, essa non dà
tutto il potere al capo del Governo, né al Presidente della Repubblica.
Continueranno a svolgersi elezioni politiche e amministrative, a seguito delle
quali il Parlamento sarà rinnovato. Per il nuovo Senato si adotterà un metodo
diverso di elezione dei suoi membri, che verranno scelti dai consiglieri
regionali e non più, direttamente, dal corpo elettorale, vale a dire da tutti i
cittadini elettori. Ma comunque i consiglieri regionali saranno scelti dagli
elettori. I diritti fondamentali delle persone continueranno ad essere
rispettati, perché la riforma riguarda solo parte dell’organizzazione degli
organi fondamentali dello stato.
Va infine notato che l’esperienza
politica di Pinochet ebbe fine proprio a seguito di un referendum
costituzionale celebrato nel 1988.
Ciò posto è vero che il prossimo
referendum è in grado di modificare molte cose nella nostra vita, molte di più
di quelle che sono scritte nel testo della riforma costituzionale.
Innanzi tutto, in un testo di
legge come la nostra Costituzione le varie parti che lo compongono influenzano
l’insieme, non sono indipendenti le une dalle altre. Modificando l’assetto del
Parlamento e delle Regioni in modo da aumentare la sfera di influenza del
Governo si produrranno conseguenze, ancora difficili da immaginare in tutta la
loro estensione, sui diritti politici dei cittadini, vale a dire su
quella che viene definita sovranità popolare e che è la partecipazione
dei cittadini al governo d della nazione. Sarà diverso il modo in cui i
cittadini potranno concorrere con metodo democratico a determinare la
politica nazionale, secondo l’espressione che troviamo nell'art. 49
della Costituzione. Questo però non solo per l’effetto delle modifiche
costituzionali sottoposte a referendum ma di esse e della
nuova legge elettorale per l’elezione della Camera dei deputati. E’
l’associazione delle nuove norme costituzionali e di quelle, ordinarie,
elettorali che rafforzerà molto l’azione del Governo nei confronti degli altri
organi costituzionali dello Stato: Parlamento, Presidente della Repubblica,
Corte Costituzionale. Infatti la nuova legge elettorale, che riguarda
l’elezione della Camera dei deputati, la quale in molte materie, in particolare
ad esempio in materia di economia e lavoro, avrà l’ultima parola, consegna una
solida maggioranza parlamentare al partito che, o avendo
raggiunto il 40% dei voti alle elezioni o anche non avendo raggiunto tale
soglia di voti ma avendo vinto il ballottaggio tra i due
partiti che hanno raggiunto più voti, abbia vinto le
elezioni. Quindi un solo partito, anche non raggiungendo la
maggioranza assoluta (oltre il 50% dei voti) alle elezioni, e addirittura
rimanendo molto lontano da essa (nel caso si proceda al ballottaggio) potrebbe
esprimere un governo, accordandogli la fiducia, e cambiare profondamente la
vita sociale, con meno possibilità per la gente di opporvisi efficacemente e
rapidamente. In alcune materie, in particolare nelle riforme costituzionali, è
previsto però che si legiferi con il concorso delle due Camere, quindi anche
del Senato. Tuttavia bisogna considerare che anche l’elezione dei consiglieri
regionali e dei sindaci, tra i quali saranno scelti i nuovi senatori, si svolge
con procedure che prevedono premi di maggioranza: quindi è possibile che un
medesimo partito di maggioranza solo relativa, non assoluta, e
anche piuttosto esigua, in termini di voti elettorali, ma di maggioranza
assoluta in termini di membri nelle assemblee regionali e nei consigli
comunali, come anche alla Camera dei Deputati, arrivi a controllare l'intero il
Parlamento. A quel punto sarebbe nelle sue mani l’intera Costituzione, anche
nei suoi principi fondamentali. Se poi si trattasse di un partito controllato
da una o da una cerchia di poche persone, come è accaduto e accade nella
politica italiana contemporanea, fortemente personalizzata intorno al leader di
partito (si parla di partiti personali), è possibile che
tutta la vita dello stato e i suoi principi fondamentali finiscano per essere
determinati da oligarchie (i cerchi magici) piuttosto ristrette,
senza reale possibilità per la gente di influire sul corso politico. E’ vero
che si saprà subito chi ha vinto, ma potrebbe non essere
tanto bello scoprirlo. Dipenderà dai progetti politici di chi ha vinto e qui,
oggi, sorgono dei problemi. Perché sembra difficile alle parti politiche che
attualmente si contendono il potere precisare i dettagli delle loro proposte
politiche. Si parla sempre di riforme, ma, al dunque, come saranno
queste riforme non si sa. Sembra quasi che si proponga agli
elettori di accettare una cambiale in cui lo spazio
relativo all'importo è lasciato in bianco, per cui non si sa
bene che cosa attendersi dal futuro.
Una persona decisa, determinata,
con una certa fascinazione popolare, come ne sono nate in Italia in passato,
potrebbe utilizzare gli effetti dell’associazione tra riforma costituzionale e
nuova legge elettorale per la Camera dei deputati per rafforzare un proprio
potere personale e cambiarci la vita profondamente? Senz'altro sì.
Potrebbe essere in meglio o in peggio, naturalmente. Ma se fosse in peggio
sarebbe più difficile contrastarlo. Questo perché controllando una maggioranza
parlamentare significativa il Governo espresso da un solo partito, il partito
del suo leader, avrebbe anche mano libera nel cercare controllare
l’informazione pubblica, attraverso la quale i cittadini si formano opinioni
politiche. E avrebbe buone possibilità di successo. Le elezioni, a quel punto,
ci sarebbero ancora, periodicamente, ma sarebbe più difficile per la gente
capire che cosa sta succedendo e reagire. Ed è stato notato che, già ora, in
televisione le ragioni dei contrari alla riforma costituzionale sottoposta a
referendum hanno poco spazio e che le informazioni sull'attività del
Governo hanno la preponderanza. Verificate: in
base all'informazione che avete avuto dalle televisioni, siete
riusciti a farvi un’idea di che cosa precisamente tratti la riforma
costituzionale sottoposta a referendum?
E’ stato osservato (Bauman)
che viviamo in una società atomizzata, in cui ognuno sta per sé e tutti sono
contro tutti. I legami tra di noi si fanno più labili. Le conseguenze si sono
fatte sentire, ad esempio, sulla stabilità delle famiglie. Ma è cosa che
si può constatare facilmente in tutte le realtà sociali, ad esempio in una
parrocchia come la nostra. Ci si stanca facilmente degli impegni di lunga
durata. E quando se ne assume uno, subito sembra troppo oneroso e si pensa come
liberarsene.
I più giovani vivono una parte
importante della loro vita interagendo telematicamente sul WEB. Lì uno può
illudersi di essere onnipotente, di poter cancellare la realtà, ed anche le
persone, pigiando sull’icona “elimina”. Si può rapidamente uscire da un gruppo
ed entrare in un altro. La realtà virtuale è un gioco che possiamo costruire,
interamente nelle nostre mani. Ma la realtà sociale, quella dalla quale
dipendono le nostre vite, la casa, il lavoro, il pane, non è così. Certe
scelte che si fanno non possono poi essere cambiate tanto facilmente. Quindi,
affrontare il referendum costituzionale con lo stesso spirito con cui si
interagisce sul WEB è pericoloso.
Se, riflettendoci, si capisce che
sarà difficoltoso cambiare gli effetti di una nostra decisione, si cerca di
ragionarci su bene. E’ quello che si dovrebbe fare, ad esempio, sposandosi,
decidendo di fare o di non fare un figlio, di aderire ad una fede religiosa o
di lasciarla, o scegliendo un corso di studi superiori o un lavoro. Il tasto elimina in
queste cose non c’è.
E’ lo stesso per una riforma
costituzionale: cambierà la società che ci consente di vivere. Potremo poi
sognarne un’altra giocando sul WEB, ma quest’ultima rimarrà sempre un sogno.
Mentre gli effetti di un’elezione
politica di solito si esauriscono entro le successive elezioni, quelli di una
riforma costituzionale sono di lunga durata. Anche senza dover fare un colpo di
stato alla Pinochet e senza brutalizzarci ammazzandoci, un pugno gente decisa,
a cui noi abbiamo aperto la strada, potrebbe cambiarci molto la vita. E
bloccarla, cambiando nuovamente la Costituzione, potrebbe divenire molto, molto
difficile, se non impossibile, se lo si dovesse fare mediante maggioranze
parlamentari controllate proprio da quelli che si vorrebbe contrastare e con
un’informazione pubblica da loro controllata.
Concludo osservando che, se è vero
che la svolta politica (l’avvio delle riforme) che si
prefiggono i fautori della revisione costituzionale si
produrrà dall'associazione degli effetti della
riforma costituzionale e di quelli della riforma elettorale attuata con
legge ordinaria, il quesito proposto agli elettori non è completo, riguardando
solo la riforma costituzionale. Infatti se la legge elettorale per la
Camera dei deputati fosse diversa ci si potrebbe determinare diversamente anche
sulla riforma costituzionale. E ancora: indipendentemente da come andrà il
referendum, gli effetti della riforma costituzionale potrebbero essere cambiati
cambiando la legge elettorale per la Camera dei deputati. Non sarebbe stato
meglio inserire anche nella riforma costituzionale qualcosa sul sistema
elettorale della Camera dei deputati, tenendo conto, in particolare, che una
precedente legge elettorale, quella del 2005, è stata dichiarata parzialmente incostituzionale
nel 2014? In modo da dare modo ai cittadini di esprimere un giudizio
completo su tutta la materia di questa che è proposta come la riforma
delle riforme, la riforma che dovrebbe aprire la
strada a tutte le altre riforme, che però, allo stato, non si
sa quali saranno, sia perché i capi dei partiti non ce lo precisano sia
perché dipenderanno da chi riuscirà a conquistare la maggioranza parlamentare e
quindi il governo della nazione.
Di questi tempi ci cominciamo a
rendere conto che la società atomizzata, quella fatta da individui che si
ritengono onnipotenti e che pensano che la realtà intorno a loro possa essere
cancellata con una specie di tasto “elimina”, non produce una buona politica.
Da che cosa e, soprattutto, da chi dipende la politica in democrazia? Dipende
da tutti noi, non come singoli però, ma nei legami che riusciamo a creare e a
mantenere con gli altri. E’ infatti una realtà sociale, vera non virtuali, che
richiede di stringere e rafforzare legami effettivi e stabili tra le persone e
i gruppi. Bisogna conoscere altra gente, imparare a dialogare con gli altri, ad
esaminare le questioni realisticamente e razionalmente. La nostra vita non si
svolge in un video-gioco. E’ cosa a cui siamo stati chiamati anche in
religione: è questo il senso, in realtà piuttosto misconosciuto in genere,
degli argomenti proposti nell'enciclica Laudato si’. Ecco che
l’Azione Cattolica ha quindi progettato un percorso formativo specifico fin dai
suoi piccolissimi. Ne ho scritto nei precedenti interventi.
Dovremmo forse sentirne la necessità anche in una realtà sociale come la
parrocchia. Tra le cose in ballo, nelle possibili riforme, ci sono
anche i diritti religiosi. Ma, nonostante il grande impegno dei sacerdoti,
sembra tanto difficile raccogliere gente che abbia ancora voglia di impegnarsi
in attività come questa. E questo nonostante il ruolo importantissimo che il
movimento politico espresso da nostre persone di fede ed ispirato alla dottrina
sociale ha avuto nella storia repubblicana dal secondo dopoguerra.
- 18 -
Prendersi cura della casa comune
L’enciclica Laudato si’, dell’anno
scorso, ha come sottotitolo: “sulla cura della casa comune”. Si
tratta di un testo che non ha precedenti nella dottrina sociale. Questo risulta
in modo evidente in particolare dalle note di citazione, che fanno pochi
riferimenti a precedenti documenti analoghi. Vi sono invece molte citazioni di
documenti di conferenze episcopali. Vi sono citazioni di documenti dei papi
regnanti dagli anni ‘70, ma con molti testi diversi dalle encicliche,
contenuti in discorsi e messaggi. Di documenti conciliari vi sono tre
citazioni e riferimenti tratti tutti dalla Costituzione La gioia e la
speranza, del Concilio Vaticano 2° (nota 50, sull’autonomia delle realtà
terrene; nota 100, sull’uomo quale autore, centro e fine di tutta la vita
economico-sociale; nota 122, sul concetto di bene comune come l’insieme delle
condizioni delle vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai singoli
di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente). Ma è
la prospettiva che viene proposta che è molto diversa da quella dei precedenti
insegnamenti della dottrina sociale e anche dalla teologia francescana, a cui
pure si fa riferimento come principio ispiratore. Non basta rispettare e
contemplare la natura, e riconoscervi l’opera del Creatore: occorre averne
cura. Non si tratta solo di soggiogare e sfruttare senza
inaridire le risorse, lasciando ciò che serve alle generazioni successive:
occorre anche mantenere, e ove occorre ristabilire, l’armonia del creato, di
cui gli stessi esseri umani sono parte. Occorre un’azione comune, collettiva,
che non è più riferita, come nei precedenti documenti che trattavano il tema,
solo aigovernanti, ma a tutti. Questo richiede una conversione su
larga scala, la giustizia sociale tra le generazioni, un nuovo spirito civico e
nuove politiche. E’ in questione uno stile di vita. Ma anche il sistema
economico che regge le società contemporanee. Si parla di ecologia,
parola che significa studio dell’ambiente, ma l’ambiente a
cui si fa riferimento non è solo quello naturale, ma in primo luogo quello
sociale. Perché sono gli esseri umani ad essere chiamati a prendersi
cura della creazione. Si è chiamati ad una rivoluzione
culturale:
114. Ciò che sta accadendo
ci pone di fronte all’urgenza di procedere in una coraggiosa rivoluzione
culturale. La scienza e la tecnologia non sono neutrali, ma possono implicare
dall’inizio alla fine di un processo diverse intenzioni e possibilità, e
possono configurarsi in vari modi. Nessuno vuole tornare all’epoca delle
caverne, però è indispensabile rallentare la marcia per guardare la realtà in
un altro modo, raccogliere gli sviluppi positivi e sostenibili, e al tempo
stesso recuperare i valori e i grandi fini distrutti da una sfrenatezza
megalomane.
Passare da una
civiltà della crescita illimitata e dello spreco ad una della sobrietà e della
cura dell’ambiente richiede un lavoro specificamente politico, che nella Laudato
si’ è specificamente indicato come compito di tutti.
178. Il dramma di una
politica focalizzata sui risultati immediati, sostenuta anche da popolazioni
consumiste, rende necessario produrre crescita a breve termine. Rispondendo a
interessi elettorali, i governi non si azzardano facilmente a irritare la
popolazione con misure che possano intaccare il livello di consumo o mettere a
rischio investimenti esteri. 179. […
] Poiché il diritto, a volte, si
dimostra insufficiente a causa della corruzione, si richiede una decisione
politica sotto la pressione della popolazione. La società, attraverso organismi
non governativi e associazioni intermedie, deve obbligare i governi a
sviluppare normative, procedure e controlli più rigorosi. Se i cittadini non
controllano il potere politico - nazionale, regionale e municipale - neppure è
possibile un contrasto dei danni ambientali. 181. […] Occorre dare
maggior spazio a una sana politica, capace di riformare le istituzioni e
dotarle di buone pratiche, che permettano di superare pressioni e inerzie
viziose.
Una politica in cui il popolo
abbia parte è una politica democratica. E’ la prima volta che in
un’enciclica vi è un così forte appello al popolo per una politica democratica.
In passato appelli del genere erano rivolti aigovernanti. Si tratta di
un portato della difficile accettazione dei processi democratici da parte della
dottrina sociale, che si è avuta compiutamente piuttosto recentemente, solo con
l’enciclica Il centenario, del 1991, di Karol Wojtyla. Questo
documento fu pubblicato in un anno in cui tutto iniziò a cambiare molto
velocemente in Europa: fu l’anno della dissoluzione del comunismo sovietico in
Russia. In Europa il processo politico era iniziato nel 1989. Si trattò di
sviluppi che in Occidente non si erano previsti e che, quindi, sorpresero non poco.
Si produsse, nell’Europa Orientale dominata dal comunismo sovietico, una
rivoluzione di sistema. Molto più, quindi, di una rivoluzione politica, che
comporta un cambio di chi comanda in politica. A quell'epoca si volle fondare,
progettare e stabilire un nuovo sistema sociale, economico e politico insieme.
E allora il Wojtyla condusse i fedeli verso la democrazia, nei confronti della
quale, fino ad allora, vi erano state sempre molte riserve, e ancora per certi
versi vi sono, tanto che essa viene poco praticata nell’organizzazione
religiosa e viene riservata a quella civile.
Wojtyla fu tra i pochi, e il solo
tra i grandi della Terra, a prevedere il cambiamento dei sistemi politici
integrati dell’Europa orientale, che tenevano sostanzialmente prigioniere le
Chiese di quelle regioni, e in particolare la Chiesa polacca nella quale egli
si era formato. Egli intuiva la fragilità di quei governi nazionali. Ma, con il
senno del poi, possiamo riconoscere che non aveva veramente capito i moventi
della rivoluzione in corso. Egli si illudeva che fossero spirituali, che i
popoli dell’Europa orientale volessero rientrare nuovamente nel consesso delle
genti della fede che era alle radici della cultura civica europea.
Furono strani moti rivoluzionari,
quelli che cambiarono l’Europa in quegli anni. Ci fu poca violenza. Non ci fu
una classe contro l’altra. Non insorsero i ceti più poveri. Si osservò che le
piazze si riempirono di giovani e di professionisti, di gente dei ceti più
elevati della società. I governi, dinanzi a quelle piazze, e a volte solo
addirittura alla minaccia di raduni di piazza, mollarono tutto, come convinti
della propria inesistenza, come fu scritto. E’ stato osservato (Zygmunt Bauman)
che fu l’anelito al consumismo, alla libertà di creare e di soddisfare sempre
nuovi bisogni, che motivò gran parte delle folle che manifestarono in piazza.
Nella Germania orientale, dove, nel novembre 1989 si produsse l’evento che
viene denominato Crollo del muro di Berlino, e che, in realtà, non
comportò alcun crollo, ma solo l’apertura, su ordine del Governo
della Repubblica Democratica Tedesca, della frontiera che all’epoca divideva in
due la città di Berlino, non furono assaltati i palazzi della politica, ma la
gente si accalcò alla frontiera per andare in Occidente, vedere che c’era, fare
acquisti, incontrare parenti che da decenni non vedeva, però poi facendo
ritorno a casa attraverso la medesima frontiera.
Nei sistemi economici e politici
comunisti era vietato non lavorare e tutti avevano una casa. Tutti potevano
studiare e curarsi gratuitamente. Tutti avevano a basso costo di che vivere.
C’era tempo libero e venivano organizzati gratuitamente svaghi e vacanze. Ma lo
stato pretendeva di controllare i bisogni della gente,
di decidere quali erano meritevoli di soddisfazione e quali no. E non
riusciva neppure a soddisfare tutti i bisogni che riconosceva come degni. Per
cui nei negozi di stato c’era poca roba e, quando c’era, occorreva spesso fare
lunghe file per acquistarla. C’era il costume di comprare, ai bassi costi che
venivano praticati dallo stato, anche cose che non servivano al momento, ad
esempio scarpe di una taglia diversa da quella propria, per farne poi baratto.
Tutti i maggiori sforzi dello stato venivano dedicati all’industria pesante,
non a quella che produceva beni di consumo, per sorreggere i bisogni
dell’apparato militare. Infatti i governi di quel mondo vivevano in un perenne
clima di assedio, come agli esordi della rivoluzione bolscevica (quella che poi
produsse lo stato sovietico russo), nel 1917. E nell’industria si aveva di mira
innanzi tutto lo sviluppo sempre più rapido e imponente, non la sostenibilità
ambientale. Fu il desiderio di più beni di consumo la molla principale che
indusse le stesse classi dirigenti dei sistemi comunisti dell’Europa orientale
a cambiare politica, producendo una rivoluzione di sistema. A tutto ciò gli
strati meno ricchi, meno colti e più anziani delle popolazioni, infatti anche
in quelle società l’egualitarismo non era completo, rimasero sostanzialmente
estranei. Furono i più giovani e i ceti colti il motore di quelle
rivoluzioni.
Un indizio significativo della
dinamica che ho descritto può essere visto in un fatto di cronaca avvenuto
proprio a Roma. Nel 1991, venne in visita di stato in Italia il nuovo
presidente della Russia, Boris Eltsin. Sua moglie, mentre il marito si
intratteneva in colloqui politici, fu portata in visita per la città e, in
particolare, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, che è in una zona della
città non particolarmente elegante, si tratta infatti di un quartiere popolare
come il nostro, anche se situato in centro. Uscendo dalla Basilica, la signora
Eltsin vide lì di fronte un supermercato popolare, che ancora c’è, volle
entrare, lo girò tutto e fece anche acquisti, sotto lo sguardo sbalordito delle
commesse. Ne fu entusiasta. Fu criticato e preso in giro questo suo ingenuo
entusiasmo per un supermercato popolare. Fu osservato che non aveva mostrato lo
stesso entusiasmo durante la visita allo storico chiesone. Era questo profluvio
di merce che c’era nei supermercati occidentali il sogno degli europei
orientali.
[Cronaca dell'evento all'indirizzo WEB:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2007/04/25/quella-prima-volta-di-eltsin-in-italia.html ]
Ora tutta l’Europa sta di fronte
alla sostenibilità del suo modello di sviluppo consumistico, quello che è stato
uno dei moventi più importanti delle rivoluzioni nell’Europa orientale. Non ce
n’è per tutti. L’induzione di sempre nuovi bisogni genera spreco di risorse.
Per cui mentre c’è chi non ha di che vivere, ci sono quelli che consumano molto
di più di ciò che ragionevolmente sarebbe loro sufficiente per stare molto
bene. Tutto è concentrato nella soddisfazione dei bisogni individuali di
chi è riuscito a integrarsi nel sistema economico, mentre per i bisogni
sociali, ad esempio per i servizi pubblici e per le pensioni sembra che, nelle
nostre società straricche dell’Occidente, manchino sempre le risorse. Il
sistema economico non è stabile, perché, per sostenersi, ha necessità di crescere sempre.
Ma può crescere solo soddisfacendo i bisogni dei sempre meno che hanno di che
pagare certi prezzi. Così, sembra che più aumenta la capacità di soddisfare
bisogni più diminuisca il numero di chi può pagare e, dunque, più sia in pericolo
la crescita costante. Il lavoro diventa precario perché
la sua stabilità è uno di quei costi per i quali non si trovano mai le risorse.
Divenendo precario viene retribuito meno, e quindi diminuisce la capacità di
spesa delle masse. Quindi diminuiscono i consumi e la gente si indebita per
consumare. E’ stato osservato che il debito privato impone un pesante servaggio
alle persone, così come l’entità del debito pubblico ,ora che la si vuole
tenere sotto controllo, limita la spesa sociale con decremento del benessere
collettivo. E’ un modello di sviluppo squilibrato e fondamentalmente
irrazionale, tanto che riesce difficile anche ad istituzioni sovranazionali
come l’Unione Europea tenerlo sotto controllo. Nelle crisi, poi, ognuno pensa
che la soluzione sia di liberarsi dall’onere della solidarietà verso gli altri.
Ci si rinchiude nuovamente nei confini nazionali, e, all’interno di essi,
dentro quelli regionali o comunali, e infine nel proprio privato. Ognuno
vuole tenersi il suo. Spendere ciò che produce. Il grido che sorge dalle masse
è, in fondo: “Meno tasse!”. Chi oggi si adatterebbe ad uno stile di
vita più sobrio? Chi rinuncerebbe al miraggio della crescita costante?
Scrive Bergoglio nella Laudato
si’:
222. La
spiritualità cristiana propone un modo alternativo di intendere la qualità
della vita, e incoraggia uno stile di vita profetico e contemplativo, capace di
gioire profondamente senza essere ossessionati dal consumo. È importante
accogliere un antico insegnamento, presente in diverse tradizioni religiose, e
anche nella Bibbia. Si tratta della convinzione che “meno è di più”. Infatti il
costante cumulo di possibilità di consumare distrae il cuore e impedisce di
apprezzare ogni cosa e ogni momento. Al contrario, rendersi presenti
serenamente davanti ad ogni realtà, per quanto piccola possa essere, ci apre
molte più possibilità di comprensione e di realizzazione personale. La
spiritualità cristiana propone una crescita nella sobrietà e una capacità di
godere con poco. È un ritorno alla semplicità che ci permette di fermarci a
gustare le piccole cose, di ringraziare delle possibilità che offre la vita
senza attaccarci a ciò che abbiamo né rattristarci per ciò che non possediamo.
Questo richiede di evitare la dinamica del dominio e della mera accumulazione
di piaceri.
Vedete come ragionando sulla Laudato
si’ ci si è messa di mezzo tanta storia recente? E
come sono venuti in primo piano argomenti politici? Siamo invitati a
costruire un nuovo modello di sviluppo, a realizzare nell’Europa finalmente (ma
per quanto ancora?) unita un nuovo modello di civiltà, una rivoluzione
sistemica analoga a quelle che cambiarono il nostro continente a cavallo tra
gli anni ’80 e ’90.
E' perché lo vuole, lo ordina, un
papa?
Le encicliche sociali sono state
sempre un lavoro collettivo, anche se poi è il sovrano religioso che le firma.
Ci sono sempre stati molti redattori. Per la Laudato si’, per
ciò che si è saputo, non è andata proprio così. C’è effettivamente proprio il
pensiero, e addirittura il lessico, del Papa. Ma le idee che Bergoglio propone
non sono in gran parte sue originali, bensì sono state sviluppate in tutto il
mondo da un movimento politico - religioso molto vasto, come dimostrano le
tante citazioni da testi di Conferenze episcopali. C’è insomma, un popolo che
reclama un nuovo modello di sviluppo. Noi, da che parte stiamo?
Si tratta, come è chiaro, di
un lavoro che coinvolge innanzi tutto la sfera di azione dei laici di fede.
La cura della casa comune compete in primo luogo a loro.
Ecco dunque l’esigenza di una
specifica formazione, che va molto oltre quella catechistica e che deve essere
potenziata in particolare a partire da quella post Cresima. C’è
necessità di studiare e di fare esperienze. Di incontrare gente, anche al di
fuori dell’Italia. Conoscere per progettare il cambiamento. Di imparare a
praticare il metodo democratico nella discussione e nelle decisioni. Perché
bisogna decidersi in masse e solo la democrazia consente di farlo.
Un’organizzazione che bisognerebbe creare anche a livello parrocchiale: è da
qui che la gente di fede deve essere educata ad andare oltre, in particolare a
ragionare su scala europea e mondiale. A essere consapevole della prospettiva
storica dei problemi.
Nella nostra parrocchia siamo
ancora ai primi passi e la dispersione della biblioteca parrocchiale non aiuta.
- 19 -
Democrazia: un sistema di potere collettivo con limiti stringenti a
ciascuna autorità pubblica sulla base di valori condivisi
Se consideriamo la
storia recente dell’umanità, possiamo constatare facilmente che qualsiasi
sistema di potere che abbia voluto correggere la società introducendo limiti
basati sull’idea di giustizia sociale, quindi di valori e diritti fondamentali
delle persone incomprimibili dai sovrani e dall’economia, ha dovuto far ricorso
a livelli vari di violenza politica, per costringere la gente ad adattarsi ai
nuovi comandi. Anche la dottrina sociale della nostra fede non ha fatto
eccezione. I livelli più intensi di violenza politica a fini di giustizia
sociale furono senz’altro espressi dal comunismo sovietico. Ma anche la
legislazione sociale democratica è stata presidiata sia dal potere giudiziario
che da quello amministrativo, anche con misure coercitive. La legge, anche in
un regime democratico sociale, è tale se ci sono autorità che riescono a
farla rispettare.
Se noi guardiamo all’esperienza
politica sovietica, ci rendiamo conto che la rivoluzione che essa espresse fu
violenta all’origine, e quindi fu attuata anche mediante la soppressione
e incarceramento di avversari ideologici, comprese persone che appartenevano ad
diversi filoni del socialismo rivoluzionario, ma che la violenza politica, con
assassinii su larga scala intesi addirittura come decimazioni di
etnie che si ritenevano resistere al potere centrale organizzato dal partito
comunista sovietico, si intensificò nel corso del dominio assoluto espresso da
Giuseppe Stalin, nativo della Georgia, dal 1924
al 1953. Questi assassini politici sono apprezzabili addirittura nelle indagini
demografiche perché portarono a un decremento della popolazione inspiegabile
con altre cause (ad esempio epidemie, guerre ecc.). Fin dall’inizio della
rivoluzione sovietica fu organizzato un sistema di deportazione e di lavoro
forzato dei condannati politici in appositi campi, chiamati Gulag. Esso
rimase in vigore fino al 1987, venendo soppresso durante il dominio politico di
Mikhail Gorbaciov, dal 1985 al 1991, durante il quale il sistema politico
sovietico si dissolse a seguito di processi democratici inaspettati in
Occidente. Durante il dominio politico degli ucraini Nikita Krusciov, dal 1955
al 1964, e Leonida Breznev, molto più lungo, dal 1964 al 1982, lo
sterminio sistematico di coloro che venivano individuati come nemici politici
cessò, ma non cessò la persecuzione politica, amministrativa e giudiziaria,
punendo i dissidenti anche con l’esilio in Occidente e la revoca
della cittadinanza.
Della violenza politica sovietica
fecero le spese molti gruppi sociali, considerati nemici politici, e anche
esponenti di alto livello dello stesso partito comunista. In particolare furono
colpite le Chiese cristiane e i loro fedeli. La manifestazione della fede
cristiana spesso portava all’emarginazione sociale e politica. Nell’Unione
sovietica e in altre nazioni dell’Europa orientale cadute nel suo dominio la
religione non era proibita, ma veniva promossa una propaganda di ateismo: le
religioni e il clero venivano considerati infatti come strumenti di oppressione
della classe operaia e di quella contadina.
Con tutto ciò l’Unione Sovietica
e le nazioni dell’Europa orientale cadute nel suo dominio ebbero Costituzioni
molto avanzate, con affermazione di diritti sociali che nel resto d’Europa
cominciarono ad essere proclamati, in genere, dopo la Seconda guerra mondiale
(se si eccettua la costituzione della repubblica tedesca detta di Weimar,
corrente tra il 1919 e il 1933).
Ecco, ad esempio il catalogo dei diritti
fondamentali contenuto nella Costituzione sovietica del 1936, fatta
approvare da Stalin, quando l’Italia era ancora sotto il dominio del fascismo
mussoliniano:
118. I cittadini dell’URSS hanno diritto
al lavoro, cioè diritto di ricevere un lavoro garantito e retribuito secondo la
quantità e la qualità [delle loro prestazioni].
Il diritto al lavoro è assicurato
dall’organizzazione socialista dell’economia nazionale,
dall’aumento incessante delle forze
produttive della società sovietica, dall’eliminazione della possibilità di
crisi economiche e dalla liquidazione della disoccupazione.
119. I cittadini dell’URSS hanno diritto
al riposo.
Il diritto al riposo è assicurato dalla
riduzione della giornata lavorativa fino a 7 ore per l’immensa maggioranza
degli operai, dall’istituzione di congedi annuali per gli operai e gli
impiegati con mantenimento del salario, e dalla predisposizione di un’ampia rete
di sanatori, case di riposo e club, posta al servizio dei lavoratori.
120. I cittadini dell’URSS hanno diritto
all’assistenza materiale durante la vecchiaia, nonché in caso di malattia e di
perdita della capacità lavorativa.
Questo diritto è assicurato dall’ampio
sviluppo dell’assicurazione sociale degli operai e degli impiegati a carico
dello Stato, dall’assistenza medica gratuita ai lavoratori, e dall’ampia rete
di stazioni di cura messa a disposizione dei lavoratori.
121. I cittadini dell’URSS hanno diritto
alla istruzione. Questo diritto è assicurato dall’istruzione elementare,
generale ed obbligatoria, dal carattere gratuito dell’istruzione,
compresa l’istruzione superiore, da un sistema di borse di studio statali per
l’immensa maggioranza degli studenti delle scuole superiori, dall’insegnamento
scolastico nella lingua materna e dall’organizzazione dell’insegnamento
professionale, tecnico e agronomico gratuito per i lavoratori nelle officine,
nei sovchoz, nelle stazioni di macchine e trattori e nei kolchoz.
122. Alla donna sono accordati nell’URSS
diritti uguali a quelli dell’uomo in tutti i campi della vita economica,
statale, culturale e socio-politica.
La possibilità di esercitare questi
diritti è assicurata dall’attribuzione alla donna dello stesso diritto
dell’uomo al lavoro, alla retribuzione del lavoro, al riposo, all’assicurazione
sociale e all’istruzione; dalla tutela, da parte dello Stato, degli interessi
della madre e del bambino; dalla concessione di congedi di gravidanza alla
donna, con mantenimento del salario, e da un’ampia rete di case di maternità,
di nidi e di giardini d’infanzia.
123. L’uguaglianza giuridica dei
cittadini dell’URSS indipendentemente dalla loro nazionalità e razza, in tutti
i campi della vita economica, statale, culturale e socio-politica, è legge
irrevocabile.
Qualsiasi limitazione diretta o
indiretta dei diritti e, al contrario, qualsiasi attribuzione di privilegi
diretti o indiretti ai cittadini in dipendenza della razza o della nazionalità
alla quale appartengano, così come qualsiasi propaganda di settarismo razziale
o nazionale, ovvero di odio e disprezzo, è punita dalla legge.
124. Allo scopo di assicurare ai
cittadini la libertà di coscienza, la Chiesa nell’URSS è separata dallo Stato e
la scuola dalla Chiesa. La libertà di praticare culti religiosi e la libertà di
propaganda antireligiosa sono riconosciute a tutti i cittadini.
125. In conformità con gli interessi dei
lavoratori e allo scopo di consolidare il regime socialista, ai cittadini
dell’URSS è garantita dalla legge:
a) la libertà di parola;
b) la libertà di stampa;
c) la libertà di riunione e di
comizi;
d) la libertà di cortei e
manifestazioni di strada.
Questi diritti dei cittadini sono
assicurati mettendo a disposizione dei lavoratori e delle loro organizzazioni
le tipografie, le scorte di carta, gli edifici sociali, le strade, i mezzi di
comunicazione e le altre condizioni materiali necessarie per il loro esercizio.
126. In conformità con gli interessi dei
lavoratori e allo scopo di sviluppare l’autonomia organizzativa e l’attività
politica delle masse popolari, è assicurato ai cittadini dell’URSS il diritto
di unirsi in organizzazioni sociali: sindacati, consorzi cooperativi,
organizzazioni della gioventù, organizzazioni sportive e di difesa,
associazioni culturali, tecniche e scientifiche, mentre i cittadini più attivi
e più coscienti provenienti dalle file della classe operaia e da altri strati
di lavoratori si riuniscono nel Partito Comunista (bolscevico) dell’URSS, che è
il reparto d’avanguardia dei lavoratori nella loro lotta per il consolidamento
e lo sviluppo del regime socialista, e che rappresenta il nucleo direttivo di
tutte le organizzazioni dei lavoratori, sia sociali che statali.
127. Ai cittadini dell’URSS è assicurata
l’inviolabilità della persona. Nessuno può essere sottoposto ad arresto se non
in base a sentenza(postanovlenie) di un tribunale o con la conferma del
procuratore.
128. L’inviolabilità del domicilio dei
cittadini e il segreto della corrispondenza epistolare sono tutelati dalla legge.
129. L’URSS accorda il diritto di asilo
ai cittadini stranieri perseguitati per avere difeso gli interessi dei
lavoratori, o per la loro attività scientifica, o per avere partecipato a lotte
di liberazione nazionale.
130. Ogni cittadino dell’URSS è tenuto
ad osservare la Costituzione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste
Sovietiche, ad eseguire le leggi, ad osservare la disciplina del lavoro, a
comportarsi con onestà nei confronti del dovere sociale e a rispettare le
regole della convivenza socialista.
131. Ogni cittadino dell’URSS è tenuto a
salvaguardare e a consolidare la proprietà sociale socialista, come base sacra
e inviolabile del regime sovietico, fonte della ricchezza e della potenza della
patria, fonte di vita agiata e civile per tutti i lavoratori.
Coloro che attentano alla proprietà
sociale, socialista, sono nemici del popolo.
E’ chiaro che, tuttavia, la gran
parte dei diritti di incolumità sociale e libertà rimasero solo proclamazioni
formali nei sistemi sovietici e in quelli che ad essi si ispiravano, perché nei
fatti veniva repressi e negati. Nell’Europa occidentale cominciarono ad essere
proclamati e attuati nel secondo dopoguerra, dopo la caduta dei regimi
nazifascisti. Un esempio di ciò è stata storicamente la Repubblica italiana.
In particolare, nei sistemi
sovietici e di ispirazione sovietica, non era ammessa l’iniziativa economica
privata, se non su minima scala. I regimi comunisti si proponevano di
selezionare i bisogni degni di essere soddisfatti e di soddisfarli con una propria
organizzazione produttiva. In realtà non si riuscì mai a conseguire questo
scopo e la vita nelle nazioni governate da regimi comunisti appariva
significativamente più misera di quella delle popolazioni degli stati
Occidentali. Anche l’arte e la scienza ne risentirono. Il penetrante controllo
politico ne limitò l’efficacia e l’originalità.
L’attuazione dei diritti sociali
fondamentali nell’Europa Occidentale si sviluppò con procedure democratiche dal
secondo dopoguerra, dalla metà degli anni ‘40. Questo consentì di ottenere
risultati importanti con il minor grado di coercizione possibile. Infatti in
democrazia si fa conto sull'adesione volontaria alle decisioni collettive, a
prescindere da sanzioni. La nuova Europa dei nostri tempi, che affratella anche
nazioni che si liberarono dai regimi comunisti a cavallo tra gli anni ’80 e
’90, segue ancora questo metodo. La democrazia comporta che non possano
esistere poteri pubblici o privati illimitati: ogni potere deve averne un altro
che lo limiti e lo controlli. Il problema dei nostri tempi è l’eclissi dei
diritti sociali sotto l’aggressione dei sistemi di potere privati globalizzati,
in grado di condizionare interi stati. Gli stati e le istituzioni
sovranazionali, come l’Unione Europea, non si trovano a dover combattere poteri
che loro esplicitamente si oppongano, ma si trovano a dover soggiacere ad
un sistema economico e sociale al quali essi stessi partecipano, trovandone
risorse per i programmi pubblici. I problemi economici appaiono quindi come
provocati da una sorta di fenomeni naturali, come i terremoti, contro i quali
c’è poco da fare, in particolare per indirizzare a fini sociali, come la nostra
Costituzione ancora prevede, l’iniziativa economica privata, che è libera, ma
anch’essa, in quanto potere privato, ha dei limiti, in particolare nella
sicurezza, libertà e dignità umana e nei programmi e controlli pubblici perché
possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali (così è
scritto nell’art.41 della Costituzione). Possiamo dire che questi obiettivi
siano raggiunti, oggi, in Italia?
Mantenere una via democratica
all’affermazione dei diritti fondamentali sociali nelle società avanzate
Occidentali contemporanee è il grande problema dei nostri tempi.
La dottrina sociale è piena di
proclamazione di grandi diritti sociali, come gli articoli della costituzione
sovietica che ho sopra trascritto, ma renderli vivi tra la gente richiede che
ci si addestri nel metodo democratico, perché è esso che fa funzionare i poteri
pubblici nell’Europa di oggi: non c’è da attendersi da nessun uomo
forte che produca il risultato a cui si mira. I governi, anzi,
appaiono deboli di fronte alle temperie economiche globali che minacciano i
diritti fondamentali della gente. Ecco dunque che devono essere incalzati dalla
gente, appunto con metodo democratico.
E’ quanto siamo invitati a fare
nella Laudato si’:
178. Il dramma di una politica
focalizzata sui risultati immediati, sostenuta anche da popolazioni consumiste,
rende necessario produrre crescita a breve termine. Rispondendo a interessi
elettorali, i governi non si azzardano facilmente a irritare la popolazione con
misure che possano intaccare il livello di consumo o mettere a rischio
investimenti esteri.
179. [… ] Poiché il diritto, a
volte, si dimostra insufficiente a causa della corruzione, si richiede
una decisione politica sotto la pressione della popolazione. La società,
attraverso organismi non governativi e associazioni intermedie, deve obbligare
i governi a sviluppare normative, procedure e controlli più rigorosi. Se i
cittadini non controllano il potere politico - nazionale, regionale e
municipale - neppure è possibile un contrasto dei danni ambientali.
181. […] Occorre dare maggior spazio a
una sana politica, capace di riformare le istituzioni e dotarle di buone pratiche,
che permettano di superare pressioni e inerzie viziose.
Ecco perché la formazione e
soprattutto il tirocinio alla democrazia dovrebbe rientrare in quella alla vita
di fede, in particolare per il laico.
- 20 -
L’illusione dell’«uomo
forte»
C’è
sempre, nell’esperienza sociale, la tentazione di affidare la realizzazione del
bene comune all’azione di un “uomo forte”. C’è in politica, come in
religione e in tutti gli altri campi della vita umana in cui certi risultati
possono ottenersi solo con un lavoro collettivo.
Che cos’è il bene comune? Se ne
sono date molte definizioni. Si parte sempre, però, dall’idea che gli esseri
umani per essere felici dipendono dagli altri. La loro felicità dipende
dall’ambiente in cui sono inseriti. E non basta l’appagamento dei bisogni: è
esperienza comune che anche i ricchi soffrono. Tanto più che nell’era
contemporanea l’economia delle società più ricche sembra dipendere dalla
creazione incessante di nuovi bisogni e, quindi, su un costante loro
inappagamento. E infatti nelle straricche società occidentali l’esperienza
della gioia, del sentimento di appagamento interiore, è rara. Si può concludere
che viviamo in un ambiente sociale che non favorisce la felicità, che è
difficile da raggiungere nonostante ognuno nella propria vita si sforzi di
farlo. Bisognerebbe introdurre delle modifiche, ma trattandosi lavorare su una
società, c'è da fare un lavoro collettivo. Ci siamo però disabituati a
svolgerlo: esso è propriamente la politica. Ognuno tende a fare per sé, a
sviluppare una propria idea di società che gli consentirebbe di essere felice.
Così ci sono moltissime idee di società felici, ma poi la società corre come
abbandonata a sé stessa, perché non ci si riesce a mettere d’accordo su come
modificarla. Bisognerebbe infatti tener conto anche delle aspirazioni alla
felicità altrui. Ma c’è sempre il sospetto che ciascuno voglia fare solo
gli affari propri. E spesso esso risulta fondato. Così manca la fiducia nel
prossimo e quindi la possibilità di svolgere un lavoro comune. E’ difficile
fare unità dalla molteplicità delle nostre vite. E’ in questo momento che sorge
la tentazione dell’ “uomo forte”: una persona a cui affidare tutte le nostre
speranze e che, con autorità non più contestabile, ponga fine alle discordie e
decida una linea. Trattandosi di una persona sola, sia pure con molta autorità,
pensiamo che sia più facile liberarsene, quando non ci andrà più bene.
Nell’immaginazione comune i molti prevalgono sui singoli. Temiamo di più i
molti, per di più anarchici, senza una forza che li tenga a bada e ci protegga
da loro, che la singola autorità personalizzata. Questo però è un grave errore.
Prendendo consapevolezza della storia dell’umanità possiamo facilmente
convincerci che nulla è più stabile, nelle società umane, dei poteri molto
personalizzati, come erano quelli dei monarchi assoluti che dominarono l’Europa
fino al faticoso emergere delle democrazie, dalla fine del Settecento. O come
furono i despoti sovietici che ho ricordato in un post di
due giorni fa: Giuseppe Stalin, Nikita Krusciov, che pure dichiarò
di voler liberare la politica da quello che chiamò il culto della
personalità, Leonida Breznev (del fondatore del comunismo sovietico, Lenin,
non possiamo dire se sarebbe divenuto un despota, perché regnò solo per sette
anni, mentre l’ultimo capo dell’Unione Sovietica, Mikhail Gorbaciov non volle
più essere un despota, ma, a quel punto, il sistema sovietico si dissolse). O,
in Italia, il capo del Governo in epoca fascista, Benito Mussolini, che
chiamammo Duce, il condottiero di un’intera nazione, un padre della
patria, in tutti i sensi il modello a cui noi italiani pensiamo subito quando
parliamo di “uomo forte”. Egli ebbe nelle sue mani l’Italia per un
ventennio. E anche in religione, nella nostra fede, noi facciamo molto conto su
“uomini forti”: le nostre collettività religiose sono infatti organizzati,
almeno formalmente, sotto il potere assoluto di un’unica persona, la cui
autorità è stata storicamente costruita come quella di un imperatore religioso:
questo sistema di governo dura ormai da mille anni.
Nei giorni passati si è
evocata, a proposito dei possibili effetti della riforma costituzionale che tra
poco sarà oggetto di un referendum, l’esperienza politica dispotica del capo di
stato Augusto Pinochet, che dominò il suo popolo dal 1973 al 1990. Ma il
paragone con l’esperienza cilena è improprio ed esagerato, se riferito
all’attuale situazione politica italiana, che si muove ancora saldamente entro
procedure democratiche. Tuttavia, dall’inizio degli anni ’90, di fronte
all’apparente disgregazione e dispersione della politica nazionale, si seguì la
via di personalizzare molto il confronto politico,
creando quelli che vengono definiti partiti personali, quelli che
fanno riferimento ad un preciso capo politico, del quale spesso viene inserito
in nome nel simbolo di partito. I maggiori partiti politici nazionali sono
attualmente organizzati come partiti personali. Se si pensa a quelle formazioni
non viene in mente un preciso programma politico, ma la persona del capo di
riferimento. E’ questo il metodo migliore per capire se un partito è o non
è personale. I capi dei partiti personali reclamano
poi mano libera, e chiedono la fiducia in questo la fiducia di chi li
vota. Così spesso i cittadini elettori sono posti nelle condizioni di coloro
che firmano cambiali completamente in bianco.
Tutti i capi dei partiti personali parlano
di riforme. Quali saranno precisamente? Non lo dicono. Ci
assicurano che ci cambieranno la vita in meglio. Ma come facciamo a valutarne
l’affidabilità senza che ci vengano esposte nel dettaglio? Quando però viene
fatto, emergono tanti problemi e soprattutto ciascuno capisce che, quando ci
viene detto che le riforme sono necessarie ma dolorose,
non è solo agli altri che recheranno dolore. Rimanendo sul vago
questo problema viene superato. Ognuno pensa al bene comune che
ha in mente, e non viene contraddetto dagli aspiranti riformatori, i
quali spesso sono in buona fede perché neppure loro hanno in testa un preciso
progetto di riforme, e può prevedere che il dolore sarà
solo a carico di altri.
E’ stato osservato che la recente
riforma costituzionale riduce di molto il peso del Senato nelle decisioni che
il Parlamento deve prendere in seduta comune, vale a dire riunendo
deputati e senatori e facendoli votare. E questo perché il Senato passa da
trecentoquindici membri, oltre ai senatori a vita (gli ex presidenti della
Repubblica) e quelli di nomina presidenziale (per aver “illustrato” la Patria),
a cento membri, compresi nomina presidenziale, oltre ai senatori a vita (gli ex
presidenti della Repubblica). Tenendo conto che il sistema elettorale per la
Camera di deputati assegna al partito che riesca a conseguire
il 40% dei voti validi degli elettori o riesca a vincere il ballottaggio tra
i due più forti partiti di minoranza una solida maggioranza assoluta, e tenuto
conto dell’analogo effetto che viene prodotto dai sistemi elettorali regionali
e comunali e dunque sulla composizione dei consigli regionali (che, secondo la
riforma costituzionale, nomineranno i senatori) e sulla scelta dei sindaci (tra
i quali verranno scelti alcuni senatori), possiamo prevedere che probabilmente,
quando il Parlamento deciderà in seduta comune, il partito che esprime il
Governo avrà la possibilità di far approvare le sue scelte. Il Parlamento,
secondo la riforma costituzionale, nominerò in seduta comune il
Presidente della Repubblica e un terzo (otto membri) dei componenti del
Consiglio superiore della magistratura. Poiché può prevedersi che, nell’attuale
scenario politico, i partiti che avranno la possibilità di vincere le
elezioni politiche saranno partiti personali, ecco che si può
temere che il capo del partito personale vincitore
avrà la possibilità di far approvare le sue scelte personali in
materia. Dunque che la più importante istituzione di garanzia costituzionale,
la Presidenza della Repubblica, finisca ad essere assegnato a persona di
fiducia del capo del partito personale. E che l’influenza del medesimo
capo politico sulla magistratura, dalla quale dipende l’attuazione dei diritti
dei cittadini, in modo che non rimangano solo sulla carta come begli enunciati
formali, aumenti di molto rispetto alla situazione attuale, incidendo
sull’indipendenza dei giudicanti dal potere di governo. Anche sotto questo
profilo la riforma costituzionale va verso un maggior potere personale di
governo. Del resto è proprio questa la soluzione che i capi politici
contemporanei propongo in Italia: un potere personale, di un uomo forte
(i capi personali dei maggiori partiti politici sono
attualmente uomini), per superare lo stallo che in politica è determinato che
non ci si riesce a mettere d’accordo, quindi dal fatto che, in definitiva, la
gente non sa più fare politica. Infatti la politica non è fatta
solo di chiacchiere, in cui ognuno dice la propria e
rimane della propria opinione, che risulta poi incomponibile con quella degli
altri, ma si costruisce sul dialogo, che significa tener
conto anche delle ragioni degli altri e proporsi di arrivare ad un’intesa.
Dal dialogo poi scaturiscono decisioni condivise.
Un’ultima considerazione:
gli uomini forti degradano rapidamente. Un potere
senza sufficienti e autorevoli contrappesi, innanzi tutto nella politica
democratica espressa dalla base dei cittadini, tende all’abuso e all’eccesso.
Per ricordare l’esempio sovietico, viene riferito che Leonida Breznev, il
quale dominò un immenso impero socialista per circa un
ventennio, sviluppò una passione personale per le automobili più costose
prodotte in Occidente, che amava guidare personalmente: ne aveva una vasta
collezione e, personalmente, non vi trovava alcuna contraddizione con gli
ideali socialisti proclamati. E’ questa una dinamica che si riscontra, in
genere, nella gran parte degli uomini forti, papi compresi (se si
eccettua quelli, molto più sobri in questo, degli ultimi due secoli).
L’orgoglio di uomo forte grida veramente sfacciato,
ad esempio, dal frontone del grande chiesone vaticano. Leggere per
credere. Dice sostanzialmente: "L'ho fatto io!".
- 21-
Come bambini
Diventare come bambini?
Non in tutto è bene proporselo.
E’ scritto anche che quando si è
bambini si ragiona da bambini, ma quando si è adulti…
In particolare: negli affari di
stato è un atteggiamento giusto ragionare e agire come bambini?
Perché educare la
gente se poi, ad esempio in politica, deve tornare bambina?
L’anti-politica, che poi
sarebbe meglio chiamare non-politica, si basa proprio su questo
rimbambimento della gente, per cui ci si decide senza tanto pensarci su, per
ripicca, per contrapposizione superficiale, e, soprattutto, in opposizione
ai grandi.
Che succederebbe se ai bambini
riuscisse di controllare i grandi? Proverebbero a farlo, poi però,
non sapendo che fare senza di loro, e vedendo rapidamente degradare l’ambiente
intorno, li riporterebbero al potere. Un bambino fatalmente dipende dai grandi,
proprio perché è bambino e ha dei limiti. Può anche giocare a fare l’adulto
e allora questo è un modo di imparare a crescere, ma se tutto fosse affidato a
lui andrebbe rapidamente in malora.
Il principale problema politico
oggi in Italia è che molta gente, nelle questioni di stato, ragioni e agisca da
bambina. La pratica della rete telematica, i rapporti via WEB, incoraggia a
farlo. Sul WEB una persona si può sentire onnipotente, come nei videogiochi.
Toccando l’icona “CANCELLA” si può ripartire da
capo. E’ più facile seguire la corrente e non c’è tanto bisogno di
studiare sui problemi. Può sembrare strano, ma la vita sul WEB induce molto
conformismo: si tende a fare come gli altri. Del resto non c’è tempo per
riflettere. Le decisioni devono essere immediate: “SI’” o “NO”. Si sa subito
chi ha vinto. E ricomincia la partita.
Bisogna però considerare che
certe decisioni politiche sono difficilmente reversibili. Una scelta sbagliata
può peggiorare la vita di un popolo molto rapidamente e molto a lungo. In
particolare questo accade quando si modificano i principi fondamentali che
reggono la struttura degli stati, quelli contenuti nelle costituzioni. E’
appunto quello che sta per accadere in Italia, in una data che non si sa ancora
quando sarà ma che sarà a breve, entro il prossimo dicembre. Quando voteremo al
referendum sulla recente riforma costituzionale.
I fautori della riforma dicono
che essa non riguarda diritti e doveri delle persone, ma solo l’organizzazione
dei principali organi dello stato. Essa tuttavia può potenzialmente incidere su
quei diritti e doveri, perché, riformando Parlamento, Presidenza della
Repubblica e Corte Costituzionale, incide sugli organi ai quali compete
la formulazione e tutela dei principi costituzionali. Se si mettono
questi tre organi costituzionali potenzialmente nelle mani di una minoranza,
nella specie del maggiore dei partiti di minoranza, e questo potrebbe essere
l’effetto della riforma costituzionale combinata con quella precedente del
sistema elettorale della Camera dei deputati, tutta la
Costituzione potrebbe rapidamente cambiare, anche nei principi fondamentali, ad
esempio nel principio di uguaglianza e nel diritto al lavoro e alla salute,
e nel breve periodo non ci si potrebbe fare nulla. Non c’è un tasto “CANCELLA”
in queste cose.
In precedenti interventi ho
analizzato la riforma costituzionale sotto vari aspetti.
Voglio qui segnalare che essa,
come detto, riguarda anche la Corte Costituzionale. Attualmente un terzo dei
suoi membri, cinque, vengono eletti dal Parlamento in seduta comune.
Anche dopo la riforma in alcuni casi le Camere decideranno in seduta comune:
per la nomina del Presidente della Repubblica e per la nomina di otto membri
del Consiglio superiore della magistratura, l’organo che è alla base
dell’indipendenza dei giudici da ogni altro potere dello stato e, quindi,
dell’indipendenza della giurisdizione dall’influsso degli altri poteri. In
questa sede il nuovo Senato conterà molto meno perché avrà due terzi di membri
in meno. Possiamo immaginare, quindi che la decisione del partito di
minoranza relativa, quello che secondo la nuova legge elettorale per la Camera
dei deputati avrà vinto le elezioni, e lo si saprà subito,
conseguendo la maggioranza assoluta dei deputati,
conterà molto di più in quelle decisione.
Per quanto riguarda la scelta dei
giudici costituzionali, invece, il Senato, quel Senato piuttosto depotenziato
che uscirà della riforma, scaturito da una classe politica locale in genere
controllata dai partiti egemoni a livello nazionale, conterà invece molto di
più. Pur avendo un sesto dei membri rispetto a quelli della Camera dei
deputati, nominerà due giudici costituzionali su cinque. Perché? Non è ben
chiaro la ragione di questa scelta, che potenzialmente può pesantemente
incidere sulla giurisprudenza della Corte Costituzionale e quindi
sull’attuazione dei diritti della gente.
Possono immaginarsi tre
scenari.
Il primo: sfruttando le
possibilità offerte dai sistemi maggioritari vigenti per le elezioni regionali
e comunali un partito riesce a controllare la maggioranza delle Regioni. A quel
punto esso controllerà anche la nomina dei due giudici costituzionali da parte
del Senato. Ma, poiché la nomina di quei giudici si farà in molto meno senatori
di oggi, sarà più facile controllarla. Controllare i novantacinque persone,
quanti saranno i nuovi senatori nominati dai consiglieri regionali, sarà più
facile che controllarne trecentoquindici, quanti sono oggi i senatori. Ma,
soprattutto, poiché la carica di senatore dipenderà da quella come consigliere
regionale e sindaco, sarà più facile controllare i senatori con la minaccia di
provocare in sede locale una crisi politica che porti alla decadenza anche dalla
carica in Senato.
Il secondo: per le procedure di
nomina dei senatori, che con la riforma non saranno più contestuali con quelle
dei deputati, in quanto il nuovo Senato si rinnoverà parzialmente ad ogni
elezione regionale, ci potrebbe essere una marcata divergenza politica tra
Camera dei deputati e nuovo Senato. In questo caso la nomina dei giudici
costituzionali fatta dal Senato potrebbe essere fatta dalla maggioranza di
controllo del Senato per organizzare una resistenza contro la maggioranza che controlla
la Camera di deputati. Questo inciderebbe sull’unitarietà e sullo spirito di
collaborazione nel collegio dei giudici costituzionali. Potrebbero essere molto
di più di oggi le decisioni prese con esigue maggioranze.
Il terzo: il Senato potrebbe cadere
in mano a politiche centrate su particolarismi locali, secondo i quali ad
esempio che ogni Regione debba fare da sé, con le proprie risorse, senza poter
contare sulla solidarietà delle Regioni più ricche. In questo caso questa
tendenza si rifletterà sulla giurisprudenza costituzionale attraverso i membri
nominati dal Senato.
I riformatori costituzionali sono
ben consapevoli di quei problemi, come anche degli altri che nei precedenti
interventi ho segnalato. Ritengono che, comunque, si debba procedere perché una
riforma imperfetta è pur sempre meglio che nessuna
riforma. Questo però non è condivisibile, trattandosi di una riforma costituzionale.
Come tale essa sarà difficilmente reversibile e potrebbe produrre, sotto
l’azione di minoranze spregiudicate favorite dai sistemi elettorali
maggioritari vigenti per le elezioni nazionali e locali, ulteriori importanti
effetti sul sistema dei diritti e doveri dei cittadini: del resto è proprio a
questo che si punta, quando si dice che la riforma costituzionale aprirà la
strada alle riforme. Di queste ultime si sa poco, perché chi
ne parla non fornisce di solito particolari. Di solito quelle recenti sono
state dolorose per le masse dei lavoratori: hanno ridotto le
prestazioni di stato sociale. E’ stato osservato che,
paradossalmente, le prestazioni di stato sociale, l’intervento dello stato a
sostegno di componenti della società in difficoltà, sono state mantenute, e
incrementate solo per i ceti più ricchi. Il principio “Meno
tasse!” e il sostegno alle banche ne sono stati
espressione.
Una riforma imperfetta, che è tale fin dall'inizio,
che nasce imperfetta, funzionerà in maniera imperfetta. Essendo
una riforma costituzionale essa influirà sul complessivo funzionamento dello
stato, rendendolo imperfetto. La sua imperfezione renderà
difficile correggerla, perché le riforme della riforma
imperfetta dovranno farsi proprio con le procedure
costituzionali della riforma imperfetta che ci si
propone di riformare.
Le riforme costituzionali devono essere fatte bene, molto bene, fin
dall'inizio, pena grossi guai.
Come funzionerà una riforma imperfetta? A volte è difficile
prevederlo. Proprio la sua imperfezione la rende
imprevedibile. Alcuni costituzionalisti pronosticano gravi problemi di
coordinamento tra le istituzioni di vertice. Hanno osservato, ad esempio, che,
al posto dell'unica procedura per fare le leggi, dopo la riforma ce ne saranno
una decina.
Bisogna anche tener presente che
non è vero che il sistema costituzionale attualmente vigente abbia impedito
riforme, anche costituzionali. Gli anni ’90 e il primo decennio del nuovo
millennio, ad esempio, sono stati epoche di intense riforma. Tra l’altro anche
la riforma costituzionale attualmente in questione è stata approvata dal
Parlamento com’è oggi. Quello che in genere si è riusciti a impedire è la
prevaricazione di maggioranze risicate ma intraprendenti. Nel nuovo sistema,
tutto rischia addirittura di essere posto nelle mani della maggiore tra le
minoranze politiche.
La riforma costituzionale in
questione cambia una parte significativa della Costituzione vigente e tratta
quindi molte materie. Studiare i problemi costa tempo e fatica. E la decisione
con un “SI’” o un “NO” non rende le cose più semplici, anzi. Tende a ridurre
tutto a qualcosa come un videogioco. E genera la tendenza a decidersi sulla
base della fiducia che si ha in uno dei capi dei partiti personali di
oggi.
La riforma è stata approvata su
impulso dell’attuale Governo e allora si potrebbe pensare di avere un’idea dei
suoi effetti tenendo conto del programma politico del suo attuale capo. Ma, una
volta approvata la riforma, non è sicuro che sarà proprio lui a beneficiarne. E
le statistiche, infatti, segnalano che il suo partito, se si votasse oggi per
l’elezione dei deputati, non vincerebbe le elezioni. Sarà la maggiore delle
minoranze, anzi il maggiore dei partiti di
minoranza, a controllare la Camera dei deputati e, probabilmente, prima o
poi, man mano che lo si rinnoverà di elezione regionale in elezione regionale,
anche il Senato.
Se i bambini potessero scegliere,
quali grandi vorrebbero avere per genitori? Se glielo si
chiede, in genere, pensano che i loro attuali genitori siano i migliori per
loro. I bambini in genere sono piuttosto conservatori. Oppure, se in un certo
momento sono in urto con i genitori, magari dicono di volere come genitori
dei grandi che li assecondino in tutto. Ma non sempre,
in realtà, i genitori che hanno sono i migliori che si possano pensare per loro
e sicuramente un genitore che assecondi in tutti i suoi figli da bambini non è
un buon genitore. Per i bambini la capacità realistica di giudizio
sui grandi e poi l'acquisizione della piena
cittadinanza, sviluppando la medesima capacità di giudizio, sono conquiste
culturali che dovrebbero raggiungere crescendo, all’interno di un processo
educativo. Alla fine non ragionano più come bambini. Perché il ragionamento dei
bambini è imperfetto, insufficiente.
Com’è che gli adulti, talvolta,
di fronte a scelte cruciali per la vita della nazione, sembrano ragionare come
bambini? Si può pensare che non si sia curata sufficientemente la loro
formazione politica permanente, per cui poi essi si siano lasciati andare, o
siano regrediti, si siano lasciati trascinare dalla corrente, abbiano
dimenticato l’educazione civica ricevuta a scuola, e in definitiva ora non
sappiano più fare altro che ragionare e comportarsi come i bambini.
Del resto, lo vediamo in
parrocchia: quando mai nella formazione religiosa, che dovrebbe comprendere
anche la consapevolezza e la pratica dei principi della dottrina sociale, si è
trattato del modo in cui si deve fare il cittadino in una nazione democratica
come la nostra, in cui il voto è decisivo per imprimere svolte alla vita
pubblica? I cattolici hanno dato un grandissimo contributo alla costruzione
della Repubblica democratica e li troviamo anche tra gli ideatori dell’attuale
riforma costituzionale. Il problema però non è nelle classi colte, negli
elementi di punta dei cattolici italiani, ma nelle masse cattoliche, quelle
stesse che, negli anni Venti del secolo scorso, assecondarono l’avvento del
fascismo mussoliniano.
L’Azione Cattolica, in ACR, sta
svolgendo un progetto di formazione alla politica fin dai bambini più piccoli.
Possiamo immaginare che tra una decina d’anni avremo adulti di fede più
consapevoli e maturi. Ma è oggi che, per certi versi, si
decide il loro futuro. Vivranno infatti nello stato che scaturirà dal prossimo
referendum costituzionale.
- 22 -
Non un referendum sulla Costituzione, ma solo su una legge di revisione
costituzionale
L’altro giorno il
card. Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha
invitato gli italiani a informarsi personalmente in merito al prossimo referendum
sulla Costituzione. Avverto però che quello del prossimo 4 dicembre non
sarà, in realtà, un referendum sulla Costituzione, ma solo su una
legge di revisione costituzionale che, benché piuttosto estesa, comunque lascia
immutata la gran parte del testo costituzionale. I diritti e di doveri dei
cittadini nei rapporti civili, etico sociali, economici, politici non
vengono mutati. Non cambieranno il principio di eguaglianza tra i
cittadini e il riconoscimento dei diritti inviolabili degli esseri umani.
Tuttavia è vero che, incidendo sulla struttura e il funzionamento del Parlamento,
sulla nomina e poteri del Presidente della Repubblica e sulla nomina dei
giudici della Corte Costituzionale, vale a dire sugli organi di vertice della
Repubblica nelle cui mani è affidata l’intera Costituzione, la riforma è
suscettibile di avere riflessi importanti anche sulle parti non formalmente
modificate. La Costituzione potrebbe cambiare rapidamente anche in quelle
parti, sotto l’impulso di un processo riformatore del
governo che è la principale finalità che si propongono i fautori della riforma.
Infatti la riforma costituzionale è presentata come il passo necessario per
arrivare a riforme in grado di risolvere i problemi italiani.
Quali saranno queste riforme non si sa bene, i riformatori sono
piuttosto vaghi e, soprattutto, volubili in merito. Ecco che, ad esempio, solo
qualche settimana fa, nell’emozione del terremoto dell’Italia centrale,
pensavano di avviare un programma di messa in sicurezza dal punto di vista
sismico di tutti gli edifici sul territorio, che richiederebbe ingentissime risorse
pubbliche, e ieri invece hanno rispolverato il progetto di un ponte sospeso
sullo stretto di Messina, che si presenta anch’esso costosissimo: questo mentre
il Governo si dibatte tra gravi difficoltà di bilancio, non avendo di che
finanziare progetti molto meno costosi e addirittura l’ordinario, come le
pensioni e la sanità, e proponendosi, per di più, di ridurre le tasse.
Nei post dal 29
luglio scorso ho analizzato nel dettaglio la riforma costituzionale oggetto del
referendum. Essa è fortemente controversa tra i partiti politici. E’ stata
ideata e approvata sotto l’impulso dell’attuale Governo, che ne ha fatto uno
dei principali punti del suo programma. L’approvazione della riforma, come
notato da diversi commentatori, ha visto delle forzature, nella specie delle
restrizioni, del dibattito parlamentare mediante procedure di eliminazione
degli emendamenti. Si è proceduto, insomma, a tappe forzate. E di questa
fretta, inusuale in un dibattito su una riforma costituzionale, per di più così
estesa come l’attuale, si è anche data la colpa all’«Europa», presentando la
riforma come qualcosa che ci veniva chiesta in sede europea. In realtà non è
così. La riforma è integralmente un prodotto nazionale. E’ patrocinata
dall’attuale Governo perché rafforzerebbe la posizione del Governo nel quadro
costituzionale. E questo in particolare per l’effetto di un’altra riforma,
attuata con legge ordinaria, quella sul sistema elettorale per la Camera dei
deputati. Quest’ultima mette la maggioranza assoluta della Camera dei deputati
nelle mani del maggiore dei partiti di minoranza, anche se piuttosto piccolo:
poiché gli attuali maggiori partiti sono partiti personali,
vale a dire egemonizzati da una singola figura politica, ciò significa mettere
la Camera dei deputati nelle mani di quella singola persona egemone. E la
riforma Costituzionale assegna alla competenza esclusiva della Camera dei
deputati le materie che si fanno rientrare in quelle da riformare,
l’ambito della cosiddette future riforme. Va anche detto che
la maggioranza assoluta assegnata dalla nuova legge elettorale della Camera dei
deputati al maggiore dei partiti di minoranza è piuttosto prossima ai due terzi
dei componenti: basterebbe al partito favorito ottenere l’alleanza con una
formazione minore per raggiungerla. A quel punto, veramente, l’intera
Costituzione sarebbe nelle mani della maggioranza politica egemonizzata da un
partito personale e, in definitiva, dalla persona egemone.
Purtroppo la nuova legge
elettorale per la Camera dei deputati non è oggetto del prossimo
referendum. In questi giorni molti vorrebbero cambiarla: come non si sa bene.
Di fatto gli effetti della riforma costituzionale dipenderanno molto da che
tipo di legge elettorale sarà in vigore per l’elezione della Camera dei
deputati. Vigente quella approvata recentemente, gli effetti saranno quelli che
ho sopra ricordato. Però essi potrebbero cambiare se mutasse il sistema
elettorale per la Camera dei deputati. Si ha quindi il paradosso di una riforma
costituzionale i cui effetti dipenderanno da una legge ordinaria. Questo non
dovrebbe mai avvenire. E’ un segno della frettolosa e non sufficientemente
meditata stesura della riforma costituzionale, che anche in altre parti, come
ho ricordato nei precedenti post, reca le tracce evidenti di una
tecnica legislativa insufficiente. Trattandosi di materia costituzionale
sarebbe stato meglio rifletterci in modo più approfondito: ma è appunto il
tempo per farlo che è mancato a causa delle strozzature del dibattito
parlamentare, della fretta di fare quello che ci chiedeva l’Europa.
Salvo poi scoprire che nessuna istituzione europea ha mai chiesto all’Italia
ciò che si è voluto realizzare.
Informarsi sulla riforma richiede
tempo e una certa fatica. Incide su una materia molto estesa e piuttosto
tecnica. Sulla struttura del Parlamento, sui poteri parlamentari, su quelli del
Governo e della Presidenza della Repubblica, sul bilanciamento di poteri tra
Stato e Regioni.
Nei giorni passati si è dibattuto
aspramente sul testo del quesito referendario sul quale dovremmo esprimerci con
un “Si’” o con un “No”. Esso riporta il titolo della
legge di riforma, che, a sua volta, richiama gli scopi dei riformatori. In
particolare fa riferimento alla riduzione dei costi del funzionamento delle
istituzioni: i contrari alla riforma pensano che la gente, leggendo questo, sia
spinta emotivamente a confermare la riforma. E potrebbe essere così, visto il
generale discredito di molte nostre istituzioni e, in particolare, della
“politica”. Ma non ci si può fare nulla, se non aiutare la gente a informarsi
meglio. E’ vero che viene ridotto il numero dei parlamentari, ma questo
rafforza la posizione del Governo a scapito del Parlamento. Ci conviene? I
costi della politica risulteranno ridotti, ma di quanto? I calcoli che si fanno
realisticamente indicano un risparmio piuttosto modesto, perché, in
particolare, il Senato, con palazzi e dipendenti, non sarà abolito, e le
Province lo saranno ma saranno sostituite da organizzazioni analoghe, le Città
metropolitane.
Il Consiglio Nazionale
dell’Economia e del Lavoro, con i suoi sessantacinque membri, sarà
effettivamente abolito, con un risparmio, ho letto, di circa otto milioni di
euro all’anno. Doveva consentire alla categorie produttive, alle forze del
lavoro, di contribuire all’elaborazione della legislazione economica e sociale.
Di fatto il suo contributo è stato sempre insufficiente. Perché?
Fondamentalmente perché la legislazione economica e sociale è stata sempre
monopolizzata dal partito di governo. Ma anche perché i suoi membri, in
maggioranza scelti tra le categorie produttive non hanno dimostrato una
sufficiente autonomia rispetto alle forze politiche e sindacali nazionali.
Abolire il CNEL comporterà un risparmio, ma verrà anche meno una importante,
anche se mai veramente colta, opportunità per le forze produttive di incidere
sulla politica nazionale.
Spenderemo un po’ di meno, per
Parlamento, autonomie locali e CNEL, ma avremo anche di meno. Un Senato e Città
metropolitane composti da membri a mezzo servizio, non più eletti dai cittadini.
Si ridurrà il ceto politico rappresentativo dei cittadini a vantaggio del
Governo, che verosimilmente sarà espresso da uno dei partiti personali che
vanno per la maggiore. Si ridurranno le occasione per partecipare a determinare
la politica nazionale.
Un’ultima notazione. Si dice che
con la nuova legge elettorale per la Camera dei deputati si saprà subito chi
ha vinto. Però scoprirlo potrebbe non essere tanto bello.
L’attuale Governo, ad esempio,
pensa di beneficiare della riforma costituzionale e di essere il Governo che,
dopo la riforma, procederà alle successive riforme.
Tuttavia i sondaggi demoscopici non confermano questa previsione. Così,
non potendosi prevedere realisticamente chi gestirà le riforme,
non è possibile nemmeno avere un’idea di come esse saranno. E questa
incertezza riguarda anche materie molto importanti. Infatti il capo di uno
degli attuali partiti personali che risultasse egemone in
politica grazie agli effetti combinati della riforma costituzionale e di quella
per l’elezione della Camera dei deputati avrebbe la concreta possibilità di
cambiare rapidamente il volto della Repubblica, senza che i cittadini possano
fare granché. E’ appunto ciò che la Costituzione approvata nel 1947 intendeva
evitare, essendo all'epoca ancora viva la memoria recente e dolorosa
dell’esperienza politica del fascismo mussoliniano, l’archetipo, il primo e
fondamentale modello, dei partiti politici personali italiani.
- 23 -
Capire la politica
Informarsi sulla legge di revisione
della Costituzione sulla quale voteremo al referendum del prossimo 4 dicembre
richiede di sforzarsi di capire la politica. In Italia le masse delle persone
di fede sono state protagoniste della politica dalla fine del Settecento e,
sotto certi aspetti, lo sono ancora. La differenza rispetto al passato è che lo
sono in modo molto meno consapevole e convinto. Del resto è un problema che
riguarda più in generale la democrazia italiana, come anche quella europea.
Ognuno è spinto nel proprio privato e i capi politici pensano di poter influire
sulla gente, raccogliendone il consenso, non innescando processi collettivi, ma
raggiungendo le persone, ad una ad una, in quei piccoli mondi separati in cui
si sono recluse. Questo impedisce di ragionare insieme sulle cause sociali dei
problemi della gente. Si tratta di un atteggiamento deresponsabilizzante, sia
per i capi politici sia per le masse. E' l'antipolitica, il contrario della
politica: politica è ragionare e programmare insieme agli altri, consapevoli di
vivere in quella che è stata definita recentemente, con un bella immagine, la
"casa comune". Le soluzioni proposte dalla politica ne risentono. Si
cerca di venire incontro al privato della gente, senza tener conto della
coerenza dell’insieme, in particolare della sostenibilità economica delle
misure progettate. Si cerca di sollecitare dai cittadini atteggiamenti
fideistici, insomma l’accettazione di cambiali sociali in bianco. Si propone
come positivo il cambiamento per il cambiamento, come se la direzione del
cambiamento non fosse importante, soprattutto quando si tratta di riformare le
fondamenta dello stato. Si propone una riduzione della classe politica che, a
ben vedere, comporta anche un suo degrado, meno autonomia di giudizio, meno
collegamenti con i cittadini elettori. Si tace che si cerca di ottenere la
coerenza dell’azione di governo sostituendo una classe politica pluralista,
rappresentativa delle varie componenti della società, con una di stretta
osservanza partitica, scelta da capi autoreferenziali. E i maggiori partiti
nazionali sono oggi partiti personali, vale a dire centrati
sulla figura di un capo carismatico, e i loro capi non sono parlamentari. In un
certo senso quello che negli anni ’70 fu una anomalia limitata, una
politica extraparlamentare, oggi è diventata la normalità.
L’eclisse del Parlamento, che è il senso della riforma costituzionale
sulla quale voteremo al prossimo referendum, è la manifestazione di una grave
crisi della politica nazionale, la presa d’atto che non è possibile fondare una
nuova politica democratica, che coinvolga nuovamente la partecipazione
informata, consapevole, responsabile delle masse.
Capire la politica richiede
uno sforzo e, innanzi tutto, la volontà di essere parte dei processi
democratici. Una vita di fede persa dietro fantasie neobibliche e spiritualismi
vari, centrata su neocomunità fortezza timorose di tutto ciò che si muove
intorno a loro nella società e pronte a vedervi l’azione del demonio, non è
l’ambiente giusto. Non basta l’invito autorevole a informarsi
personalmente. Come e dove farlo? Bisogna creare le occasioni
sociali per approfondire questioni che sono tanto rilevanti anche per la vita
di fede. Se non se ne è capaci anche la fede può essere facilmente
strumentalizzata al servizio della politica egemone. Si vorrebbe, secondo la
fede, aiutare gli altri e invece si finisce per respingerli, convinti del
proprio buon diritto di farlo per salvare una qualche propria identità. E
sempre risorge la malattia clericale, che si sviluppa poi nel
clerico-moderatismo, il quale storicamente è stato, in Italia, l’ambiente
favorevole per ogni tendenza politica reazionaria e per lo stesso fascismo
storico. Così il cambiamento per il cambiamento rischia di riproporre un
tremendo passato, che appare nuovo solo perché se ne è
persa la memoria storica.
Mario
Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli