Resoconto
dell’incontro del 5 marzo 2016 con don Luigi Ciotti, in parrocchia.
ll tema è stato Fame e sete di giustizia e il motto L’io
nel noi è cambiamento
La trascrizione integrale dell'intervento
Nota: le parole di don Ciotti
sono state trascritte da fonoregistrazione, ma il testo è non stato rivisto dal
relatore e, a volte, si sono dovute apportare alcune modifiche sintattiche per
trasferirle dal parlato al testo scritto, segnalate inserendole tra parentesi
quadre. In alcuni casi, in cui la fonoregistrazione risultava incomprensibile,
il testo è congetturale e lo si segnala nello stesso modo, ponendo il testo tra
parentesi quadre.
1. L’incontro con don Luigi Ciotti ha introdotto una serie di
cinque altri eventi, del ciclo Immìschiati!,
sulla dottrina sociale della Chiesa, dal marzo al maggio 2016. Si è tenuto
nella chiesa parrocchiale. Don Ciotti è arrivato al termine della Messa
vespertina.
Il parroco don Remo ha introdotto l’incontro,
spiegando che oltre ad essere tanto desiderato era pensato come introduzione al
ciclo di serate sulla dottrina sociale della chiesa programmato nei mesi
successivi.
A fianco di don Ciotti, per il quale è stato
allestito un tavolo davanti all’altare, c’era la giornalista Alessandra che gli
ha fatto domande a nome di tutta la comunità.
La giornalista ha chiesto a don Ciotti di spiegare come aveva deciso di
diventare sacerdote.
L’infanzia
2. DON CIOTTI:
Buonasera a tutti! Rispondo con fatica a una domanda tanto
personale.
Sono un veneto immigrato a Torino per la
ragione di tante altre persone. Mio padre cercava lavoro. Trovò lavoro in
Piemonte, ma non trovò la casa. L’impresa disse che poteva abitare, con sua
moglie e i figli, in una baracca dentro il cantiere. Io da piccolo mi vestivo
con gli abiti della San Vincenzo. Sapete
che cosa vuole dire. La mia famiglia era
molto povera. Vivevamo in una baracca perché non c’erano altre possibilità,
però vi posso garantire che mia madre gli abiti li lavava e li stirava molto
bene. Perché uno può essere povero, ma
dignitosa. E la mia famiglia era dignitosa.
Voi però capite che solo per il fatto di vivere oltre lo steccato di un
cantiere, in un baracca, eri già giudicato. C’è il rischio, ieri come oggi, che
molti si fermino alle apparenze, ti giudicano. [Ti davano delle
etichette]. Però il cambiamento io lo
feci a diciassette anni.
GIORNALISTA: Gli chiede di
raccontare di più della sua infanzia, in particolare della scuola elementare.
DON CIOTTI: Io andavo a scuola,
il primo anno, in prima elementare… Mi madre andò dalla maestra e le disse che
non le era possibile comprarmi il grembiule. Allora c’erano questi grembiuli,
ma c’era poi questo immenso fiocco.
Il cantiere, quindi la baracca di casa, era in
un quartiere ricco di Torino, perché era [nei pressi del] Politecnico. Non è un
giudizio, vi prego, ma un dato di fatto: mia madre andò, in prima elementare,
dalla maestra e le disse «Signora maestra, io non posso
mandare mio figlio a scuola, almeno nel primo mese, con il grembiule e con
questo benedetto fiocco».
[Infatti] aveva dovuto comprare il grembiule e il fiocco alle mie sorelle più
grandi, che andavano alla stessa scuola.
Quindi, quando io sono andato a scuola, mi
sono sentito diverso, perché ero l’unico bambino in tutta la scuola senza il
grembiule e senza il fiocco. E, guardate, che può sembrare una superficialità,
ma anche quello mi mise in difficoltà. Tu [si
rivolge alla giornalista] vuoi sapere, e certamente già lo sai, che cosa è
successo. E’ successo semplicemente che un bambino, a scuola, si sente in
difficoltà.
La maestra aveva detto [a mia madre] «Mi raccomando, signora, tra un mese
suo figlio deve venire, come tutti gli altri bambini, con il grembiule e con il
fiocco».
Dopo venti giorni di scuola, una mattina in
classe i miei compagni, [io ero stato messo al primo banco], rumoreggiano
disturbano, [come fanno i bambini ed ero anch’io un bambino]. Dunque, in prima
elementare, primi giorni di scuola, che succede? La maestra arriva, chissà che
cosa soffriva in quel momento, quali preoccupazioni avesse, io non lo so, ma
oggi credo ancora di più di riuscire a capire. A volte tu hai degli impegni,
hai delle responsabilità, come lei aveva: è entrata tesa e nervosa. I miei compagni, tutta la classe,
disturbavano. E lei non se la prende con i compagni, [ma con me che ero] a
primo banco, senza grembiule, senza fiocco, si mette a gridare, non con quei
bambini che disturbavano, ma verso di me, [io devo aver fatto un gesto], mi
viene spontaneo usare le mani, come per dire «ma che cosa vuoi?».
Lei chissà che cosa ha capito in quel momento della sua fatica. I miei compagni
gridano ancora più forte. [Allora le scappa un’espressione, che mi ha ferito.
Mi grida:] «Ma che cosa vuoi tu
montanaro?». A me, nato a Pieve di Cadore, sulle Dolomiti, oggi patrimonio
dell’umanità dell’UNESCO, che questa mi dica «Che cosa vuoi tu montanaro?», [a
me che già avevo sofferto per essere stato sradicato dalla mia terra]… Io ho
cercato di parlare, i miei compagni continuavano a ridere e scherzare. Ho
sbagliato, ripeto, ho sbagliato, perché ho reagito da bambino. [C’erano quei
calamai di una volta, incastrati nei banchi]. Io ad un certo punto non riesco a
parlare con la maestra, [lei gridava]. Ho preso il calamaio [e ho fatto una
cosa che non dovevo fare, glielo tiro]. Disgrazia vuole che la colpisco in
pieno, con l’inchiostro, immaginate… Fui subito espulso da scuola, in prima
elementare. Una volta chiamavano i bidelli, ricordato? Io quell’uomo non l’ho
più incontrato nella mia vita, per mano mi ha accompagnato: dopo venti giorni
di scuola, in prima elementare, espulso!
Io sentivo di avere sbagliato. E’
chiaro che avevo sbagliato. Anche se dentro di me era stata una difesa
disperata della dignità, della mia gente, della mia famiglia. Mia madre mi
diede una sonora, sonora, lezione. Ancora oggi, a settant’anni, vi posso
garantire che quella lezione non l’ho mai dimenticata, ma credo di dover essere
riconoscente a mia madre. Perché non mi ha fatto sconti. Perché mi ha
insegnato, in un momento difficile, che a qualunque forma di violenza, anche
verbale, non si risponde con la violenza. Ho avuto una punizione forte da mia
madre. Anche se anni dopo, quando ero più grandicello, mi disse: «Luigi, io
avevo capito che tu avevi difeso la dignità, ma tu non dovevi in ogni caso
reagire in quel modo».
Ma il vero problema, sapete che
cosa è stato? Alle 12:30, quando i miei compagni uscirono da scuola, dopo che
ero stato espulso, in prima elementare”, [e dicevano alle madri] «Sai che cosa
è successo oggi a scuola?», «Dimmi cicci»,
«Oggi a scuola è successo che un nostro compagno ha tirato un calamaio alla
maestra», «Ah, povera maestra!». [Nessuno si chiede di quel compagno, del
perché l’abbia fatto]. Seconda tappa: «Lo sai che ha sporcato con l’inchiostro
tutto il vestito della maestra?», «Ah, povero vestito della maestra!». [Certo,
l’avevo colpita in pieno]. Ho fatto una cosa che non dovevo assolutamente fare.
«Come si chiama il tuo compagno?», «Ciotti», «Guai, guai, se ti vedo con quel
compagno!». Io sono diventato, in prima elementare, “il compagno cattivo”, che
abitava nella baracca, dentro quel cantiere, che non andava con l’abito giusto
a scuola perché non poteva. Non era un problema di bambini, era un problema di
adulti, che avevano detto ai bambini, fermandosi all’apparenza, non scavando in
profondità, [di non frequentarmi]. Io poi ho cambiato scuola, perché sono
diventato “il compagno cattivo”.
Alcune ferite nella vita te le
porti dentro, non si cancellano mai. Tu hai sbagliato. Ma ero un bambino
piccolo. Ho reagito come ero capace, con le mie responsabilità, alla fermezza
di una mamma, che, pur avendo capito che c’era una ragione non mi ha fatto sconti
e di questo le sarò sempre profondamente grato.
Sacerdote, parroco della
strada
3.
GIORNALISTA: Gli chiede che cosa è successo nel 1962, quando diventa
sacerdote e la sua parrocchia diventa la strada.
DON CIOTTI: Allora, Il passaggio è questo - ma è la storia di tanti, io, chiedo scusa,
sono una piccola cosa; sono venuto molto volentieri, ma ripeto, sono piccolo,
piccolo, veramente piccolo. Lei mi sollecita, ponendomi queste domande, ma
penso al bagaglio di esperienze, di incredibili speranze, alle cose meravigliose
che voi testimoniate e vivete.
Io, a diciassette anni, ero a
scuola per prendere un diploma in telefonia e telegrafia. Frequentavo poi la
parrocchia, le condizioni della famiglia erano migliorate. Appartenevo
all’Azione Cattolica, che per me è stata un punto di riferimento molto
importante nella mia vita.
Andando a scuola mi aveva colpito
un signora, su una panchina di Torino, passando sul tram, tutti i giorni
andando a scuola. Mi aveva colpito, con tre cappotti addosso, e leggeva sempre
un libro. E poi, con quelle matite blu da una parte e rossa dall’altra, questo
signore, ripiegato su se stesso, su questa panchina, ogni tanto sottolineava
quello che leggeva.
Certo, diciassette anni è un’età
meravigliosa, i soldi, i fermenti, ma anche l’incoscienza, la mia timidezza. Ma
quel signore era sempre lì. Sapete [convegni e dibattiti sui poveri, sulla
giustizia, se ne fanno tanti], anche noi in parrocchia discutevamo dei poveri.
Ma un’altra cosa quando incontri la situazione di una persona, su una panchina,
ripiegata su sé stessa.
E un giorno ho deciso di scendere
dal tram, tornando a casa, mi sono avvicinato a questo signore, sempre solo. La
sua casa era un sacco di quelli di iuta. [Lì con il suo libro]. Sono sceso dal
tram e gli ho detto: “Signore, vuole che le vado a prendere un caffè?”. […] E
quello, zitto. [Allora mi sono sentito in difficoltà]. Allora non gli piacerà
il caffè. “Scusi, vuole che le vada a prendere un tè?”. Perché tu cerchi la
comunicazione. E l’unità di misura dei rapporti umani è la relazione, il dare
parola, è l’ascolto. Chiedendogli se avesse bisogno di qualche cosa, cercavo di
creare una relazione. E lui, zitto. Io ero in difficoltà, non sapevo che cosa
dire. Allora ho pensato: “Sarà sordo!”. Ma quando le macchine all’incrocio
frenavano di colpo, lui alzava la testa e guardava: sentiva benissimo. Testardo
lui, testardo io. Oh, ragazzi, auguro anche a voi una sana testardaggine, sana.
Sana! Quando l’obiettivo è un obiettivo positivo, di bene, di giustizia, non
arrendetevi mai alle prime difficoltà! Se è una cosa giusta, se è una cosa
positiva, se è una cosa bella… E io non l’ho mollato per dodici giorni. E per
dodici giorni gli ho chiesto: “Signore, ha bisogno di qualcosa?”.
Chi era quest’uomo, che ha
cambiato a diciassette anni la mia vita? Questo signore era un medico.
E guardate che nella vita di
tutti può succedere improvvisamente la tempesta. Una tragedia, la morte di una
persona cara, una malattia. Può succedere a tutti qualcosa che ti sconvolge la
vita.
E nella vita di questo medico,
amato da tanta gente nel suo paesone nel nord Italia, un medico buono,
generoso, improvvisamente la tempesta gli travolge la vita e lo porterà con
qualche squilibrio sulla panchina di Torino.
Un giorno questo medico mi dice -
avevamo iniziato a parlare, un ragazzino imbranato come ero io a diciassette
anni, e lui con quel peso, quel fardello, quella sofferenze, che l’avevano
completamente segnato … Io ho settant’anni, ne avevo diciassette, immaginate
quanto indietro andiamo negli anni. Non si parlava di droghe in Italia. Non c’era la parola. Ma lui, medico, aveva
visto che nel bar di fronte, c’erano dei ragazzi che entravano in quel bar, avevano
dei farmaci, prendevano dell’alcol e sballavano in quel modo. Lui se ne era
reso conto, [perché aveva] la competenza. E mi disse: “Vedi, io sono stanco,
sono vecchio, sono malato, dovresti fare qualcosa tu per quei ragazzi lì,
perché si drogano, si fanno del male. L’eroina arriverà anni dopo. Dell’eroina se ne parlò perché a Torvaianica
venne trovata morta Wilma Montesi. Chi di voi ha qualche anno di più ricorda
quella pagina drammatica. Io ero un ragazzino, con la voglia di fare qualche
cosa.
Una mattina, andando a scuola, la
panchina era vuota. Non c’era più. Era morto.
E allora avevo sentito che
quell’incontro non poteva essere uno dei tanti incontri. Perché ci sono degli
incontri nella vita che ti segnano dentro. Ti pongono delle domande. Ti
sollecitano a metterti in gioco.
E quindi ho cominciato così.
Tre anni dopo nasce il Gruppo
Abele, dove io, sono passati cinquant’anni, continuo a vivere. Certo, molte cose sono cambiate, ci sono volti
nuovi, percorsi nuovi, modalità nuove, ma io devo dire grazie a questo signore,
a questo medico, quella sua fragilità e sofferenza, a quell’invito [che sarà
tanto importante per la mia vita]. Io ho cominciato quindi a vent’anni a
mettere insieme dei pezzi. Nasce il Gruppo Abele e sulla strada ho incontrato
ragazzi che vivono nel carcere per i minorenni, ragazzi che vivono nelle case
di rieducazione. Da lì [nascono] le prime comunità alternative alla strada.
E poi: il fatto della
droga. E noi aprimmo a Torino il primo
centro droghe in Italia, autodenunciandoci. Perché la legge stabiliva che se io
ho il problema della droga e vado da te medico, tu medico avevi l’obbligo di
denunciarmi e alla tua denuncia scattava o il carcere o l’ospedale
psichiatrico.
E allora cominciammo quei
percorsi, lentamente, coi ragazzi di strada, con delle ragazze: diventerò
sacerdote anni dopo, c’era già questa storia.
E, a ordinarmi sacerdote, è
arrivato a Torino un vescovo. Era
professore all’Università statale. Era un grande studioso di sant’Agostino. Un
vescovo [che non faceva chiamare] eccellenza
- poi diventerà cardinale - ma, guardate!, già da allora, si faceva
chiamare padre, padre Michele Pellegrino. E quando io ho incontrato per la prima volta papa
Francesco, ad un certo punto, […] Furbo! Perché lui sapeva chi mi aveva
ordinato sacerdote! Ma nella sua carica affettiva, ad un certo punto mi dice “Ma chi è che ti ha ordinato sacerdote?”. Io
gli rispondo “Michele Pellegrino”. E poi mi racconta, che quando i suoi nonni,
in Piemonte, a Portocomaro, provincia di Asti, si erano trovati in un momento
di estrema difficoltà, ad aiutarli era stato un giovane prete di nome Michele
Pellegrino. E sarà Michele Pellegrino - pensate la storia!”, quel giovane prete
che aveva dato una mano ai nonni di quello che sarebbe poi diventato papa
Bergoglio [a ordinarmi]: per me è il massimo di riconoscenza a Dio per avermi
permesso di incontrarli tutti e due nella vita. E quando diventai sacerdote,
c’era già il Gruppo Abele, con questi ragazzi e queste ragazze, la chiesa si
riempì di questo popolo della strada. E Michele Pellegrino guardò questi
ragazzi e queste ragazze e disse: “Io che cosa state pensando. Che adesso
prendo don Luigi e lo mando in una parrocchia. Ma lui è nato con voi, è
cresciuto con voi. Io ve lo lascio! Però affido anche a lui una parrocchia.”
Lui mi ha detto: “La tua parrocchia sarà la strada”. E Michele Pellegrino non mi ha mandato a
insegnare a chi era sulla strada, ma mi ha mandato ad imparare a riconoscere i
volti di Dio a chi ti fa più fatica. E quindi, su mandato del mio vescovo,
condivisi le mie fragilità, ma avevo la gioia di spendermi, di costruire dei
percorsi. Sono passati cinquant’anni, dal Gruppo Abele sono nate tante altre
cose, ma sono riconoscente ai miei genitori, sono riconoscente a Dio che mi ha
permesso, nelle mie fragilità, di vivere delle esperienze che mi hanno aiutato
a spendere poi un po’ della mia vita.
Dall’impegno per i drogati a
quello contro la mafia. “Osare trasformare in sofferenza personale quello che
accade al mondo e così riconoscere quale contributo ciascuno può portare”
4.
GIORNALISTA: Gli chiede che cosa è successo dopo gli omicidi dei
magistrati Giovanni Falcone (Capaci, 1992) e Paolo Borsellino (Palermo, 1992).
CIOTTI: Lei mi ha chiesto che cosa è successo [dopo la fondazione del
Gruppo Abele] dove io continuo a vivere. Guai se mi venisse meno quel
contatto!] Si perde il contatto con la vita delle persone: io continuo a vivere
lì.
Il tema della droga.
Due mesi prima della strage di Capaci
[Comune vicino a Palermo nel cui
territorio, sull’autostrada per Palermo, fu ucciso Giovanni Falcone. Nota
del trascrittore] io mi sono trovato con
Giovanni Falcone a Gorizia, a tenere un corso di formazione per la Polizia di
Stato su tema delle [tossicodipendenze]. Giovanni Falcone, per varie ragioni,
[era stato destinato al Ministero della Giustizia], qui a Roma. E io me lo
ricordo, a questo corso per la Polizia di Stato, a Gorizia, trattava gli
aspetti legislativi, ma non solo, anche la prevenzione, l’educazione,
[l’occuparsi delle famiglie] di questi ragazzi con il problema della droga.
Il giorno della strage di Capaci,
il 23 maggio 1992, io ero in Sicilia a tenere un corso di formazione per gli
insegnanti delle scuole, era un sabato, sul tema di come portare nel mondo
della scuola tutto questo. Cinquantasette giorni dopo, il 18 luglio, e il 19
luglio ci fu la strage di via D’Amelio [in
cui fu ucciso Paolo Borsellino. Nota del trascrittore], io ero a Palermo,
sempre per un lavoro, in questo caso [finanziato] dall’Unione Europea, sulla
scuola, sul tema della droga. Sono dei
segni, nella vita. Io li considero dei segni importanti. [E allora uno si
chiede, c’è il mercato della droga, lo sfruttamento di questi ragazzi, forme di
usura, chi c’è dietro?] Certamente ci sono delle connessioni. E quindi nasce il
desiderio, [dopo quelle stragi di Palermo in cui quei magistrati hanno speso la
loro vita], di prendere coscienza [dove siano le le radici della mafia], che è
nata al sud, ma gli affari li ha fatti al nord.
Primo anniversario della strage
di Capaci. […] Io sono a Palermo e succede un fatto che accelererà questo
percorso. Vicino a me c’era una donna che continuava disperata a piangere. Io
non la conoscevo. Avevo osservato le sue mani. Mani di una donna che certamente
andava in campagna a lavorare la terra.
Vicino a le un’altra donna simile. C’erano tutte le autorità. [Era un
momento solenne in cui si ricordava la morte del giudice Falcone]. Ad un certo
punto questa donna, con due occhi pieni di lacrime, mi punta, io ero
imbarazzato lì vicino, con un filo di voce mi dice: “Ma come mai non dicono il
nome di mio figlio?”. Io ho capito. Perché c’è il rischio, ieri ma anche oggi,
che in tante cerimonie si ricordino i nomi delle persone importanti e poi si senta
dire “Ricordiamo i ragazzi della scorta”.
Ma il primo diritto di ogni persona è di essere chiamata per nome. […]
Quella mamma voleva sentire il nome di suo figlio! Non “I ragazzi della
scorta”! Era la mamma di Antonio Montinaro, che insieme a Rocco Dicillo e a
Vito Schifani, aveva perso la vita per la stessa ragione per cui l’aveva persa
il magistrato. In momenti come quello, ti senti piccolo, disarmato. Mi è nata
l’idea di trovare un giorno per ricordarle tutte, le vittime. Per non lasciare
soli i familiari. Perché la memoria non divenisse retorica, celebrazioni, ma
diventi impegno. E allora ecco il 21 di marzo, il primo giorno di primavera,
quell’interminabile elenco, e ogni anno troviamo situazioni [nuove], sono
tanti, ma dobbiamo ricostruire questi percorsi, non nella retorica, e [ così
abbiamo dato vita, tra il 1994 e il 1995, ad un coordinamento che di 1600
realtà italiane: dall’Azione Cattolica, agli scout dell’AGESCI, al movimento
degli scout europei, a quelli laici
della CNGEI, alla Lega Ambiente, alla Chiesa Valdese… Oggi la Conferenza Episcopale
Italiana si è fatta carico di questo. Milleseicento realtà, insieme. Non dimentichiamo che un sacerdote, don Luigi
Sturzo, che poi darà vita al Partito Popolare, da cui nascerà la Democrazia
Cristiana, nel 1900 disse, lui era un siciliano, di Caltagirone, quindi
conosceva quella realtà, che aveva una passione per quella politica che Paolo
6° definì la più alta ed esigente forma
di carità (perché la politica vera è quella al servizio del bene comune),
don Sturzo disse “La mafia ha i piedi in Sicilia, ma la testa, forse, a Roma”.
Era il 1900. E aggiunse questa drammatica profezia: “Diventerà forte e
disumana, dalla Sicilia risalirà l’intera penisola per portarsi anche al di là
delle Alpi”. Quest’uomo aveva intuito. Non dimentichiamo che poi con don Pino
Puglisi e don Peppino Diana dei sacerdoti non si voltarono dall’altra parte. E
qui voglio ricordare il fenomeno di quegli altri sacerdoti uccisi perché erano
impegnati contro quei crimini: don Giorgio Gennaro, don Costantino Stella, don
Stefano Caronia, uccisi come don Puglisi e don Diana, chi li ricorda? E pensare
che nel 1877 il giornale della diocesi di Palermo, si chiamava La Sicilia Cattolica ed era l’organo
ufficiale della Curia vescovile, denunciava la collusione tra la buona società
e il crimine organizzato. Cito due righe di quel giornale: “Che vale” è scritto
“essere avvocato, sindaco, proprietario, e perfino deputato, se delle loro
proprietà e titoli se ne servono per proteggere il malandrinaggio? Per giungere
ad alcunché di positivo bisogna non transigere con la mafia”. Com’è possibile
che da 400 anni parliamo della camorra, che da 150 anni continuiamo a parlare
di Cosa Nostra (il nome che i mafiosi
hanno dato alla loro organizzazione criminale. Nota del trascrittore), come
è possibile che da 120 anni parliamo della ‘ndrangheta calabrese? Certo che
dobbiamo parlarne e non possiamo dimenticare quanto generosamente si impegnano
nelle forze di polizia, nella magistratura, nelle istituzioni, persone che ci
credono e che ce la mettono tutta. Abbiamo il dovere di far emergere le cose
positive che vengono fatte. E ce ne sono. Il nuovo codice degli appalti che è
stato approvato in questi giorni, anche quello è un passo in avanti. E un passo
in avanti nonostante altre deficienze, ma è un passo in avanti. Bisogna capire
l’importanza delle cose positive. […] Ma come mai corruzione e mafie sono nel
nostro paese due facce della stessa medaglia? E l’altro giorno, quindi non
cento anni fa, il presidente della Corte dei conti, qui a Roma, inaugurando
l’anno giudiziario, ha fatto questo passaggio, che mi fa piacere ripetere, ha
detto: “Crisi economica e corruzione procedono di pari passo, in un circolo
vizioso nel quale o ognuna è causa ed effetto dell’altra”. E’ il presidente
della Corte dei Conti, un uomo di grande valore. E uno dei suoi predecessori,
Tullio Lazzaro, arrivò al punto di affermare: “Il codice penale non basta più,
ci vuole un ritorno all’etica da parte di tutti”. Io non sono nessuno, sono
venuto qui per amicizia e per affetto, ma mi permetto di dire che il cambiamento
ha bisogno di ciascuno. Noi dobbiamo essere il cambiamento. Dobbiamo assumere
sulla nostra pelle una parte di responsabilità. Non si può sempre delegare ad
altri. Certo, ci sono la magistratura, le forze di polizia. Ma qui c’è anche un
impegno che ci chiama ad essere cittadini responsabili. E mi fa piacere che
papa Francesco, nella Laudato Si’ [enciclica del 2015. Nota del trascrittore], in un passaggio
graffiante, scrive: “Bisogna prendere dolorosa coscienza e osare trasformare in
sofferenza personale quello che accade al mondo e così riconoscere quale
contributo ciascuno può portare”. Le parole hanno un loro peso, non possono
entrare di qui e uscire di lì. Papa Francesco ha il suo coraggio, la sua
sofferenza, la sua semplicità. E questo diventa molto importante per tutti. Quando
la dignità, la libertà, la vita delle persone vengono calpestate, noi non
possiamo e non dobbiamo tacere.
La “dolce pedata di Dio” per
non essere cittadini a intermittenza. Essere
credibili, oltre che credenti. Il
silenzio sul male, se ha spiegazioni, non ha giustificazioni.
5. Il Papa invita, proprio nella Laudato si’, a entrare, cito
testualmente, «in una fase di maggiore consapevolezza.»
Io ho due riferimenti, che mi
sono cari. Il Vangelo. Son un cittadino:
il mio secondo riferimento è la Costituzione italiana. Lì ci sono le regole
dell’essere cittadino. La prima forma di legalità è la fedeltà alla nostra
Costituzione. E io continuo a dire che il primo testo antimafia [da applicare]
è la Costituzione italiana.
Quell’art.3, quell’art.3
impressionante!
[Art.3 Cost. -Tutti i cittadini
hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione
di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di
condizioni personali e sociali.
E’ compito della Repubblica rimuovere gli
ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e
l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana
e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica,
economica e sociale del Paese]
Ma anche l’art.4
[art.4 Cost. - La Repubblica
riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che
rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere,
secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione
che concorra al progresso materiale o spirituale della società]
che ci invita a metterci in gioco
per portare il nostro contributo al progresso materiale e spirituale del nostro
Paese.
[…] Oggi come non mai c’è un livello di commistione, mai raggiunta
prima, [con] mafia e corruzione. Ragazzi non dimenticatelo mai! [E’] un sistema
che distrugge il lavoro, la sana impresa, la speranza di tante persone.
Allora la lotta, il Papa parla sempre di lotta, non è solo un problema etico, […] alla corruzione, ai giochi
mafiosi, non è solo un dovere etico, è
una priorità economica. Perché ci
impoverisce tutti la corruzione. Non permette l’impresa sana, crea disordine.
E allora le mafie non sono un mondo a parte. Sono
una parte del nostro mondo. Vivono tra noi. Cambiano insieme a noi. E quindi,
quando qualcuno s’è stupito di Mafia Roma
Capitale [l’inchiesta giudiziaria romana su un fenomeno mafioso originato a
Roma. Nota del trascrittore], io mi sono stupito di chi si è stupito. [Quello
che è emerso è impressionante].
Quando c’eravamo trovati, per la confisca del Cafè de Paris, in via Veneto, davanti
all’ambasciata americana che ha telecamere da tutte le parti, il famoso Cafè de Paris, quello del film di
Fellini La Dolce Vita [il locale
venne ripreso nel film La Dolce Vita, di
Federico Fellini, del 1960. Nota del trascrittore], e si era scoperto che era
in mano alla ‘drangheta, [a una famiglia accusata di mafia], [così come il
caffè Chigi davanti a palazzo Chigi,
io mi ero permesso di dire che la mafia qui in città c’era, perché la respiri,
la senti, dove c’è la politica, la finanza. […] L’ultimo rapporto della DIA,
consegnato l’altro giorno, [ha riferito] che la situazione è tornata pesante,
grave. Perché in un momento di grande crisi economica e finanziaria loro hanno
il denaro, lo investono, lo riciclano. E, allora, senza generalizzare, senza
dimenticando le cose belle e positive che ci sono, bisogna prendere coscienza
che questa situazione c’è. Ma il vero problema non sono solo i poteri illegali,
ma sono anche i poteri legali che si muovono illegalmente.
E vi cito [un rapporto della Banca d’Italia di
non molto tempo fa che parlava] di corrotti che siedono regolarmente nei
consigli di amministrazione degli enti pubblici.
Non siamo qui per semplificare e giudicare,
siamo qui per conoscere. Ed essere in
chiesa, per me, è anche per chiedere a Dio che ci dia la sua dolce pedata, la pedata di Dio, perché nessuno si senta mai a posto e mai arrivato.
E quando la gente mi chiede la benedizione, la benedizione di Dio, io la
intendo come una dolce pedata, perché
il [moto di rifiuto] ci deve coinvolgere veramente tutti.
E allora abbiamo questa grande responsabilità,
anche noi. Di non essere cittadini a intermittenza.
Il giudice Rosario Livatino [giudice siciliano
assassinato dalla mafia nel 1990. Nota del trascrittore], che certamente finirà
sugli altari, perché si è aperto il processo di beatificazione, lui non lo
avrebbe mai pensato, ma improvvisamente [scatenò] la coscienza di Giovanni
Paolo 2°.
Perché [nel discorso preparato per essere pronunciato da Giovanni Paolo
2° nella Valle dei Templi] non c’era nulla di quello che poi invece disse
improvvisamente.
Il Papa Giovanni Paolo 2°, nel suo pontificato, andò cinque volte in Sicilia;
quell’anno, nel 1993, era la seconda volta. Era l’ultimo giorno, ad Agrigento.
Pranza nel seminario maggiore. Riposa una mezz’oretta. Si forma il corteo per
andare alla Valle dei Templi. Migliaia di giovani. Adulti. Ma il corteo
improvvisamente si ferma. Il Papa scende, entra in una porticina.
[Poi, alla Valle dei Templi, pronuncia quel discorso, in cui] non c’era
un riferimento alla violenza criminale mafiosa, c’era un riferimento più
generico; la preghiera finale, nulla. Attenzione! Il Papa sta per andarsene e
la televisione propone quell’immagine in cui lui dice [ai mafiosi]: “Verrà il giudizio di Dio! Convertitevi,
cambiate!”.
Ma non bisogna [considerare solo quella] sequenza, bisogna vedere tutto
quello che è successo.
Perché Giovanni Paolo 2° sta per andarsene, ma ha dentro quell’incontro
[di poco prima], fa un metro in avanti, poi torna indietro, e tenendo quel
pastorale, che anche papa Francesco continua a portare e che era quello di
Paolo 6°, comincia a gridare. Lo ricordate? Abbiamo scoperto poi che cosa era
successo.
Perché certi incontri cambiano la vita.
Io ho
conosciuto il papà e la mamma del giudice Livatino. Ora sono morti. Loro erano
dietro quella porticina [per la quale era entrato il Papa].
La mamma ricordo che mi aveva detto che era molto emozionata. Il papà mi
ha detto: “Sai, gli abbiamo fatto leggere gli atti di nostro figlio”.
Io non so quale fu la pagina che Giovanni Paolo 2° lesse.
Io so qual è la pagina che ho letto io.
Quel papà mi ha fatto leggere i diari di suo figlio. E da quel momento
quello che io ho letto lo continuo a gridare ovunque. Quando Livatino scrive
nel suo diario che alla fine della vita non ci sarà chiesto se siamo stati
credenti, ma credibili.
Io non so quale pagina lesse Giovanni Paolo
2°, so che il Papa torna indietro e dirà parole dure, cambiate!, convertitevi!, e aggiunge: “Un domani, il giudizio di Dio!”.
La mafia risponde.
Nove maggio: Valle dei Templi [il discorso del Papa]. 27 luglio, Roma
[attentato mafioso], San Giovanni Laterano, San Giorgio in Velabro. A settembre
viene ucciso, il giorno del suo compleanno Pino Puglisi [parroco nel quartiere
Brancaccio di Palermo]. Qualche mese dopo don Peppino Diana [parroco in Casal
di Principe] il giorno del suo onomastico.
Ma, attenzione, c’è un passaggio che diventa
importante. E’ che, tra quel 9 maggio,
il 27 luglio e il 15 settembre [omicidio di don Puglisi], il 19 agosto, in
America, un signore chiede di parlare con l’FBI, questo signore, uomo di Cosa Nostra [il nome che i mafiosi hanno
dato alla loro organizzazione criminale], che era diventato collaboratore di
giustizia, protetto in America, negli Stati Uniti, dall’FBI, chiede di poter
parlare e dirà queste testuali parole, che sono fondamentali e importanti: «Nel passato la Chiesa era
considerata sacra e intoccabile. Ora invece Cosa Nostra sta attaccando la
Chiesa, perché si sta esprimendo contro la mafia. Gli uomini d’onore mandano
messaggi chiari ai sacerdoti: “Non interferite!”». Era il 19 agosto. Qualche giorno dopo il Ministro degli
interni dirama nei cifrati dei messaggi di allerta. Il 15 settembre viene
ucciso don Pino Puglisi.
La Chiesa ha avuto anche lei delle fasi altalenanti. C’è stata un Chiesa
grande, forte, coraggiosa, ma mentre da una parte veniva ucciso don Puglisi,
c’era un sacerdote, un frate, che andava a celebrare la Messa al super
latitante e super ricercato Pietro Aglieri.
Al punto che un grande gesuita, che dopo le stragi di Capaci [assassino
del giudice Giovanni Falcone] e di via D’Amelio [assassinio del giudice Paolo
Borsellino, andrà a Palermo, padre Bartolomeo Sorge, quando lascerà Palermo,
scriverà queste parole: «Mi sono
sempre chiesto, come questo sia potuto accadere. Il silenzio della Chiesa sulla
mafia. Non si potrà mai capire come mai i promulgatori del Vangelo delle Beatitudini
non si siano accorti che la cultura mafiosa ne era la negazione. Il silenzio,
se ha spiegazioni, non ha giustificazioni.
Anche la Chiesa ha avuto della
fasi di superficialità, di grave superficialità.
L’importanza dei segni. Dio è
di tutti. Chi adora il male è scomunicato. Essere capaci di andare incontro a chi ha
sbagliato
6.[Quando ho incontrato papa Francesco],
gli ho portato un piccolo regalo. A
Torino c’è un piccolo bar, che fa un ottimo caffè. Ho pensato “E’ un figlio di
italiani”. E quando noi andiamo per il mondo a trovare i nostri, portiamo un
po’ di formaggio grana e il caffè tostato. Io vado dal papa Francesco e gli ho
portato un po’ di caffè [di quel bar]. Abbiamo fatto quello che dovevamo fare. Quattro giorni dopo torno a Torino, passo da
quel bar e [il titolare] mi dice: “Il Papa mi ha scritto”. Aveva letto la
targhetta [sulla confezione] e gli aveva scritto: “Il caro don Luigi, mi ha
portato un pacco del vostro caffè. Io me lo sono fatto. Molto buono! Grazie.
Papa Francesco!”. Voi avete capito l’importanza dei segni! Anche tra di noi! A volte non sono necessarie
parole! Un gesto, un ascolto! Una prossimità! In quella famiglia dove c’è una
persona che stenta a vivere! Quelle
persone più fragili. L’unità di misura, ce lo siamo detti, è la donazione. I
gesti sono importanti. Alla seconda volta che l’ho incontrato: un pacco di
caffè. Piccoli doni. Io gli ho chiesto: “Te la senti di incontrare mille
famigliari a cui hanno ucciso le persone più care, gli hanno strappato gli
affetti?”. E lui non mi ha fatto nemmeno finire e mi ha detto: “Vengo!”. Per
correttezza gli ho detto: “Guarda che non tutti sono cattolici!”. Perché
venivano da campi diversi. E con un sorriso mi fa: “Che bello!”. Lui ha avuto
un grande maestro, Carlo Maria Martini. Io non potrò mai dimenticare quando
Carlo Maria Martini, grande biblista, diceva una cosa importante, che Dio non è
cattolico, Dio è di tutti, Dio ama tutti. E il Papa ha incontrato [quelle
persone], ha ascoltato, ha detto delle parole cariche d’affetto, ma anche lì ha
compiuto un segno. Immaginate, un migliaio di familiari a cui hanno ucciso le
persone più care e lui dirà delle belle
parole che consegno anche a voi: “Il desiderio che sento è di condividere con
voi una speranza, ed è questa, che il senso di responsabilità che adottiamo
sulla corruzione, in ogni parte del mondo, deve partire da dentro, dalle
coscienze e da lì risanare i comportamenti, le relazioni, il tessuto sociale,
le scelte, così che la giustizia guadagni spazio, si allarghi, si radichi, e prenda il posto dell’iniquità”. Poi va
avanti. Li abbraccia, con le parole e
con la voce. Prende il discorso e lo capovolge. Attenzione, c’erano familiari a
cui avevano ammazzato le persone care! Dice: “E sento di dover dire una parola
ai grandi assenti, ai protagonisti assenti, agli uomini e alle donne mafiose.
Per favore, cambiate vita! Convertitevi! Fermatevi! Smettete di fare il male! E
noi preghiamo per voi”. E compie lo stesso gesto che fece Paolo 6°, un grande
Papa, quando fu rapito l’onorevole Aldo Moro [nel 1978]. Paolo 6° impiegò una
notte, strappò tante volte quello che scriveva, lo modificò, lo corresse. Fino
al punto di scrivere “Uomini delle
brigate rosse, ve lo chiedo in ginocchio: liberate l’onorevole Aldo Moro!”. E
userà lo stesso passaggio Papa Francesco: “Convertitevi, lo chiedo in ginocchio. E’ per il vostro bene”. E poi, mentre Giovanni Paolo 2° disse che sarebbe venuto il giorno del giudizio di Dio,
lui è più pratico, dice: “Questa vita che vivete adesso non vi darà gioia, non
vi darà felicità, il potere e il denaro che voi avete [ricavato] dagli affari
sporchi, dai crimini mafiosi, è denaro insanguinato, è potere insanguinato, che
non potrete portare nell’altra vita. Convertitevi! Ancora c’è tempo, per non
finire all’inferno.” Molto pratico. Io ricordo quel momento con grande
emozione. Come ricordo che qualche mese dopo è andato nella piana di Sibari, in
Calabria, ricordate?, e lì, con un filo di voce ma con una profondità immensa,
ha detto una cosa molto semplice: “Chi adora il male è scomunicato”. Però poi,
come ha sempre fatto, come noi siamo invitati a fare, perché c’è la
misericordia di Dio ma anche noi siamo chiamati ad essere misericordiosi verso
gli altri, va a incontrare chi ha sbagliato, chi è in carcere, non si fa sconti
a nessuno!, perché la giustizia deve fare la sua strada, ma dobbiamo essere
capaci di andare incontro a chi ha sbagliato, perché possa veramente rivedere
un pochettino il percorso della propria vita.
La misericordia. Liberare chi
libero non è. Non essere cittadini a intermittenza. Continuità e condivisione.
Approfondire il sapere, cercare di capire, non essere superficiali.
7. Non vi dico il nome del carcere, per
correttezza, ma nei miei occhi c’è un’altra donna. Mi sono trovato con lei in
quel carcere ai primi di novembre, nel cortile, e ad un certo punto questa
donna mi dice: “Luigi, stammi vicino! Vedi?, quel ragazzo che sta venendo verso
di noi nel il cortile è quello che ha ucciso mio figlio. Ha l’età di mio figlio.
[Ma quando abbiamo visto] le gravissime condizioni della sua famiglia, dove
vive, la loro povertà, la loro miseria, nel rispetto - badate bene!- dei
percorsi della giustizia - perché se sbagli [ci deve essere qualcuno per farti
riconoscere le tue responsabilità: è un atto d’amore! Per darti una mano a
vedere dove ha sbagliato, a guardarti dentro]-, ma quando io e mio marito
abbiamo visto, abbiamo deciso noi di venire ogni settimana a trovarlo, e
abbiamo deciso che aspetteremo quel giorno che uscirà dal carcere - era un
ragazzo minorenne - : lo sentiamo come nostro figlio”. E’ difficile, è
difficile, è difficile… Questa donna, che io ho presente…la ritroverò [il
prossimo 21 marzo, Giornata della memoria e dell’Impegno 2016, quando leggeremo
- fatelo anche voi in parrocchia, vi fornisco tutto l’elenco dei nomi! - i nomi
delle vittime innocenti delle mafie]; vengono letti in contemporanea in tutta
Italia, da Messina che è il luogo centrale a tutt’Italia; [ci sarà anche quella
donna, con suo marito, che, nonostante quello che ha fatto, aspettano quel
ragazzo]. Non hanno più il figlio, [ma sentono quel ragazzo come loro figlio].
Questa è la misericordia! Questa meraviglia! E’ un dono meraviglioso questo
Anno Santo della Misericordia! Papa Francesco continuerà sempre a stupirci,
perché il suo riferimento è il
Vangelo! E’ quello che dovremmo fare tutti! E mi ha fatto piacere che quando è
andato a Redipuglia [Nota del
trascrittore. Il 13 settembre 2014. E’ una frazione del Comune di Fogliano
Redipuglia, in provincia di Gorizia, nella Regione Friuli-Venezia Giulia, dove
è stato costruito un cimitero militare, un sacrario,
dedicato ai caduti italiani nella Prima guerra mondiale] ha gridato il
bisogno della pace, e poi ha distribuito
ai rappresentanti di tutto il mondo trecento lampade della pace [Nota del
trascrittore. Lampade a olio
accese dalla lampada ad olio che si trova nella Basilica
della Natività a Betlemme], ma ha voluto che l’olio dentro le lampade
fosse l’olio di Libera, l’olio
prodotto da dalle cooperative aderenti a Libera.
Il Papa ha voluto che fosse quello l’olio di quelle lampade! Perché la violenza,
la corruzione, l’illegalità, le mafie [dividono le persone]. Chi è povero è
costretto a chiedere. Allora la vita ci affida un impegno, a noi tutti, con il
dono della vita, l’amore dei nostri genitori, questo dono di Dio!. Qual è
questo impegno? E’ di impegnare la nostra libertà per liberare chi libero non
è. Questo è l’impegno che ci affida la vita. […] Stare a fianco alla storia di
tante persone. La strada è in salita…Certe parole dobbiamo farle nostre,
metterle al centro del nostro cammino. La continuità…
Non si può essere cittadini a intermittenza. E neanche essere cristiani da salotto, ci ricorda papa
Francesco. Dobbiamo sporcarci, per fare qualcosa di positivo: il cambiamento
avviene dentro ciascuno di noi. La continuità: [non dobbiamo scoraggiarci se
l’obiettivo degno.] L’altra parola è la condivisione.
E’ il noi! Non dobbiamo essere
dei solitari, sapete. Io rappresento un noi
questa sera. Ci sono tanti altri. E mi fa piacere essere in una comunità. Questo
noi.
E
se trovate qualcuno nel vostro cammino che vi dice di avere capito tutto,
salutatelo e cambiate strada! Abbiamo il dovere di sconfiggere questo peccato
di oggi che è il peccato del sapere.
C’è troppo sapere di seconda mano e
per sentito dire. Abbiamo bisogno
allora di libertà, di guardarci dentro, di conoscere in profondità. Io dico
sempre a questi meravigliosi ragazzi che incontro in giro, a Nord, a Sud, al
Centro, sono meravigliosi!, dico loro sempre,
umilmente, una cosa - una cosa in cui mi sono maestri” -: la vostra
generazione ha a disposizione la più grande biblioteca al mondo, internet. Vi
trovate tutto e il contrario di tutto, però. Attenzione: se posso umilmente
dirvi una piccola cosa, ma voi ne capite il senso e anche l’affetto con cui ve
la dico. Un cosa è trovare le informazioni e appiccarle lì, altra cosa è cercare, cercare… Non fermarsi solo alle
informazioni, ma cercare, scendere in
profondità, cercare di capire. Questo
è importante, per me e per voi, in modo fondamentale.
Vincere l’indifferenza, malattia spirituale, per conquistare la pace -
ascoltare il grido della terra che è il grido dei poveri - fare la nostra
parte, assumerci le nostre responsabilità verso gli sfollati, i
rifugiati - Non essere solo spettatori di ciò che accade - L’importanza dell’educazione
e della cultura - la fede implica il desiderio di cambiare il mondo
8. C’è un parola che il Papa
usa: e guardate che la parola misericordia
l’ha subito lanciata al primo Angelus, ma c’è un’altra parola che lui
continua a usare, indifferenza. Tanto
è vero che il messaggio per la Giornata
mondiale della pace l’ha voluta quest’anno intitolare “Vinci l’indifferenza, conquista la pace” [si allega di seguito il
testo integrale del documento], [con questa sottolineatura] la pace è dono di
Dio, ma opera dell’uomo.
Sono quarantadue in questo momento le guerre
in atto. Negli ultimi due anni in
Burundi, ottocentomila morti: chi ne parla?
A Re di Puglia, l’ho detto prima, il Papa ha
parlato con coraggio della Terza
guerra mondiale, [combattuta] a pezzi, a
pezzi. [E con la Laudato si’ [enclicica del 2015] con
umiltà ci lancia un messaggio], con un sottotitolo “Bisogna curare la casa comune]
[sul
Web: < http://w2.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20150524_enciclica-laudato-si.html>]
E allora uno si ferma a
riflettere, quanto parla di grido della
terra, che è il grido del povero. Perché la terra parla. Bisogna ascoltarla, la terra. E quando ci viene detto che l’80%
dei semi - è agricoltura, vuol dire
cibo! - è in mano a cinque multinazionali, qualche domanda dobbiamo porcela! Quando ci viene detto - ed è documentato! -
che il 60% degli ecosistemi è scomparso, qualche domanda dobbiamo porcela! Quando
ci viene detto che cinquecento milioni di piccoli agricoltori rischiano di
essere spazzati via: è un grido! E un grido! E allora… Io non ho nessun titolo, non
siamo qui per semplificare, ma per pregare, per riflettere… Quando il Papa dice
che è opera degli uomini la pace, lui
denuncia l’indifferenza e dice che forse è il più agguerrito ostacolo contro la
pace. Ma dice di più! Perché dice che l’indifferenza è anche una malattia spirituale, che addomestica le
coscienze. E poi dà tre volti all’indifferenza: l’indifferenza verso Dio, verso
gli altri, ma parla anche dell’indifferenza verso
il Creato. La nostra casa comune, che oggi viene così sfruttata, sfregiata…
Eh sì! E’ il dio-denaro che muove il mondo. E lui ha chiamato una certa
economia un’economia assassina. E’ duro, sono parole dure,
che non vogliono mai generalizzare. La Laudato
si’ è veramente una documentazione
così forte, così seria.
Oggi i muri e i fili spinati
superno i 13.000 chilometri. Invece papa Francesco ha voluto celebrare la Messa
al confine [durante il viaggio negli Stati Uniti d’America del febbraio 2016].
Stanno realizzando con muri e filo spinato [una barriera] in Messico per 1.200
chilometri. Fili spinati, per respingere… Quando l’anno scorso si sono spesi
1.776 miliardi di dollari per investimenti negli armamenti! E non ci sono i
soldi per affrontare la povertà della vita di tanta gente!
L’anno scorso gli organismi internazionali ci dicono che gli sfollati e i profughi,
quelli che hanno dovuto abbandonare tutto, per varie cause, le guerre, le
rivoluzioni, l’anno scorso hanno dovuto spostarsi tredici milioni di persone!
Sono i dati ufficiali. Siamo chiamati a metterci in gioco, a fare la nostra
parte, ad assumerci di più la nostra parte di responsabilità.
Ecco allora che diventa molto importante l’educazione.
Abbiamo bisogno di educazione e anche di cultura, perché è la cultura che dà la sveglia
alle coscienze.
In Italia abbiamo sei milioni di analfabeti! E’
l’analfabetismo di ritorno. Un
giovane su tre [non finisce] i cinque anni delle superiori. E questo nonostante
che, grazie agli investimenti nella scuola degli ultimi anni, siamo passati da
una dispersione scolastica del 25%, come media nazionale, ad una del 17%. Ma
nonostante questo perdiamo tanti ragazzi per strada. Bisogna ricordare le cose
belle, perché si possa accorciare questa distanza, investire molto nella
scuola, nell’università, nella cultura, negli strumenti per dare conoscenza. Ma
soprattutto abbiamo bisogno di educazione. E’ nella vita di relazione che
impariamo a conoscerci, a cogliere le nostre qualità, e anche a riconoscere i
nostri limiti, a esplorare le nostre contraddizioni e a venire a capo delle
nostre inquietudini. L’educazione è il primo, il più prezioso, investimento di
una comunità aperta a futuro. Un investimento che trova nella famiglia - o
dovrebbe trovare -, nella famiglia e nella scuola le sue [fonti] principali. Ma
ogni contesto può e deve essere educativo. L’educazione è fondamentale. Bisogna
crederci: cultura, educazione, sostegno alla famiglie. [La lotta alle mafie significa]: lavoro e scuola. A fianco
dei magistrati e delle forze di polizia. Ma noi non ci scoraggiamo! La strada è
in salita. Ci vuole continuità, ci vuole condivisione e ci vuole la
corresponsabilità. Bisogna collaborare con le istituzioni quando fanno la loro
parte ed essere un pungolo quando non fanno la loro parte. Sempre con umiltà,
ma anche con coraggio, perché lo facciamo come un atto d’amore, perché non
possiamo essere spettatori di quello che purtroppo sta avvenendo.
Termino. Papa Francesco un giorno disse: “Non
si può più affermare che la religione deve limitarsi all’ambito privato, e che esiste solo per preparare le anime per
il Cielo. Sappiamo che Dio desidera la felicità dei suoi figli anche su questa
terra! Un fede autentica, che non è mai comoda e individualistica, implica sempre
un profondo desiderio di cambiare il mondo e di trasmettere valori”.
E’ l’augurio a voi che già siete impegnati,
che vivete questa comunità. Ha ragione il vostro parroco: il sabato, a quest’ora!,
è una vera meraviglia. E ringrazio Dio per l’invito che mi hai fatto: io,
piccolo piccolo a essere qui a condividere con voi di spendere la vita per dare
una mano a tanti come noi e ad essere cercatori
di verità e costruttori di pace.
Trascrizione di Mario Ardigò - Azione Cattolica in San
Clemente papa - Roma,Monte Sacro, Valli
**************************************************************
MESSAGGIO DEL
SANTO PADRE
FRANCESCO
PER LA CELEBRAZIONE DELLA
XLIX GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
1° GENNAIO 2016
Vinci
l’indifferenza e conquista la pace
1. Dio non è
indifferente! A Dio importa dell’umanità, Dio non l’abbandona! All’inizio
del nuovo anno, vorrei accompagnare con questo mio profondo convincimento gli
auguri di abbondanti benedizioni e di pace, nel segno della speranza, per il
futuro di ogni uomo e ogni donna, di ogni famiglia, popolo e nazione del mondo,
come pure dei Capi di Stato e di Governo e dei Responsabili delle religioni.
Non perdiamo, infatti, la speranza che il 2016 ci veda tutti fermamente e
fiduciosamente impegnati, a diversi livelli, a realizzare la giustizia e
operare per la pace. Sì, quest’ultima è dono di Dio e opera degli uomini. La
pace è dono di Dio, ma affidato a tutti gli uomini e a tutte le donne, che sono
chiamati a realizzarlo.
Custodire le ragioni della speranza
2. Le guerre e le azioni terroristiche, con le loro tragiche
conseguenze, i sequestri di persona, le persecuzioni per motivi etnici o
religiosi, le prevaricazioni, hanno segnato dall’inizio alla fine lo scorso
anno moltiplicandosi dolorosamente in molte regioni del mondo, tanto da
assumere le fattezze di quella che si potrebbe chiamare una “terza guerra
mondiale a pezzi”. Ma alcuni avvenimenti degli anni passati e dell’anno appena
trascorso mi invitano, nella prospettiva del nuovo anno, a rinnovare l’esortazione
a non perdere la speranza nella capacità dell’uomo, con la grazia di Dio, di
superare il male e a non abbandonarsi alla rassegnazione e all’indifferenza.
Gli avvenimenti a cui mi riferisco rappresentano la capacità dell’umanità di
operare nella solidarietà, al di là degli interessi individualistici,
dell’apatia e dell’indifferenza rispetto alle situazioni critiche.
Tra questi vorrei ricordare lo sforzo fatto per favorire
l’incontro dei leader mondiali, nell’ambito della COP 21, al fine di cercare
nuove vie per affrontare i cambiamenti climatici e salvaguardare il benessere
della Terra, la nostra casa comune. E questo rinvia a due precedenti eventi di
livello globale: il Summit di Addis Abeba per raccogliere fondi per lo sviluppo
sostenibile del mondo; e l’adozione, da parte delle Nazioni Unite,dell’Agenda
2030 per lo Sviluppo Sostenibile, finalizzata ad assicurare un’esistenza più
dignitosa a tutti, soprattutto alle popolazioni povere del pianeta, entro
quell’anno.
Il 2015 è stato un anno speciale per la Chiesa, anche perché
ha segnato il 50° anniversario della pubblicazione di due documenti del
Concilio Vaticano II che esprimono in maniera molto eloquente il senso di
solidarietà della Chiesa con il mondo. Papa Giovanni XXIII, all’inizio del
Concilio, volle spalancare le finestre della Chiesa affinché tra essa e il
mondo fosse più aperta la comunicazione. I due documenti, Nostra aetate e Gaudium et spes, sono espressioni
emblematiche della nuova relazione di dialogo, solidarietà e accompagnamento
che la Chiesa intendeva introdurre all’interno dell’umanità. Nella
Dichiarazione Nostra aetate la Chiesa è stata chiamata
ad aprirsi al dialogo con le espressioni religiose non cristiane. Nella
Costituzione pastorale Gaudium et spes, dal momento che «le gioie e
le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri
soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze,
le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo» [1],
la Chiesa desiderava instaurare un dialogo con la famiglia umana circa i
problemi del mondo, come segno di solidarietà e di rispettoso affetto [2].
In questa medesima prospettiva, con il Giubileo della Misericordia voglio invitare
la Chiesa a pregare e lavorare perché ogni cristiano possa maturare un cuore
umile e compassionevole, capace di annunciare e testimoniare la misericordia,
di «perdonare e di donare», di aprirsi «a quanti vivono nelle più
disparate periferie esistenziali, che spesso il mondo moderno crea in maniera
drammatica», senza cadere «nell’indifferenza che umilia, nell’abitudinarietà
che anestetizza l’animo e impedisce di scoprire la novità, nel cinismo che
distrugge» [3].
Ci sono molteplici ragioni per credere nella capacità
dell’umanità di agire insieme in solidarietà, nel riconoscimento della propria
interconnessione e interdipendenza, avendo a cuore i membri più fragili e la
salvaguardia del bene comune. Questo atteggiamento di corresponsabilità
solidale è alla radice della vocazione fondamentale alla fratellanza e alla
vita comune. La dignità e le relazioni interpersonali ci costituiscono in
quanto esseri umani, voluti da Dio a sua immagine e somiglianza. Come creature
dotate di inalienabile dignità noi esistiamo in relazione con i nostri fratelli
e sorelle, nei confronti dei quali abbiamo una responsabilità e con i quali
agiamo in solidarietà. Al di fuori di questa relazione, ci si troverebbe ad
essere meno umani. E’ proprio per questo che l’indifferenza costituisce una
minaccia per la famiglia umana. Mentre ci incamminiamo verso un nuovo anno,
vorrei invitare tutti a riconoscere questo fatto, per vincere l’indifferenza e
conquistare la pace.
Alcune forme di indifferenza
3. Certo è che l’atteggiamento dell’indifferente, di chi
chiude il cuore per non prendere in considerazione gli altri, di chi chiude gli
occhi per non vedere ciò che lo circonda o si scansa per non essere toccato dai
problemi altrui, caratterizza una tipologia umana piuttosto diffusa e presente
in ogni epoca della storia. Tuttavia, ai nostri giorni esso ha superato
decisamente l’ambito individuale per assumere una dimensione globale e produrre
il fenomeno della “globalizzazione dell’indifferenza”.
La prima forma di indifferenza nella società umana è quella
verso Dio, dalla quale scaturisce anche l’indifferenza verso il prossimo e
verso il creato. È questo uno dei gravi effetti di un umanesimo falso e del
materialismo pratico, combinati con un pensiero relativistico e nichilistico.
L’uomo pensa di essere l’autore di sé stesso, della propria vita e della
società; egli si sente autosufficiente e mira non solo a sostituirsi a Dio, ma
a farne completamente a meno; di conseguenza, pensa di non dovere niente a
nessuno, eccetto che a sé stesso, e pretende di avere solo diritti [4].
Contro questa autocomprensione erronea della persona, Benedetto XVI ricordava che né l’uomo né il
suo sviluppo sono capaci di darsi da sé il proprio significato ultimo [5];
e prima di lui Paolo VIaveva affermato che «non vi è umanesimo
vero se non aperto verso l’Assoluto, nel riconoscimento di una vocazione, che
offre l’idea vera della vita umana» [6].
L’indifferenza nei
confronti del prossimo assume diversi volti. C’è chi è ben informato, ascolta
la radio, legge i giornali o assiste a programmi televisivi, ma lo fa in
maniera tiepida, quasi in una condizione di assuefazione: queste persone
conoscono vagamente i drammi che affliggono l’umanità ma non si sentono
coinvolte, non vivono la compassione. Questo è l’atteggiamento di chi sa, ma
tiene lo sguardo, il pensiero e l’azione rivolti a sé stesso. Purtroppo
dobbiamo constatare che l’aumento delle informazioni, proprio del nostro tempo,
non significa di per sé aumento di attenzione ai problemi, se non è
accompagnato da un’apertura delle coscienze in senso solidale [7].
Anzi, esso può comportare una certa saturazione che anestetizza e, in qualche
misura, relativizza la gravità dei problemi. «Alcuni semplicemente si compiacciono
incolpando i poveri e i paesi poveri dei propri mali, con indebite
generalizzazioni, e pretendono di trovare la soluzione in una “educazione” che
li tranquillizzi e li trasformi in esseri addomesticati e inoffensivi. Questo
diventa ancora più irritante se gli esclusi vedono crescere questo cancro
sociale che è la corruzione profondamente radicata in molti Paesi – nei
governi, nell’imprenditoria e nelle istituzioni – qualunque sia l’ideologia
politica dei governanti» [8].
In altri casi,
l’indifferenza si manifesta come mancanza di attenzione verso la realtà
circostante, specialmente quella più lontana. Alcune persone preferiscono non
cercare, non informarsi e vivono il loro benessere e la loro comodità sorde al
grido di dolore dell’umanità sofferente. Quasi senza accorgercene, siamo
diventati incapaci di provare compassione per gli altri, per i loro drammi, non
ci interessa curarci di loro, come se ciò che accade ad essi fosse una
responsabilità estranea a noi, che non ci compete [9].
«Quando noi stiamo bene e ci sentiamo comodi, certamente ci dimentichiamo degli
altri (cosa che Dio Padre non fa mai), non ci interessano i loro problemi, le
loro sofferenze e le ingiustizie che subiscono… Allora il nostro cuore cade
nell’indifferenza: mentre io sto relativamente bene e comodo, mi dimentico di
quelli che non stanno bene» [10].
Vivendo in una casa
comune, non possiamo non interrogarci sul suo stato di salute, come ho cercato
di fare nella Laudato si’. L’inquinamento delle acque e
dell’aria, lo sfruttamento indiscriminato delle foreste, la distruzione
dell’ambiente, sono sovente frutto dell’indifferenza dell’uomo verso gli altri,
perché tutto è in relazione. Come anche il comportamento dell’uomo con gli
animali influisce sulle sue relazioni con gli altri [11],
per non parlare di chi si permette di fare altrove quello che non osa fare in
casa propria[12].
In questi ed in altri
casi, l’indifferenza provoca soprattutto chiusura e disimpegno, e così finisce
per contribuire all’assenza di pace con Dio, con il prossimo e con il creato.
La pace minacciata dall’indifferenza globalizzata
4. L’indifferenza verso Dio supera la sfera intima e
spirituale della singola persona ed investe la sfera pubblica e sociale. Come
affermava Benedetto XVI, «esiste un’intima connessione tra
la glorificazione di Dio e la pace degli uomini sulla terra» [13].
Infatti, «senza un’apertura trascendente, l’uomo cade facile preda del
relativismo e gli riesce poi difficile agire secondo giustizia e impegnarsi per
la pace» [14].
L’oblio e la negazione di Dio, che inducono l’uomo a non riconoscere più alcuna
norma al di sopra di sé e a prendere come norma soltanto sé stesso, hanno
prodotto crudeltà e violenza senza misura [15].
A livello
individuale e comunitario l’indifferenza verso il prossimo, figlia di quella
verso Dio, assume l’aspetto dell’inerzia e del disimpegno, che alimentano il
perdurare di situazioni di ingiustizia e grave squilibrio sociale, le quali, a
loro volta, possono condurre a conflitti o, in ogni caso, generare un clima di
insoddisfazione che rischia di sfociare, presto o tardi, in violenze e
insicurezza.
In questo senso
l’indifferenza, e il disimpegno che ne consegue, costituiscono una grave
mancanza al dovere che ogni persona ha di contribuire, nella misura delle sue
capacità e del ruolo che riveste nella società, al bene comune, in particolare
alla pace, che è uno dei beni più preziosi dell’umanità [16].
Quando poi investe
il livello istituzionale, l’indifferenza nei confronti dell’altro, della sua
dignità, dei suoi diritti fondamentali e della sua libertà, unita a una cultura
improntata al profitto e all’edonismo, favorisce e talvolta giustifica azioni e
politiche che finiscono per costituire minacce alla pace. Tale atteggiamento di
indifferenza può anche giungere a giustificare alcune politiche economiche deplorevoli,
foriere di ingiustizie, divisioni e violenze, in vista del conseguimento del
proprio benessere o di quello della nazione. Non di rado, infatti, i progetti
economici e politici degli uomini hanno come fine la conquista o il
mantenimento del potere e delle ricchezze, anche a costo di calpestare i
diritti e le esigenze fondamentali degli altri. Quando le popolazioni vedono
negati i propri diritti elementari, quali il cibo, l’acqua, l’assistenza
sanitaria o il lavoro, esse sono tentate di procurarseli con la forza [17].
Inoltre,
l’indifferenza nei confronti dell’ambiente naturale, favorendo la
deforestazione, l’inquinamento e le catastrofi naturali che sradicano intere
comunità dal loro ambiente di vita, costringendole alla precarietà e
all’insicurezza, crea nuove povertà, nuove situazioni di ingiustizia dalle
conseguenze spesso nefaste in termini di sicurezza e di pace sociale. Quante
guerre sono state condotte e quante ancora saranno combattute a causa della
mancanza di risorse o per rispondere all’insaziabile richiesta di risorse
naturali [18]?
Dall’indifferenza alla misericordia: la conversione del
cuore
5. Quando, un anno fa, nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace “Non più schiavi, ma fratelli”, evocavo la
prima icona biblica della fraternità umana, quella di Caino e Abele (cfr Gen 4,1-16),
era per attirare l’attenzione su come è stata tradita questa prima fraternità.
Caino e Abele sono fratelli. Provengono entrambi dallo stesso grembo, sono
uguali in dignità e creati ad immagine e somiglianza di Dio; ma la loro
fraternità creaturale si rompe. «Non soltanto Caino non sopporta suo fratello
Abele, ma lo uccide per invidia» [19].
Il fratricidio allora diventa la forma del tradimento, e il rifiuto da parte di
Caino della fraternità di Abele è la prima rottura nelle relazioni familiari di
fraternità, solidarietà e rispetto reciproco.
Dio interviene,
allora, per chiamare l’uomo alla responsabilità nei confronti del suo simile,
proprio come fece quando Adamo ed Eva, i primi genitori, ruppero la comunione
con il Creatore. «Allora il Signore disse a Caino: “Dov’è Abele, tuo
fratello?”. Egli rispose: “Non lo so. Sono forse il guardiano di mio
fratello?”. Riprese: “Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a
me dal suolo!”» (Gen 4,9-10).
Caino dice di non
sapere che cosa sia accaduto a suo fratello, dice di non essere il suo
guardiano. Non si sente responsabile della sua vita, della sua sorte. Non si
sente coinvolto. È indifferente verso suo fratello, nonostante essi siano
legati dall’origine comune. Che tristezza! Che dramma fraterno, familiare,
umano! Questa è la prima manifestazione dell’indifferenza tra fratelli. Dio,
invece, non è indifferente: il sangue di Abele ha grande valore ai suoi occhi e
chiede a Caino di renderne conto. Dio, dunque, si rivela, fin dagli inizi
dell’umanità come Colui che si interessa alla sorte dell’uomo. Quando più tardi
i figli di Israele si trovano nella schiavitù in Egitto, Dio interviene
nuovamente. Dice a Mosè: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho
udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco, infatti, le sue sofferenze.
Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo
paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e
miele» (Es 3,7-8). È importante notare i verbi che descrivono
l’intervento di Dio: Egli osserva, ode, conosce, scende, libera. Dio non è
indifferente. È attento e opera.
Allo stesso modo,
nel suo Figlio Gesù, Dio è sceso fra gli uomini, si è incarnato e si è mostrato
solidale con l’umanità, in ogni cosa, eccetto il peccato. Gesù si identificava
con l’umanità: «il primogenito tra molti fratelli» (Rm 8,29).
Egli non si accontentava di insegnare alle folle, ma si preoccupava di loro,
specialmente quando le vedeva affamate (cfr Mc 6,34-44) o
disoccupate (cfr Mt20,3). Il suo sguardo non era rivolto soltanto
agli uomini, ma anche ai pesci del mare, agli uccelli del cielo, alle piante e
agli alberi, piccoli e grandi; abbracciava l’intero creato. Egli vede,
certamente, ma non si limita a questo, perché tocca le persone, parla con loro,
agisce in loro favore e fa del bene a chi è nel bisogno. Non solo, ma si lascia
commuovere e piange (cfr Gv 11,33-44). E agisce per porre fine
alla sofferenza, alla tristezza, alla miseria e alla morte.
Gesù ci insegna ad
essere misericordiosi come il Padre (cfr Lc 6,36). Nella
parabola del buon samaritano (cfr Lc 10,29-37) denuncia
l’omissione di aiuto dinanzi all’urgente necessità dei propri simili: «lo vide
e passò oltre» (cfr Lc 10,31.32). Nello stesso tempo, mediante
questo esempio, Egli invita i suoi uditori, e in particolare i suoi discepoli,
ad imparare a fermarsi davanti alle sofferenze di questo mondo per alleviarle,
alle ferite degli altri per curarle, con i mezzi di cui si dispone, a partire
dal proprio tempo, malgrado le tante occupazioni. L’indifferenza, infatti,
cerca spesso pretesti: nell’osservanza dei precetti rituali, nella quantità di
cose che bisogna fare, negli antagonismi che ci tengono lontani gli uni dagli
altri, nei pregiudizi di ogni genere che ci impediscono di farci prossimo.
La misericordia è il
cuore di Dio. Perciò dev’essere anche il cuore di tutti coloro che si
riconoscono membri dell’unica grande famiglia dei suoi figli; un cuore che
batte forte dovunque la dignità umana – riflesso del volto di Dio nelle sue
creature – sia in gioco. Gesù ci avverte: l’amore per gli altri – gli
stranieri, i malati, i prigionieri, i senza fissa dimora, perfino i nemici – è
l’unità di misura di Dio per giudicare le nostre azioni. Da ciò dipende il
nostro destino eterno. Non c’è da stupirsi che l’apostolo Paolo inviti i
cristiani di Roma a gioire con coloro che gioiscono e a piangere con coloro che
piangono (cfr Rm 12,15), o che raccomandi a quelli di Corinto
di organizzare collette in segno di solidarietà con i membri sofferenti della
Chiesa (cfr 1 Cor 16,2-3). E san Giovanni scrive: «Se qualcuno
possiede dei beni di questo mondo e vede suo fratello nel bisogno e non ha
pietà di lui, come potrebbe l’amore di Dio essere in lui?» (1 Gv 3,17;
cfr Gc 2,15-16).
Ecco perché «è
determinante per la Chiesa e per la credibilità del suo annuncio che essa viva
e testimoni in prima persona la misericordia. Il suo linguaggio e i suoi gesti
devono trasmettere misericordia per penetrare nel cuore delle persone e
provocarle a ritrovare la strada per ritornare al Padre. La prima verità della
Chiesa è l’amore di Cristo. Di questo amore, che giunge fino al perdono e al
dono di sé, la Chiesa si fa serva e mediatrice presso gli uomini. Pertanto,
dove la Chiesa è presente, là deve essere evidente la misericordia del Padre.
Nelle nostre parrocchie, nelle comunità, nelle associazioni e nei movimenti,
insomma, dovunque vi sono dei cristiani, chiunque deve poter trovare un’oasi di
misericordia» [20].
Così, anche noi
siamo chiamati a fare dell’amore, della compassione, della misericordia e della
solidarietà un vero programma di vita, uno stile di comportamento nelle nostre
relazioni gli uni con gli altri [21].
Ciò richiede la conversione del cuore: che cioè la grazia di Dio trasformi il
nostro cuore di pietra in un cuore di carne (cfr Ez 36,26),
capace di aprirsi agli altri con autentica solidarietà. Questa, infatti, è
molto più che un «sentimento di vaga compassione o di superficiale
intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane» [22].
La solidarietà «è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il
bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno perché tutti siamo
veramente responsabili di tutti» [23],
perché la compassione scaturisce dalla fraternità.
Così compresa, la
solidarietà costituisce l’atteggiamento morale e sociale che meglio risponde
alla presa di coscienza delle piaghe del nostro tempo e dell’innegabile
inter-dipendenza che sempre più esiste, specialmente in un mondo globalizzato,
tra la vita del singolo e della sua comunità in un determinato luogo e quella
di altri uomini e donne nel resto del mondo [24].
Promuovere una cultura di solidarietà e misericordia per
vincere l’indifferenza
6. La solidarietà
come virtù morale e atteggiamento sociale, frutto della conversione personale,
esige un impegno da parte di una molteplicità di soggetti, che hanno
responsabilità di carattere educativo e formativo.
Il mio primo
pensiero va alle famiglie, chiamate ad una missione educativa primaria ed
imprescindibile. Esse costituiscono il primo luogo in cui si vivono e si
trasmettono i valori dell’amore e della fraternità, della convivenza e della
condivisione, dell’attenzione e della cura dell’altro. Esse sono anche l’ambito
privilegiato per la trasmissione della fede, cominciando da quei primi semplici
gesti di devozione che le madri insegnano ai figli [25].
Per quanto riguarda
gli educatori e i formatori che, nella scuola o nei diversi centri di
aggregazione infantile e giovanile, hanno l’impegnativo compito di educare i
bambini e i giovani, sono chiamati ad essere consapevoli che la loro
responsabilità riguarda le dimensioni morale, spirituale e sociale della
persona. I valori della libertà, del rispetto reciproco e della solidarietà
possono essere trasmessi fin dalla più tenera età. Rivolgendosi ai responsabili
delle istituzioni che hanno compiti educativi, Benedetto XVI affermava: «Ogni
ambiente educativo possa essere luogo di apertura al trascendente e agli altri;
luogo di dialogo, di coesione e di ascolto, in cui il giovane si senta valorizzato
nelle proprie potenzialità e ricchezze interiori, e impari ad apprezzare i
fratelli. Possa insegnare a gustare la gioia che scaturisce dal vivere giorno
per giorno la carità e la compassione verso il prossimo e dal partecipare
attivamente alla costruzione di una società più umana e fraterna» [26].
Anche gli operatori
culturali e dei mezzi di comunicazione sociale hanno responsabilità nel campo
dell’educazione e della formazione, specialmente nelle società contemporanee,
in cui l’accesso a strumenti di informazione e di comunicazione è sempre più
diffuso. E’ loro compito innanzitutto porsi al servizio della verità e non di
interessi particolari. I mezzi di comunicazione, infatti, «non solo informano,
ma anche formano lo spirito dei loro destinatari e quindi possono dare un
apporto notevole all’educazione dei giovani. È importante tenere presente che
il legame tra educazione e comunicazione è strettissimo: l’educazione avviene,
infatti, per mezzo della comunicazione, che influisce, positivamente o
negativamente, sulla formazione della persona» [27].
Gli operatori culturali e dei media dovrebbero anche vigilare affinché il modo
in cui si ottengono e si diffondono le informazioni sia sempre giuridicamente e
moralmente lecito.
La pace: frutto di una cultura di solidarietà, misericordia
e compassione
7. Consapevoli della
minaccia di una globalizzazione dell’indifferenza, non possiamo non riconoscere
che, nello scenario sopra descritto, si inseriscono anche numerose iniziative
ed azioni positive che testimoniano la compassione, la misericordia e la
solidarietà di cui l’uomo è capace. Vorrei ricordare alcuni esempi di impegno
lodevole, che dimostrano come ciascuno possa vincere l’indifferenza quando
sceglie di non distogliere lo sguardo dal suo prossimo, e che costituiscono
buone pratiche nel cammino verso una società più umana.
Ci sono tante
organizzazioni non governative e gruppi caritativi, all’interno della Chiesa e
fuori di essa, i cui membri, in occasione di epidemie, calamità o conflitti
armati, affrontano fatiche e pericoli per curare i feriti e gli ammalati e per
seppellire i defunti. Accanto ad essi, vorrei menzionare le persone e le
associazioni che portano soccorso ai migranti che attraversano deserti e
solcano mari alla ricerca di migliori condizioni di vita. Queste azioni sono
opere di misericordia corporale e spirituale, sulle quali saremo giudicati al
termine della nostra vita.
Il mio pensiero va
anche ai giornalisti e fotografi che informano l’opinione pubblica sulle
situazioni difficili che interpellano le coscienze, e a coloro che si impegnano
per la difesa dei diritti umani, in particolare quelli delle minoranze etniche
e religiose, dei popoli indigeni, delle donne e dei bambini, e di tutti coloro
che vivono in condizioni di maggiore vulnerabilità. Tra loro ci sono anche
tanti sacerdoti e missionari che, come buoni pastori, restano accanto ai loro
fedeli e li sostengono nonostante i pericoli e i disagi, in particolare durante
i conflitti armati.
Quante famiglie, poi,
in mezzo a tante difficoltà lavorative e sociali, si impegnano concretamente
per educare i loro figli “controcorrente”, a prezzo di tanti sacrifici, ai
valori della solidarietà, della compassione e della fraternità! Quante famiglie
aprono i loro cuori e le loro case a chi è nel bisogno, come ai rifugiati e ai
migranti! Voglio ringraziare in modo particolare tutte le persone, le famiglie,
le parrocchie, le comunità religiose, i monasteri e i santuari, che hanno
risposto prontamente al mio appello ad accogliere una famiglia di
rifugiati [28].
Infine, vorrei
menzionare i giovani che si uniscono per realizzare progetti di solidarietà, e
tutti coloro che aprono le loro mani per aiutare il prossimo bisognoso nelle
proprie città, nel proprio Paese o in altre regioni del mondo. Voglio ringraziare
e incoraggiare tutti coloro che si impegnano in azioni di questo genere, anche
se non vengono pubblicizzate: la loro fame e sete di giustizia sarà saziata, la
loro misericordia farà loro trovare misericordia e, in quanto operatori di
pace, saranno chiamati figli di Dio (cfr Mt 5,6-9).
La pace nel segno del Giubileo della Misericordia
8. Nello spirito
del Giubileo della Misericordia, ciascuno è chiamato
a riconoscere come l’indifferenza si manifesta nella propria vita e ad adottare
un impegno concreto per contribuire a migliorare la realtà in cui vive, a
partire dalla propria famiglia, dal vicinato o dall’ambiente di lavoro.
Anche gli Stati sono
chiamati a gesti concreti, ad atti di coraggio nei confronti delle persone più
fragili delle loro società, come i prigionieri, i migranti, i disoccupati e i
malati.
Per quanto concerne i
detenuti, in molti casi appare urgente adottare misure concrete per migliorare
le loro condizioni di vita nelle carceri, accordando un’attenzione speciale a
coloro che sono privati della libertà in attesa di giudizio [29],
avendo a mente la finalità rieducativa della sanzione penale e valutando la
possibilità di inserire nelle legislazioni nazionali pene alternative alla
detenzione carceraria. In questo contesto, desidero rinnovare l’appello alle
autorità statali per l’abolizione della pena di morte, là dove essa è ancora in
vigore, e a considerare la possibilità di un’amnistia.
Per quanto riguarda i
migranti, vorrei rivolgere un invito a ripensare le legislazioni sulle
migrazioni, affinché siano animate dalla volontà di accoglienza, nel rispetto
dei reciproci doveri e responsabilità, e possano facilitare l’integrazione dei
migranti. In questa prospettiva, un’attenzione speciale dovrebbe essere
prestata alle condizioni di soggiorno dei migranti, ricordando che la
clandestinità rischia di trascinarli verso la criminalità.
Desidero, inoltre, in
quest’Anno giubilare, formulare un pressante appello ai responsabili degli
Stati a compiere gesti concreti in favore dei nostri fratelli e sorelle che
soffrono per la mancanza di lavoro, terra e tetto. Penso alla
creazione di posti di lavoro dignitoso per contrastare la piaga sociale della
disoccupazione, che investe un gran numero di famiglie e di giovani ed ha
conseguenze gravissime sulla tenuta dell’intera società. La mancanza di lavoro
intacca pesantemente il senso di dignità e di speranza, e può essere compensata
solo parzialmente dai sussidi, pur necessari, destinati ai disoccupati e alle
loro famiglie. Un’attenzione speciale dovrebbe essere dedicata alle donne –
purtroppo ancora discriminate in campo lavorativo – e ad alcune categorie di
lavoratori, le cui condizioni sono precarie o pericolose e le cui retribuzioni
non sono adeguate all’importanza della loro missione sociale.
Infine, vorrei invitare
a compiere azioni efficaci per migliorare le condizioni di vita dei malati,
garantendo a tutti l’accesso alle cure mediche e ai farmaci indispensabili per
la vita, compresa la possibilità di cure domiciliari.
Volgendo lo sguardo
al di là dei propri confini, i responsabili degli Stati sono anche chiamati a
rinnovare le loro relazioni con gli altri popoli, permettendo a tutti una
effettiva partecipazione e inclusione alla vita della comunità internazionale,
affinché si realizzi la fraternità anche all’interno della famiglia delle
nazioni.
In questa
prospettiva, desidero rivolgere un triplice appello ad astenersi dal trascinare
gli altri popoli in conflitti o guerre che ne distruggono non solo le ricchezze
materiali, culturali e sociali, ma anche – e per lungo tempo – l’integrità
morale e spirituale; alla cancellazione o alla gestione sostenibile del debito
internazionale degli Stati più poveri; all’adozione di politiche di
cooperazione che, anziché piegarsi alla dittatura di alcune ideologie, siano rispettose
dei valori delle popolazioni locali e che, in ogni caso, non siano lesive del
diritto fondamentale ed inalienabile dei nascituri alla vita.
Affido queste
riflessioni, insieme con i migliori auspici per il nuovo anno,
all’intercessione di Maria Santissima, Madre premurosa per i bisogni
dell’umanità, affinché ci ottenga dal suo Figlio Gesù, Principe della Pace,
l’esaudimento delle nostre suppliche e la benedizione del nostro impegno
quotidiano per un mondo fraterno e solidale.
Dal Vaticano, 8 dicembre
2015
Solennità dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria
Apertura del Giubileo Straordinario della Misericordia
FRANCISCUS
·
[7] «La società
sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli. La ragione,
da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una
convivenza civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità» (Benedetto
XVI, Lett. enc. Caritas in veritate,
19).
·
[17] «Fino a quando
non si eliminano l’esclusione e l’inequità nella società e tra i diversi popoli
sarà impossibile sradicare la violenza. Si accusano della violenza i poveri e
le popolazioni più povere, ma, senza uguaglianza di opportunità, le diverse
forme di aggressione e di guerra troveranno un terreno fertile che prima o poi
provocherà l’esplosione. Quando la società – locale, nazionale o mondiale –
abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici,
né forze dell’ordine o di intelligence che possano assicurare
illimitatamente la tranquillità. Ciò non accade soltanto perché l’inequità
provoca la reazione violenta di quanti sono esclusi dal sistema, bensì perché
il sistema sociale ed economico è ingiusto alla radice. Come il bene tende a
comunicarsi, così il male a cui si acconsente, cioè l’ingiustizia, tende ad
espandere la sua forza nociva e a scardinare silenziosamente le basi di
qualsiasi sistema politico e sociale, per quanto solido possa apparire» (Esort.
ap. Evangelii gaudium, 59).