Un
ricordo di Paolo Giuntella
Da universitario frequentai Paolo Giuntella e
i suoi amici, ricavandone una impressione molto forte, che mi ha segnato per
tutta la vita.
Notizie biografiche su Paolo Giuntella possono
aversi sul Web a questo indirizzo:
https://it.wikipedia.org/wiki/Paolo_Giuntella
Di
seguito trascrivo alcun pezzi su di lui, un pezzo suo che ho trovato sul WEB e
un brano della prefazione di Vincenzo Passerini
al libro di Giuntella La fedeltà -
trasgressione e follia per il mondo, Il Margine, 2009, che sto leggendo in questi giorni.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San
Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
IN RICORDO DI PAOLO GIUNTELLA
Un leader per i ragazzi di Zac, della Rete, dell’Ac...
Il viandante della parola
Sognava «un partito progressista liberal promosso anche da cattolici»,
certo che ai cattolici toccasse la missione di tenere insieme riformismo e
profezia
di Marco Damilano
tratto da Europa – martedì 27 maggio 2008
Sulla parete della stanza, interamente coperti da
scatole di sigari, pile di libri, copertine di cd, spuntavano un manifesto di
Benigno Zaccagnini del ’76 («Ha vinto Zac»), una immagine di Gandhi con Chaplin
e la foto di un convegno a Brentonico del 1983, con Pietro Scoppola, Achille
Ardigò e Roberto Ruffilli a parlare di Moro e Bachelet e in piedi lui, il
padrone di casa.
L’ospite che per la prima volta metteva piede nell’antro veniva accolto da uno
spiritual a tutto volume e da Paolo, in apparenza poco intenzionato a metterlo
a suo agio, almeno nei cinque minuti iniziali.
Perché poi da lì partivano discussioni interminabili, serate indimenticabili.
Giovedì 22 maggio Paolo Giuntella si è «accoccolato nel Signore», come amava
dire. Lo si è ricordato come giornalista del Tg1, scrittore, presidente della
Lega democratica di Ardigò, Scoppola, Gorrieri, Gaiotti De Biase, Lipari,
Prodi, fondatore dell’associazione Rosa Bianca... Tutto vero. Ma Paolo è stato
molto altro ancora. Valgono per lui le parole che aveva usato per l’amico
Cesare Martino, sociologo prematuramente scomparso: «Evangelicamente libertario
e anarco- cristiano». Un intellettuale militante, un viandante della parola. Un
nomade irrequieto di dogmi, ideologie, incasellamenti.
Eppure tenacemente attaccato alle sue convinzioni, solido sulle sue radici, un
albero ben piantato sul fiume. Non aveva mai dimenticato la lezione di Mounier:
l’avvenimento sarà il tuo maestro interiore.
I fatti della quotidianità e le persone in carne e ossa, perché «i pensatori si
accorgeranno della fine del mondo un quarto d’ora dopo». I suoi eroi erano due
giornalisti, irregolari come lui: il convertito Gilbert Chesterton, di cui
rivendicava la passione per la birra e i sigari, e Giuseppe Donati, per la
fedeltà sofferta alla Chiesa, perfino nell’amarezza dell’appoggio al fascismo.
Giuntella è stato il personaggio più irruento di una generazione, quella dei
cattolici democratici cresciuti tra gli anni Sessanta e gli Ottanta. I figli e
i nipoti del Concilio, di Lazzati, Dossetti, Montini, segnati per sempre dalla
decapitazione delle intelligenze migliori, Moro, Bachelet, Ruffilli.
Una cultura che non può essere rinchiusa nei confini della Dc o della sinistra dc,
né tantomeno nel recinto più ristretto dei partiti che ne hanno preteso
l’eredità, come la parabola di Paolo dimostra. Una storia poco raccontata: in
libreria e in tv dilagano i cuori neri e i loro omologhi rossi, ma non questi
credenti che rappresentano un bel pezzo del paese, cattolici e
anti-integralisti, movimentisti e istituzionali.
Colpa del silenzio di tanti, colpa del deserto provocato da venti anni di
mortificazione dei laici nella Chiesa.
In questo deserto Giuntella non ha mai smesso di gridare, con mitezza e ironia.
Girava senza sosta l’Italia in lungo e in largo, per parrocchie, associazioni,
comunità.
Viaggi in macchina che potevano durare anche otto ore, con lunghe soste in
trattorie poco frequentate. Lui, autorevole volto del Tg1, si spostava anche
per poche persone. Estraeva dal quadernino valanghe di spunti, provocazioni:
l’ultimo libro, l’ultimo disco jazz, «perché a credere sono rimasti solo i
musicisti», l’ultima litigata...
Disordinato, magnificamente disorganico, spiazzante. Una volta, cambiando le
parole, intonò Bandiera rossa davanti a Veltroni, un po’ imbarazzato. Un vero
leader per i ragazzi di Zac e per quelli della Rete, per i giovani di Azione
cattolica, Agesci, Fuci, Acli, con un credo riassunto nello slogan del cileno
Rodomiro Tomic: «Non esiste il centro tra giustizia e ingiustizia».
Il suo sogno era un «partito progressista “liberal” promosso anche da
cattolici».
Con la certezza che ai cattolici fosse assegnata la missione di tenere insieme
riformismo e profezia, cultura di governo, tensione ideale e sentimento
popolare. E il compito di evitare per la sinistra post-ideologica la fuga in
«una modernizzazione affascinante ma senz’anima, legata a una secolarizzazione
in cui è radicalmente estromessa la questione del senso», come aveva previsto
già nell’87.
Quel partito si chiamava Ulivo e poi Partito democratico. Ma quando il Pd è
finalmente arrivato, Paolo aveva già cambiato passo. La sua buona battaglia si
era spostata sul fronte del pluralismo ecclesiale, la sua più grande preoccupazione.
Ha continuato a lavorare fino all’ultimo, sempre più con l’occhio al mondo, dai
gesuiti salvadoregni trucidati dagli squadroni della morte all’adorata Irlanda
alla comunità congolese di Roma, tutti componenti della sua ideale
Internazionale delle Beatitudini, l’unica in cui si riconoscesse davvero.
E quando vedeva colleghi magari ex gruppettari sgomitare a caccia di posti e
visibilità sorrideva ricordando che il suo libro di formazione era Opinioni di
un clown di Heinrich Boll: il giullare che strappa la maschera al potere, lo
demistifica, lo rende nudo.
Solo lì, nel tramandare di padre in figlio il gomitolo dell’alleluja, il filo
disperso che sembra impossibile acchiappare nella tragica storia degli uomini,
vedeva la possibilità di un cambiamento anche sociale e politico, la speranza
di cieli nuovi e terre nuove, l’attesa che la notte finisca, perché la notte si
fa più scura quando il mattino sta arrivando. Chi ha ascoltato ai suoi funerali
trasformati in una danza della vita le parole dei figli Osea, Tommi e Irene sa
che il tesoro è ben custodito. Nella sua camera aveva appeso tre poster di
Chagall pieni di blu: il blu è stata la prima cosa che ha visto quando è
arrivato lì, di fronte all’Osteria del vecchio d’Israele dove, Paolo ne era
sicuro, sui tavoli di legno portano il vino di Cana, «che è gratis, non sbronza
mai e non fa male».
EDITORIALE
Paolo Giuntella, me lo vedo sghignazzare per il
bordello che è riuscito a mettere in piedi anche al suo funerale
di Ennio Remondino
Chi si fosse trovato sabato 24, attorno all’una e
mezza, bloccato nel traffico lungo viale Mazzini, all’altezza della chiesa di
Cristo Re, sappia che la colpa è stata tutta di Paolo Giuntella. Centinaia e
centinaia di persone sulla scalinata della chiesa, come su di una gradinata a
sentire e partecipare ai canti afro di un gruppo misto di giovani neri e
bianchi che mischiavano inni alla gioia e alla speranza in congolese o inglese
o qualunque lingua a loro piacesse. Festa per Paolo, che se ne stava finalmente
a riposo, liberato dalle sofferenze umane di ieri, sghignazzando certamente per
il bordello che era riuscito a mettere in piedi anche al suo funerale.
Paolo Giuntella, per quelli di voi che ancora guardano
la televisione, era quel buffo signore con farfallina e barba che per una
decina d’anni ci ha raccontato sul Tg1 del Presidente della Repubblica.
Quirinalista, si dice, che poi vuol dire il giornalista incaricato di seguire
il Capo dello Stato in ogni sua visita ufficiale, in Italia o per il Mondo.
Paolo, pur prigioniero dello strettissimo protocollo di rito e sicurezza, è
riuscito sempre e comunque a dirci cosa era accaduto, cosa era stato detto e,
soprattutto, cosa era sottinteso. Ai confini con l’impossibile. Paolo Giuntella
se n’è andato dopo aver combattuto la sua ultima battaglia contro la malattia e
averla persa. Del resto, quella per le cause perse era vocazione di vita per
Paolo.
Contro la povertà, contro il razzismo, contro le discriminazioni,
contro l’ingiustizia sociale, contro l’ipocrisia, contro la menzogna, contro il
carrierismo, contro l’uso privato del bene pubblico della televisione.
Destinato a perdere, a guardarsi oggi attorno. Cattolico democratico, potremmo
chiamarlo. Per chi non lo amava, un “catto-comunista”. Paolo era sicuramente un
uomo di grande fede ed un uomo di radicata, profonda, assoluta convinzione
democratica. Una forza morale che c’è piombata addosso anche sabato, quando ha
taciuto lui, attraverso le parole di preghiera della moglie e dei figli. Una
forza interiore in grado di far paura.
In quelle due ore e mezza di riflessione che Paolo
c’ha regalato ho scoperto un modo pratico e pubblico per misurazione della fede
personale in Dio. Sul volto di chi credeva che Paolo fosse tornato alla Casa
del Padre, persino qualche sorriso o comunque lacrime serene. Le lacrime più
difficili da ingoiare erano quelle di noi che non avevamo la consolazione di
poterlo reincontrare. Fede condivisa, fede smarrita, assenza di fede e, per
assurdo, una fede comune e forte che ha unito tutti quelli che assiepavano la
chiesa. La voglia di stringersi attorno ad una fragile umanità di valore che
dava senso a quel mestiere meraviglioso e assieme di merda che molti di noi
avevano condiviso con Paolo.
Giornalista di razza, si diceva una volta. Certamente
un uomo buono. Un “galantuomo”, verrebbe da chiamarlo, parola ormai vietata per
contratto. Anche occasione per ritrovarli, quei galantuomini che danno ancora
speranza in un’Italia migliore. Carlo Azeglio Ciampi che resta per le oltre due
ore attorno alla bara di Paolo e che esce alla fine, nel saluto quasi
confidenziale di tanti giovani: “Buon giorno signor Presidente”. I due
corazzieri accompagnano la corona di Giorgio Napolitano e ne fanno le veci.
Anche un pezzo di ciò che resta di quel giornalismo di “Servizio pubblico” Rai,
l’orgoglio del Vecchio Tg1, quello di sostanza che meno appare, troppo spesso
evocato e troppo poco praticato.
Un giovanotto, uno scout come era Paolo,
probabilmente, ponendole come preghiera dei fedeli, ha detto alcune cose che mi
hanno colpito. Insegnamenti alla Giuntella, filosofia di vita. Uno: “Su
questioni come povertà, guerra, ingiustizia sociale, non esiste una lettura di
destra, di centro o di sinistra. O si è da una parte o si è dall’altra”.
Assieme, in tempi di nomine Rai, avevamo elaborato un’altra considerazione: “Le
porcate non sono né di destra né di sinistra. Sono semplicemente porcate”. In
chiesa un altro ragazzo, citando l’invocazione evangelica ai cristiani
dell’essere sale e lievito, ha ricordato il paradosso educativo e politico
tipico di Paolo: “L’identità cristiana non può voler dire farsi saliera e
forno”. Anti ideologismo per un’inossidabile idealità.
Paolo Giuntella era molto di più e molto meglio di
quanto io sia capace di raccontare. Io ho perso un amico, un fratello di tante
speranze, obiettivi, di tante illusioni che illuminano la vita. Tutti noi
abbiamo perso un bravo giornalista ed un galantuomo, e non è una sottrazione da
poco.
Qualcosa che avrei voluto dirvi
di Paolo
Giuntella
tratto da
Europa – giovedì 29 maggio 2008
Cari amici, purtroppo non sono potuto
venire. Avevo molto desiderato di partecipare a questo incontro per ragioni
affettive, per rivedere tante persone a cui ho scoperto – pur non vedendoci –
che sono legatissimo nel profondo.
(...) E poi perché credo sia urgente ricollegare tutte le amicizie spirituali,
tutte le energie, per lottare con tenerezza ma tenacia dentro la Chiesa perché
non si chiuda alla riforma incessante evangelica e al mondo esterno.
Ho trovato nell’estratto di un contributo per la Rivista di storia della chiesa
in Italia di mia sorella Maria Cristina, purtroppo arrivatoci postumo, una
frase tratta da una circolare di Giovanni Battista Montini per la giornata fucina
del 1927 che trovo molto, molto attuale, e per me rappresenta anche un
testamento spirituale di Cristina.
Per ricordare Paolo Giuntella a
una settimana dalla morte, ci sembra significativo offrire il testo, inedito,
dell’intervento che avrebbe voluto svolgere a Camaldoli, nello scorso novembre.
Lo avevano invitato la comunità monastica e il gruppo Oggi la Parola, che
raccoglie alcuni suoi amici fin dal tempo dell’Università. Paolo aveva
accettato con entusiasmo, però infine non aveva potuto salire a Camaldoli, ma
solo scrivere questo messaggio. Il convegno si proponeva di essere una ricerca
dei semi di Verità (fra tanta menzogna) nella vita civile, ecclesiale e
quotidiana; e lui aveva voluto inviare affettuose e limpide parole di verità
sui temi dell’amicizia, della sua professione giornalistica, della vita
politica e religiosa, e della sua stessa malattia. Ne emerge una dichiarazione
di amore per tutte le cose belle perché vere, per la cultura, il coraggio e la
sincerità.
Costruire la verità nell’amore: è la testimonianza non solo “spirituale” ma
anche “politica” di Paolo.
(angelo bertani)
Scriveva Montini: «Noi ignoriamo questo mondo che ci
circonda, che cammina a fianco, ma contro la nostra fede e la nostra concezione
della vita. Noi lo ignoriamo perché non lo amiamo come si deve.
Non lo amiamo perché semplicemente non amiamo ».
Noi proponiamo ma Dio dispone. Sono veramente dispiaciuto di non essere con
voi. Vorrei dirvi burlescamente della disavventura che mi è capitata, di cui
sono costretto ad affrontare gli effetti collaterali. Il Gran Cornuto, così io
chiamo il cancro perché va sfottuto, non bisogna esserne prigionieri, si è
ripresentato in un altro sito del mio corpo… io non ho paura di parlare di
queste cose, credo che ormai questo male che ci rende “diversamente sani” – io
mi sento un “diversamente sano”, non un malato – sia talmente diffuso che possa
essere condiviso senza timori. Lo vedo nell’ambulatorio del Gemelli dove faccio
la chemio.
C’è una ressa da metropolitana nelle ore di punta. Il mio amico David Mc
Knight, grandissimo antropologo scozzese della London School of economics,
quando dovette affrontare questa terapia e vide tutta la gente in attesa, con
humour britannico disse: «This is very popular, fantastic».
Quanto al linguaggio della politica, avrei voluto volentieri discutere,
soprattutto sul piano esistenziale, dei cambiamenti avvenuti da quando si era
fucini a oggi, insomma da Aldo Moro a Calderoli per esempio. I media,
soprattutto la tv ma anche i giornali, hanno forse preceduto la
spettacolarizzazione e dunque la banalizzazione del linguaggio della politica,
senza incidere sulla possibilità di raccontare meglio quello che effettivamente
accade, perché hanno preferito la strada dell’audience e delle vendite con
gossip, ricerca di battute brillanti ma spesso piene di nulla o copertura
populista degli interessi costituiti. Questo è accaduto e accade in tutti i
paesi del mondo occidentale e anche in non pochi paesi del secondo e del terzo
mondo.
Anche a causa dell’impoverimento della classe politica.
È sotto gli occhi di tutti quante leadership mondiali abbiano curricula
ridicoli. Frutto dei costi, anche stellari, della politica e della necessità di
comunicazione mediatica a bassa qualità, immediata, per conquistare consensi
solleticando la pancia piuttosto che l’intelligenza degli elettori. I politici,
e soprattutto i primi protagonisti della vera ondata dell’“antipolitica”, a mio
giudizio Lega Nord e Forza Italia, subito intuito la potenza del linguaggio
brutale, sloganistico, di propaganda e provocazione, di quello che io chiamo il
linguaggio preteristituzionale, cioè che prescinde completamente da qualsiasi
riferimento alle istituzioni, allo stato, al bene comune o all’interesse
collettivo.
La cultura istituzionale, la cultura delle regole, la cultura della legalità ,
è sempre più assente – anche per progressiva crassa ignoranza – dal linguaggio
delle tante corporazioni italiane, di tanti settori (forse maggioritari) della
società civile, che non è affatto migliore della società politica, anzi. La
società politica in Italia è l’espressione di questi impulsi primordiali e
quasi dominanti, di questo linguaggio semplificato, banalizzato, lontano da
ogni consapevolezza non dico della complessità ma almeno della interdipendenza
degli stessi interessi costituiti. Dobbiamo smitizzare dunque la società civile
che, purtroppo, non è solo il volontariato, i movimenti per la pace, i
movimenti di nuova cittadinanza, di lotta alle mafie e al pizzo, ma è anche e
forse soprattutto questa altra Italia che attinge la sua “educazione civica” e
valoriale, dai modelli del “Grande Fratello” o dell’“Isola dei famosi”, che
continua nonostante l’azione di questo governo a vantarsi di evadere le tasse
al mercato, nei bar, nelle botteghe, senza pudore.
Ora purtroppo, e non solo in Italia, esiste invece un grave handicap, quasi
strutturale, di comunicazione delle forze politiche democratiche e
progressiste, di settori e personale politico (anche locale) che custodisce pur
nel marasma delle mediazioni obbligate, la cultura e il linguaggio delle regole
e dell’interesse collettivo.
Basta pensare a come questo governo non ha saputo raccontare, persino a me, a
un addetto ai lavori, i benefici della scorsa finanziaria o di quella in
gestazione. Che pure ci sono, e sono strategici.
Quotidiani e tv, anche nei casi migliori e più intellettualmente e
professionalmente onesti, sono quasi sempre al servizio dell’autoreferenzialità
della società politica: dal vizio delle battute, alla ricerca della
provocazione; soprattutto perché la stragrande maggioranza dei politici lancia
messaggi agli alleati o agli avversari. Questo è un difetto tipico italiano. In
altri paesi, Francia, Gran Bretagna, Germania, non esiste, ad esempio, il
pastone politico o la nota quotidiana, e non si inseguono le battutacce
(accade, ma poche volte all’anno) di quel leader o piccolo ras di una
formazioncina politica magari di due senatori che – come i maggiori leader del
resto – senza comparsate tv e senza messaggi vuoi brutali vuoi insinuanti e
intepretabili in modi diversi, non avrebbero alcun ascolto e dunque
metterebbero in crisi la loro stessa presenza.
E i programmi? I programmi sono subalterni alla brutale banalizzazione della
politica, e alla navigazione a vista. Pochi cittadini ne sono informati.
Così diventano essi stessi una finzione, o una spettacolare quanto banalizzata
occasione di performance televisiva.
È anche vero però che in questa situazione il linguaggio arcaico, e forse più
nobile, della prima repubblica, è talmente fuori mercato che impone a tutti un
nuovo lessico popolare (forse come quello super ideologico e didattico degli
anni ’50, ma comprensibile), soprattutto per queste masse di persone che
colgono le istituzioni e la rappresentanza politica solo come “casta”, come
mondo a parte, come potere distante che ammannisce balzelli oppure favori.
A me è capitata casualmente, la fortuna di fare il corrispondente dal Quirinale
con due galantuomini, custodi – spero non solo per l’età – della cultura delle
regole e della Costituzione.
Ciampi fece una precisa scelta di comunicazione politica. Utilizzando, se si
vuole, anche “miti” per noi un po’ superati o ingombranti – Tricolore, Inno di
Mameli, un ritorno di patriottismo tuttavia democratico – ma allo scopo di
ritrovare dei punti di riferimento comuni per gli italiani, che a livello
simbolico superassero le corporazioni, le divisioni per interessi ed egoismi
economici, in una fase delicatissima quando si parlava addirittura di
secessione. E tanto più utile è stata questa retorica democratica – peraltro
sempre accompagnata da una sorta di vera e propria pedagogia democratica con
discorsi anche semplici e volutamente divulgativi sulla Costituzione, sulla
separazione dei poteri, sulla Resistenza, in un periodo di ondata revisionista
come fondamento non retorico ma vitale della democrazia italiana.
A volte, soprattutto nel periodo del governo della Casa della Libertà, ho avuto
difficoltà, pressioni, per edulcorare il pensiero di Ciampi. Con il presidente
invece c’era una specie di patto silenzioso.
Io forzavo un pochino in una certa direzione i suoi interventi cercando però di
conservare l’equilibrio.
Con lui il rapporto – come con Napolitano oggi – è stato ottimo, e
personalmente mi ha salvato tre volte dal rischio dell’epurazione. Perché io
conoscevo il suo vero pensiero, spesso frenato per senso di responsabilità e
lui però si fidava.
Ma la necessità della traduzione, la necessità di resistere alle pressioni e ai
condizionamenti è stata per me una fonte di stress, di ipertensione. Mi è
capitato di difendermi con le parole del presidente: «Il giornalista deve
rispondere alla sua coscienza, e deve conservare la schiena dritta». Tre
episodi per farvi capire. In visita in Marocco il presidente fece un buon
discorso sull’emigrazione. Ricordando il nostro passato di emigranti,
affermando l’eguaglianza di italiani e immigrati nei doveri e nei diritti, e
affermando che la comunità marocchina (per le proporzioni molto cospicue di
immigrati) in Italia aveva il record della legalità e dei comportamenti locali,
nonostante l’immagine negativa derivante dagli stereotipi. Poi disse anche che
l’Europa e l’Italia non avevano gli stessi spazi dell’America per l’accoglienza
e che quindi, in qualche modo, andavano cercate delle regole per governare i
flussi immigratori. Al tg volevano che facessi sentire solo quest’ ultima frase
di Ciampi. Risposi: allora fatevelo da soli a Roma. E inflessibile feci il
pezzo come volevo.
Alla vigilia della grande manifestazione pacifista contro la guerra in Iraq, in
vista a Palermo, chiedo al presidente: «C’è un estremo tentativo a Bagdad del
cardinal Etchegaray, cosa ne pensa?».
Riposta: «Ogni tentativo di scongiurare la guerra è buono». Poi nel servizio
feci vedere Ciampi che andava a parlare con degli studenti che avevano la
bandiera della pace. Berlusconi aveva ordinato ai suoi giornali di riferimento
di non far mai vedere le bandiere della pace. Fui accusato – da Palazzo Chigi e
dalla mia direzione – di aver fatto un “agguato pacifista” a Ciampi e per un
giorno, finché il presidente non ha visto il servizio ed ha detto che era
correttissimo, ho vissuto in terra di nessuno.
Poi la difficoltà di tradurre i rinvii delle leggi, in particolare la Gasparri
sulla tv e quella sulla riforma della giustizia. Ho molto sofferto per la
necessità di ridurre in un minuto e mezzo tutti i rilievi importanti del
presidente, dovendo tenere conto della correttezza e della ascoltabilità e
comprensibilità per il pubblico frettoloso della tv. Spesso ho vissuto drammi
di coscienza e scrupoli di non aver fatto la migliore sintesi dal punto di
vista dell’onestà intellettuale. Ma la consolazione, come mi disse una volta,
agli ottant’anni del cardinal Silvestrini Walter Tocci deputato ds (ora
democratico) romano, era che i miei pezzi erano un’isola in quel tg1, e si capiva
benissimo dove cercavo di andare a parare.
Certo, a volte, rimpiango il giornalismo di cronaca, l’esperienza nei Balcani e
soprattutto in Kosovo, o alla ricerca del lato umano in terremoti o alluvioni,
o persino del lato umoristico della vita attraverso storie e personaggi
strampalati che andavo a cercare. Ma questa esperienza, pur un poco ingessata
e, come dire, istituzionale, è straordinaria proprio dal punto di vista
dell’efficacia del linguaggio politico dei due presidenti, della traduzione
possibilmente onesta, e delle reazioni degli interlocutori politici.
Grazie, spero veramente di esserci il prossimo anno. Un grande abbraccio
soprattutto a quelli che non vedo da troppo tempo.
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Dalla prefazione di Vincenzo Passerini al libro di Giuntella La fedeltà - trasgressione e follia per il mondo, Il Margine, 2009.
Paolo è m orto quando cominciavamo a scrivere insieme
proprio un “racconto” del cattolicesimo democratico in forma di dialogo.
Avevamo abbozzato nel dettaglio l’indice del libro, preparato le domande e le schede. Lui mi aveva
preparato anche un pieno zeppo di “testi
cattolico democratici” suoi. Questi testi restano e, a Dio piacendo, un libro
ne nascerà. Avevamo cominciato dall’inizio. Quell’inizio individuato in maniera
efficace e storicamente ben documentata proprio da suo padre Vittorio Emanuele,
nel volume, pubblicato da Studium nel
1990, La religione amica della
Democrazia. I cattolici democratici del biennio rivoluzionario (1796-1799). Nelle
storie, nelle riflessioni, nelle testimonianze anche drammatiche di quei
cattolici italiani, laici ed ecclesiastici, che avevano cercato di conciliare
cristianesimo e conquiste democratiche della Rivoluzione francese stava l’origine
del cattolicesimo democratico, anche del nome stesso. Come era possibile, essi si erano chiesti, che
parole come libertà, fraternità eguaglianza siano annunciate contro il Vangelo
quando in esso hanno le loro radici?
Quella tremenda domanda, che era anche progetto culturale, ecclesiale,
politico, continua a inquietare i cristiani. E ha inquietato , ma anche
abbellito, tutta la vita di Paolo. In fin dei conti tutto il suo impegno di
giornalista militante, di scrittore, di conferenziere, di apologeta era teso a
questo: tenere viva la testimonianza di coloro che nella vita di ogni giorno,
nelle situazioni più disperate e disumane, ma anche in quelle più ordinarie,
anche nella politica e nelle istituzioni hanno saputo incarnare il Vangelo
della libertà, dell’eguaglianza e della fraternità. Perché altri, tanti altri
(e se possibile noi stessi) facessero altrettanto.