Sinodalità: istituzioni e mentalità
Lo sviluppo della sinodalità nella
nostra Chiesa è il processo storico che ci coinvolgerà sempre più profondamente nei prossimi anni. Nel corso
dell’Anno Santo del 2025 è programmato un primo bilancio a livello mondiale. Ma
probabilmente si sarà ancora agli inizi. Si tratta infatti di un lavoro di
grande portata, che in questi mesi ha visto la breve partecipazione di una
piccola minoranza di fedeli e si sta svolendo prevalentemente nelle burocrazie
delle diocesi e della Segreteria del Sinodo dei vescovi.
Sinodalità è il costume secondo il quale, a ogni livello, si organizzano
procedure di co-decisione la più larga possibile. Corrisponde a una mentalità
che deve ancora essere inculturata nelle nostre comunità ecclesiali. C’è chi
dovrà imparare a fare spazio e chi, invece, ad abitarlo in modo attivo.
In uno schema che ho visto proposto da diversi degli autori che ho
accostato, la sinodalità dovrebbe svilupparsi in un processo uno-alcuni-tutti.
Uno sarebbero i gerarchi che attualmente
accentrano ogni decisione. Alcuni sarebbero i consigli espressione di sinodalità, variamente
partecipati. Tutti sarebbero i fedeli
nella loro totalità.
Noi attualmente non disponiamo, e neanche riusciamo a immaginarle, di
procedure che esprimano una volontà sinodale di tutti. E’ qualcosa che è fuori della
portata della capacità umana di intese. Molto fantasiosamente si parla di sensus
fidei e di sensus fidei fidelium ipotizzando una sorta di istinto
nella Chiesa di intuire le giuste definizioni in materia religiosa. Ne ha trattato la
Commissione Teologia Internazionale in un interessante documento, dal titolo Il
sensus fidei nella vita della Chiesa https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/cti_documents/rc_cti_20140610_sensus-fidei_it.html
, dal quale traggo questa spiegazione:
1. Per il dono dello Spirito Santo, «lo
Spirito della verità che procede dal Padre» e che rende testimonianza al Figlio
(Gv 15,26), tutti i battezzati partecipano alla funzione profetica di Gesù
Cristo, «Testimone degno di fede e veritiero» (Ap 3,14). Essi devono rendere
testimonianza al Vangelo e alla fede degli apostoli nella Chiesa e nel mondo.
Lo Spirito Santo dona loro l’unzione e fornisce le doti per questa alta
vocazione, conferendo loro una conoscenza molto personale e intima della fede
della Chiesa. Nella sua Prima lettera, san Giovanni dice ai fedeli: «Voi avete
ricevuto l’unzione dal Santo, e tutti avete la conoscenza»; «l’unzione che
avete ricevuto da lui [da Cristo] rimane in voi, e non avete bisogno che
qualcuno vi istruisca»; «la sua unzione vi insegna ogni cosa» (1Gv 2,20.27).
2. Ne consegue che i fedeli possiedono un
istinto per la verità del Vangelo, che permette loro di riconoscere la dottrina
e la prassi cristiane autentiche e di aderirvi. Questo istinto soprannaturale,
che ha un legame intrinseco con il dono della fede ricevuto nella comunione
ecclesiale, è chiamato sensus fidei, e permette ai cristiani di
rispondere alla propria vocazione profetica. Nel suo primo Angelus,
papa Francesco citò le parole di un’umile anziana donna che egli incontrò una
volta: «Se il Signore non perdonasse tutto, il mondo non esisterebbe»; e il
papa aggiunse l’ammirato commento: «Quella è la sapienza che dà lo Spirito
Santo». L’intuizione di quella donna è una toccante manifestazione
del sensus fidei, il quale consente un certo discernimento riguardo
alle cose della fede e al tempo stesso nutre la vera saggezza e suscita la
proclamazione della verità, come in questo caso. È dunque chiaro che il sensus
fidei rappresenta una risorsa vitale per la nuova evangelizzazione,
che è oggi uno dei principali impegni per la Chiesa.
3. Come concetto teologico, il sensus
fidei fa riferimento a due realtà distinte, anche se strettamente
connesse; il soggetto proprio dell’una è la Chiesa, «colonna e sostegno della
verità» (1Tm 3,15), mentre il soggetto dell’altra è il singolo credente,
che appartiene alla Chiesa per mezzo dei sacramenti dell’iniziazione e che
partecipa alla fede e alla vita ecclesiali particolarmente mediante la
celebrazione regolare dell’eucaristia. Da una parte, il sensus
fidei fa riferimento alla personale attitudine che il credente
possiede, all’interno della comunione ecclesiale, di discernere la verità della
fede. Dall’altra, il sensus fidei fa riferimento a una realtà
comunitaria ed ecclesiale: l’istinto di fede della Chiesa stessa, per mezzo del
quale essa riconosce il suo Signore e proclama la sua Parola. Il sensus
fidei inteso in questo senso si riflette nel fatto che i battezzati
convergono nell’adesione vitale a una dottrina di fede o a un elemento
della praxis cristiana. Questa convergenza (consensus)
riveste un ruolo vitale nella Chiesa: il consensus fidelium è
un criterio sicuro per determinare se una particolare dottrina o una prassi
particolare appartengono alla fede apostolica. Nel presente documento
utilizzeremo il termine sensus fidei fidelis per fare
riferimento all’attitudine personale del credente a operare un giusto
discernimento in materia di fede, e quello di sensus fidei fidelium per
fare riferimento all’istinto di fede della Chiesa stessa. A seconda del
contesto, sensus fidei si riferirà all’uno o all’altro senso,
e per il secondo si utilizzerà anche il termine sensus fidelium.
In realtà solo a posteriori può essere
riconosciuto quel risultato e naturalmente non tenendo conto della violenza,
che in alcune epoche storiche è stata anche estrema e addirittura stragista, che è stata necessaria per ottenerlo, come anche dei dissenzienti cacciati fuori. Quello
che può realisticamente essere valutato è solo il grado di conformità che si
riesce ad ottenere su certe posizioni in un corpo sociale di riferimento, ma l’entità
tutti ci sfugge, perché i metodi
di indagine non potranno mai raggiungere, appunto, tutti.
La sinodalità, come costume di co-decisione, e prima di questo di
partecipazione alla valutazione di problemi, eventi e soluzioni, può svilupparsi
solo a livello di alcuni e, per rendere coerente, un corpo sociale molto
grande, richiede procedure di coordinamento sinodale tra diverse realtà di consigli
e una certa rappresentatività dei consigli, nel senso che dovrebbero rendere
presenti i vari orientamenti
presenti nella società di riferimento, non necessariamente però secondo lo
schema della delega. Piuttosto, occorre che i membri di un consiglio di co-decisione che non comprende tutto il
corpo sociale di riferimento, come in genere accadrà dai livelli intermedi in
su, godano della fiducia delle
porzioni di società che intendono rendere presenti. Questo anche nel caso che i
componenti di un consiglio del genere siano nominati in ragione della
loro particolare competenza in una certa materia, che non tutti hanno. A livelli
di piccoli gruppi, all’interno occorreranno procedure di co-decisione che
consentano una reale partecipazione di tutti, e, verso l’esterno, di
coordinamento sinodale con gli altri gruppi sinodali. Questa struttura di
coordinamento, a sua volta, sarà impersonata da un consiglio, dotato di
procedure appropriate. E’ essenziale,
che la sinodalità non sia progettata secondo lo schema alto-basso, con realtà
di base in basso e concependo
quelle di coordinamento come un alto. Questo si può ottenere stabilendo
un limite temporale ad ogni funzione sinodale di tipo rappresentativo e
forme di circolarità nella rappresentatività, per cui, dai livelli intermedi a quelli
di più ampio coordinamento si possa essere ascoltati anche in altri consigli.
Poi c’è la questione dell’uno, del gerarca,
ad esempio in un parrocchia il parroco. Su questo bisogna essere molto chiari.
La posizione di uno solo che
decida è incompatibile con la sinodalità. Può essere mantenuta solo in ruoli
puramente esecutivi, di attuazione di decisioni sinodali. Altro è il caso della
figura che abbia l’incarico di proclamare una decisione sinodale, un po’ come nella nostra
Repubblica fa il suo Presidente, o di presiedere un consiglio in modo da farne rispettare le procedure di
partecipazione e di co-decisione.
In
una Chiesa ci sono poi funzioni non sinodalizzabili. Una di queste è la predicazione.
Essa è legata ad un particolare impegno personale del predicatore nei confronti
di una comunità: ci dovrà sempre essere qualcuno che predichi alla comunità ciò
che quest’ultima non vorrebbe sentirsi predicare, al modo dei profeti biblici. E,
aggiungo, non ritengo incompatibile con la sinodalità uno schema procedurale
che preveda che consiglio e predicatore
debbano necessariamente assentire su
una certa decisione, secondo lo schema non solo da me – non senza di me.
Ma, tutto sommato, immaginare procedure
è molto più semplice che acquisire una mentalità sinodale, secondo la quale ci
si ritiene personalmente coinvolti e responsabili nelle decisioni che
riguardano tutti riconoscendo anche alle altre persone la stessa posizione. E
questo soprattutto in una Chiesa come la nostra in cui ancora adesso non si è
assolutamente sinodali, al di fuori di certe esperienza di associazionismo
religioso. Si è abituati ad accettare le decisioni gerarchiche in ciò su cui si
è d’accordo e a disimpegnarsi sulle altre, semplicemente non partecipando. La
mentalità sinodale dovrebbe spingere a voler partecipare a tutte, in qualche modo, anche nella forma
della critica esplicita. Oggi però non vi sono nella nostra Chiesa, in genere,
luoghi dove esercitare rilievi critici: se si tenta di proporli si è
semplicemente emarginati, e così naturalmente le cose vanno molto meglio che in
passato, in cui la repressione si abbatteva molto più duramente sui dissenzienti.
Oggi rischiano conseguenze più gravi il clero e i religiosi, che hanno fatto
della missione religiosa una professione e che quindi di punto in bianco, e a
discrezione di un gerarca, possono essere buttati per strada. Certamente, sotto
questo profilo, la nostra Chiesa non è ancora una società libera, ma può
diventarlo sviluppando una mentalità sinodale.
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San
Clemente papa – Roma, Monte Sacro Valli.