Perdere la fede
L’ho letto su giornale di ieri. Una signora avrebbe scritto su un suo social che la scrittrice e attivista femminista Michela Murgia aveva perso la fede. Si augurava che l’avesse recuperata in punto di morte. Murgia è morta lo scorso 10 agosto, a causa di un cancro in recidiva. Aveva lasciato disposizioni per un funerale cattolico, e così si è fatto. In vita aveva sempre dichiarato la sua fede cattolica, scrivendoci anche sopra il saggio God save the queer. Catechismo femminists, Einaudi 2022, disponibile anche in e-book e Kindle, che vi consiglio caldamente e del quale sottoscrivo ogni singola parola.
Una cosa è la fede come fatto interiore, della quale solo la persona credente o non credente può dire, perché l’interiorità si sottrae a3 altrə.
Altra è l’espressione della fede ecclesiale ritenuta condizione di appartenenza, che, definita in termini teologici, è promulgata in sede ecclesiale secondo le regole che ogni Chiesa si è data: nella nostra Chiesa è nelle mani e nei cuori del Papa e dei vescovi. Quella espressione normativa per la fede non comprende naturalmente tutta la fede ecclesiale, altrimenti sarebbe la morte della teologia, che è ricerca oltre che tentativo di definizione dogmatica.
Come avrà fatto quella signora a giudicare la fede di Murgia come fatto interiore? Certamente gli interventi pubblici della scrittrice non bastano, ma in quelli essa ha sempre dichiarato la sua fede cristiana e cattolica.
Quanto all’altro aspetto, va detto che molte cose sono mutate nel tempo. Murgia denunciava e criticava la dura emarginazione femminile ancora praticata nella nostra Chiesa e dichiarava che non era implicata dall’essenziale della fede, ma che è un obsoleto portato d’altri tempi.
In particolare praticava una concezione queer della famiglia. Queer va inteso come non convenzionale. Oggi v’è chi, anche in posizioni autorevoli, ritiene che possa essere essere dichiarata famiglia, secondo la nostra fede, quella composta da mamma, papà e dai loro figli biologici. Questo certamente non mi pare rientrare nei dogmi ecclesiali, quelle espressioni della fede che sono condizioni di appartenenza ecclesiale, perché, con quel criterio, anche la Sacra Famiglia non vi rientrerebbe.
Sullo stesso giornale ho letto che in vescovo del Nord Italia avrebbe detto che non bisogna dare della teologa alla Murgia, perché non proclamava tutta la dottrina diffusa dalla gerarchia ecclesiastica cattolica. Con questo criterio, anche quello che viene considerato uno dei più grandi teologi del Novecento, il pastore calvinista Karl Barth, non dovrebbe essere considerato un teologo.
Ho letto che Murgia aveva studiato scienze religiose, per l’insegnamento della religione nelle scuole, era stata anche catechista e dirigente regionale dell’Azione Cattolica, ma non aveva conseguito il titolo che la comunità scientifica dei teologi considera indispensabile per essere consideratə unə teologə: il dottorato in una disciplina teologica. Del resto Murgia, che io sappia, non si era mai dichiarata teologa. Tuttavia una teologa sua amica l’ha riconosciuta come tale, e questo è importante. Talvolta, nelle comunità scientifiche, si ritiene propria pari anche una persona che non ha conseguito il titolo accademico necessario, ma che si è dimostrata capace in una certa disciplina, e allora si rimedia dandole un titolo honoris causa. Probabilmente Murgia, se fosse vissuta più a lungo e la Chiesa si fosse disfatta dell’ingiusto, obsoleto, crudele patriarcalismo che ancora la pervade, l’avrebbe alla fine ottenuto, perché era capace di argomentare molto bene su quell’aspetto della teologia che l’interessava, quello che definisce lo statuto ecclesiale delle donne.
La nostra gerarchia ecclesiastica e le sue corti purtroppo emarginano chi non fa mostra di adeguarsi. Un tempo l’avrebbe ucciso, ma questo potere le è stato strappato dal l’affermarsi delle democrazie. Ma chi sostiene che una morta che “aveva perso la fede”, implicitamente la dichiara dannata. Per questo l’augurio che l’avesse recuperata in punto di morte, come si usa dire per i suicidi.
Personalmente ripudio quei modi di fare e di dire. Ho imparato la dura lezione della nostra tremenda storia ecclesiale. Accetto di vivere ecclesialmente in una condizione pluralistica. Del resto, è proprio perché se ne è preso atto anche dalla gerarchia ecclesiastica che si sta facendo pratica di una sinodalità molto più ampia di quella mia vissuta nella nostra Chiesa.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli