INFORMAZIONI UTILI SU QUESTO BLOG

  Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

  This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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  Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

  Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

  Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

  Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente due martedì e due sabati al mese, alle 17, e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

 Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

 La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

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domenica 24 luglio 2022

Sinodalità e tradizione

Sinodalità e tradizione

 

 Nella nostra fede si dà molta importanza alle tradizioni, che sono i costumi e le concezioni del passato che abbiamo conosciuto da coloro che ci hanno preceduto e che abbiamo adottato come stili di vita. Quanto più risalgono nel tempo tanto più attribuiamo loro valore. Addirittura si immagina che ve ne siano alcune che risalgono al tempo in cui il Maestro fu tra noi, uomo tra le altre persone.  Poiché il passato genera valore accade anche che si costruiscano immagini del passato sulle quali poi innestarvi certe “antiche” tradizioni. Alcune feste tradizionali paesane sono iniziate così.

  “Chi controlla il passato controlla il futuro e chi controlla il presente controlla il passato” era lo slogan del partito unico nel romanzo dello scrittore inglese George Orwell 1984, pubblicato nel 1949. Descriveva una società totalitaria, avendo presente l’Unione Sovietica del regime staliniano, che pretendeva di avere il controllo della narrazione storica, e quindi delle tradizioni, impiegando su larga scala la violenza politica. Per circa nove secoli è in questo modo che ha governato il Papato romano. Anche questa è una indubbiamente una tradizione, tramandata di generazione in generazione. Il Papato romano ha perso la capacità di esercitare una violenza politica fisica da quando, nel 1870, perse il dominio sul suo piccolo stato nell’Italia centrale, a seguito dell’invasione militare da parte del Regno d’Italia. Dagli scorsi anni Sessanta ha perso quasi del tutto la capacità di esercitare violenza morale sulle persone di fede libere da vincoli di appartenenza al clero o ad ordini religiosi. Gli rimane solo la possibilità della violenza morale contro clero e religiosi. Per questo sono ad oggi è stata duramente avversata l’idea di una riforma ecclesiale in senso realmente sinodale, in cui la gran massa delle persone di fede, finora escluse da qualsiasi partecipazione ai poteri ecclesiastici, possa in qualche modo contribuire a determinare le decisioni che le riguardano. I gerarchi ecclesiali si arrogano finanche il potere di stabilire come si debba fare all’amore, nonostante che essi, vietandoselo, ne sappiano troppo poco e ci fantastichino troppo sopra, senza che almeno i coniugi cristiani, consacrati all’amore anche fisico da un sacramento, contino qualcosa. Subiscono solo.

  La gran parte delle nostre tradizioni di impronta religiosa, le feste popolari come certe definizioni di fede, sono state create o rimaneggiate nel basso Medioevo (dall’Undicesimo al Quindicesimo secolo), quando, con l’emergere della teologia universitaria e di un Papato imperiale ideato negli ambienti monastici, il governo della Chiesa si staccò progressivamente sempre di più dalla gente, divenendo faccenda solo di gerarchi e dei sovrani civili, che, possedendo le genti stanziate sui territori di loro proprietà, pretendevano di comandare anche sulla loro fede.

  Questo fa capire la profondità del cambiamento da una Chiesa autocratica, dominata dall’assolutismo del clero, ad una sinodale, realmente partecipata. È senz’altro possibile che molte tradizioni siano sottoposte a un vaglio critico, in particolare quelle che dipendono storicamente da un certo assetto di potere.

 Nessuna persona di fede, in particolare chi è genitore, passa nella vita senza lasciare in propria tradizione, una traccia. Aprendosi alla gente, la Chiesa probabilmente risentirà di queste molteplici tradizioni.

Mario Ardigó – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

  

  

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

sabato 23 luglio 2022

Potere partecipato a partire dall’essere informati

      Potere partecipato a partire dall’essere informati


 Sinodalità è co-decisione o non è tale. La si distingue dalla collegialità che si ha quando un’autorità pubblica o privata è esercitata da più persone costituite come un unico centro di potere,  quindi come se ciò che esse comandano d’intesa fosse ordinato da un’unica persona. Sinodalità si ha quando, riguardo a certe decisioni, più centri di potere raggiungono delle intese senza abolire il loro pluralismo. Il tipo elementare di “centro di potere” è quello manifestato dalle singole persone. L’obiettivo fondamentale della sinodalità è quindi quello di raggiungere intese sul da farsi nelle dinamiche sociali, in cui si entra in relazione con altre persone per collaborare per scopi comuni. La forma elementare di ciò che si intende per “sinodalità” è la consuetudine, per la quale certe regole sociali vengono spontaneamente osservate, con la convinzione però che si debba farlo, anche se non formalmente ordinate da un unico centro di potere che è riuscito a imporre la propria autorità alla collettività di riferimento.

  Le persone di fede libere da vincoli derivanti dall’appartenenza al clero o ad ordini religiosi non esercitano attualmente alcun potere ecclesiastico. Esse sono la quasi totalità delle persone di fede riconosciute come appartenenti alle nostre Chiese, le quali, dunque, non sono sinodali. Modelli di Chiese sinodali sono invece quelle del protestantesimo riformato che fanno riferimento alla teologia di Giovanni Calvino (1509-1564). I problemi che i cattolici hanno avuto dal Cinquecento in materia di sinodalità, che hanno fatto della loro Chiesa un modello di autocrazia clericale, si devono principalmente alla reazione del Papato contro le Chiese sorte dalla Riforma protestante. L’idea che tutte le persone di fede potessero aver voce in religione venne condannata come eretica, ma ai tempi nostri il fondamento teologico di ciò è stato messo in questione, ad esempio nel documento del 2018 della Commissione Teologica Internazionale (un collegio di consulenti istituito presso il Dicastero per la Dottrina della fede) intitolato La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa [https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/cti_documents/rc_cti_20180302_sinodalita_it.html], che per noi non specialisti del ramo può essere un buon inizio per farsi un’idea su quei temi. Quindi, fin dall’inizio del suo Regno, ma in particolare dal 2015, papa Francesco ha esortato le Chiese che sono in Italia a sviluppare una struttura sinodale. Nell’autunno dello scorso anno sono stati deliberati un processo sinodale che mette capo al Sinodo dei vescovi, che si concluderà nell’autunno del prossimo anno, e uno che mette capo alla nostra Conferenza episcopale, di più lungo corso, con una tappa per fare il punto durante l’Anno Santo del 2025. Siamo ancora agli inizi. La nostra Chiesa non è certamente ancora sinodale se riferiamo la sinodalità a tutte le persone di fede.

  Non vi è sinodalità, quindi co-decisione, dove la gente è solo consultata, ma poi chi ritiene di avere l’autorità può prescindere dal parere espresso.

  In realtà, nell’Europa occidentale e in particolare in Italia, la gente di fede si è espressa su temi religiosi molto importanti, di natura etica, ad esempio sulla genitorialità consapevole e sulla stabilità delle relazioni coniugali, esprimendo consuetudini divergenti dalle pronunce in materia dell’autorità ecclesiastica.  Si tratta certamente di forme di sinodalità, per altro disconosciute. I costumi democratici, almeno nell’Europa occidentale,  hanno liberato dalla costrizione di seguire norme etiche le quali, benché argomentate teologicamente a differenza (in genere) delle contrastanti consuetudini, si sono rivelate, nella pratica, insostenibili e quindi insensate. Questa essendo la situazione, si teme che la sinodalità porti a un degrado etico nelle nostre Chiese.

  In prospettiva bisognerebbe porsi il problema di decisioni rilevantissime per le persone di fede che vengono prese in ambiti molto ristretti, o, addirittura, come avvenne per l’enciclica Della vita umana, del 1968, che si occupò appunto tra l’altro di genitorialitá  responsabile, da parte di un unico centro di potere, per come in genere riferiscono gli storici della Chiesa. Tuttavia non credo che nel nostro secolo si arriverà a una soluzione soddisfacente in merito, tenendo conto, ad esempio, che, come osservato da Papa Francesco, si è ancora molto indietro nell’attuazione dei principi di organizzazione ecclesiale deliberati durante il Concilio Vaticano 2º, nei quali non si trova la sinodalità ma l’affermazione della dignità di tutte le persone del Popolo di Dio,  che della sinodalità è il presupposto. Più produttiva potrebbe rivelarsi la via indicata da papa Francesco di cominciare dalle realtà di base, che poi sono le uniche in cui realmente la Chiesa è vissuta, tutto il resto essendo solo burocrazia, naturalmente dal punto di vista antropologico, fatte salve le fantasiose concezioni delle teologie.

  In una realtà di base, come la nostra parrocchia, ci sono cose da fare nell’interesse comune, come ad esempio stabilire la collocazione delle statue dei santi e dei dipinti nella chiesa parrocchiale, i turni di servizio in chiesa per mantenerla aperta durante il giorno, i turni per la sua pulizia, la programmazione dell’utilizzo dei locali parrocchiali. In queste cose non è necessaria una particolare competenza per decidere, gli argomenti sono alla portata di tutti. Tuttavia, la sinodalità non richiede che tutti decidano tutto, perché altrimenti, anche a questo livello, si sarebbe presto ingolfati nelle decisioni da prendere, con conseguente disaffezione. È importante, invece, che tutti siano portati a conoscenza delle decisioni da prendere e che, a loro richiesta, possano essere ascoltati da coloro che, nel quadro della ripartizione degli oneri decisionali, spetta di decidere. Così come che ci sia una sede, una qualche assemblea più largamente rappresentativa, davanti alla quale coloro che hanno l’onere di decidere possano essere chiamati per spiegare le loro decisioni. Questo corrisponde al principio di teoria dell’amministrazione pubblica detto della casa di vetro, per il quale le mura delle stanze del potere devono essere trasparenti, per consentire a chiunque di sapere e controllare. Attualmente nella nostra parrocchia le persone di fede del quartiere, a parte la trentina circa che sono direttamente impegnate nei servizi parrocchiali, nulla sa e nulla può sapere di come, quando e che cosa si decide.  

  La prima e fondamentale forma di partecipazione sinodale non è quella della deliberazione di una decisione, ma dell’essere informati di ciò che c’è da decidere e delle relative procedure.

  Se, come è consigliabile, si potesse utilizzare il Consiglio pastorale parrocchiale come organo di propulsione della sinodalità parrocchiale, si potrebbe pensare a un sistema di sue commissioni, per i vari settori decisionali, in cui fare tirocinio di sinodalità, prima di tutto informativa.

  So che a volte i preti considerano questo della sinodalità un impegno che è una gran perdita di tempo. Sono sfiancati dalla gestione degli affari correnti e arrivano a sera stanchissimi e angosciati per le molte cose da fare che hanno dovuto lasciare indietro.  Questo accade perché pretendono di fare tutto loro. La sinodalità è, sì, co-decisione, ma è anche corresponsabilità nell’impegno: la comunità che è organizzata in modo sinodale è quella in cui c’è più tempo per fare ciò che si deve, perché il tempo che ciascuna persona può ragionevolmente mettere a disposizione della Chiesa (per la maggior parte delle persone ci sono anche la cura della famiglia e il lavoro in società) è moltiplicato per molte più persone.

Mario Ardigó – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

  



domenica 17 luglio 2022

Sinodalità: istituzioni e mentalità

 

Sinodalità: istituzioni e mentalità

 

Lo sviluppo della sinodalità nella nostra Chiesa è il processo storico che ci coinvolgerà sempre più  profondamente nei prossimi anni. Nel corso dell’Anno Santo del 2025 è programmato un primo bilancio a livello mondiale. Ma probabilmente si sarà ancora agli inizi. Si tratta infatti di un lavoro di grande portata, che in questi mesi ha visto la breve partecipazione di una piccola minoranza di fedeli e si sta svolendo prevalentemente nelle burocrazie delle diocesi e della Segreteria del Sinodo dei vescovi.

  Sinodalità è il costume secondo il quale, a ogni livello, si organizzano procedure di co-decisione la più larga possibile. Corrisponde a una mentalità che deve ancora essere inculturata nelle nostre comunità ecclesiali. C’è chi dovrà imparare a fare spazio e chi, invece, ad abitarlo in modo attivo.

  In uno schema che ho visto proposto da diversi degli autori che ho accostato, la sinodalità dovrebbe svilupparsi in un processo uno-alcuni-tutti.  Uno  sarebbero i gerarchi che attualmente accentrano ogni decisione. Alcuni  sarebbero i consigli  espressione di sinodalità, variamente partecipati. Tutti  sarebbero i fedeli nella loro totalità.

  Noi attualmente non disponiamo, e neanche riusciamo a immaginarle, di procedure che esprimano una volontà sinodale  di tutti. E’ qualcosa che è fuori della portata della capacità umana di intese. Molto fantasiosamente si parla di sensus fidei e di sensus fidei fidelium ipotizzando una sorta di istinto  nella Chiesa di intuire  le giuste definizioni  in materia religiosa. Ne ha trattato la Commissione Teologia Internazionale in un interessante documento, dal titolo Il sensus fidei nella vita della Chiesa  https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/cti_documents/rc_cti_20140610_sensus-fidei_it.html , dal quale traggo questa spiegazione:

 

1. Per il dono dello Spirito Santo, «lo Spirito della verità che procede dal Padre» e che rende testimonianza al Figlio (Gv 15,26), tutti i battezzati partecipano alla funzione profetica di Gesù Cristo, «Testimone degno di fede e veritiero» (Ap 3,14). Essi devono rendere testimonianza al Vangelo e alla fede degli apostoli nella Chiesa e nel mondo. Lo Spirito Santo dona loro l’unzione e fornisce le doti per questa alta vocazione, conferendo loro una conoscenza molto personale e intima della fede della Chiesa. Nella sua Prima lettera, san Giovanni dice ai fedeli: «Voi avete ricevuto l’unzione dal Santo, e tutti avete la conoscenza»; «l’unzione che avete ricevuto da lui [da Cristo] rimane in voi, e non avete bisogno che qualcuno vi istruisca»; «la sua unzione vi insegna ogni cosa» (1Gv 2,20.27).

2. Ne consegue che i fedeli possiedono un istinto per la verità del Vangelo, che permette loro di riconoscere la dottrina e la prassi cristiane autentiche e di aderirvi. Questo istinto soprannaturale, che ha un legame intrinseco con il dono della fede ricevuto nella comunione ecclesiale, è chiamato sensus fidei, e permette ai cristiani di rispondere alla propria vocazione profetica. Nel suo primo Angelus, papa Francesco citò le parole di un’umile anziana donna che egli incontrò una volta: «Se il Signore non perdonasse tutto, il mondo non esisterebbe»; e il papa aggiunse l’ammirato commento: «Quella è la sapienza che dà lo Spirito Santo». L’intuizione di quella donna è una toccante manifestazione del sensus fidei, il quale consente un certo discernimento riguardo alle cose della fede e al tempo stesso nutre la vera saggezza e suscita la proclamazione della verità, come in questo caso. È dunque chiaro che il sensus fidei rappresenta una risorsa vitale per la nuova evangelizzazione, che è oggi uno dei principali impegni per la Chiesa.

3. Come concetto teologico, il sensus fidei fa riferimento a due realtà distinte, anche se strettamente connesse; il soggetto proprio dell’una è la Chiesa, «colonna e sostegno della verità» (1Tm 3,15), mentre il soggetto dell’altra è il singolo credente, che appartiene alla Chiesa per mezzo dei sacramenti dell’iniziazione e che partecipa alla fede e alla vita ecclesiali particolarmente mediante la celebrazione regolare dell’eucaristia. Da una parte, il sensus fidei fa riferimento alla personale attitudine che il credente possiede, all’interno della comunione ecclesiale, di discernere la verità della fede. Dall’altra, il sensus fidei fa riferimento a una realtà comunitaria ed ecclesiale: l’istinto di fede della Chiesa stessa, per mezzo del quale essa riconosce il suo Signore e proclama la sua Parola. Il sensus fidei inteso in questo senso si riflette nel fatto che i battezzati convergono nell’adesione vitale a una dottrina di fede o a un elemento della praxis cristiana. Questa convergenza (consensus) riveste un ruolo vitale nella Chiesa: il consensus fidelium è un criterio sicuro per determinare se una particolare dottrina o una prassi particolare appartengono alla fede apostolica. Nel presente documento utilizzeremo il termine sensus fidei fidelis per fare riferimento all’attitudine personale del credente a operare un giusto discernimento in materia di fede, e quello di sensus fidei fidelium per fare riferimento all’istinto di fede della Chiesa stessa. A seconda del contesto, sensus fidei si riferirà all’uno o all’altro senso, e per il secondo si utilizzerà anche il termine sensus fidelium.

 

 In realtà solo a posteriori può essere riconosciuto quel risultato e naturalmente non tenendo conto della violenza, che in alcune epoche storiche è stata anche estrema e addirittura stragista, che è  stata necessaria per ottenerlo, come anche dei dissenzienti cacciati fuori. Quello che può realisticamente essere valutato è solo il grado di conformità che si riesce ad ottenere su certe posizioni in un corpo sociale di riferimento, ma l’entità tutti  ci sfugge, perché i metodi di indagine non potranno mai raggiungere, appunto, tutti.

  La sinodalità, come costume di co-decisione, e prima di questo di partecipazione alla valutazione di problemi, eventi e soluzioni, può svilupparsi solo a livello di alcuni e, per rendere coerente, un corpo sociale molto grande, richiede procedure di coordinamento sinodale tra diverse realtà di consigli  e una certa rappresentatività  dei  consigli, nel senso che dovrebbero rendere presenti  i vari orientamenti presenti nella società di riferimento, non necessariamente però secondo lo schema della delega. Piuttosto, occorre che i membri di un consiglio  di co-decisione che non comprende tutto il corpo sociale di riferimento, come in genere accadrà dai livelli intermedi in su, godano della fiducia  delle porzioni di società che intendono rendere presenti. Questo anche nel caso che i componenti di un consiglio del genere siano nominati in ragione della loro particolare competenza in una certa materia, che non tutti hanno. A livelli di piccoli gruppi, all’interno occorreranno procedure di co-decisione che consentano una reale partecipazione di tutti, e, verso l’esterno, di coordinamento sinodale con gli altri gruppi sinodali. Questa struttura di coordinamento, a sua volta, sarà impersonata da un consiglio, dotato di procedure appropriate.  E’ essenziale, che la sinodalità non sia progettata secondo lo schema alto-basso, con realtà di base in basso  e concependo quelle di coordinamento come un alto. Questo si può ottenere stabilendo un limite temporale ad ogni funzione sinodale di tipo rappresentativo e forme di circolarità nella rappresentatività, per cui, dai livelli intermedi a quelli di più ampio coordinamento si possa essere ascoltati anche in altri consigli.

 Poi c’è la questione dell’uno, del gerarca, ad esempio in un parrocchia il parroco. Su questo bisogna essere molto chiari. La posizione di uno  solo che decida è incompatibile con la sinodalità. Può essere mantenuta solo in ruoli puramente esecutivi, di attuazione di decisioni sinodali. Altro è il caso della figura che abbia l’incarico di proclamare  una decisione sinodale, un po’ come nella nostra Repubblica fa il suo Presidente, o di presiedere  un consiglio  in modo da farne rispettare le procedure di partecipazione e di co-decisione.

 In una Chiesa ci sono poi funzioni non sinodalizzabili. Una di queste è la predicazione. Essa è legata ad un particolare impegno personale del predicatore nei confronti di una comunità: ci dovrà sempre essere qualcuno che predichi alla comunità ciò che quest’ultima non vorrebbe sentirsi predicare, al modo dei profeti biblici. E, aggiungo, non ritengo incompatibile con la sinodalità uno schema procedurale che preveda che consiglio  e predicatore  debbano necessariamente assentire su una certa decisione, secondo lo schema non solo da me – non senza di me.

  Ma, tutto sommato, immaginare procedure è molto più semplice che acquisire una mentalità sinodale, secondo la quale ci si ritiene personalmente coinvolti e responsabili nelle decisioni che riguardano tutti riconoscendo anche alle altre persone la stessa posizione. E questo soprattutto in una Chiesa come la nostra in cui ancora adesso non si è assolutamente sinodali, al di fuori di certe esperienza di associazionismo religioso. Si è abituati ad accettare le decisioni gerarchiche in ciò su cui si è d’accordo e a disimpegnarsi sulle altre, semplicemente non partecipando. La mentalità sinodale dovrebbe spingere a voler partecipare  a tutte, in qualche modo, anche nella forma della critica esplicita. Oggi però non vi sono nella nostra Chiesa, in genere, luoghi dove esercitare rilievi critici: se si tenta di proporli si è semplicemente emarginati, e così naturalmente le cose vanno molto meglio che in passato, in cui la repressione si abbatteva molto più duramente sui dissenzienti. Oggi rischiano conseguenze più gravi il clero e i religiosi, che hanno fatto della missione religiosa una professione e che quindi di punto in bianco, e a discrezione di un gerarca, possono essere buttati per strada. Certamente, sotto questo profilo, la nostra Chiesa non è ancora una società libera, ma può diventarlo sviluppando una mentalità sinodale.

Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro Valli.

giovedì 14 luglio 2022

Il governo sinodale di una parrocchia. Il Consiglio pastorale parrocchiale

 

Il governo sinodale  di una parrocchia. Il Consiglio pastorale parrocchiale

 

  Quando ho chiesto a un amico se potessi dare una mano, come segretario, a far rivivere il nostro Consiglio pastorale parrocchiale, lui si è fatto una risata. Mi ha fatto capire che le mie posizioni mi pongono fuori  dell’area di una possibile collaborazione in parrocchia. Non mi sono meravigliato, perché è così che funziona oggi il nostro apparato ecclesiastico, e tutto sommato va molto meglio di quando emarginava molto più duramente.

  Comunque, mediante questo blog, esercito una sorta di magistero laicale, pur non sapendo né volendo saperne di teologia, essendone solo un po’ informato, ma facendo tesoro di ciò che ho appreso nel mio campo di specializzazione, che riguarda le istituzioni.

  In diritto canonico si attribuisce al parroco, che rappresenta giuridicamente la parrocchia nelle questioni civili ed ecclesiastiche, una funzione di governo. Una parrocchia è una società, e la nostra non è neanche tanto piccola, potendo stimarsi in circa ottomila persone quelle che vi fanno riferimento per la loro fede. Comunque,  a prescindere dalla religione, è tutto il quartiere, di circa quindicimila abitanti che è in qualche modo in relazione con essa. Il governo significa decidere che fare in una collettività, in particolare come utilizzare i beni di cui si dispone, che attività sociali organizzare, che posizione prendere di fronte ai problemi civici ed ecclesiali. Negli statuti delle collettività che si danno un governo, le decisioni di quest’ultimo sono obbligatorie.

  Nell’Europa di oggi, la funzione di governo in genere non è mai attribuita ad una sola persona, salvo che in realtà di imprese molto piccole o quando l’aspetto proprietario personale predomina. Di solito si governa mediante consigli,  vale a dire istituzioni in cui si può discutere e decidere insieme dopo aver analizzato a fondo le varie questioni. Fa eccezione la nostra Chiesa, nella quale pure alcuni consigli  sono stati istituiti, ma non hanno grande rilievo rispetto alla persona che sostanzialmente accentra il governo. In particolare questo si può dire per i Consigli pastorali parrocchiali, che, dopo una certa vivacità di esercizio dopo la loro istituzione nel 1983, con il nuovo Codice di diritto canonico, sulla scia di quella del Consiglio pastorale diocesano, manifestano ai nostri giorni una fase di declino, per disaffezione da parte del clero e dell’altra gente.  

  C’è una profonda differenza tra il Consiglio pastorale diocesano  e il Consiglio pastorale parrocchiale. Solo quest’ultimo è, o almeno dovrebbe essere, realmente espressione di una comunità. L’organizzazione ecclesiastica diocesana è infatti essenzialmente una burocrazia costruita intorno al potere del vescovo. Questo spiega perché, nel tempo della sede vacante, per morte, impedimento o dimissioni del titolare, è previsto che il Consiglio pastorale diocesano  decada, ma non così il Consiglio pastorale parrocchiale.

  Quando si parla di pastorale, nella denominazione di quei Consigli, non si vuole intendere solo predicazione, catechetica, carità e liturgia, attività centrali nel ministero del prete, ma ogni attività sociale nel mondo. E’ in questo senso che, ad esempio, è detta pastorale  la Costituzione La gioia e la speranza deliberata durante il Concilio Vaticano 2° (1962-1965).

  Il Consiglio pastorale parrocchiale  dovrebbe essere espressione delle forze che animano la parrocchia: dovrebbe essere composto in modo da renderle presenti, e in questo senso in modo rappresentativo. I membri del Consiglio  non sono però dei delegati dei rispettivi gruppi e tantomeno delegati tenuti a rispettarne il mandato. Partecipano in quanto persone di fede della parrocchia. La composizione dei Consiglio come la loro regolamentazione è lasciata alla normazione del vescovo. Nella Diocesi di Roma si è provveduto nel 1994 con un decreto del cardinal vicario Camillo Ruini.

 

Art. 3.– Composizione Il Consiglio Pastorale Parrocchiale è composto dal Parroco, il quale lo istituisce e ne è il Presidente, dai Vicari Parrocchiali, dai Sacerdoti collaboratori, dai Rettori delle chiese, dai Diaconi, da un membro del Consiglio per gli Affari economici, dai Rappresentanti dei laici che collaborano nelle diverse attività parrocchiali, dai Rappresentanti degli Istituti religiosi, delle Associazioni e realtà ecclesiali presenti nel territorio parrocchiale e da altri membri eletti dall’Assemblea o designati dal Parroco, in particolare tra coloro che possono offrire l’apporto della loro competenza « soprattutto per quanto attiene alla presenza cristiana sul territorio, alla promozione della cultura e alla solidarietà sociale » (Sinodo diocesano, Prop. 4/1). Tutti i membri sono nominati dal Parroco, che ne dà comunicazione al Vicariato.

 

 Come si vede, è prevista l’elezione di membri da parte dall’Assemblea parrocchiale, che però da noi non si è mai fatta, a mia memoria.

 Nella Diocesi di Roma l’istituzione e il funzionamento dei Consigli pastorali parrocchiali sono obbligatori. Il Consiglio si deve riunire almeno tra volte l’anno e deve essere il parroco, che lo presiede, a convocarlo.

  Lo statuto del Consiglio pastorale parrocchiale  nella Diocesi di Roma ha dato una certa autonomia regolamentare al Consiglio, che può essere esercitata, in particolare, per regolare l’elezione di membri da parte dell’Assemblea parrocchiale  e per l’articolazione interna.

  Gli specialisti che negli ultimi anni hanno ragionato sul Consiglio ritengono che il valore consultivo  delle sue deliberazioni non significhi che il parroco possa anche non tenerne conto. Si parla di valore consultivo, perché si esaminano le questioni riunendosi in consiglio, vale a dire discorrendo con una certa libertà in modo da individuare la via migliore. Nello Statuto  dei Consiglio romani questo si è tradotto nella disposizione secondo la quale il parroco, acquisito il parere del Consiglio «non si discosterà se non per giusti e ponderati motivi, che illustrerà al Consiglio stesso» [art.4 lett.c)], istituendo una dialettica obbligatoria con il Consiglio.

  I parroci vanno e vengono, ora sono nominati per nove anni. Il tempo del ministero dell’attuale parroco scadrà nell’ottobre del 2024. La precedente successione, avvenuta nel 2015, è stata piuttosto travagliata, per quello che ho potuto capire. In fasi come queste il Consiglio pastorale parrocchiale  dovrebbe essere particolarmente attivo. In caso di successione tra due parroci viventi e non impediti per malattia o altro non vi è un periodo di sede vacante; altrimenti il Consiglio  viene presieduto da chi, secondo il diritto canonico, fa le veci del parroco. Il Consiglio pastorale parrocchiale  dovrebbe collaborare per mantenere continuità di indirizzo, in modo che non si determinino fratture traumatiche nella comunità.

  Ora che si sta discutendo di una riforma sinodale  delle nostre Chiesa, naturalmente si è pensato anche al Consiglio pastorale parrocchiale  come una delle sedi in cui farne tirocinio e sperimentazione. Una Chiesa sinodale  è una Chiesa maggiormente partecipata e quel Consiglio è, appunto, un organo di partecipazione, per di più rappresentativo, nel senso sopra precisato, della comunità dei fedeli. Vi si pratica la libertà che è la caratteristica principale della persona di fede laica, che significa  aver parte nelle decisioni che riguardano tutti.

  Proprio in quanto organo partecipativo, occorrerebbe ridefinire la funzione di governo  della parrocchia in modo da renderla compatibile con la struttura sinodale.

  Occorre far sì che le decisioni collettive abbiano una reale legittimazione  da parte della comunità dei fedeli, attraverso la collaborazione partecipativa realizzata nel Consiglio, e se necessario nell’Assemblea parrocchiale. Questo richiede:

a)di non incidere troppo nell’autonomia di ciascuna aggregazione particolare dei fedeli della parrocchia, posto che l’uniformità non è compatibile con la sinodalità;

b)che i problemi in discussione e l’istruttoria su di essi, vale a dire la raccolta di dati e pareri, siano posti a conoscenza della comunità mediante opportuni strumenti (oggi consentiti dalla facile costruzione di reti sociali, ma da realizzare anche con strumenti classici, come le pubblicazioni di bollettini cartacei periodici);

c)che le decisioni del Consiglio  siano comunicate e che sia consentito alle persone di fede e alle aggregazioni della parrocchia di formulare petizioni e di essere ascoltate, se lo richiedono.

  Questo non significa cercare di ottenere l’unanimità, che non è mai possibile nelle società umane, nemmeno mettendo in conto un certo influsso superno (l’esperienza lo dimostra), ma di convincere della ragionevolezza delle decisioni e soprattutto del fatto che ogni persona possa realmente  venire ascoltata e che, quindi, possa dirsi che realmente ciascuna persona possa aver parte  nelle decisioni che riguardano tutti.

 E’ chiaro che gli obiettivi che ho sopra riassunto richiedono un lavoro ulteriore rispetto alle semplici fasi deliberative, che può essere organizzato intorno alla Segreteria  del Consiglio, organismo espressamente previsto dallo Statuto  [art.4, lett.a]. La sua struttura, funzioni e norme di funzionamento sono demandate al Regolamento del Consiglio.

Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli

 

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Statuto del Consiglio pastorale Parrocchiale a Roma Statuto dei Consigli pastorali parrocchiali Vicariato di Roma Promulgazione dello Statuto dei Consigli pastorali parrocchiali della Diocesi di Roma 1º Gennaio 1994

 I. Lettera ai parroci:

ogni parrocchia deve istituire formalmente il consiglio pastorale

 

Carissimi, nel quadro dell’attuazione delle deliberazioni del Sinodo diocesano, e in vista dei primari obiettivi pastorali dell’evangelizzazione e della comunione, con il pieno accordo del Consiglio Episcopale, ho proceduto in data odierna a pubblicare il Decreto che dispone la costituzione, entro il 30 aprile 1994, del Consiglio Pastorale in ogni Parrocchia di Roma, e a promulgare lo Statuto che ne determina le caratteristiche fondamentali e comuni. Allego alla presente entrambi i documenti. Si tratta non di una novità, ma di un adempimento importante perché le nostre parrocchie siano luoghi di corresponsabilità e soggetti di impegno missionario in ciascun quartiere di Roma, secondo un progetto sostanzialmente condiviso. A te, come Parroco e principale animatore della tua comunità, è affidato il compito di dar vita al Consiglio Pastorale, avendo di mira il bene di tutti coloro che sono affidati alla tua cura pastorale. In concreto, mentre le Parrocchie che ancora ne fossero prive devono procedere a costituire il Consiglio Pastorale, tutte quelle che già ne sono dotate devono istituirlo formalmente sulla base del presente Statuto, modificando ciò che eventualmente fosse in contrasto con esso. Gli Statuti che qualche Consiglio Pastorale già si è dato sono sostituiti dal presente Statuto. I Regolamenti già esistenti devono essere adeguati ad esso. Il sistema dell’organizzazione ecclesiastica Come Parroco sei pregato di procedere alla nomina scritta dei membri del Consiglio Pastorale e di inviarne comunicazione al Vicariato, entro il prossimo 30 aprile. Ringraziandoti di cuore per il tuo ministero, porgo a te e alla tua Parrocchia ogni buon augurio per il nuovo anno, con la benedizione del Signore. Camillo Card. Ruini Vicario Generale di Sua Santità

 

II. II Decreto di promulgazione dello statuto CAMILLO DEL TITOLO DI S. AGNESE FUORI LE MURA DELLA SANTA ROMANA CHIESA CARDINALE RUINI VICARIO GENERALE DI SUA SANTITÀ PER LA DIOCESI DI ROMA In coerenza con la ecclesiologia di comunione, che il Concilio Vaticano II ha indicato come motivo ispiratore nell’edificare la comunità cristiana

 

 Visto il can. 536, par. 1-2 del C.I.C.;

 Visto quanto stabilito dal Sinodo della Diocesi di Roma circa la costituzione dei Consigli Pastorali in ogni parrocchia (Prop. 9/3);

Sentito il Consiglio Presbiterale a norma del can. 536, par. 1;

Attesa l’avvenuta realizzazione di tali Consigli in quasi tutta la Diocesi «ad experimentum», sulla base delle indicazioni del Consiglio Episcopale; DECRETIAMO

1) è approvato e promulgato lo Statuto da Noi redatto, perché sia da tutti osservato con fedeltà;

2) venga costituito il Consiglio Pastorale in ogni parrocchia della Diocesi entro e non oltre il 30 aprile 1994. Dato in

 

Roma, dal Palazzo Apostolico Lateranense, il giorno 1º gennaio 1994, Solennità di Maria Santissima Madre di Dio.

 

Mons. Filippo Tucci Cancelliere Prot. N. 2/94

 

Statuto dei Consigli pastorali parrocchiali

III. Statuto dei Consigli parrocchiali nella Diocesi di Roma

Art. 1.– Natura e funzione

Il Consiglio Pastorale Parrocchiale, costituito in Roma a norma del Decreto del Cardinale Vicario, in data 1 gennaio 1994, in conformità a quanto prescritto dal C.I.C., can. 536, par. 1-2 e dal Sinodo diocesano, Prop. 9/3, è l’organo di partecipazione responsabile dei fedeli alla vita e alla missione della parrocchia; esso rappresenta l’intera comunità parrocchiale nell’unità della fede e nella varietà dei suoi carismi e ministeri. Il Consiglio ha voto consultivo (can. 536, par. 2). I suoi membri, «insieme con coloro che partecipano alla cura pastorale della parrocchia in forza del proprio ufficio, prestano il loro aiuto nel promuovere l’attività pastorale» (can. 536, par. 1).

Art. 2.– Finalità

 Il Consiglio Pastorale Parrocchiale ha i seguenti scopi:

a) promuovere l’evangelizzazione di tutta la popolazione del territorio, nel contesto della sollecitudine pastorale e missionaria della Chiesa di Roma;

b) curare in questa prospettiva la comunione tra i fedeli di diversa formazione culturale, sociale, spirituale e tra le diverse realtà ecclesiali operanti nell’ambito della parrocchia;

c) valutare la situazione della comunità parrocchiale in riferimento al territorio; d) elaborare il programma pastorale parrocchiale, in rapporto al piano pastorale diocesano, e verificarne l’attuazione.

Art. 3.– Composizione

Il Consiglio Pastorale Parrocchiale è composto dal Parroco, il quale lo istituisce e ne è il Presidente, dai Vicari Parrocchiali, dai Sacerdoti collaboratori, dai Rettori delle chiese, dai Diaconi, da un membro del Consiglio per gli Affari economici, dai Rappresentanti dei laici che collaborano nelle diverse attività parrocchiali, dai Rappresentanti degli Istituti religiosi, delle Associazioni e realtà ecclesiali presenti nel territorio parrocchiale e da altri membri eletti dall’Assemblea o designati dal Parroco, in particolare tra coloro che possono offrire l’apporto della loro competenza « soprattutto per quanto attiene alla presenza cristiana sul territorio, alla promozione della cultura e alla solidarietà sociale » (Sinodo diocesano, Prop. 4/1).

Tutti i membri sono nominati dal Parroco, che ne dà comunicazione al Vicariato. Art.

4.– Compiti del Presidente

È compito del Presidente:

a) designare un Segretario con mansioni da precisare nel Regolamento;

b) determinare l’Ordine del giorno e presiedere le riunioni;

c) ricercare e ascoltare attentamente il parere del Consiglio, dal quale non si discosterà se non per giusti e ponderati motivi, che illustrerà al Consiglio stesso;

d) le decisioni del Consiglio, approvate dal Presidente, valgono per tutto il territorio parrocchiale, nei limiti delle competenze che il diritto comune e particolare attribuiscono al parroco.

Art. 5.– Durata

Il Consiglio Pastorale Parrocchiale dura tre anni. Il mandato triennale dei Consiglieri può essere rinnovato, ma non può essere revocato se non per giusti motivi, riconosciuti dal Vescovo Ausiliare del Settore.

Art. 6.– Riunioni

Il Consiglio Pastorale Parrocchiale si riunisce almeno tre volte l’anno. I Consiglieri partecipano di persona. Eventuali saltuarie sostituzioni sono disciplinate dal Regolamento.

Art. 7.– Commissioni

È opportuno che i lavori del Consiglio Pastorale Parrocchiale si articolino anche in Commissioni con compiti specifici, tenendo presenti le tre funzioni fondamentali della pastorale ordinaria –evangelizzazione e catechesi, liturgia, carità–, ed i quattro ambiti privilegiati individuati dal Sinodo diocesano: famiglia, giovani, impegno sociale, cultura.

Art. 8.– Regolamento

 L’attività interna del Consiglio Pastorale Parrocchiale è disciplinata dal Regolamento, redatto dal Consiglio stesso e approvato dal Vescovo Ausiliare del Settore.

Dato in Roma, dal Palazzo Apostolico Lateranense, il giorno 1º gennaio 1994, Solennità di Maria Santissima Madre di Dio.

mercoledì 13 luglio 2022

Conferenza episcopale italiana - I Ministeri istituiti del Lettore, dell’Accolito e del Catechista per le Chiese che sono in Italia - Nota ad experimentum per il prossimo triennio - Presentazione

 







 

Conferenza episcopale italiana

-

I Ministeri istituiti del Lettore, dellAccolito e del Catechista per le Chiese che sono in Italia

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Nota ad experimentum  per il prossimo triennio

-

Presentazione

 

La presente Nota ha lo scopo di recepire gli interventi di Papa Francesco (il Motu Proprio “Spiritus Domini” e il Motu Proprio “Antiquum Ministerium”) per orientare la prassi concreta delle Chiese di rito latino che sono in Italia sui ministeri istituiti, sia del Lettore e dell’Accoli- to (per i quali si attende la revisione dei riti di istituzione da parte della Congregazione per il Culto Divino), sia del Catechista.

Con questa Nota, inoltre, la Conferenza Episcopale Italiana intende inserire il tema dei “ministeri istituiti” all’interno del Cammino sinodale delle Chiese che sono in Italia, in modo che possa diventare anche un’opportunità per rinnovare la forma Ecclesiae in chiave più comu- nionale.

Il Cammino sinodale costituirà così un luogo ideale di verifica anche sulla effettiva ricadu- ta dei nuovi ministeri istituiti del Lettore, dell’Accolito e del Catechista nella prassi ecclesiale.

Per questo la presente Nota, approvata dalla 76ª Assemblea Generale e integrata dal Consiglio Episcopale Permanente con le indicazioni emerse in sede assembleare, è ad experi- mentum per il prossimo triennio.

Il Consiglio Permanente determinerà le modalità di verifica e di approfondimento del tema.

 

 

 

Roma, 5 giugno 2022

Solennità di Pentecoste

 

 



Franco Giulio Brambilla Vescovo di Novara

Presidente della Commissione Episcopale

per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi


 Gianmarco Busca Vescovo di Mantova

Presidente della Commissione Episcopale per la liturgia



«Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune» (1Cor 12,4-7).

L’apostolo Paolo, dinanzi alla vitalità della comunità di Corinto, articola in modo trini- tario carismi, ministeri e attività riferendoli rispettivamente allo Spirito, a Cristo Signore e al Padre, senza dare una definizione e un ordine preciso nel successivo elenco dei carismi. Tutta- via, egli indica due coordinate per il discernimento ecclesiale: da una parte, pone il primato dell’azione dell’unico Spirito, che distribuisce i suoi doni come vuole; dall’altra, pone il valore dell’edificazione dell’intera comunità.

 

1.               I due Motu proprio di Papa Francesco

 

Entro questo orizzonte, che è insieme storico-salvifico ed ecclesiale, vocazionale e mini- steriale, vanno collocati i documenti relativi ai ministeri del Lettore, dell’Accolito e del Catechista recentemente promulgati da Papa Francesco.

Nella scia del Concilio Vaticano II, già Paolo VI aveva voluto rivedere la prassi della Chiesa latina relativa agli ordini sacri come era stata formulata dal concilio di Trento. Il con- cilio Vaticano II aveva disposto che «il ministero divinamente istituito venisse esercitato in ordini diversi da coloro che già in antico venivano chiamati vescovi, presbiteri e diaconi» (Lu- men Gentium, n. 28). In linea con quella decisione, il Motu Proprio Ministeria quaedam (15 agosto 1972) abolì gli “ordini minori” dell’Ostiario, dell’Esorcista, del Lettore e dell’Accolito, e l’ordine maggiore del Suddiacono, che erano conferiti in vista dell’ordinazione sacerdotale, configurando quelli del Lettore e dell’Accolito come “ministeri istituiti”, non più considerati come riservati ai candidati al sacramento dell’Ordine.

A distanza di cinquant’anni, Papa Francesco ha promulgato il Motu Proprio Spiritus Domini” (10 gennaio 2021), con il quale ha superato il vincolo di Ministeria quaedam che

«riservava il Lettorato e l’Accolitato ai soli uomini» e ha disposto l’inclusione delle donne nei ministeri laicali/battesimali con la modifica del can. 230 § 2 del Codice di Diritto Canonico, accompagnando la decisione con la Lettera al Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede circa l’accesso delle donne ai ministeri del Lettorato e dell’Accolitato. Papa Francesco ha inol- tre promulgato il Motu Proprio “Antiquum Ministerium” (10 maggio 2021), sull’istituzione del ministero del Catechista per la Chiesa universale. La Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti ha fatto seguire poi una Lettera ai Presidenti delle Conferenze dei vescovi sul Rito di istituzione dei Catechisti (13 dicembre 2021), con in allegato il rito corri- spondente.

I due Motu Proprio consentono di far maturare una visione più articolata della ministe- rialità e del servizio ecclesiale, rendendo sempre più evidente quell’indispensabile apporto della donna, di cui Papa Francesco aveva già scritto, invitando di conseguenza ad «allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva nella Chiesa» (Evangelii Gaudium, n. 103). Il



fatto che i tre ministeri istituiti siano ora esercitati anche da donne rende ancor più evidente che la cura della Chiesa nei confronti dei suoi figli, soprattutto di quanti si trovano in condi- zioni di difficoltà, è compito condiviso da tutti i fedeli, uomini e donne.

 

2.               I ministeri istituiti nella Chiesa

 

«I ministeri istituiti hanno il loro fondamento teologico nella realtà della Chiesa come comunione di fede e di amore, espressa nei grandi documenti del Vaticano II. […] Ogni mi- nistero è per l’edificazione del corpo del Signore e perciò ha riferimento essenziale alla Parola e all’Eucaristia fulcro di tutta la vita ecclesiale ed espressione suprema della carità di Cristo, che si prolunga nel “sacramento dei fratelli”, specialmente nei piccoli, nei poveri e negli infer- mi, nei quali Cristo è accolto e servito» (Premesse CEI al Rito di istituzione, 1 e 3).

Come ogni ministero nella Chiesa, anche i ministeri istituiti sono contraddistinti da soprannaturalità di origine, ecclesialità di fine e di contenuto, stabilità di prestazione, pubbli- cità di riconoscimento (cfr. Evangelizzazione e ministeri, n. 68).

Il “ministero ordinato”, conferito con il sacramento dell’Ordine ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, è costitutivo per la vita della Chiesa (cfr. Lumen Gentium 28). Fin dall’inizio, accanto ai ministri ordinati sorsero figure ministeriali che svolgevano servizi diversi a favore della comunità cristiana. Progressivamente questi ministeri furono confinati nel solo ambito liturgico e inquadrati in un sistema clericale quali ordini minori che, all’interno di un percor- so ascendente, conducevano al sacerdozio ministeriale. Si tratta oggi di riscoprire il loro fon- damento battesimale, radice dei “ministeri istituiti” e dei tanti ministeri di fatto che la Chiesa è chiamata a discernere per un servizio adeguato al popolo di Dio. Infatti, nel corso della storia, con il continuo mutare delle situazioni ecclesiali, sociali, culturali, l’esercizio di tali servizi nella Chiesa assume forme differenti.

I due documenti “Ministeria quaedam” e Spiritus Domini hanno configurato i “ministeri istituiti” del Lettorato e dell’Accolitato, “Antiquum ministerium” il ministero del Catechista, come possibili forme della ministerialità ecclesiale. Esse riguardano coloro che, avendo ricevuto il Batte- simo e la Confermazione ed essendo dotati di un particolare carisma per il bene comune della Chiesa, dopo un adeguato cammino di discernimento e preparazione, vengono istituiti dal Vescovo Lettori, Accoliti o Catechisti, con un apposito rito liturgico. La conformazione a Cristo e la comu- ne radice battesimale e crismale pongono i ministeri nella Chiesa, ciascuno a suo modo, a servizio della configurazione del suo corpo ecclesiale e della trasmissione del Vangelo, in vista dell’unica missione ecclesiale. «Ciascun ministero istituito ha un suo inserimento specifico nella Chiesa loca- le, come manifestazione autentica della molteplice iniziativa dello Spirito che riempie e vivifica il corpo di Cristo» (Premesse CEI al Rito di istituzione, n. 1).

I ministeri istituiti trovano la loro radice nei sacramenti dell’iniziazione cristiana. Letto- ri e Accoliti sono battezzati la cui identità è qualificata nel Rito di istituzione per un servizio ecclesiale nella liturgia, in particolare alla mensa sia della Parola che del Pane (cfr. Dei Verbum,



n. 21) da cui scaturisce l’impegno stesso della vita cristiana. I Catechisti sono battezzati la cui identità è qualificata nel Rito di istituzione per vivere più intensamente lo spirito apostolico e servire l’annuncio e la maturazione della fede della comunità cristiana. «Ne consegue che l’o- pera del ministro non si rinchiude entro l’ambito puramente rituale, ma si pone dinamica- mente al servizio di una comunità che evangelizza e si curva come il buon samaritano su tutte le ferite e le sofferenze umane» (Premesse CEI al Rito di istituzione, n. 3)

Il Lettore, l’Accolito e il Catechista vengono istituiti in modo permanente e stabile e assumono, da laici e laiche, un ufficio qualificato all’interno della Chiesa (cfr. I ministeri nella Chiesa, n. 5); dopo il rito, il Vescovo conferisce a ciascun ministro istituito un mandato per l’esercizio concreto del ministero.

Di seguito vengono richiamate le indicazioni essenziali circa l’identità e i compiti di questi ministeri.

 

3.               Identità e compiti dei tre ministeri

 

a.               Il Lettorato

 

Identità. Il Lettore è istituito per l’ufficio, a lui proprio, di proclamare la parola di Dio nell’assemblea liturgica (cfr. Ministeria quaedam, n. 5). In particolare, a partire da un assiduo ascolto delle Scritture, richiama la Chiesa intera alla presenza di Gesù, Parola fatta carne, giac- ché come afferma la costituzione liturgica “è Cristo che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura” (cfr. Sacrosanctum Concilium, n. 7).

Compiti. Il compito del Lettore si esplica in prima istanza nella celebrazione liturgica, in particolare quella eucaristica, perché sia evidente che la proclamazione della Parola è il luogo sorgivo e normativo dell’annuncio. Al Lettore è affidato il compito di preparare l’assemblea ad ascoltare e i lettori a proclamare con competenza e sobria dignità i passi scelti per la liturgia della Parola. Il Lettore/Lettrice potrà avere un ruolo anche nelle diverse forme liturgiche di celebrazione della Parola, della liturgia delle Ore e nelle iniziative di (primo) annuncio verso i lontani. A questo si aggiunge il compito più ampio di animare momenti di preghiera e di meditazione (lectio divina) sui testi biblici, con una particolare attenzione anche alla dimen- sione ecumenica. In generale, egli/ella è chiamato/a ad accompagnare i fedeli e quanti sono in ricerca all’incontro vivo con la Parola, fornendo chiavi e metodi di lettura per la sua retta in- terpretazione e la sua fecondità spirituale e pastorale.

 

b.              L’Accolitato

 

Identità. L’Accolito è istituito per il servizio al corpo di Cristo nella celebrazione eucari- stica, memoriale della Cena del Signore, e al corpo di Cristo, che è il popolo di Dio, soprat- tutto i poveri e gli infermi (cfr. Rito di Istituzione degli Accoliti, n. 29). In particolare richiama la presenza di Cristo nell’Eucaristia della Chiesa, per la vita del mondo.



Compiti. Compito dell’Accolito è servire all’altare, segno della presenza viva di Cristo in mezzo all’assemblea, là dove il pane e il vino diventano i doni eucaristici per la potenza dello Spirito Santo e dove i fedeli nutrendosi dell’unico pane e bevendo all’unico calice, diventano in Cristo un solo Corpo. A lui/lei è affidato anche il compito di coordinare il servizio della distribuzione della Comunione nella e fuori della celebrazione dell’Eucaristia, di animare l’a- dorazione e le diverse forme del culto eucaristico, che irradiano nel tempo il ringraziamento della Chiesa per il dono che Gesù ha fatto del suo corpo dato e del suo sangue versato. A que- sto si aggiunge il compito più ampio di coordinare il servizio di portare la comunione eucari- stica a ogni persona che sia impedita a partecipare fisicamente alla celebrazione per l’età, per la malattia o per circostanze singolari della vita che ne limitano i liberi movimenti. In questo senso, l’Accolito è ministro straordinario della Comunione e a servizio della comunione che fa da ponte tra l’unico altare e le tante case.

 

c.               Il Catechista

 

Identità. Il Catechista, in armonica collaborazione con i ministri ordinati e con gli altri ministri, istituiti e di fatto, si dedica al servizio dell’intera comunità, alla trasmissione della fede e alla formazione della mentalità cristiana, testimoniando anche con la propria vita il mistero santo di Dio che ci parla e si dona a noi in Gesù. Il ministero del Catechista richiama la presenza nella Chiesa e nel mondo del Signore Gesù, che per l’opera dello Spirito Santo chiama ogni uomo alla salvezza, rendendolo nuova creatura in Cristo (cfr. 2Cor 5,17), servo del Regno di Dio nella Chiesa.

Compiti. Compito del Catechista è formare alla vita cristiana, attingendo alla Sacra Scrit- tura e alla Tradizione della Chiesa. In primo luogo, questo compito si esplica nella cura della catechesi per l’iniziazione cristiana, sia dei bambini che degli adulti. A questo si aggiunge an- che l’ufficio più ampio di accompagnare quanti hanno già ricevuto i sacramenti dell’iniziazio- ne nella crescita di fede nelle varie stagioni della loro vita. È il ministro che accoglie e accom- pagna a muovere i primi passi nell’esperienza dell’incontro con la persona di Cristo e nel discepolato quanti esprimono il desiderio di una esperienza di fede, facendosi così missionario verso le periferie esistenziali. Infine, a lui/lei può essere chiesto di coordinare, animare e for- mare altre figure ministeriali laicali all’interno della parrocchia, in particolare quelle impegna- te nella catechesi e nelle altre forme di evangelizzazione e nella cura pastorale. Tra le possibili- tà indicate dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, la Conferenza Episcopale Italiana sceglie di conferire il “ministero istituito” del/la Catechi- sta a una o più figure di coordinamento dei catechisti dell’iniziazione cristiana dei ragazzi (cfr. n. 9) e a coloro che «in modo più specifico svolgono il servizio dell’annuncio» nel catecumenato degli adulti (cfr. n. 10). Il Catechista, secondo la decisione prudente del Vescovo e le scelte pastorali della Diocesi, può anche essere, sotto la moderazione del par- roco, un referente di piccole comunità (senza la presenza stabile del presbitero) e può guidare, in mancanza di diaconi e in collaborazione con Lettori e Accoliti istituiti, le ce-



lebrazioni domenicali in assenza del presbitero e in attesa dell’Eucaristia.

In questo modo, tra l’altro, potrà essere sempre più evidente la corresponsabilità in am- bito pastorale tra ministri ordinati e ministri istituiti, perché si realizzi quanto affermato da Lumen Gentium: «che tutti concordemente cooperino, nella loro misura, all’opera comune» (n.30).

 

4.               La formazione ai ministeri istituiti

 

Ogni ministero istituito possiede una connotazione vocazionale: «è il Signore che suscita i ministeri nella comunità e per la comunità» (Premesse CEI al Rito di istituzione, n. 2). Il ser- vizio nella Chiesa non si configura come una professione, né come una carica onorifica: si tratta piuttosto di assimilare i tratti del Maestro, che è non è venuto per essere servito ma per servire (cfr. Mc 10,45).

Il Signore chiama chiunque è istituito in uno di questi ministeri a mettere a disposizione tutto se stesso, «stabiliter» (can. 230 § 1 del Codice di Diritto Canonico), per l’edificazione dei fratelli. Le comunità con i loro presbiteri presentano i candidati, i quali saranno istituiti dal Vescovo dopo un tempo di adeguato accompagnamento e formazione da parte di una équipe di esperti. Il Vescovo infatti in primo luogo riconosce tale vocazione e ne valuta l’utilità per un servizio determinato all’interno della realtà ecclesiale locale; in un secondo tempo li istituisce con il rito liturgico proprio; infine, con un atto giuridico, conferisce il mandato per quel mi- nistero specifico.

Ai ministeri istituiti di Lettore, Accolito e Catechista possono accedere uomini e donne che manifestano la loro disponibilità, secondo i seguenti criteri di discernimento: siano persone di profonda fede, formati alla Parola di Dio, umanamente maturi, attivamente partecipi alla vita della comunità cristiana, capaci di instaurare relazioni fraterne, in grado di comunicare la fede sia con l’esempio che con la parola, e riconosciuti tali dalla comunità, nelle forme e nei modi che il Vescovo riterrà opportuni.

I Vescovi stabiliscano percorsi formativi idonei per conseguire tre finalità essenziali: aiuta- re nel discernimento sulla idoneità intellettuale, spirituale e relazionale dei candidati; perfezio- nare la formazione in vista del servizio specifico, con la pratica di attività pastorali adeguate; consentire un aggiornamento biblico, teologico e pastorale continuo di quanti hanno già rice- vuto il mandato per un ministero. Tali percorsi formativi possono essere svolti con l’ausilio di istituzioni accademiche esistenti nel territorio come gli Istituti di Teologia e di Scienze Reli- giose. Il supporto di tali istituzioni renderà più agevole il compito di strutturare piani di for- mazione, che prevedano non solo lezioni frontali, ma anche seminari e stage in situ. Infine, per quanto concerne il tempo di formazione, si preveda almeno un anno con la guida di un’équipe diocesana, che potrà continuare la formazione nei primi tempi dell’esercizio del ministero.

Ai Pastori è chiesto di sensibilizzare la comunità cristiana a lasciar emergere quei doni dello Spirito, che possono diventare effettivi ministeri laicali. La cura dei nuovi ministeri apre


la possibilità concreta di ridisegnare il volto delle comunità cristiane. Il Cammino sinodale in corso nelle Chiese che sono in Italia è un’occasione propizia, perché la ricezione dei ministeri nelle singole Chiese locali avvenga in forma sinodale. In tal modo si potrà creare lo spazio per nuove figure capaci di mettere in moto una percezione più dinamica dell’annuncio del Vange- lo, con la ricchezza di nuovi volti ed esperienze differenziate.

 

5.               Il Rito di istituzione e il mandato

 

Al termine della fase di discernimento vocazionale e di formazione di base, il/la candida- to/a viene istituito/a con il rito liturgico previsto dal Pontificale Romano. Come afferma la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti nel caso dei Catechisti isti- tuiti, «definire tale ministero come stabile, oltre ad esprimere il fatto che nella Chiesa esso è “stabilmente” presente, significa anche affermare che i laici che abbiano l’età e le doti determi- nate con decreto dalla Conferenza Episcopale, possono essere istituiti in modo stabile (come i Lettori e gli Accoliti) al ministero di Catechista: ciò avviene mediante il Rito di istituzione che, pertanto, non può essere ripetuto» (Lettera ai presidenti delle Conferenze dei Vescovi sul Rito di istituzione dei Catechisti, n. 3). Il rito liturgico mostra così non solo che il Pastore riconosce nel candidato una vocazione ad un servizio ecclesiale, ma che l’intera comunità è lieta di acco- gliere e sostenere il nuovo ministro nella sua missione. I ministri istituiti si inseriscono così a pieno titolo nel grembo della Chiesa locale, da cui sono generati a servizio del popolo di Dio.

Per quanto riguarda l’età dell’ammissione, si conferma quanto scritto già nel documento della Conferenza Episcopale Italiana, I ministeri nella Chiesa, pubblicato nel 1973, che al n. 9 stabiliva il limite di 21 anni, poi innalzato a 25 anni nella delibera n. 21 del 18 aprile 1985.

Come affermato nella Lettera della Congregazione per il Culto Divino sopra citata, «l’eser- cizio del ministero può e deve essere regolato nella durata, nel contenuto e nelle modalità dalle singole Conferenze Episcopali secondo le esigenze pastorali» (n. 3). Il mandato per l’e- sercizio concreto del ministero viene conferito per un primo periodo di cinque anni, seguito da una verifica compiuta dal Vescovo insieme con un’équipe preposta a questo. Alla luce di tale verifica si potrà rinnovare il mandato per l’esercizio del ministero, tenendo conto del cam- biamento delle condizioni di vita del ministro istituito e delle esigenze ecclesiali in continuo mutamento.

I ministri istituiti «non saranno semplici esecutori delle indicazioni dei presbiteri e dei diaconi, ma veri animatori di assemblee presiedute dal pastore d’anime, promotori della cor- responsabilità nella Chiesa e dell’accoglienza di quanti cercano di compiere un itinerario di fede, evangelizzatori nelle varie situazioni ed emergenze di vita, interpreti della condizione umana nei suoi molteplici aspetti (cfr. Apostolicam Actuositatem, n. 24). Essi renderanno pre- sente alla comunità le attese e le aspirazioni degli uomini del nostro tempo e insieme saranno un segno autentico della presenza della Chiesa nelle famiglie, nei luoghi di studio e di lavoro e sulle strade del mondo (cfr. Apostolicam Actuositatem, n. 13)» (Premesse CEI al Rito di istitu- zione, n. 5).