Nella grande politica
Incollo di seguito il testo di un discorso
tenuto il 3 giugno scorso dal papa Francesco a magistrati convocati a Roma da
tutto il mondo dalla Pontificia Accademia delle scienze. In esso ha ripreso il
tema della necessità di immischiarsi nella politica e, in particolare, in quella “grande”.
Ha parlato anche della necessità di liberare i giudici da pressioni indebite,
politiche e di altra natura.
I primi commentatori delle
parole di Bergoglio hanno notato il riferimento alla "grande"
politica più che quello alla libertà dei giudici. Entrambi però sono importanti
e connessi e rappresentano delle novità nell'ideologia proposta negli ultimi
anni alle collettività di fede che riconoscono l'autorità religiosa del vescovo
di Roma.
Più o meno dal Sesto secolo
della nostra era la Chiesa cattolica come complesso di istituzioni è stata uno
dei più importanti attori politici europei; questo in particolare a partire dal
secondo millennio, da quando si è costituita come un impero religioso ad
ordinamento feudale. Quindi è sempre stata "in politica", e in
quella "grande". Dove sta la novità?
La novità sta nel fatto che
nelle parole di Bergoglio quell'impero non c'è più. Lui per primo ne ha
rifiutati i segni andando a vivere in albergo, invece che nella reggia romana
dei pontefici.
Ci sono i popoli e ci sono
delle esigenze di giustizia, in particolare delle sofferenze da lenire, ci sono
delle vittime a cui dedicare "grande attenzione". C'è un ordine
sociale da cambiare per esigenze di giustizia. Un compito che viene evocato
come una "buona onda", "dall'alto in basso e viceversa, dalla
periferia al centro e viceversa, dai leader fino alle comunità e dai popoli e
dall'opinione pubblica fino ai più altri livelli dirigenziali", dove quei
"viceversa" sono molto importanti, perché in passato non se ne faceva
conto e tutto colava dall'alto: dall'alto in basso e dal centro alla periferia.
In quest'ottica sembra quasi che
dal giudice si pretenda molto di più di quello che egli è autorizzato a fare,
anche negli ordinamenti di tipo democratico: qualcosa che pare una rivoluzione
sociale, da fare agendo insieme, in comunità, per "aprire brecce, vie
nuove di giustizia". E' perché Bergoglio, prendendo lo spunto dall’udienza
a quei magistrati, sembra aver considerato il giudice come un modello di
cittadino democratico e ha in realtà invitato tutti a farsi giudici dell'ordine sociale esistente e a farlo
liberamente, contrastando i condizionamenti indebiti e innanzi tutto quello
della corruzione, avendo come guida la
giustizia e non le "strutture di peccato" che dalla giustizia lo
allontanano, perché la giustizia è il primo attributo della società, che senza
di essa non dà felicità e pace. Bisogna ricordare che la Chiesa
cattolica-istituzione è stata, e ancora per certi versi è, uno dei più potenti
centri di pressione politica in senso proprio, con critiche che non hanno
risparmiato i giudici accusati talvolta di voler creare un nuovo diritto per
fini di giustizia (gli ultimi episodi risalgono solo a qualche settimana fa, in
Italia). Il ragionamento di Bergoglio può quindi essere considerato anche
un'autocritica: egli in fondo ha imparato la lezione dell'illuminismo, ma ne ha
anche assimilate di altre. Può liberare forze potenti in quella che può
essere considerata attualmente anche la più importante compagine politica
italiana, l'unica non ancora allo stato liquido o semi-liquido.
Venendo veramente da un altro
mondo, egli recupera un discorso iniziato da Montini a cavallo tra gli anni
Sessanta e Settanta, un forte appello all'azione politica per la riforma
sociale, presentata come dovere religioso: " Prendere sul serio la politica nei suoi
diversi livelli - locale, regionale, nazionale e mondiale - significa affermare
il dovere dell'uomo, di ogni uomo, di riconoscere la realtà concreta e il
valore della libertà di scelta che gli è offerta per cercare di realizzare
insieme il bene della città, della nazione, dell'umanità" [lo scrisse nel
1971 nel documento "L'80° Anniversario"].
"Giustizia, libertà, azione collettiva
per il cambiamento sociale": ora in religione se ne riprende a parlare, ma
le si è apprese da altri, a partire dall’Ottocento. Un capo religioso di oggi
sostiene che non se ne può fare a meno, che bisogna riscoprirle. Molti invece
le avevano sepolte, e forse dimenticate, forse sottovalutate come eccessi di
gioventù, nelle loro biblioteche. C'è, mi pare, tutta una tradizione da recuperare.
Un lavoro da fare anche in religione, per l’importante azione politica che la
fede vissuta collettivamente produce, ma anche perché i principi religiosi
incidono sia sugli obiettivi sia sui
metodi. “La politica è una maniera esigente - ma non è la sola - di vivere
l'impegno cristiano al servizio degli altri.”, scrisse anche Montini nel
documento che ho sopra citato. La definì “una testimonianza personale e
collettiva della serietà della loro fede mediante un servizio efficiente e
disinteressato agli uomini” tale da rendere necessario “inventare forme di
moderna democrazia non soltanto dando a ciascun uomo la possibilità di essere informato
e di esprimersi, ma impegnandolo in una responsabilità comune.” E’ questa responsabilità alla luce della fede che
rende esigente l’impegno politico come valore anche
religioso.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma,
Monte Sacro, Valli
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INTERVENTO
DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AL VERTICE DI GIUDICI E MAGISTRATI
CONTRO IL TRAFFICO DELLE PERSONE UMANE E IL CRIMINE ORGANIZZATO
[VATICANO, 3-4 GIUGNO 2016]
Casina
Pio IV
Venerdì, 3 giugno 2016
Buonasera. Vi saluto cordialmente e rinnovo
l’espressione della mia stima per la vostra collaborazione nel contribuire al
progresso umano e sociale, di cui la Pontificia Accademia delle Scienze Sociali
è capace.
Se mi rallegro di tale contributo e mi
compiaccio con Voi, è anche in considerazione del nobile servizio che potete
offrire all’umanità, approfondendo sia la conoscenza di questo fenomeno così
attuale, ossia l’indifferenza nel mondo globalizzato e le sue forme estreme,
sia le soluzioni dinanzi a tale sfida, cercando di migliorare le condizioni di
vita dei nostri fratelli e sorelle più bisognosi. Seguendo Cristo, la Chiesa è
chiamata a impegnarsi. Ossia, non vale l’adagio dell’Illuminismo secondo il
quale la Chiesa non deve mettersi in politica; la Chiesa deve mettersi nella
“grande” politica! Perché — cito Paolo VI — la politica è una delle forme più
alte dell’amore, della carità. E la Chiesa è anche chiamata a essere fedele
alle persone, ancora più quando si considerano le situazioni dove si toccano le
piaghe e la drammatica sofferenza, nelle quali sono coinvolti i valori,
l’etica, le scienze sociali e la fede; situazioni in cui la vostra
testimonianza come persone e umanisti, unita alla vostra specifica competenza
sociale, è particolarmente apprezzata.
Nel corso degli ultimi anni non sono mancate
importanti attività della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali sotto il
vigoroso impulso della sua Presidente, del Cancelliere e di alcuni
collaboratori esterni di grande prestigio, che ringrazio di cuore. Attività in
difesa della dignità e libertà degli uomini e donne di oggi e, in particolare,
attività volte a sradicare la tratta e il traffico di persone e le nuove forme
di schiavitù come il lavoro forzato, la prostituzione, il traffico di organi,
il narcotraffico, la criminalità organizzata. Come ha detto il mio predecessore
Benedetto XVI, e come io stesso ho affermato in diverse occasioni, questi sono
veri e propri crimini di lesa umanità che devono essere riconosciuti come tali
da tutti i leader religiosi, politici e sociali e plasmati nelle leggi
nazionali e internazionali.
L’incontro con i leader religiosi delle principali religioni che
oggi influiscono nel mondo globale, il 2 dicembre 2014, come pure ilvertice degli amministratori e dei sindaci delle città più
importanti del mondo, il 21 luglio 2015, hanno espresso la volontà
di questa Istituzione di perseguire l’eliminazione delle nuove forme di
schiavitù. Serbo un ricordo particolare di questi due incontri, come anche dei
significativi seminari dei giovani, tutti su iniziativa dell’Accademia.
Qualcuno potrebbe pensare che l’Accademia debba muoversi piuttosto in un ambito
di scienze pure, di considerazioni più teoriche: e questo risponde certamente a
una concezione illuministica di quello che deve essere un’Accademia.
Un’Accademia deve avere radici, e radici nel concreto, perché altrimenti corre
il rischio di fomentare una riflessione liquida, che si vaporizza e non arriva
a niente. Questo divorzio tra l’idea e la realtà è chiaramente un fenomeno
culturale del passato, e più precisamente dell’illuminismo, ma che ha ancora la
sua incidenza.
Ora, ispirata dagli stessi aneliti, l’Accademia
vi ha convocato, giudici e pubblici ministeri di tutto il mondo, con esperienza
e saggezza pratica nello sradicamento della tratta, del traffico di persone e
della criminalità organizzata. Siete venuti qui in rappresentanza dei vostri
colleghi con il lodevole intento di progredire nella piena consapevolezza di
tali flagelli e, di conseguenza, di rendere manifesta la vostra insostituibile
missione dinanzi alle nuove sfide che ci pone la globalizzazione
dell’indifferenza, rispondendo alla crescente richiesta della società e nel
rispetto delle leggi nazionali e internazionali. Farsi carico della propria
vocazione significa anche sentirsi e proclamarsi liberi. Giudici e pubblici
ministeri liberi: da che cosa? Dalle pressioni dei governi; liberi dalle istituzioni
private e, naturalmente, liberi dalle “strutture di peccato” di cui parla il
mio predecessore san Giovanni Paolo II, in particolare della “struttura di
peccato”, liberi dal crimine organizzato. So che subite pressioni, subite
minacce in tutto questo; e so anche che oggi essere giudici, essere pubblici
ministeri, significa rischiare la pelle, e ciò merita un riconoscimento al
coraggio di quelli che vogliono continuare a essere liberi nell’esercizio della
propria funzione giuridica. Senza questa libertà, il potere giudiziario di una
nazione si corrompe e semina corruzione. Tutti conosciamo la caricatura della
giustizia per questi casi, no? La giustizia con gli occhi bendati, alla quale
cade la benda tappandole la bocca.
Fortunatamente, per l’attuazione di questo
complesso e delicato progetto umano e cristiano, cioè liberare l’umanità dalle
nuove schiavitù e dal crimine organizzato, che l’Accademia realizza seguendo la
mia richiesta, si può anche contare sull’importante e decisiva sinergia con le
Nazioni Unite. C’è una maggiore consapevolezza di ciò, una forte
consapevolezza. Sono lieto che i rappresentanti dei 193 Paesi membri dell’ONU
abbiano approvato all’unanimità i nuovi obiettivi di sviluppo sostenibile e
integrale, in particolare il numero 8.7, che recita: «Adottare misure immediate
ed efficaci per eliminare il lavoro forzato, porre fine alle forme moderne di
schiavitù e alla tratta di esseri umani e assicurare il divieto e
l’eliminazione delle peggiori forme di lavoro infantile, inclusi il reclutamento
e l’uso di bambini soldato e, al più tardi entro il 2025, porre fine al lavoro
infantile in tutte le sue forme». Fin qui la Risoluzione. Si può ben dire che
realizzare tali obiettivi sia ora un imperativo morale per tutti i Paesi membri
dell’ONU.
Perciò occorre generare un moto trasversale e
ondulare, una “buona onda”, che abbracci l’intera società dall’alto in basso e
viceversa, dalla periferia al centro e viceversa, dai leader fino alle
comunità, e dai popoli e dall’opinione pubblica fino ai più alti livelli
dirigenziali. La realizzazione di ciò esige che, come hanno già fatto i leader
religiosi, sociali e i sindaci, così anche i giudici prendano piena
consapevolezza di tale sfida, sentano l’importanza della propria responsabilità
davanti alla società e condividano le proprie esperienze e buone pratiche e
agiscano insieme — è importante, in comunione, in comunità, che agiscano
insieme — per aprire brecce e nuove vie di giustizia a beneficio della
promozione della dignità umana, della libertà, della responsabilità, della
felicità e, in definitiva, della pace. Senza cedere al gusto della simmetria,
potremmo dire che il giudice sta alla giustizia come il religioso e il filosofo
alla morale, e il governante o qualsiasi altra figura personalizzata del potere
sovrano alla politica. Ma solo nella figura del giudice la giustizia si
riconosce come il primo attributo della società. Ed è una cosa che va
recuperata, perché la tendenza sempre più forte è quella di “liquefare” la
figura del giudice attraverso le pressioni e le altre cose che ho menzionato
prima. E tuttavia è il primo attributo della società. Appare nella stessa
tradizione biblica, non è vero? Mosè ha bisogno di istituire 70 giudici perché
lo aiutino, giudichino i casi. È il giudice a chi si ricorre. E anche in questo
processo di liquefazione, gli aspetti contundenti, concreti della realtà
interessano i popoli. Ossia, i popoli hanno un’entità che dà loro consistenza,
che li fa crescere, avere i propri progetti, accettare i propri fallimenti,
accettare i propri ideali; però stanno anche soffrendo un processo di
liquefazione, e tutto quello che è la consistenza concreta di un popolo tende a
trasformarsi nella semplice identità nominale di un cittadino. E un popolo non
è lo stesso di un gruppo di cittadini. Il giudice è il primo attributo di una
società di popolo.
L’Accademia, convocando i giudici, aspira solo a
collaborare in base alle proprie possibilità, secondo il mandato dell’ONU. È
opportuno ringraziare qui quelle nazioni che, tramite gli Ambasciatori presso
la Santa Sede, non si sono mostrate indifferenti o arbitrariamente critiche,
bensì, al contrario hanno collaborato attivamente con l’Accademia per la
realizzazione di questo vertice. Gli ambasciatori che non hanno sentito tale
necessità o che se ne sono lavati le mani o che hanno pensato che non era poi
così necessario, li aspettiamo alla prossima riunione.
Chiedo ai giudici di realizzare la propria
vocazione e missione essenziale: stabilire la giustizia senza la quale non c’è
ordine né sviluppo sostenibile e integrale, e neanche pace sociale. Senza
dubbio, uno dei più grandi mali sociali del mondo odierno è la corruzione a
tutti i livelli, che debilita qualsiasi governo, debilita la democrazia
partecipativa e l’attività della giustizia. A voi giudici spetta fare
giustizia, e vi chiedo una speciale attenzione nel fare giustizia nell’ambito
della tratta e del traffico di persone e, di fronte a ciò e al crimine
organizzato, vi chiedo di guardarvi dal cadere nella ragnatela delle
corruzioni.
Quando diciamo “fare giustizia”, come voi ben
sapete, non intendiamo che si debba cercare il castigo di per sé, ma che,
quando si comminano pene, queste siano date per la rieducazione dei
responsabili, in modo tale che si possa dare loro una speranza di reinserimento
nella società. Ossia, non c’è pena valida, senza speranza. Una pena chiusa in
se stessa, che non dà luogo alla speranza è una tortura, non è una pena. Su
questo mi baso anche per affermare seriamente la posizione della Chiesa contro
la pena di morte. Chiaro, mi diceva un teologo che nella concezione della
teologia medievale e post-medievale la pena di morte conteneva la speranza: «li
affidiamo a Dio». Ma i tempi sono cambiati e non è più così. Lasciamo che sia
Dio a scegliere il momento... La speranza del reinserimento nella società:
“neppure l’omicida perde la sua dignità personale e Dio stesso se ne fa
garante” (San Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, n. 9). E se questa
delicata congiunzione tra giustizia e misericordia — che in fondo è preparare
per un reinserimento — vale per i responsabili dei crimini contro l’umanità
come per ogni altro essere umano, a fortiori vale soprattutto
per le vittime che, come indica il loro stesso nome, sono più passive che
attive nell’esercizio della loro libertà, essendo cadute nella trappola dei
nuovi cacciatori di schiavi. Vittime tante volte tradite nel più intimo e sacro
della loro persona, cioè nell’amore che aspirano a dare e a ottenere, e che le
loro famiglie devono loro o che viene loro promesso da pretendenti o mariti, i
quali invece finiscono col venderle nel mercato del lavoro forzato, della
prostituzione o del traffico di organi.
I giudici sono chiamati oggi più che mai a
dedicare grande attenzione ai bisogni delle vittime. Sono loro le prime a dover
essere riabilitate e reintegrate nella società, e per loro si devono perseguire
in una lotta senza quartiere trafficanti e carniferos, i carnefici.
Non vale il vecchio adagio: «Sono cose che esistono da che mondo è mondo». Le
vittime possono cambiare e di fatto sappiamo che cambiano vita con l’aiuto dei
buoni giudici, delle persone che le assistono e di tutta la società. Sappiamo
che non poche di queste persone sono uomini e donne avvocati e politici,
scrittori brillanti o hanno incarichi di successo per servire in modo valido il
bene comune. Sappiamo quanto sia importante che ogni vittima trovi la forza di
parlare del suo essere vittima come di un passato che ha superato
coraggiosamente essendo ora un sopravvissuto o, per meglio dire, una persona
con qualità di vita, con dignità recuperata e libertà assunta. Riguardo a
questo tema del reinserimento, vorrei raccontare un’esperienza empirica. Mi piace,
quando vado in una città, visitare il carcere. Ne ho visitati diversi. È
curioso, senza voler offendere nessuno, ma la mia impressione generale è stata
che le carceri in cui il direttore è una donna vanno meglio di quelle in cui il
direttore è un uomo. Questo non è femminismo, è curioso. La donna ha, riguardo
al tema del reinserimento, un olfatto speciale, un tatto speciale che, senza
perdere energie, per ricollocare queste persone, per reinserirle. Alcuni lo
attribuiscono alla radice della maternità. Ma è curioso, lo dico come
esperienza personale, vale la pena rifletterci. E qui in Italia c’è un’alta
percentuale di carceri dirette da donne, molte donne, giovani, rispettate e che
sanno trattare con i detenuti. Un’altra mia esperienza personale è che alle
udienze del mercoledì non è raro che partecipi un gruppo di detenuti — di una o
l’altra prigione — portati dal direttore o dalla direttrice; stanno lì. Sono
tutti gesti di reinserimento.
Voi siete chiamati a dare speranza nel fare la
giustizia. Dalla vedova che insistentemente chiede giustizia (Lc 18,
1-8) alle vittime di oggi, tutte alimentano un anelito di giustizia, come
speranza che l’ingiustizia che attraversa questo mondo non sia l’ultima realtà,
non abbia l’ultima parola.
A volte può essere di giovamento applicare,
secondo modalità proprie di ciascun paese, di ogni continente, di ogni
tradizione giuridica, la prassi italiana di recuperare i beni criminosamente
acquisiti dai trafficanti e dai delinquenti, per offrirli alla società e, in
concreto, per il reinserimento delle vittime. La riabilitazione delle vittime e
il loro reinserimento nella società, sempre realmente possibile, è il bene più
grande che possiamo fare a loro, alla comunità e alla pace sociale. Certo, il
lavoro è duro. Non termina con la sentenza. Termina dopo, facendo sì che vi
siano un accompagnamento, una crescita, un reinserimento, una riabilitazione
della vittima e del carnefice.
Se c’è una cosa che attraversa le beatitudini
evangeliche e il protocollo del giudizio divino con cui tutti saremo giudicati
secondo il Vangelo di Matteo (cap. 25), è il tema della giustizia: «Beati
quelli che hanno fame e sete di giustizia, beati quelli che soffrono per la
giustizia, beati quelli che piangono, beati i miti, beati gli operatori di
pace, benedetti dal Padre mio quelli che trattano il più bisognoso e il più
piccolo dei miei fratelli come me stesso». Essi o esse — e qui è il caso di
riferirci in particolare ai giudici — avranno la ricompensa più grande:
possederanno la terra, saranno chiamati e saranno figli di Dio, vedranno Dio, e
gioiranno eternamente insieme al Padre.
In tale spirito oso chiedere ai giudici, ai
pubblici ministeri e agli accademici di continuare la loro opera e realizzare,
nei limiti delle loro possibilità e con l’aiuto della grazia, le felici
iniziative che onorano il loro servizio alle persone e al bene comune. Grazie!