Oggi, nel corso della messa delle 11, il parroco ha parlato dell'esortazione apostolica Rallegratevi ed esultate - Gaudete et exultate, dello scorso marzo. Ne ripubblico quindi la sintesi breve e quella estesa, pensando di fare cosa utile ai parrocchiani.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
Sintesi breve ed estesa
dell’esortazione apostolica Rallegratevi ed esultate - Gaudete ed exsultate, sulla
santità, diffusa da papa Francesco il
19-3-18
Vi offro due sintesi, una breve e, dopo quella, una estesa, dell’esortazione apostolica Rallegratevi ed esultate - Gaudete ed exsultate, sulla santità, diffusa da papa Francesco il 19-3-18 e, mi
pare, purtroppo rapidamente dimenticata,
come, di questi tempi, tanti altri documenti del magistero. In un’epoca in cui
tanti sono tentati dal cattivismo,
seguendo guide empie, il Papa, ci parla dunque, di santità e ci esorta ad
esseri santi, vale a dire, fra
l’altro, buoni. La chiamata
universale alla santità fu al centro degli insegnamenti del saggi del Concilio
Vaticano 2° (1962-1965).
Consiglio di passare dalla sintesi breve a quella estesa,
per poi affrontare il testo
integrale del documento, che potete leggere sul WEB all’indirizzo:
http://w2.vatican.va/content/francesco/it/apost_exhortations/documents/papa-francesco_esortazione-ap_20180319_gaudete-et-exsultate.html
Vi accorgerete che, anche solo seguendo la
sintesi breve, farete una buona figura in società.
Passando a quella estesa vi potrete sentire spinti a migliorarvi.
Interiorizzando il testo integrale avrete in voi una valida barriera contro il cattivismo, in particolare rendendovi
conto che dietro di esso si cela, e neanche tanto, l’Avversario di sempre. Approfondendo, meditando sui riferimenti
biblici contenuti nel documento, vi nutrirete della Parola, l’antidoto a tante
scellerate parole che travagliano il nostro tempo.
Mario Ardigò - Azione
Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli
Sintesi breve
1. I santi che ci
incoraggiano e ci accompagnano.
«Rallegratevi ed esultate» (Mt 5,12),
dice Gesù a coloro che sono perseguitati o umiliati per causa sua. Egli ci vuole santi e non si aspetta che ci accontentiamo di
un’esistenza mediocre, annacquata, inconsistente.
I santi che già sono
giunti alla presenza di Dio mantengono con noi legami d’amore e di comunione.
[Ma] Non pensiamo solo a quelli già beatificati o canonizzati. Lo Spirito Santo
riversa santità dappertutto nel santo popolo fedele di Dio, perché «Dio volle
santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra
loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la
verità e lo servisse nella santità».[Costituzione dogmatica sulla
Chiesa Luce per le genti - Lumen gentium, del Concilio Vaticano 2°, n.9]
Il Signore, nella
storia della salvezza, ha salvato un popolo. Nessuno si salva da solo, come
individuo isolato.
Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio
paziente. Questa è tante volte la santità “della porta accanto”, di quelli che
vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio.
La santità è il volto più bello della Chiesa.
Ma anche fuori della Chiesa Cattolica e in ambiti molto differenti, lo Spirito
suscita segni della sua presenza, che aiutano gli stessi discepoli di Cristo.
2. Il Signore chiama.
Quello che vorrei ricordare con questa Esortazione
è soprattutto la chiamata alla santità che il Signore fa a ciascuno di noi,
quella chiamata che rivolge anche a te. Il Concilio Vaticano 2° lo ha
messo in risalto con forza.
3. Anche per te.
Molte volte abbiamo la tentazione di pensare
che la santità sia riservata a coloro che hanno la possibilità di mantenere le
distanze dalle occupazioni ordinarie, per dedicare molto tempo alla preghiera.
Non è così. Tutti siamo chiamati ad essere santi.
Questa santità a cui il Signore ti chiama
andrà crescendo mediante piccoli gesti.
Così, sotto l’impulso della grazia divina,
con tanti gesti andiamo costruendo quella figura di santità che Dio ha voluto
per noi.
4. La tua missione in Cristo.
Ogni santo è una missione. Ciascun santo è un
messaggio che lo Spirito Santo trae dalla ricchezza di Gesù Cristo e dona al
suo popolo.
Anche tu hai bisogno di concepire la totalità
della tua vita come una missione. Prova a farlo ascoltando Dio nella preghiera
e riconoscendo i segni che Egli ti offre.
Voglia il Cielo che tu possa riconoscere qual
è quella parola, quel messaggio di Gesù che Dio desidera dire al mondo con la
tua vita. Lasciati trasformare, lasciati rinnovare dallo Spirito, affinché ciò
sia possibile, e così la tua preziosa missione non andrà perduta.
La tua stessa missione è inseparabile dalla
costruzione del Regno: «Cercate innanzitutto il Regno di Dio e la sua
giustizia» (Mt 6,33). La tua identificazione con Cristo e i suoi
desideri implica l’impegno a costruire, con Lui, questo Regno di amore, di giustizia
e di pace per tutti. Non ti santificherai senza consegnarti corpo e anima per
dare il meglio di te in tale impegno.
Non è sano amare il silenzio ed evitare
l’incontro con l’altro, desiderare il riposo e respingere l’attività, ricercare
la preghiera e sottovalutare il servizio.
Questo non implica disprezzare i momenti di quiete, solitudine e
silenzio davanti a Dio. Al contrario. In qualche momento dovremo guardare in
faccia la verità di noi stessi, per lasciarla invadere dal Signore.
In questo modo, tutti i momenti saranno
scalini nella nostra via di santificazione.
6. Più vivi, più umani.
Non avere paura della santità. Non ti
toglierà forze, vita e gioia.
Ogni cristiano, nella misura in cui si
santifica, diventa più fecondo per il mondo.
Misura della perfezione delle persone è il
loro grado di carità, non la quantità di dati e conoscenze che possono
accumulare.
Chi vuole tutto chiaro e sicuro pretende di
dominare la trascendenza di Dio. Egli è misteriosamente presente nella vita di
ogni persona, nella vita di ciascuno così come Egli desidera, e non possiamo
negarlo con le nostre presunte certezze.
Noi arriviamo a comprendere in maniera molto
povera la verità che riceviamo dal Signore.
Nella Chiesa convivono legittimamente modi
diversi di interpretare molti aspetti della dottrina e della vita cristiana
che, nella loro varietà, aiutano ad esplicitare meglio il ricchissimo tesoro
della Parola.
In realtà, la dottrina, o meglio, la nostra
comprensione ed espressione di essa, non è un sistema chiuso, privo di
dinamiche capaci di generare domande, dubbi, interrogativi.
San Giovanni Paolo II [insegnò che] quello che crediamo
di sapere dovrebbe sempre costituire una motivazione per meglio rispondere
all’amore di Dio, perché si impara per vivere: teologia e santità sono un
binomio inscindibile.
La vera saggezza cristiana non deve separarsi
dalla misericordia verso il prossimo.
[Vi sono quelli che] benché parlino della grazia di Dio con
discorsi edulcorati, in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie
forze e si sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme o
perché sono irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico.
Si pretende di ignorare che non tutti possono
tutto e che in questa vita le fragilità umane non sono guarite completamente e
una volta per tutte dalla grazia.
La mancanza di un
riconoscimento sincero, sofferto e orante dei nostri limiti è ciò che impedisce
alla grazia di agire meglio in noi, poiché non le lascia spazio per provocare
quel bene possibile che si integra in un cammino sincero e reale di crescita.
La grazia, proprio perché suppone la nostra natura, non ci rende di colpo
superuomini.
La grazia agisce storicamente e,
ordinariamente, ci prende e ci trasforma in modo progressivo. Perciò, se
rifiutiamo questa modalità storica e progressiva, di fatto possiamo arrivare a
negarla e bloccarla, anche se con le nostre parole la esaltiamo.
La Chiesa ha insegnato numerose volte che
non siamo giustificati dalle nostre opere o dai nostri sforzi, ma dalla grazia
del Signore che prende l’iniziativa. Tra Lui e noi la disuguaglianza è
smisurata. La sua amicizia ci supera infinitamente, non può essere comprata da
noi con le nostre opere e può solo essere un dono della sua iniziativa d’amore.
Questo ci invita a vivere con gioiosa gratitudine per tale dono che mai
meriteremo.
Questa è una delle grandi convinzioni
definitivamente acquisite dalla Chiesa, ed è tanto chiaramente espressa nella
Parola di Dio che rimane fuori da ogni discussione. Così come il supremo
comandamento dell’amore, questa verità dovrebbe contrassegnare il nostro stile
di vita, perché attinge al cuore del Vangelo e ci chiama non solo ad accettarla
con la mente, ma a trasformarla in una gioia contagiosa.
La prima cosa è appartenere a Dio. Si
tratta di offrirci a Lui che ci anticipa, di offrirgli le nostre capacità, il
nostro impegno, la nostra lotta contro il male e la nostra creatività, affinché
il suo dono gratuito cresca e si sviluppi in noi.
Ci sono ancora dei cristiani che si impegnano
nel seguire un’altra strada: quella della giustificazione mediante le proprie
forze, quella dell’adorazione della volontà umana e della propria capacità, che
si traduce in un autocompiacimento egocentrico ed elitario privo del vero
amore.
Molte volte, contro l’impulso dello Spirito,
la vita della Chiesa si trasforma in un pezzo da museo o in un possesso di
pochi. Questo accade quando alcuni gruppi cristiani danno eccessiva importanza
all’osservanza di determinate norme proprie, di costumi o stili. In questo
modo, spesso si riduce e si reprime il Vangelo, togliendogli la sua
affascinante semplicità e il suo sapore. Questo riguarda gruppi, movimenti e
comunità [che] tante volte iniziano con un’intensa vita nello Spirito, ma poi
finiscono fossilizzati, o corrotti.
Complichiamo il Vangelo e diventiamo schiavi
di uno schema che lascia pochi spiragli perché la grazia agisca. E’ bene ricordare spesso che esiste una
gerarchia delle virtù, che ci invita a cercare l’essenziale. Il primato
appartiene alle virtù teologali, che hanno Dio come oggetto e motivo. E al
centro c’è la carità.
In mezzo alla fitta selva di precetti e
prescrizioni, Gesù apre una breccia che permette di distinguere due volti,
quello del Padre e quello del fratello. Non ci consegna due formule o due
precetti in più. Ci consegna due volti, o meglio, uno solo, quello di Dio che
si riflette in molti. Perché in ogni fratello, specialmente nel più piccolo,
fragile, indifeso e bisognoso, è presente l’immagine stessa di Dio. Infatti,
con gli scarti di questa umanità vulnerabile, alla fine del tempo, il Signore
plasmerà la sua ultima opera d’arte.
7. Alla luce del Maestro
Se qualcuno di noi si
pone la domanda: “Come si fa per arrivare ad essere un buon cristiano?”, la
risposta è semplice: è necessario fare, ognuno a suo modo, quello che dice Gesù
nel discorso delle Beatitudini. In esse si delinea il volto del Maestro,
che siamo chiamati a far trasparire nella quotidianità della nostra vita.
Torniamo ad ascoltare Gesù, con tutto l’amore
e il rispetto che merita il Maestro.
7.1.«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il
regno dei cieli».
Il Vangelo ci invita a riconoscere la verità
del nostro cuore, per vedere dove riponiamo la sicurezza della nostra vita. Le
ricchezze non ti assicurano nulla. Per questo Gesù chiama beati i poveri in
spirito, che hanno il cuore povero.
Luca non parla di una povertà “di spirito” ma
di essere «poveri» e basta (cfr Lc 6,20), e così ci invita
anche a un’esistenza austera e spoglia.
Essere poveri nel cuore,
questo è santità.
7.2«Beati i miti, perché avranno in eredità la
terra».
Gesù propone un altro stile: la mitezza.
Quando vediamo i loro limiti e i loro difetti
con tenerezza e mitezza, senza sentirci superiori, possiamo dar loro una mano
ed evitiamo di sprecare energie in lamenti inutili.
Nella Chiesa tante volte
abbiamo sbagliato per non aver accolto questo appello della Parola divina.
La mitezza è un’altra espressione della
povertà interiore, di chi ripone la propria fiducia solamente in Dio.
Reagire con umile
mitezza, questo è santità.
7.3«Beati quelli che
sono nel pianto, perché saranno consolati».
La persona che vede le cose come sono
realmente, si lascia trafiggere dal dolore e piange nel suo cuore è capace di
raggiungere le profondità della vita e di essere veramente felice. Quella
persona è consolata, ma con la consolazione di Gesù e non con quella del mondo.
Così può avere il coraggio di condividere la sofferenza altrui e smette di
fuggire dalle situazioni dolorose. Saper piangere con gli altri, questo è
santità.
7.4. «Beati quelli che hanno fame e sete della
giustizia, perché saranno saziati».
La giustizia che propone Gesù non è come
quella che cerca il mondo. Tale
giustizia incomincia a realizzarsi nella vita di ciascuno quando si è giusti
nelle proprie decisioni, e si esprime poi nel cercare la giustizia per i poveri
e i deboli.
Cercare la giustizia con
fame e sete, questo è santità.
7.5. «Beati i misericordiosi, perché troveranno
misericordia».
La misericordia ha due
aspetti: è dare, aiutare, servire gli altri e anche perdonare, comprendere.
Nel vangelo di Luca non troviamo «siate
perfetti» (Mt 5,48), ma «siate misericordiosi, come il Padre vostro
è misericordioso.»
Occorre pensare che
tutti noi siamo un esercito di perdonati. Tutti noi siamo stati guardati con
compassione divina. S
Guardare e agire con
misericordia, questo è santità.
7.6. «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio».
Nella Bibbia, il cuore sono le nostre vere
intenzioni, ciò che realmente cerchiamo e desideriamo, al di là di quanto
manifestiamo.
Nulla di macchiato dalla falsità ha valore
reale per il Signore.
Quando il cuore ama Dio e il prossimo (cfr Mt 22,36-40),
quando questo è la sua vera intenzione e non parole vuote, allora quel cuore è
puro e può vedere Dio.
Gesù promette che quelli che hanno un cuore
puro «vedranno Dio».
Mantenere il cuore
pulito da tutto ciò che sporca l’amore, questo è santità.
7.7. «Beati gli operatori di pace, perché saranno
chiamati figli di Dio».
I pacifici sono fonte di pace, costruiscono
pace e amicizia sociale. A coloro che si impegnano a seminare pace dovunque,
Gesù fa una meravigliosa promessa: «Saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9).
Questa pace evangelica non esclude nessuno,
ma che integra anche quelli che sono un po’ strani, le persone difficili e
complicate, quelli che chiedono attenzione, quelli che sono diversi, chi è
molto colpito dalla vita, chi ha altri interessi.
[Non si tratta] di
ignorare o dissimulare i conflitti, ma di accettare di sopportare il conflitto,
risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo
processo». Si tratta di essere artigiani della pace.
Seminare pace intorno a
noi, questo è santità.
7.8. «Beati i perseguitati per la giustizia, perché
di essi è il regno dei cieli».
Non pretendiamo una vita comoda, perché «chi
vuol salvare la propria vita, la perderà» (Mt 16,25).
Non si può aspettare, per vivere il Vangelo,
che tutto intorno a noi sia favorevole, perché molte volte le ambizioni del
potere e gli interessi mondani giocano contro di noi. In una tale società
alienata, intrappolata in una trama politica, mediatica, economica, culturale e
persino religiosa che ostacola l’autentico sviluppo umano e sociale, vivere le
Beatitudini diventa difficile e può essere addirittura una cosa malvista,
sospetta, ridicolizzata.
La croce, soprattutto le stanchezze e i
patimenti che sopportiamo per vivere il comandamento dell’amore e il cammino
della giustizia, è fonte di maturazione e di santificazione. Parliamo però
delle persecuzioni inevitabili, non di quelle che ci potremmo procurare noi
stessi con un modo sbagliato di trattare gli altri. Un santo non è una persona
eccentrica, distaccata, che si rende insopportabile per la sua vanità, la sua
negatività e i suoi risentimenti.
Accettare ogni giorno la
via del Vangelo nonostante ci procuri problemi, questo è santità.
8. La grande regola di
comportamento
8.1.
Se cerchiamo quella santità che è gradita agli occhi di Dio, in questo testo
troviamo proprio una regola di comportamento in base alla quale saremo
giudicati: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete
dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato
e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (Mt 25,35-36).
Davanti alla forza di queste richieste di
Gesù è mio dovere pregare i cristiani di accettarle e di accoglierle con
sincera apertura, “sine glossa”, vale a dire senza commenti, senza
elucubrazioni e scuse che tolgano ad esse forza. Il Signore ci ha lasciato ben
chiaro che la santità non si può capire né vivere prescindendo da queste sue
esigenze, perché la misericordia è il «cuore pulsante del Vangelo».
Quando
incontro una persona che dorme alle intemperie, in una notte fredda, posso
sentire che questo fagotto è un imprevisto che mi intralcia, un delinquente
ozioso, un ostacolo sul mio cammino, un pungiglione molesto per la mia
coscienza, un problema che devono risolvere i politici, e forse anche
un’immondizia che sporca lo spazio pubblico. Oppure posso reagire a partire
dalla fede e dalla carità e riconoscere in lui un essere umano con la mia
stessa dignità, una creatura infinitamente amata dal Padre, un’immagine di Dio,
un fratello redento da Cristo. Questo è essere cristiani! O si può forse
intendere la santità prescindendo da questo riconoscimento vivo della dignità
di ogni essere umano?[
Questo implica per i cristiani una sana e
permanente insoddisfazione. Anche se dare sollievo a una sola persona già
giustificherebbe tutti i nostri sforzi, ciò non ci basta.
8.2. [Non si devono
separare] queste esigenze del Vangelo dalla propria relazione personale con il
Signore, dall’unione interiore con Lui, dalla grazia.
[Ma è
nocivo] anche l’errore di quanti vivono
diffidando dell’impegno sociale degli altri, considerandolo qualcosa di
superficiale, mondano, secolarizzato, immanentista, comunista, populista. O lo
relativizzano come se ci fossero altre cose più importanti o come se
interessasse solo una determinata etica o una ragione che essi difendono.
Spesso si sente dire che, di fronte al
relativismo e ai limiti del mondo attuale, sarebbe un tema marginale, per
esempio, la situazione dei migranti. Alcuni cattolici affermano che è un tema
secondario rispetto ai temi “seri” della bioetica. Che dica cose simili un
politico preoccupato per i suoi successi si può comprendere, ma non un
cristiano, a cui si addice solo l’atteggiamento di mettersi nei panni di quel
fratello che rischia la vita per dare un futuro ai suoi figli. Possiamo riconoscere
che è precisamente quello che ci chiede Gesù quando ci dice che accogliamo Lui
stesso in ogni forestiero (cfr Mt 25,35)? San Benedetto lo
aveva accettato senza riserve e, anche se ciò avrebbe potuto “complicare” la
vita dei monaci, stabilì che tutti gli ospiti che si presentassero al monastero
li si accogliesse «come Cristo»,[85] esprimendolo
perfino con gesti di adorazione, e che i poveri pellegrini li si trattasse
«con la massima cura e sollecitudine».
Qualcosa di simile prospetta l’Antico
Testamento quando dice: «Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché
voi siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Es 22,20). «Il
forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu
l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri in terra
d’Egitto» (Lv 19,33-34). Pertanto, non si tratta dell’invenzione di
un Papa o di un delirio passeggero. Anche noi, nel contesto attuale, siamo
chiamati a vivere il cammino di illuminazione spirituale che ci presentava il
profeta Isaia quando si domandava che cosa è gradito a Dio: «Non consiste forse
nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza
tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? Allora
la tua luce sorgerà come l’aurora» (58,7-8).
8.3 La preghiera è preziosa
se alimenta una donazione quotidiana d’amore. Il nostro culto è gradito a Dio
quando vi portiamo i propositi di vivere con generosità e quando lasciamo che
il dono di Dio che in esso riceviamo si manifesti nella dedizione ai fratelli.
Per la stessa ragione, il modo migliore per
discernere se il nostro cammino di preghiera è autentico sarà osservare in che
misura la nostra vita si va trasformando alla luce della misericordia. Perché
la misericordia non è solo l’agire del Padre, ma diventa il criterio per capire
chi sono i suoi veri figli. Essa è l’architrave che sorregge la vita della
Chiesa». Essa è la chiave del cielo.
Sarà difficile che ci impegniamo e dedichiamo
energie a dare una mano a chi sta male se non coltiviamo una certa austerità,
se non lottiamo contro questa febbre che ci impone la società dei consumi per
venderci cose, e che alla fine ci trasforma in poveri insoddisfatti che
vogliono avere tutto e provare tutto.
9. Alcune caratteristiche della santità
nel mondo attuale
Vorrei raccogliere alcune caratteristiche o
espressioni spirituali che, a mio giudizio, sono indispensabili per comprendere
lo stile di vita a cui il Signore ci chiama.
9.1. Sopportazione,
pazienza e mitezza
La prima di
queste grandi caratteristiche è rimanere centrati, saldi in Dio che ama e sostiene.
La testimonianza di santità, nel nostro mondo
accelerato, volubile e aggressivo, è fatta di pazienza e costanza nel
bene. E’ la fedeltà dell’amore, [di chi,
poiché] perché chi si appoggia su Dio può anche essere fedele davanti ai
fratelli, non li abbandona nei momenti difficili, non si lascia trascinare
dall’ansietà e rimane accanto agli altri anche quando questo non gli procura
soddisfazioni immediate.
E’ necessario lottare e stare in guardia
davanti alle nostre inclinazioni aggressive ed egocentriche per non permettere
che mettano radici: «Adiratevi, ma non peccate; non tramonti il sole sopra la
vostra ira» (Ef 4,26).
Anche i cristiani possono partecipare a reti
di violenza verbale mediante internet e i diversi ambiti o spazi di
interscambio digitale. Persino nei media cattolici si possono
eccedere i limiti, si tollerano la diffamazione e la calunnia, e sembrano
esclusi ogni etica e ogni rispetto per il buon nome altrui. Così si verifica un
pericoloso dualismo, perché in queste reti si dicono cose che non sarebbero
tollerabili nella vita pubblica, e si cerca di compensare le proprie
insoddisfazioni scaricando con rabbia i desideri di vendetta. E’ significativo
che a volte, pretendendo di difendere altri comandamenti, si passi sopra
completamente all’ottavo: «Non dire falsa testimonianza», e si distrugga
l’immagine altrui senza pietà. Lì si manifesta senza alcun controllo che la
lingua è «il mondo del male» e «incendia tutta la nostra vita, traendo la sua
fiamma dalla Geenna» (Gc 3,6).
La fermezza interiore è opera della grazia: ci
preserva dal lasciarci trascinare dalla violenza che invade la vita sociale. Il
santo non spreca le sue energie lamentandosi degli errori altrui, è capace di
fare silenzio davanti ai difetti dei fratelli ed evita la violenza verbale che
distrugge e maltratta, perché non si ritiene degno di essere duro con gli
altri, ma piuttosto li considera «superiori a sé stesso» (Fil 2,3).
Non ci fa bene guardare dall’alto in basso,
assumere il ruolo di giudici spietati, considerare gli altri come indegni e
pretendere continuamente di dare lezioni. Questa è una sottile forma di
violenza.
Se tu non sei capace di sopportare e offrire
alcune umiliazioni non sei umile e non sei sulla via della santità. La santità
che Dio dona alla sua Chiesa viene mediante l’umiliazione del suo Figlio:
questa è la via.
Si tratta di una via per imitare Gesù e
crescere nell’unione con Lui.
Tale atteggiamento presuppone un cuore
pacificato da Cristo, libero da quell’aggressività che scaturisce da un io
troppo grande.
9.2 Gioia e senso
dell’umorismo
Quanto detto finora non implica uno spirito
inibito, triste, acido, malinconico, o un basso profilo senza energia. Il santo
è capace di vivere con gioia e senso dell’umorismo. Senza perdere il realismo,
illumina gli altri con uno spirito positivo e ricco di speranza. Essere
cristiani è «gioia nello Spirito Santo» (Rm 14,17).
Ci sono momenti duri, tempi di croce, ma
niente può distruggere la gioia soprannaturale, che «si adatta e si trasforma,
e sempre rimane almeno come uno spiraglio di luce che nasce dalla certezza
personale di essere infinitamente amato, al di là di tutto.
[Dio ci
vuole positivi, grati e non troppo complicati: «Nel giorno lieto sta’
allegro […]. Dio ha creato gli esseri umani retti, ma essi vanno in cerca di
infinite complicazioni» (Qo 7,14.29). In ogni situazione, occorre
mantenere uno spirito flessibile, e fare come san Paolo: «Ho imparato a bastare
a me stesso in ogni occasione» (Fil 4,11).
Mi riferisco a quella gioia che si vive in
comunione, che si condivide e si partecipa, perché «si è più beati nel dare che
nel ricevere» (At 20,35) e «Dio ama chi dona con gioia» (2 Cor 9,7).
L’amore fraterno moltiplica la nostra capacità di gioia, poiché ci rende capaci
di gioire del bene degli altri: «Rallegratevi con quelli che sono nella gioia»
(Rm 12,15).
9.3. Audacia e fervore
Nello stesso tempo, la santità è parresia
[=parola del greco antico che
significa franchezza]: è audacia, è slancio evangelizzatore che
lascia un segno in questo mondo.
Guardiamo a Gesù: la sua compassione
profonda non era qualcosa che lo concentrasse su di sé, non era una compassione
paralizzante, timida o piena di vergogna come molte volte succede a noi, ma
tutto il contrario. Era una compassione che lo spingeva a uscire da sé con
forza per annunciare, per inviare in missione, per inviare a guarire e a
liberare. Riconosciamo la nostra fragilità ma lasciamo che Gesù la prenda nelle
sue mani e ci lanci in missione.
Abbiamo bisogno della spinta dello Spirito per
non essere paralizzati dalla paura e dal calcolo, per non abituarci a camminare
soltanto entro confini sicuri. Ricordiamoci che ciò che rimane chiuso alla fine
ha odore di umidità e ci fa ammalare.
Come il profeta Giona, sempre portiamo
latente in noi la tentazione di fuggire in un luogo sicuro che può avere molti
nomi: individualismo, spiritualismo, chiusura in piccoli mondi, dipendenza,
sistemazione, ripetizione di schemi prefissati, dogmatismo, nostalgia,
pessimismo, rifugio nelle norme. Talvolta facciamo fatica ad uscire da un
territorio che ci era conosciuto e a portata di mano. Tuttavia, le difficoltà
possono avere la funzione di farci tornare a quel Dio che è tenerezza e che
vuole condurci a un’itineranza [=atteggiamento di chi è disposto ad abbandonare
le proprie sicurezze] costante e rinnovatrice.
Dio è sempre novità, che ci spinge
continuamente a ripartire e a cambiare posto per andare oltre il conosciuto,
verso le periferie e le frontiere. Ci conduce là dove si trova l’umanità più
ferita.
E’ vero che bisogna aprire la porta a Gesù
Cristo, perché Lui bussa e chiama (cfr Ap 3,20). Ma a volte mi
domando se, a causa dell’aria irrespirabile della nostra autoreferenzialità,
Gesù non starà bussando dentro di noi perché lo lasciamo uscire.
9.4 In comunità
La santificazione è un
cammino comunitario, da fare a due a due. Così lo rispecchiano alcune comunità
sante.
Condividere la Parola e celebrare
insieme l’Eucaristia ci rende più fratelli e ci trasforma via via in comunità
santa e missionaria.
La vita comunitaria, in famiglia, in
parrocchia, nella comunità religiosa o in qualunque altra, è fatta di tanti
piccoli dettagli quotidiani.
Ricordiamo come Gesù invitava i suoi
discepoli a fare attenzione ai particolari, [ad esempio]: il piccolo
particolare che si stava esaurendo il vino in una festa; il piccolo particolare
che mancava una pecora.
9.5.
In preghiera costante
La santità è fatta di apertura abituale alla
trascendenza, che si esprime nella preghiera e nell’adorazione. Il santo è una
persona dallo spirito orante, che ha bisogno di comunicare con Dio.
Sono necessari anche alcuni momenti dedicati
solo a Dio, in solitudine con Lui.
Mi permetto di chiederti: ci sono momenti in
cui ti poni alla sua presenza in silenzio, rimani con Lui senza fretta, e ti
lasci guardare da Lui? Lasci che il suo fuoco infiammi il tuo cuore? ù
Prego tuttavia che non intendiamo il
silenzio orante come un’evasione che nega il mondo intorno a noi. Nemmeno la
storia scompare. La preghiera, proprio perché si nutre del dono di Dio che si
riversa nella nostra vita, dovrebbe essere sempre ricca di memoria. La memoria
delle opere di Dio è alla base dell’esperienza dell’alleanza tra Dio e il suo
popolo. Se Dio ha voluto entrare nella storia, la preghiera è intessuta di
ricordi.
Guarda la tua storia quando preghi e in essa
troverai tanta misericordia. Nello stesso tempo questo alimenterà la tua
consapevolezza del fatto che il Signore ti tiene nella sua memoria e non ti
dimentica mai. Di conseguenza ha senso chiedergli di illuminare persino i
piccoli dettagli della tua esistenza, che a Lui non sfuggono.
Non togliamo valore alla preghiera di
domanda, che tante volte ci rasserena il cuore e ci aiuta ad andare avanti
lottando con speranza. La supplica di intercessione ha un valore particolare,
perché è un atto di fiducia in Dio e insieme un’espressione di amore al
prossimo.
La preghiera sarà più gradita a Dio e più
santificatrice se in essa, con l’intercessione, cerchiamo di vivere il duplice
comandamento che ci ha lasciato Gesù.
L’incontro con Gesù nelle Scritture ci
conduce all’Eucaristia, dove la stessa Parola raggiunge la sua massima
efficacia, perché è presenza reale di Colui che è Parola vivente.
10. Combattimento,
vigilanza e discernimento
10.1. Il
combattimento e la vigilanza
La vita cristiana è un
combattimento permanente. Non si tratta solamente di un combattimento contro il
mondo e la mentalità mondana, che ci inganna, ci intontisce e ci rende
mediocri, senza impegno e senza gioia. Nemmeno si riduce a una lotta contro la
propria fragilità e le proprie inclinazioni (ognuno ha la sua: la pigrizia, la
lussuria, l’invidia, le gelosie, e così via). È anche una lotta costante contro
il diavolo, che è il principe del male. Gesù stesso festeggia le nostre
vittorie.
La Parola di Dio ci invita esplicitamente a
«resistere alle insidie del diavolo» (Ef 6,11) e a fermare «tutte
le frecce infuocate del maligno» (Ef 6,16).
Per il combattimento abbiamo le potenti armi
che il Signore ci dà: la fede che si esprime nella preghiera, la meditazione
della Parola di Dio, la celebrazione della Messa, l’adorazione eucaristica, la
Riconciliazione sacramentale, le opere di carità, la vita comunitaria,
l’impegno missionario. Se ci trascuriamo ci sedurranno facilmente le false
promesse del male.
10.2. Contro la corruzione spirituale
Coloro che non si accorgono di commettere
gravi mancanze contro la Legge di Dio possono lasciarsi andare ad una specie di
stordimento o torpore. Dato che non trovano niente di grave da rimproverarsi,
non avvertono quella tiepidezza che a poco a poco si va impossessando della
loro vita spirituale e finiscono per logorarsi e corrompersi.
La corruzione spirituale è peggiore della
caduta di un peccatore, perché si tratta di una cecità comoda e autosufficiente
dove alla fine tutto sembra lecito: l’inganno, la calunnia, l’egoismo e tante
sottili forme di autoreferenzialità, poiché «anche Satana si maschera da angelo
della luce» (2 Cor 11,14).
10.3. Il
discernimento
10.3.1.
Come sapere se una cosa viene dallo Spirito Santo o se deriva dallo
spirito del mondo o dallo spirito del diavolo? L’unico modo è il discernimento,
che non richiede solo una buona capacità di ragionare e di senso comune, è
anche un dono che bisogna chiedere.
Senza la sapienza del discernimento possiamo
trasformarci facilmente in burattini alla mercé delle tendenze del momento.
Questo risulta particolarmente importante
quando compare una novità nella propria vita, e dunque bisogna discernere se
sia il vino nuovo che viene da Dio o una novità ingannatrice dello spirito del
mondo o dello spirito del diavolo. In altre occasioni succede il contrario,
perché le forze del male ci inducono a non cambiare, a lasciare le cose come
stanno, a scegliere l’immobilismo e la rigidità, e allora impediamo che agisca
il soffio dello Spirito.
10.3.2. Il discernimento è necessario non solo in
momenti straordinari, o quando bisogna risolvere problemi gravi, oppure quando
si deve prendere una decisione cruciale. È uno strumento di lotta per seguire
meglio il Signore. Ci serve sempre: per essere capaci di riconoscere i tempi di
Dio e la sua grazia, per non sprecare le ispirazioni del Signore, per non
lasciar cadere il suo invito a crescere.
Ricordiamo sempre che il discernimento è
una grazia. Anche se include la ragione e la prudenza, le supera, perché si
tratta di intravedere il mistero del progetto unico e irripetibile che Dio ha
per ciascuno e che si realizza in mezzo ai più svariati contesti e limiti. Non
è in gioco solo un benessere temporale, né la soddisfazione di fare qualcosa di
utile, e nemmeno il desiderio di avere la coscienza tranquilla. È in gioco il
senso della mia vita davanti al Padre che mi conosce e mi ama, quello vero, per
il quale io possa dare la mia esistenza, e che nessuno conosce meglio di Lui.
. Solamente chi è
disposto ad ascoltare ha la libertà di rinunciare al proprio punto di vista
parziale e insufficiente, alle proprie abitudini, ai propri schemi. Così è
realmente disponibile ad accogliere una chiamata che rompe le sue sicurezze ma
che lo porta a una vita migliore, perché non basta che tutto vada bene, che
tutto sia tranquillo.
Tale atteggiamento di ascolto implica,
naturalmente, obbedienza al Vangelo come ultimo criterio, ma anche al Magistero
che lo custodisce, cercando di trovare nel tesoro della Chiesa ciò che può
essere più fecondo per l’oggi della salvezza.
10.3.3. Una
condizione essenziale per il progresso nel discernimento è educarsi alla
pazienza di Dio e ai suoi tempi, che non sono mai i nostri.
Quando scrutiamo davanti a Dio le strade
della vita, non ci sono spazi che restino esclusi. In tutti gli aspetti
dell’esistenza possiamo continuare a crescere e offrire a Dio qualcosa di più,
perfino in quelli nei quali sperimentiamo le difficoltà più forti. Ma occorre
chiedere allo Spirito Santo che ci liberi e che scacci quella paura che ci
porta a vietargli l’ingresso in alcuni aspetti della nostra vita.
11. Desidero che Maria
coroni queste riflessioni, perché lei ha vissuto come nessun altro le
Beatitudini di Gesù. Ella è colei che trasaliva di gioia alla presenza di Dio,
colei che conservava tutto nel suo cuore e che si è lasciata attraversare dalla
spada. È la santa tra i santi, la più benedetta, colei che ci mostra la via
della santità e ci accompagna. Lei non accetta che quando cadiamo rimaniamo a
terra e a volte ci porta in braccio senza giudicarci. Conversare con lei ci
consola, ci libera e ci santifica. La Madre non ha bisogno di tante parole, non
le serve che ci sforziamo troppo per spiegarle quello che ci succede. Basta
sussurrare ancora e ancora: «Ave o Maria…».
Sintesi estesa
1. I santi che ci
incoraggiano e ci accompagnano
«Rallegratevi ed esultate» (Mt 5,12),
dice Gesù a coloro che sono perseguitati o umiliati per causa sua. Il Signore chiede
tutto, e quello che offre è la vera vita, la felicità per la quale siamo stati
creati. Egli ci vuole santi e non si
aspetta che ci accontentiamo di un’esistenza mediocre, annacquata,
inconsistente.
I
santi che già sono giunti alla presenza di Dio mantengono con noi legami d’amore
e di comunione. [Ma] Non pensiamo solo a quelli già beatificati o canonizzati.
Lo Spirito Santo riversa santità dappertutto nel santo popolo fedele di Dio,
perché «Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza
alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo
riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità».[Costituzione
dogmatica sulla Chiesa Luce per le genti - Lumen gentium, del Concilio Vaticano 2°, n.9] Il
Signore, nella storia della salvezza, ha salvato un popolo. Non esiste
piena identità senza appartenenza a un popolo. Perciò nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma Dio ci attrae
tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che si
stabiliscono nella comunità umana: Dio ha voluto entrare in una dinamica
popolare, nella dinamica di un popolo.
Mi piace
vedere la santità nel popolo di Dio paziente. Questa è tante volte la santità
“della porta accanto”, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso
della presenza di Dio. Lasciamoci stimolare
dai segni di santità che il Signore ci presenta. Come ci suggerisce santa
Teresa Benedetta della Croce: «Nella notte più oscura sorgono i più grandi
profeti e i santi. Tuttavia, la corrente vivificante della vita mistica rimane
invisibile. Sicuramente gli avvenimenti decisivi della storia del mondo sono
stati essenzialmente influenzati da anime sulle quali nulla viene detto nei
libri di storia. E quali siano le anime che dobbiamo ringraziare per gli
avvenimenti decisivi della nostra vita personale, è qualcosa che sapremo
soltanto nel giorno in cui tutto ciò che è nascosto sarà svelato».]
La santità è
il volto più bello della Chiesa. Ma anche fuori della Chiesa Cattolica e in
ambiti molto differenti, lo Spirito suscita segni della sua presenza, che
aiutano gli stessi discepoli di Cristo. San Giovanni Paolo II ci ha ricordato che la
testimonianza resa a Cristo sino allo spargimento del sangue è divenuta
patrimonio comune di cattolici, ortodossi, anglicani e protestanti. Nella
bella commemorazione ecumenica che egli volle celebrare al
Colosseo durante il Giubileo del 2000, sostenne che i martiri sono
«un’eredità che parla con una voce più alta dei fattori di divisione».
2. Il Signore chiama
Quello
che vorrei ricordare con questa Esortazione è soprattutto la chiamata alla
santità che il Signore fa a ciascuno di noi, quella chiamata che rivolge anche
a te. Il Concilio Vaticano 2° lo
ha messo in risalto con forza: «Muniti di salutari mezzi di una tale
abbondanza e di una tale grandezza, tutti i fedeli di ogni stato e condizione
sono chiamati dal Signore, ognuno per la sua via, a una santità la cui
perfezione è quella stessa del Padre celeste».[Costituzione dogmatica sulla
Chiesa Luce per le genti - Lumen gentium, del Concilio Vaticano 2°, n.11]
«Ognuno per la sua via», dice il Concilio. Dunque, non è il caso di scoraggiarsi quando si contemplano modelli di santità
che appaiono irraggiungibili. Quello che conta è che ciascun credente
discerna la propria strada e faccia emergere il meglio di sé, quanto di così
personale Dio ha posto in lui (cfr 1 Cor 12,7) e non che si
esaurisca cercando di imitare qualcosa che non è stato pensato per lui.
Questo dovrebbe entusiasmare e incoraggiare
ciascuno a dare tutto sé stesso, per crescere verso quel progetto unico e
irripetibile che Dio ha voluto per lui o per lei da tutta l’eternità: «Prima di
formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce,
ti ho consacrato» (Ger 1,5).
Per essere santi non è necessario essere
vescovi, sacerdoti, religiose o religiosi. Molte
volte abbiamo la tentazione di pensare che la santità sia riservata a coloro
che hanno la possibilità di mantenere le distanze dalle occupazioni ordinarie,
per dedicare molto tempo alla preghiera. Non è così. Tutti siamo chiamati ad
essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza
nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove si trova. Lascia che la grazia del
tuo Battesimo fruttifichi in un cammino di santità. Lascia che tutto sia aperto
a Dio e a tal fine scegli Lui, scegli Dio sempre di nuovo. Non ti scoraggiare,
perché hai la forza dello Spirito Santo affinché sia possibile, e la santità,
in fondo, è il frutto dello Spirito Santo nella tua vita (cfr Gal 5,22-23).
Questa
santità a cui il Signore ti chiama andrà crescendo mediante piccoli gesti.
Per esempio: una signora va al mercato a fare la spesa, incontra una vicina e
inizia a parlare, e vengono le critiche. Ma questa donna dice dentro di sé:
“No, non parlerò male di nessuno”. Questo è un passo verso la santità. Poi, a
casa, suo figlio le chiede di parlare delle sue fantasie e, anche se è stanca,
si siede accanto a lui e ascolta con pazienza e affetto. Ecco un’altra offerta
che santifica. Quindi sperimenta un momento di angoscia, ma ricorda l’amore
della Vergine Maria, prende il rosario e prega con fede. Questa è un’altra via
di santità. Poi esce per strada, incontra un povero e si ferma a conversare con
lui con affetto. Anche questo è un passo avanti.
A volte la vita presenta sfide più grandi e
attraverso queste il Signore ci invita a nuove conversioni che permettono alla
sua grazia di manifestarsi meglio nella nostra esistenza «allo scopo di farci
partecipi della sua santità» (Eb 12,10). Altre volte si tratta
soltanto di trovare un modo più perfetto di vivere quello che già facciamo.
Così,
sotto l’impulso della grazia divina, con tanti gesti andiamo costruendo quella
figura di santità che Dio ha voluto per noi, ma non come esseri
autosufficienti bensì «come buoni amministratori della multiforme grazia di
Dio» (1 Pt 4,10).
Per un cristiano non è possibile pensare alla
propria missione sulla terra senza concepirla come un cammino di santità,
perché «questa infatti è volontà di Dio, la vostra santificazione» (1 Ts 4,3).
Ogni santo è una missione; è un
progetto del Padre per riflettere e incarnare, in un momento determinato della
storia, un aspetto del Vangelo.
Il disegno del Padre è Cristo, e noi in Lui. Così,
ciascun santo è un messaggio che lo
Spirito Santo trae dalla ricchezza di Gesù Cristo e dona al suo popolo.
Per riconoscere quale sia quella parola che
il Signore vuole dire mediante un santo, non conviene soffermarsi sui
particolari, perché lì possono esserci anche errori e cadute. Non tutto quello
che dice un santo è pienamente fedele al Vangelo, non tutto quello che fa è
autentico e perfetto. Ciò che bisogna contemplare è l’insieme della sua vita,
il suo intero cammino di santificazione, quella figura che riflette qualcosa di
Gesù Cristo e che emerge quando si riesce a comporre il senso della totalità
della sua persona.[
Questo è un forte richiamo per tutti noi. Anche tu hai bisogno di concepire la
totalità della tua vita come una missione. Prova a farlo ascoltando Dio nella
preghiera e riconoscendo i segni che Egli ti offre. Chiedi sempre allo
Spirito che cosa Gesù si attende da te in ogni momento della tua esistenza e in
ogni scelta che devi fare, per discernere il posto che ciò occupa nella tua
missione. E permettigli di plasmare in te quel mistero personale che possa
riflettere Gesù Cristo nel mondo di oggi.
Voglia il Cielo che tu possa riconoscere qual è quella
parola, quel messaggio di Gesù che Dio desidera dire al mondo con la tua vita.
Lasciati trasformare, lasciati rinnovare dallo Spirito, affinché ciò sia
possibile, e così la tua preziosa missione non andrà perduta. Il Signore la porterà a
compimento anche in mezzo ai tuoi errori e ai tuoi momenti negativi, purché tu
non abbandoni la via dell’amore e rimanga sempre aperto alla sua azione
soprannaturale che purifica e illumina.
Poiché
non si può capire Cristo senza il Regno che Egli è venuto a portare, la tua stessa missione è inseparabile dalla
costruzione del Regno: «Cercate innanzitutto il Regno di Dio e la sua
giustizia» (Mt 6,33). La tua identificazione con Cristo e i suoi
desideri implica l’impegno a costruire, con Lui, questo Regno di amore, di
giustizia e di pace per tutti. Cristo stesso vuole viverlo con te, in tutti
gli sforzi e le rinunce necessari, e anche nelle gioie e nella fecondità che ti
potrà offrire. Pertanto non ti
santificherai senza consegnarti corpo e anima per dare il meglio di te in tale
impegno.
Non è sano
amare il silenzio ed evitare l’incontro con l’altro, desiderare il riposo e
respingere l’attività, ricercare la preghiera e sottovalutare il servizio. Siamo chiamati a vivere
la contemplazione anche in mezzo all’azione, e ci santifichiamo nell’esercizio
responsabile e generoso della nostra missione.
Questo
non implica disprezzare i momenti di quiete, solitudine e silenzio davanti a
Dio. Al contrario. In qualche momento dovremo guardare in faccia la verità di
noi stessi, per lasciarla invadere dal Signore. Ci occorre uno spirito di
santità che impregni tanto la solitudine quanto il servizio, tanto l’intimità
quanto l’impegno evangelizzatore, così che ogni istante sia espressione di
amore donato sotto lo sguardo del Signore. In
questo modo, tutti i momenti saranno scalini nella nostra via di
santificazione.
6. Più vivi, più umani. Misura della perfezione delle persone è il loro grado di carità, non la
quantità di dati e conoscenze che possono accumulare. Non fare affidamento unicamente sulle proprie forze e non sentirsi superiori agli altri
perché si osservano determinate norme o perché sì è irremovibilmente fedeli ad
un certo stile cattolico.
6.1. Non
avere paura della santità. Non ti toglierà forze, vita e gioia. Tutto il
contrario, perché arriverai ad essere quello che il Padre ha pensato quando ti
ha creato e sarai fedele al tuo stesso essere. Dipendere da Lui ci libera dalle
schiavitù e ci porta a riconoscere la nostra dignità.
Ogni
cristiano, nella misura in cui si santifica, diventa più fecondo per il mondo.
Non avere paura di puntare più in alto, di
lasciarti amare e liberare da Dio. Non avere paura di lasciarti guidare dallo
Spirito Santo. La santità non ti rende meno umano, perché è l’incontro della
tua debolezza con la forza della grazia.
6.2 Misura
della perfezione delle persone è il loro grado di carità, non la quantità di
dati e conoscenze che possono accumulare.
Quando qualcuno ha risposte per tutte le
domande, dimostra di trovarsi su una strada non buona ed è possibile che sia un
falso profeta, che usa la religione a proprio vantaggio, al servizio delle
proprie elucubrazioni psicologiche e mentali. Dio ci supera infinitamente, è
sempre una sorpresa e non siamo noi a determinare in quale circostanza storica
trovarlo, dal momento che non dipendono da noi il tempo e il luogo e la
modalità dell’incontro. Chi vuole tutto
chiaro e sicuro pretende di dominare la trascendenza di Dio.
Neppure si può pretendere di definire dove Dio
non si trova, perché Egli è
misteriosamente presente nella vita di ogni persona, nella vita di ciascuno
così come Egli desidera, e non possiamo negarlo con le nostre presunte
certezze. Anche qualora l’esistenza di qualcuno sia stata un disastro,
anche quando lo vediamo distrutto dai vizi o dalle dipendenze, Dio è presente
nella sua vita. Se ci lasciamo guidare dallo Spirito più che dai nostri
ragionamenti, possiamo e dobbiamo cercare il Signore in ogni vita umana.
Noi
arriviamo a comprendere in maniera molto povera la verità che riceviamo dal
Signore. E con difficoltà ancora maggiore riusciamo ad esprimerla. Perciò
non possiamo pretendere che il nostro modo di intenderla ci autorizzi a
esercitare un controllo stretto sulla vita degli altri. Voglio ricordare che nella Chiesa convivono legittimamente modi
diversi di interpretare molti aspetti della dottrina e della vita cristiana
che, nella loro varietà, aiutano ad esplicitare meglio il ricchissimo tesoro
della Parola. Certo, a quanti sognano una dottrina monolitica difesa da tutti
senza sfumature, ciò può sembrare un’imperfetta dispersione.
In realtà, la
dottrina, o meglio, la nostra comprensione ed espressione di essa, non è un
sistema chiuso, privo di dinamiche capaci di generare domande, dubbi,
interrogativi, e le domande del nostro popolo, le sue pene, le sue battaglie, i suoi
sogni, le sue lotte, le sue preoccupazioni, possiedono un valore ermeneutico
che non possiamo ignorare se vogliamo prendere sul serio il principio
dell’incarnazione. Le sue domande ci aiutano a domandarci, i suoi interrogativi
ci interrogano.
Frequentemente si
verifica una pericolosa confusione: credere che, poiché sappiamo qualcosa o
possiamo spiegarlo con una certa logica, già siamo santi, perfetti, migliori
della “massa ignorante”. San Giovanni Paolo II
[insegnò però che] quello che crediamo di sapere dovrebbe sempre costituire una
motivazione per meglio rispondere all’amore di Dio, perché si impara per
vivere: teologia e santità sono un binomio inscindibile.
La vera
saggezza cristiana non deve separarsi dalla misericordia verso il prossimo.
6.3. [Vi
sono quelli che] benché parlino della
grazia di Dio con discorsi edulcorati, in definitiva fanno affidamento
unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché
osservano determinate norme o perché sono irremovibilmente fedeli ad un certo
stile cattolico. Quando alcuni di loro si rivolgono ai deboli dicendo che
con la grazia di Dio tutto è possibile, in fondo sono soliti trasmettere l’idea
che tutto si può fare con la volontà umana, come se essa fosse qualcosa di
puro, perfetto, onnipotente, a cui si aggiunge la grazia. Si pretende di ignorare che non tutti possono tutto e che in questa
vita le fragilità umane non sono guarite completamente e una volta per tutte
dalla grazia. In qualsiasi caso, come insegnava sant’Agostino, Dio ti
invita a fare quello che puoi e a chiedere quello che non puoi; o a dire
umilmente al Signore: «Dammi quello che comandi e comandami quello che vuoi».[
In ultima analisi, la mancanza di un riconoscimento sincero, sofferto e orante dei
nostri limiti è ciò che impedisce alla grazia di agire meglio in noi, poiché non
le lascia spazio per provocare quel bene possibile che si integra in un cammino
sincero e reale di crescita. La grazia, proprio perché suppone la nostra
natura, non ci rende di colpo superuomini. Pretenderlo sarebbe confidare
troppo in noi stessi. In questo caso, dietro l’ortodossia, i nostri
atteggiamenti possono non corrispondere a quello che affermiamo sulla necessità
della grazia, e nei fatti finiamo per fidarci poco di essa. Infatti, se non
riconosciamo la nostra realtà concreta e limitata, neppure potremo vedere i
passi reali e possibili che il Signore ci chiede in ogni momento, dopo averci
attratti e resi idonei col suo dono. La
grazia agisce storicamente e, ordinariamente, ci prende e ci trasforma in modo
progressivo. Perciò, se rifiutiamo questa modalità storica e progressiva,
di fatto possiamo arrivare a negarla e bloccarla, anche se con le nostre parole
la esaltiamo.
Per poter essere perfetti, come a [Dio] piace,
abbiamo bisogno di vivere umilmente alla sua presenza, avvolti nella sua
gloria; abbiamo bisogno di camminare in unione con Lui riconoscendo il suo
amore costante nella nostra vita. Occorre abbandonare la paura di questa
presenza che ci può fare solo bene. E’ il Padre che ci ha dato la vita e ci ama
tanto. Una volta che lo accettiamo e smettiamo di pensare la nostra esistenza
senza di Lui, scompare l’angoscia della solitudine (cfr Sal 139,7).
E se non poniamo più distanze tra noi e Dio e viviamo alla sua presenza,
potremo permettergli di esaminare i nostri cuori per vedere se vanno per la
retta via (cfr Sal139,23-24). Così conosceremo la volontà amabile e
perfetta del Signore (cfr Rm 12,1-2) e lasceremo che Lui ci
plasmi come un vasaio (cfr Is 29,16). Abbiamo detto tante
volte che Dio abita in noi, ma è meglio dire che noi abitiamo in Lui, che Egli
ci permette di vivere nella sua luce e nel suo amore. Egli è il nostro tempio.
La
Chiesa ha insegnato numerose volte che non siamo giustificati dalle nostre
opere o dai nostri sforzi, ma dalla grazia del Signore che prende l’iniziativa.
Tra Lui e noi la disuguaglianza è smisurata. La sua amicizia ci supera
infinitamente, non può essere comprata da noi con le nostre opere e può solo
essere un dono della sua iniziativa d’amore. Questo ci invita a vivere con
gioiosa gratitudine per tale dono che mai meriteremo. I santi evitano di
porre la fiducia nelle loro azioni: «Alla sera di questa vita, comparirò
davanti a te a mani vuote, perché non ti chiedo, Signore, di contare le mie
opere. Ogni nostra giustizia è imperfetta ai tuoi occhi».[ S. Teresa di Gesù Bambino, “Offerta di me stessa come
Vittima d’Olocausto all’Amore Misericordioso del Buon Dio” (Preghiere,
6): Opere complete, Roma 1997, 943.]
Questa è una
delle grandi convinzioni definitivamente acquisite dalla Chiesa, ed è tanto
chiaramente espressa nella Parola di Dio che rimane fuori da ogni discussione.
Così come il supremo comandamento dell’amore, questa verità dovrebbe
contrassegnare il nostro stile di vita, perché attinge al cuore del Vangelo e
ci chiama non solo ad accettarla con la mente, ma a trasformarla in una gioia
contagiosa. Non potremo però celebrare con gratitudine il dono gratuito dell’amicizia
con il Signore, se non riconosciamo che anche la nostra esistenza terrena e le
nostre capacità naturali sono un dono.
Solo a partire dal dono di Dio, liberamente
accolto e umilmente ricevuto, possiamo cooperare con i nostri sforzi per
lasciarci trasformare sempre di più. La
prima cosa è appartenere a Dio. Si tratta di offrirci a Lui che ci anticipa, di
offrirgli le nostre capacità, il nostro impegno, la nostra lotta contro il male
e la nostra creatività, affinché il suo dono gratuito cresca e si sviluppi in
noi.
6.4. Ci sono
ancora dei cristiani che si impegnano nel seguire un’altra strada: quella della
giustificazione mediante le proprie forze, quella dell’adorazione della volontà
umana e della propria capacità, che si traduce in un autocompiacimento
egocentrico ed elitario privo del vero amore. Si manifesta in molti
atteggiamenti apparentemente diversi tra loro: l’ossessione per la legge, il
fascino di esibire conquiste sociali e politiche, l’ostentazione nella cura
della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa, la vanagloria
legata alla gestione di faccende pratiche, l’attrazione per le dinamiche di
auto-aiuto e di realizzazione autoreferenziale. In questo alcuni cristiani
spendono le loro energie e il loro tempo, invece di lasciarsi condurre dallo
Spirito sulla via dell’amore, invece di appassionarsi per comunicare la
bellezza e la gioia del Vangelo e di cercare i lontani nelle immense
moltitudini assetate di Cristo.
Molte volte, contro l’impulso dello Spirito,
la vita della Chiesa si trasforma in un pezzo da museo o in un possesso di
pochi. Questo accade quando alcuni gruppi cristiani danno eccessiva importanza
all’osservanza di determinate norme proprie, di costumi o stili. In questo
modo, spesso si riduce e si reprime il Vangelo, togliendogli la sua
affascinante semplicità e il suo sapore. Questo riguarda gruppi, movimenti
e comunità [che] tante volte iniziano
con un’intensa vita nello Spirito, ma poi finiscono fossilizzati, o corrotti.
Senza
renderci conto, per il fatto di pensare che tutto dipende dallo sforzo umano
incanalato attraverso norme e strutture ecclesiali, complichiamo il Vangelo e diventiamo schiavi di uno schema che lascia
pochi spiragli perché la grazia agisca. Al
fine di evitare questo, è bene ricordare
spesso che esiste una gerarchia delle virtù, che ci invita a cercare
l’essenziale. Il primato appartiene alle virtù teologali, che hanno Dio come
oggetto e motivo. E al centro c’è la carità. San Paolo dice che ciò che conta veramente è «la
fede che si rende operosa per mezzo della carità» (Gal 5,6). Siamo
chiamati a curare attentamente la carità: «Chi ama l’altro ha adempiuto la
Legge [...] pienezza della Legge infatti è la carità» (Rm 13,8.10).
Perché «tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai
il tuo prossimo come te stesso» (Gal 5,14).
Detto
in altre parole: in mezzo alla fitta
selva di precetti e prescrizioni, Gesù apre una breccia che permette di
distinguere due volti, quello del Padre e quello del fratello. Non ci consegna
due formule o due precetti in più. Ci consegna due volti, o meglio, uno solo,
quello di Dio che si riflette in molti. Perché in ogni fratello, specialmente
nel più piccolo, fragile, indifeso e bisognoso, è presente l’immagine stessa di
Dio. Infatti, con gli scarti di questa umanità vulnerabile, alla fine del
tempo, il Signore plasmerà la sua ultima opera d’arte.
Se qualcuno di
noi si pone la domanda: “Come si fa per arrivare ad essere un buon cristiano?”,
la risposta è semplice: è necessario fare, ognuno a suo modo, quello che dice
Gesù nel discorso delle Beatitudini. In esse si delinea il volto del
Maestro, che siamo chiamati a far trasparire nella quotidianità della nostra
vita.
La parola “felice” o “beato” diventa sinonimo
di “santo”, perché esprime che la persona fedele a Dio e che vive la sua Parola
raggiunge, nel dono di sé, la vera beatitudine.
Torniamo
ad ascoltare Gesù, con tutto l’amore e il rispetto che merita il Maestro.
Permettiamogli di colpirci con le sue parole, di provocarci, di richiamarci a
un reale cambiamento di vita. Altrimenti la santità sarà solo parole.
Ricordiamo ora le singole Beatitudini nella versione del vangelo di Matteo (cfr
5,3-12).
Il Vangelo ci
invita a riconoscere la verità del nostro cuore, per vedere dove riponiamo la
sicurezza della nostra vita. Normalmente il ricco si sente sicuro con
le sue ricchezze, e pensa che quando esse sono in pericolo, tutto il senso della sua vita sulla terra si
sgretola. Le ricchezze non ti assicurano nulla. Per questo Gesù chiama beati i
poveri in spirito, che hanno il cuore povero, in cui può entrare il Signore
con la sua costante novità.
Luca
non parla di una povertà “di spirito” ma di essere «poveri» e basta (cfr Lc 6,20),
e così ci invita anche a un’esistenza austera e spoglia. In questo modo, ci
chiama a condividere la vita dei più bisognosi, la vita che hanno condotto gli
Apostoli e in definitiva a conformarci a Gesù, che «da ricco che era, si è
fatto povero» (2 Cor 8,9).
Essere poveri nel cuore, questo è santità.
Gesù
propone un altro stile: la mitezza. È quello che Lui praticava con i suoi
discepoli e che contempliamo nel suo ingresso in Gerusalemme: «Ecco, a te viene
il tuo re, mite, seduto su un’asina e su un puledro» (Mt 21,5; cfrZc 9,9).
72. Egli disse: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete
ristoro per la vostra vita» (Mt 11,29). Se viviamo agitati,
arroganti di fronte agli altri, finiamo stanchi e spossati. Ma quando vediamo i loro limiti e i loro
difetti con tenerezza e mitezza, senza sentirci superiori, possiamo dar loro
una mano ed evitiamo di sprecare energie in lamenti inutili.
Nella Chiesa tante volte abbiamo sbagliato per non
aver accolto questo appello della Parola divina.
La mitezza è
un’altra espressione della povertà interiore, di chi ripone la propria fiducia
solamente in Dio. Di fatto nella Bibbia si usa spesso la medesima parola anawim per
riferirsi ai poveri e ai miti. Qualcuno potrebbe obiettare: “Se sono troppo
mite, penseranno che sono uno sciocco, che sono stupido o debole”. Forse sarà
così, ma lasciamo che gli altri lo pensino. E’ meglio essere sempre miti, e si realizzeranno
le nostre più grandi aspirazioni: i miti «avranno in eredità la terra», ovvero,
vedranno compiute nella loro vita le promesse di Dio. Perché i miti, al di là
di ciò che dicono le circostanze, sperano nel Signore e quelli che sperano nel
Signore possederanno la terra e godranno di grande pace (cfr Sal 37,9.11).
Nello stesso tempo, il Signore confida in loro: «Su chi volgerò lo sguardo?
Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito e su chi trema alla mia parola» (Is 66,2).
Reagire con umile mitezza, questo è santità.
Il mondo non vuole piangere: preferisce
ignorare le situazioni dolorose, coprirle, nasconderle. La persona che vede le cose come sono realmente, si lascia trafiggere
dal dolore e piange nel suo cuore è capace di raggiungere le profondità della
vita e di essere veramente felice. Quella persona è consolata, ma con la
consolazione di Gesù e non con quella del mondo. Così può avere il coraggio di
condividere la sofferenza altrui e smette di fuggire dalle situazioni dolorose.
In tal modo scopre che la vita ha senso nel soccorrere un altro nel suo dolore,
nel comprendere l’angoscia altrui, nel dare sollievo agli altri. Questa persona
sente che l’altro è carne della sua carne, non teme di avvicinarsi fino a
toccare la sua ferita, ha compassione fino a sperimentare che le distanze si
annullano. Così è possibile accogliere quell’esortazione di san Paolo:
«Piangete con quelli che sono nel pianto» (Rm 12,15).
Saper piangere con gli altri, questo è santità.
La
giustizia che propone Gesù non è come quella che cerca il mondo, molte
volte macchiata da interessi meschini, manipolata da un lato o dall’altro. La
realtà ci mostra quanto sia facile entrare nelle combriccole della corruzione,
far parte di quella politica quotidiana del “do perché mi diano”, in cui tutto
è commercio. E quanta gente soffre per le ingiustizie, quanti restano ad
osservare impotenti come gli altri si danno il cambio a spartirsi la torta
della vita. Alcuni rinunciano a lottare per la vera giustizia e scelgono di
salire sul carro del vincitore. Questo non ha nulla a che vedere con la fame e
la sete di giustizia che Gesù elogia.
Tale giustizia
incomincia a realizzarsi nella vita di ciascuno quando si è giusti nelle
proprie decisioni, e si esprime poi nel cercare la giustizia per i poveri e i
deboli. Certo la parola “giustizia” può essere sinonimo di fedeltà alla
volontà di Dio con tutta la nostra vita, ma se le diamo un senso molto generale
dimentichiamo che si manifesta specialmente nella giustizia con gli indifesi:
«Cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano,
difendete la causa della vedova» (Is 1,17).
Cercare la giustizia con fame e sete, questo è
santità.
La
misericordia ha due aspetti: è dare, aiutare, servire gli altri e anche
perdonare, comprendere. Matteo riassume questo in una regola d’oro: «Tutto
quanto vorrete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (7,12).
Dare e perdonare è tentare di riprodurre nella
nostra vita un piccolo riflesso della perfezione di Dio, che dona e perdona in
modo sovrabbondante. Per questo motivo nel
vangelo di Luca non troviamo «siate perfetti» (Mt 5,48), ma «siate
misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso. Non giudicate e non
sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete
perdonati; date e vi sarà dato» (6,36-38). E dopo Luca aggiunge qualcosa che
non dovremmo trascurare: «Con la misura con la quale misurate, sarà misurato a
voi in cambio» (6,38). La misura che usiamo per comprendere e perdonare verrà
applicata a noi per perdonarci. La misura che applichiamo per dare, sarà
applicata a noi nel cielo per ricompensarci. Non ci conviene dimenticarlo.
Gesù non dice “Beati quelli che programmano
vendetta”, ma chiama beati coloro che perdonano e lo fanno «settanta volte
sette» (Mt 18,22). Occorre
pensare che tutti noi siamo un esercito di perdonati. Tutti noi siamo stati
guardati con compassione divina. Se ci accostiamo sinceramente al Signore e
affiniamo l’udito, probabilmente sentiremo qualche volta questo rimprovero:
«Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà
di te?» (Mt 18,33).
Guardare e agire con misericordia, questo è santità.
Un cuore che sa amare non lascia entrare
nella propria vita alcuna cosa che minacci quell’amore, che lo indebolisca o
che lo ponga in pericolo. Nella Bibbia,
il cuore sono le nostre vere intenzioni, ciò che realmente cerchiamo e
desideriamo, al di là di quanto manifestiamo.
Nulla di
macchiato dalla falsità ha valore reale per il Signore.
È vero
che non c’è amore senza opere d’amore, ma questa beatitudine ci ricorda che il
Signore si aspetta una dedizione al fratello che sgorghi dal cuore, poiché «se
anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne
vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe» (1 Cor 13,3).
Nel vangelo di Matteo vediamo pure che quanto viene dal cuore è ciò che rende
impuro l’uomo (cfr 15,18), perché da lì procedono gli omicidi, i furti, le
false testimonianze, e così via (cfr 15,19). Nelle intenzioni del cuore hanno
origine i desideri e le decisioni più profondi che realmente ci muovono.
Quando
il cuore ama Dio e il prossimo (cfr Mt 22,36-40), quando
questo è la sua vera intenzione e non parole vuote, allora quel cuore è puro e
può vedere Dio. San Paolo, nel suo inno alla carità, ricorda che «adesso
noi vediamo come in uno specchio, in modo confuso» (1 Cor 13,12),
ma nella misura in cui regna veramente l’amore, diventeremo capaci di vedere
«faccia a faccia» (ibid.). Gesù
promette che quelli che hanno un cuore puro «vedranno Dio».
Mantenere il cuore pulito da tutto ciò che sporca
l’amore, questo è santità.
Per noi è molto comune essere causa di
conflitti o almeno di incomprensioni.
I
pacifici sono fonte di pace, costruiscono pace e amicizia sociale. A coloro che
si impegnano a seminare pace dovunque, Gesù fa una meravigliosa promessa:
«Saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9).
Non è facile costruire questa pace evangelica che
non esclude nessuno, ma che integra anche quelli che sono un po’ strani, le
persone difficili e complicate, quelli che chiedono attenzione, quelli che sono
diversi, chi è molto colpito dalla vita, chi ha altri interessi. È duro e
richiede una grande apertura della mente e del cuore.
[Non si
tratta] di ignorare o dissimulare i conflitti, ma di accettare di sopportare il
conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo
processo». Si tratta di essere artigiani della pace, perché costruire
la pace è un’arte che richiede serenità, creatività, sensibilità e destrezza.
Seminare pace intorno a noi, questo è santità.
Se non vogliamo sprofondare in una oscura
mediocrità, non pretendiamo una vita
comoda, perché «chi vuol salvare la propria vita, la perderà» (Mt 16,25).
Non si può
aspettare, per vivere il Vangelo, che tutto intorno a noi sia favorevole,
perché molte volte le ambizioni del potere e gli interessi mondani giocano
contro di noi. San Giovanni Paolo II diceva
che «è alienata la società che, nelle sue forme di organizzazione sociale, di
produzione e di consumo, rende più difficile la realizzazione [del] dono [di
sé] e il costituirsi [della] solidarietà interumana»].
In una tale società alienata, intrappolata in una trama politica, mediatica,
economica, culturale e persino religiosa che ostacola l’autentico sviluppo
umano e sociale, vivere le Beatitudini diventa difficile e può essere
addirittura una cosa malvista, sospetta, ridicolizzata.
La
croce, soprattutto le stanchezze e i patimenti che sopportiamo per vivere il
comandamento dell’amore e il cammino della giustizia, è fonte di maturazione e
di santificazione. Parliamo però delle persecuzioni inevitabili, non di quelle
che ci potremmo procurare noi stessi con un modo sbagliato di trattare gli
altri. Un santo non è una persona eccentrica, distaccata, che si rende
insopportabile per la sua vanità, la sua negatività e i suoi risentimenti.
Non erano così gli Apostoli di Cristo
Le persecuzioni non sono una realtà del
passato, perché anche oggi le soffriamo, sia in maniera cruenta, come tanti
martiri contemporanei, sia in un modo più sottile, attraverso calunnie e
falsità.
Accettare ogni giorno la via del Vangelo nonostante ci
procuri problemi, questo è santità.
8.1. Se
cerchiamo quella santità che è gradita agli occhi di Dio, in questo testo
troviamo proprio una regola di comportamento in base alla quale saremo
giudicati: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete
dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato
e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (Mt 25,35-36).
In
questo richiamo a riconoscerlo nei poveri e nei sofferenti si rivela il cuore
stesso di Cristo, i suoi sentimenti e le sue scelte più profonde, alle quali
ogni santo cerca di conformarsi.
Davanti alla
forza di queste richieste di Gesù è mio dovere pregare i cristiani di accettarle
e di accoglierle con sincera apertura, “sine glossa”, vale a dire senza
commenti, senza elucubrazioni e scuse che tolgano ad esse forza. Il Signore ci
ha lasciato ben chiaro che la santità non si può capire né vivere prescindendo
da queste sue esigenze, perché la misericordia è il «cuore pulsante del
Vangelo».
Quando
incontro una persona che dorme alle intemperie, in una notte fredda, posso
sentire che questo fagotto è un imprevisto che mi intralcia, un delinquente
ozioso, un ostacolo sul mio cammino, un pungiglione molesto per la mia
coscienza, un problema che devono risolvere i politici, e forse anche
un’immondizia che sporca lo spazio pubblico. Oppure posso reagire a partire
dalla fede e dalla carità e riconoscere in lui un essere umano con la mia stessa
dignità, una creatura infinitamente amata dal Padre, un’immagine di Dio, un
fratello redento da Cristo. Questo è essere cristiani! O si può forse intendere
la santità prescindendo da questo riconoscimento vivo della dignità di ogni
essere umano?[
Questo implica per i cristiani una sana e
permanente insoddisfazione. Anche se dare sollievo a una sola persona già
giustificherebbe tutti i nostri sforzi, ciò non ci basta.
8.2. [Non si devono separare] queste esigenze del Vangelo dalla propria relazione
personale con il Signore, dall’unione interiore con Lui, dalla grazia. Così si trasforma il
cristianesimo in una sorta di ONG [=Organizzazione Non Governativa,
associazione con scopi benefici non espressione di poteri pubblici], privandolo
di quella luminosa spiritualità che così bene hanno vissuto e manifestato san
Francesco d’Assisi, san Vincenzo de Paoli, santa Teresa di Calcutta e molti
altri.
[Ma è nocivo] anche l’errore di quanti vivono diffidando
dell’impegno sociale degli altri, considerandolo qualcosa di superficiale,
mondano, secolarizzato, immanentista, comunista, populista. O lo relativizzano
come se ci fossero altre cose più importanti o come se interessasse solo una
determinata etica o una ragione che essi difendono. Non possiamo proporci
un ideale di santità che ignori l’ingiustizia di questo mondo, dove alcuni
festeggiano, spendono allegramente e riducono la propria vita alle novità del
consumo, mentre altri guardano solo da fuori e intanto la loro vita passa e
finisce miseramente.
Spesso si sente
dire che, di fronte al relativismo e ai limiti del mondo attuale, sarebbe un tema
marginale, per esempio, la situazione dei migranti. Alcuni cattolici affermano
che è un tema secondario rispetto ai temi “seri” della bioetica. Che dica cose
simili un politico preoccupato per i suoi successi si può comprendere, ma non
un cristiano, a cui si addice solo l’atteggiamento di mettersi nei panni di
quel fratello che rischia la vita per dare un futuro ai suoi figli. Possiamo
riconoscere che è precisamente quello che ci chiede Gesù quando ci dice che
accogliamo Lui stesso in ogni forestiero (cfr Mt 25,35)? San
Benedetto lo aveva accettato senza riserve e, anche se ciò avrebbe potuto
“complicare” la vita dei monaci, stabilì che tutti gli ospiti che si
presentassero al monastero li si accogliesse «come Cristo»,[85] esprimendolo
perfino con gesti di adorazione, e che i poveri pellegrini li si trattasse
«con la massima cura e sollecitudine».
Qualcosa di
simile prospetta l’Antico Testamento quando dice: «Non molesterai il forestiero
né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Es 22,20).
«Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi;
tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri in terra
d’Egitto» (Lv 19,33-34). Pertanto, non si tratta dell’invenzione di
un Papa o di un delirio passeggero. Anche noi, nel contesto attuale, siamo
chiamati a vivere il cammino di illuminazione spirituale che ci presentava il
profeta Isaia quando si domandava che cosa è gradito a Dio: «Non consiste forse
nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza
tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? Allora
la tua luce sorgerà come l’aurora» (58,7-8).
8.3 La preghiera è preziosa se alimenta una donazione
quotidiana d’amore. Il nostro culto è gradito a Dio quando vi portiamo i
propositi di vivere con generosità e quando lasciamo che il dono di Dio che in
esso riceviamo si manifesti nella dedizione ai fratelli.
Per la stessa
ragione, il modo migliore per discernere se il nostro cammino di preghiera è
autentico sarà osservare in che misura la nostra vita si va trasformando alla
luce della misericordia. Perché la misericordia non è solo l’agire del Padre,
ma diventa il criterio per capire chi sono i suoi veri figli. Essa è l’architrave
che sorregge la vita della Chiesa». Desidero sottolineare ancora una
volta che, benché la misericordia non escluda la giustizia e la verità,
anzitutto dobbiamo dire che la misericordia è la pienezza della giustizia e la
manifestazione più luminosa della verità di Dio. Essa è la chiave del cielo.
Chi desidera veramente dare gloria a Dio con
la propria vita, chi realmente anela a santificarsi perché la sua esistenza
glorifichi il Santo, è chiamato a tormentarsi, spendersi e stancarsi cercando
di vivere le opere di misericordia.
Il consumismo edonista può giocarci un brutto
tiro, perché nell’ossessione di divertirsi finiamo con l’essere eccessivamente
concentrati su noi stessi, sui nostri diritti e nell’esasperazione di avere
tempo libero per godersi la vita. Sarà
difficile che ci impegniamo e dedichiamo energie a dare una mano a chi sta male
se non coltiviamo una certa austerità, se non lottiamo contro questa febbre che
ci impone la società dei consumi per venderci cose, e che alla fine ci
trasforma in poveri insoddisfatti che vogliono avere tutto e provare tutto.
Anche il consumo di informazione superficiale e le forme di comunicazione
rapida e virtuale possono essere un fattore di stordimento che si porta via
tutto il nostro tempo e ci allontana dalla carne sofferente dei fratelli. In
mezzo a questa voragine attuale, il Vangelo risuona nuovamente per offrirci una
vita diversa, più sana e più felice.
Il cristianesimo è fatto soprattutto per
essere praticato, e se è anche oggetto di riflessione, ciò ha valore solo
quando ci aiuta a vivere il Vangelo nella vita quotidiana. Raccomando vivamente
di rileggere spesso questi grandi testi biblici, di ricordarli, di pregare con
essi e tentare di incarnarli. Ci faranno bene, ci renderanno genuinamente
felici.
Vorrei
raccogliere alcune caratteristiche o espressioni spirituali che, a mio
giudizio, sono indispensabili per comprendere lo stile di vita a cui il Signore
ci chiama. Non sono tutte quelle che possono costituire un modello di santità, ma
sono cinque grandi manifestazioni dell’amore per Dio e per il prossimo che
considero di particolare importanza a motivo di alcuni rischi e limiti della
cultura di oggi.
La prima di
queste grandi caratteristiche è rimanere centrati, saldi in Dio che ama e
sostiene. A partire da questa fermezza interiore è possibile sopportare, sostenere le
contrarietà, le vicissitudini della vita, e anche le aggressioni degli altri,
le loro infedeltà e i loro difetti.
La
testimonianza di santità, nel nostro mondo accelerato, volubile e aggressivo, è
fatta di pazienza e costanza nel bene. E’ la fedeltà dell’amore, perché chi
si appoggia su Dio (pistis) può anche essere fedele davanti ai fratelli
(pistós), non li abbandona nei momenti difficili, non si lascia
trascinare dall’ansietà e rimane accanto agli altri anche quando questo non gli
procura soddisfazioni immediate.
San Paolo invitava i cristiani di Roma a non
rendere «a nessuno male per male» (Rm 12,17), a non voler farsi
giustizia da sé stessi (cfr v. 19) e a non lasciarsi vincere dal male, ma a
vincere il male con il bene (cfr v. 21). Questo atteggiamento non è segno di
debolezza ma della vera forza, perché Dio stesso «è lento all’ira, ma grande
nella potenza» (citazione dal libro di Naum 1,3).
E’ necessario
lottare e stare in guardia davanti alle nostre inclinazioni aggressive ed
egocentriche per non permettere che mettano radici: «Adiratevi, ma non peccate;
non tramonti il sole sopra la vostra ira» (Ef 4,26).
Anche i
cristiani possono partecipare a reti di violenza verbale mediante internet e i
diversi ambiti o spazi di interscambio digitale. Persino nei media cattolici
si possono eccedere i limiti, si tollerano la diffamazione e la calunnia, e
sembrano esclusi ogni etica e ogni rispetto per il buon nome altrui. Così si
verifica un pericoloso dualismo, perché in queste reti si dicono cose che non
sarebbero tollerabili nella vita pubblica, e si cerca di compensare le proprie
insoddisfazioni scaricando con rabbia i desideri di vendetta. E’ significativo
che a volte, pretendendo di difendere altri comandamenti, si passi sopra
completamente all’ottavo: «Non dire falsa testimonianza», e si distrugga
l’immagine altrui senza pietà. Lì si manifesta senza alcun controllo che la
lingua è «il mondo del male» e «incendia tutta la nostra vita, traendo la sua
fiamma dalla Geenna» (Gc 3,6).
La
fermezza interiore, che è opera della grazia, ci preserva dal lasciarci
trascinare dalla violenza che invade la vita sociale, perché la grazia smorza
la vanità e rende possibile la mitezza del cuore. Il santo non spreca le sue energie lamentandosi degli errori altrui, è
capace di fare silenzio davanti ai difetti dei fratelli ed evita la violenza
verbale che distrugge e maltratta, perché non si ritiene degno di essere duro
con gli altri, ma piuttosto li considera «superiori a sé stesso» (Fil 2,3).
Non ci fa bene
guardare dall’alto in basso, assumere il ruolo di giudici spietati, considerare
gli altri come indegni e pretendere continuamente di dare lezioni. Questa è una
sottile forma di violenza.
L’umiltà può radicarsi nel cuore solamente
attraverso le umiliazioni. Senza di esse non c’è umiltà né santità. Se tu non sei capace di sopportare e
offrire alcune umiliazioni non sei umile e non sei sulla via della santità. La
santità che Dio dona alla sua Chiesa viene mediante l’umiliazione del suo
Figlio: questa è la via.
Non mi riferisco solo alle situazioni
violente di martirio, ma alle umiliazioni quotidiane di coloro che sopportano
per salvare la propria famiglia, o evitano di parlare bene di sé stessi e
preferiscono lodare gli altri invece di gloriarsi, scelgono gli incarichi meno
brillanti, e a volte preferiscono addirittura sopportare qualcosa di ingiusto
per offrirlo al Signore: «Se, facendo il bene, sopporterete con pazienza la
sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio» (1 Pt 2,20). Non è
camminare a capo chino, parlare poco o sfuggire dalla società. A volte, proprio
perché è libero dall’egocentrismo, qualcuno può avere il coraggio di discutere
amabilmente, di reclamare giustizia o di difendere i deboli davanti ai potenti,
benché questo gli procuri conseguenze negative per la sua immagine.
Si
tratta di una via per imitare Gesù e crescere nell’unione con Lui.
Tale
atteggiamento presuppone un cuore pacificato da Cristo, libero da
quell’aggressività che scaturisce da un io troppo grande. La stessa
pacificazione, operata dalla grazia, ci permette di mantenere una sicurezza
interiore e resistere, perseverare nel bene «anche se vado per una valle
oscura» (Sal 23,4) o anche «se contro di me si accampa un esercito»
(Sal 27,3).
Quanto
detto finora non implica uno spirito inibito, triste, acido, malinconico, o un
basso profilo senza energia. Il santo è capace di vivere con gioia e senso
dell’umorismo. Senza perdere il realismo, illumina gli altri con uno spirito
positivo e ricco di speranza. Essere cristiani è «gioia nello Spirito Santo» (Rm 14,17).
I profeti annunciavano il tempo di Gesù, che
noi stiamo vivendo, come una rivelazione della gioia: «Canta ed esulta!» (Is 12,6).
Maria, che ha saputo scoprire la novità
portata da Gesù, cantava: «Il mio spirito esulta» (Lc 1,47) e Gesù
stesso «esultò di gioia nello Spirito Santo» (Lc 10,21). Quando Lui
passava, «la folla intera esultava» (Lc 13,17). Dopo la sua
risurrezione, dove giungevano i discepoli si riscontrava «una grande gioia» (At 8,8).
A noi Gesù dà una sicurezza: «Voi sarete nella tristezza, ma la vostra
tristezza si cambierà in gioia. […] Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si
rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia» (Gv 16,20.22).
«Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia
piena» (Gv 15,11).
Ci sono
momenti duri, tempi di croce, ma niente può distruggere la gioia
soprannaturale, che «si adatta e si trasforma, e sempre rimane almeno come uno
spiraglio di luce che nasce dalla certezza personale di essere infinitamente
amato, al di là di tutto.
Ordinariamente la gioia cristiana è
accompagnata dal senso dell’umorismo, così evidente, ad esempio, in san Tommaso
Moro, in san Vincenzo de Paoli o in san Filippo Neri. Il malumore non è un
segno di santità.
[Dio ci vuole positivi, grati e non troppo
complicati: «Nel giorno lieto sta’ allegro […]. Dio ha creato gli esseri umani
retti, ma essi vanno in cerca di infinite complicazioni» (Qo 7,14.29).
In ogni situazione, occorre mantenere uno spirito flessibile, e fare come san
Paolo: «Ho imparato a bastare a me stesso in ogni occasione» (Fil 4,11). E’ quello che viveva
san Francesco d’Assisi, capace di commuoversi di gratitudine davanti a un pezzo
di pane duro, o di lodare felice Dio solo per la brezza che accarezzava il suo
volto.
Non sto parlando della gioia consumista e
individualista così presente in alcune esperienze culturali di oggi. Mi
riferisco piuttosto a quella gioia
che si vive in comunione, che si condivide e si partecipa, perché «si è più
beati nel dare che nel ricevere» (At 20,35) e «Dio ama chi dona con
gioia» (2 Cor 9,7). L’amore fraterno moltiplica la nostra capacità
di gioia, poiché ci rende capaci di gioire del bene degli altri: «Rallegratevi
con quelli che sono nella gioia» (Rm 12,15).
. Nello
stesso tempo, la santità è parresia [=parola del greco antico che significa franchezza]: è
audacia, è slancio evangelizzatore che lascia un segno in questo mondo.
Perché ciò sia possibile, Gesù stesso ci viene incontro e ci ripete con
serenità e fermezza: «Non abbiate paura» (Mc 6,50). «Io sono con
voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Audacia,
entusiasmo, parlare con libertà, fervore apostolico, tutto questo è compreso
nel vocabolo parresia, parola con cui la Bibbia esprime anche la
libertà di un’esistenza che è aperta, perché si trova disponibile per Dio e per
i fratelli (cfr At 4,29; 9,28; 28,31; 2 Cor 3,12; Ef 3,12; Eb 3,6;
10,19).
Guardiamo a Gesù: la sua compassione profonda
non era qualcosa che lo concentrasse su di sé, non era una compassione
paralizzante, timida o piena di vergogna come molte volte succede a noi, ma
tutto il contrario. Era una compassione che lo spingeva a uscire da sé con
forza per annunciare, per inviare in missione, per inviare a guarire e a
liberare. Riconosciamo la nostra fragilità ma lasciamo che Gesù la prenda nelle
sue mani e ci lanci in missione. Siamo fragili, ma portatori di un tesoro
che ci rende grandi e che può rendere più buoni e felici quelli che lo
accolgono. L’audacia e il coraggio apostolico sono costitutivi della missione.
La parresia è sigillo dello
Spirito, testimonianza dell’autenticità dell’annuncio.
Abbiamo
bisogno della spinta dello Spirito per non essere paralizzati dalla paura e dal
calcolo, per non abituarci a camminare soltanto entro confini sicuri.
Ricordiamoci che ciò che rimane chiuso alla fine ha odore di umidità e ci fa
ammalare.
Come
il profeta Giona, sempre portiamo latente in noi la tentazione di fuggire in un
luogo sicuro che può avere molti nomi: individualismo, spiritualismo, chiusura
in piccoli mondi, dipendenza, sistemazione, ripetizione di schemi prefissati,
dogmatismo, nostalgia, pessimismo, rifugio nelle norme. Talvolta facciamo
fatica ad uscire da un territorio che ci era conosciuto e a portata di mano.
Tuttavia, le difficoltà possono avere la funzione di farci tornare a quel Dio
che è tenerezza e che vuole condurci a un’itineranza [=atteggiamento di chi è
disposto ad abbandonare le proprie sicurezze] costante e rinnovatrice.
Dio è sempre
novità, che ci spinge continuamente a ripartire e a cambiare posto per andare
oltre il conosciuto, verso le periferie e le frontiere. Ci conduce là dove si
trova l’umanità più ferita e dove gli esseri umani, al di sotto dell’apparenza
della superficialità e del conformismo, continuano a cercare la risposta alla
domanda sul senso della vita. Dio non ha paura! Non ha paura!
E’ vero
che bisogna aprire la porta a Gesù Cristo, perché Lui bussa e chiama (cfr Ap 3,20).
Ma a volte mi domando se, a causa dell’aria irrespirabile della nostra
autoreferenzialità, Gesù non starà bussando dentro di noi perché lo lasciamo
uscire.
L’abitudine ci seduce e ci dice che non ha
senso cercare di cambiare le cose, che non possiamo far nulla di fronte a
questa situazione, che è sempre stato così e che tuttavia siamo andati avanti.
Per l’abitudine noi non affrontiamo più il male e permettiamo che le cose
“vadano come vanno”, o come alcuni hanno deciso che debbano andare. Ma dunque
lasciamo che il Signore venga a risvegliarci, a dare uno scossone al nostro
torpore, a liberarci dall’inerzia. Sfidiamo l’abitudinarietà, apriamo bene gli
occhi e gli orecchi, e soprattutto il cuore, per lasciarci smuovere da ciò che
succede intorno a noi e dal grido della Parola viva ed efficace del Risorto.
Chiediamo al Signore la grazia di non esitare
quando lo Spirito esige da noi che facciamo un passo avanti.
La santificazione è un cammino comunitario, da
fare a due a due. Così lo rispecchiano alcune comunità sante.
Condividere
la Parola e celebrare insieme l’Eucaristia ci rende più fratelli e ci trasforma
via via in comunità santa e missionaria.
La vita
comunitaria, in famiglia, in parrocchia, nella comunità religiosa o in
qualunque altra, è fatta di tanti piccoli dettagli quotidiani.
Ricordiamo come Gesù invitava i suoi discepoli
a fare attenzione ai particolari, [ad esempio]: il piccolo particolare che si
stava esaurendo il vino in una festa; il piccolo particolare che mancava una
pecora.
La comunità che custodisce i piccoli
particolari dell’amore, dove i membri si prendono cura gli uni degli altri
e costituiscono uno spazio aperto ed evangelizzatore, è luogo della presenza
del Risorto che la va santificando secondo il progetto del Padre.
Contro la tendenza all’individualismo
consumista che finisce per isolarci nella ricerca del benessere appartato dagli
altri, il nostro cammino di santificazione non può cessare di identificarci con
quel desiderio di Gesù: che «tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in
me e io in te» (Gv 17,21).
La santità è
fatta di apertura abituale alla trascendenza, che si esprime nella preghiera e
nell’adorazione. Il santo è una persona dallo spirito orante, che ha bisogno di
comunicare con Dio.
Sono necessari
anche alcuni momenti dedicati solo a Dio, in solitudine con Lui. La preghiera fiduciosa è una risposta del
cuore che si apre a Dio a tu per tu, dove si fanno tacere tutte le voci per
ascoltare la soave voce del Signore che risuona nel silenzio. In tale silenzio
è possibile discernere, alla luce dello Spirito, le vie di santità che il
Signore ci propone.
Mi permetto
di chiederti: ci sono momenti in cui ti poni alla sua presenza in silenzio,
rimani con Lui senza fretta, e ti lasci guardare da Lui? Lasci che il suo fuoco
infiammi il tuo cuore? Se non permetti che Lui alimenti in esso il calore
dell’amore e della tenerezza, non avrai fuoco, e così come potrai infiammare il
cuore degli altri con la tua testimonianza e le tue parole? E se davanti al
volto di Cristo ancora non riesci a lasciarti guarire e trasformare, allora
penetra nelle viscere del Signore, entra nelle sue piaghe, perché lì ha sede la
misericordia divina.
Prego
tuttavia che non intendiamo il silenzio orante come un’evasione che nega il
mondo intorno a noi. Nemmeno la storia scompare. La preghiera, proprio perché
si nutre del dono di Dio che si riversa nella nostra vita, dovrebbe essere
sempre ricca di memoria. La memoria delle opere di Dio è alla base
dell’esperienza dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. Se Dio ha voluto entrare
nella storia, la preghiera è intessuta di ricordi.
Guarda la tua
storia quando preghi e in essa troverai tanta misericordia. Nello stesso tempo
questo alimenterà la tua consapevolezza del fatto che il Signore ti tiene nella
sua memoria e non ti dimentica mai. Di conseguenza ha senso chiedergli di
illuminare persino i piccoli dettagli della tua esistenza, che a Lui non
sfuggono.
La supplica è espressione del cuore che
confida in Dio, che sa che non può farcela da solo. Non togliamo valore alla preghiera di domanda, che tante volte ci
rasserena il cuore e ci aiuta ad andare avanti lottando con speranza. La
supplica di intercessione ha un valore particolare, perché è un atto di fiducia
in Dio e insieme un’espressione di amore al prossimo.
La preghiera
sarà più gradita a Dio e più santificatrice se in essa, con l’intercessione,
cerchiamo di vivere il duplice comandamento che ci ha lasciato Gesù.
Se veramente riconosciamo che Dio esiste, non
possiamo fare a meno di adorarlo, a volte in un silenzio colmo di ammirazione,
o di cantare a Lui con lode festosa. Nella vita del popolo pellegrinante ci
sono molti gesti semplici di pura adorazione, come ad esempio quando lo sguardo
del pellegrino si posa su un’immagine che simboleggia la tenerezza e la
vicinanza di Dio. L’amore si ferma, contempla il mistero, lo gusta in silenzio.
La lettura orante della Parola di Dio, più
dolce del miele (cfr Sal 119,103) e «spada a doppio taglio» (Eb 4,12),
ci permette di rimanere in ascolto del Maestro affinché sia lampada per i
nostri passi, luce sul nostro cammino (cfr Sal 119,105). La
devozione alla Parola di Dio non è solo una delle tante devozioni, una cosa
bella ma facoltativa. Appartiene al cuore e all’identità stessa della vita
cristiana. La Parola ha in sé la forza per trasformare la vita».
L’incontro
con Gesù nelle Scritture ci conduce all’Eucaristia, dove la stessa Parola
raggiunge la sua massima efficacia, perché è presenza reale di Colui che è
Parola vivente. Lì l’unico Assoluto riceve la più grande adorazione che si
possa dargli in questo mondo, perché è Cristo stesso che si offre. E quando lo
riceviamo nella comunione, rinnoviamo la nostra alleanza con Lui e gli
permettiamo di realizzare sempre più la sua azione trasformante.
La vita cristiana è un combattimento permanente. Non
si tratta solamente di un combattimento contro il mondo e la mentalità mondana,
che ci inganna, ci intontisce e ci rende mediocri, senza impegno e senza gioia.
Nemmeno si riduce a una lotta contro la propria fragilità e le proprie
inclinazioni (ognuno ha la sua: la pigrizia, la lussuria, l’invidia, le
gelosie, e così via). È anche una lotta costante contro il diavolo, che è il
principe del male. Gesù stesso festeggia le nostre vittorie.
Non ammetteremo l’esistenza del diavolo se ci
ostiniamo a guardare la vita solo con criteri empirici e senza una prospettiva
soprannaturale. Proprio la convinzione che questo potere maligno è in mezzo a
noi, è ciò che ci permette di capire perché a volte il male ha tanta forza
distruttiva. La sua presenza si trova nella prima pagina delle Scritture, che
terminano con la vittoria di Dio sul demonio.[
Di fatto, quando Gesù ci ha
lasciato il “Padre Nostro” ha voluto che terminiamo chiedendo al Padre che ci
liberi dal Maligno. L’espressione che lì si utilizza non si riferisce al male
in astratto e la sua traduzione più precisa è «il Maligno». Indica un essere
personale che ci tormenta. Gesù ci ha insegnato a chiedere ogni giorno questa
liberazione perché il suo potere non ci domini.
Non pensiamo dunque che sia un mito, una
rappresentazione, un simbolo, una figura o un’idea. Tale inganno ci porta
ad abbassare la guardia, a trascurarci e a rimanere più esposti. Lui non ha
bisogno di possederci. Ci avvelena con l’odio, con la tristezza, con l’invidia,
con i vizi. E così, mentre riduciamo le difese, lui ne approfitta per
distruggere la nostra vita, le nostre famiglie e le nostre comunità, perché
«come leone ruggente va in giro cercando chi divorare» (1 Pt 5,8).
La Parola di
Dio ci invita esplicitamente a «resistere alle insidie del diavolo» (Ef 6,11)
e a fermare «tutte le frecce infuocate del maligno» (Ef 6,16).
Per il
combattimento abbiamo le potenti armi che il Signore ci dà: la fede che si
esprime nella preghiera, la meditazione della Parola di Dio, la celebrazione
della Messa, l’adorazione eucaristica, la Riconciliazione sacramentale, le
opere di carità, la vita comunitaria, l’impegno missionario. Se ci trascuriamo
ci sedurranno facilmente le false promesse del male.
In questo cammino, lo sviluppo del bene, la
maturazione spirituale e la crescita dell’amore sono il miglior contrappeso nei
confronti del male. Nessuno resiste se sceglie di indugiare in un punto morto,
se si accontenta di poco, se smette di sognare di offrire al Signore una
dedizione più bella. Peggio ancora se cade in un senso di sconfitta. Perché chi
comincia senza fiducia ha perso in anticipo metà della battaglia e sotterra i
propri talenti.
Coloro che non
si accorgono di commettere gravi mancanze contro la Legge di Dio possono
lasciarsi andare ad una specie di stordimento o torpore. Dato che non trovano
niente di grave da rimproverarsi, non avvertono quella tiepidezza che a poco a
poco si va impossessando della loro vita spirituale e finiscono per logorarsi e
corrompersi.
La corruzione
spirituale è peggiore della caduta di un peccatore, perché si tratta di una
cecità comoda e autosufficiente dove alla fine tutto sembra lecito: l’inganno,
la calunnia, l’egoismo e tante sottili forme di autoreferenzialità, poiché
«anche Satana si maschera da angelo della luce» (2 Cor 11,14).
10.3. Il discernimento
10.3.1. Come
sapere se una cosa viene dallo Spirito Santo o se deriva dallo spirito del
mondo o dallo spirito del diavolo? L’unico modo è il discernimento, che non
richiede solo una buona capacità di ragionare e di senso comune, è anche un
dono che bisogna chiedere. Se lo chiediamo con fiducia allo Spirito Santo, e
allo stesso tempo ci sforziamo di coltivarlo con la preghiera, la riflessione,
la lettura e il buon consiglio, sicuramente potremo crescere in questa capacità
spirituale.
Al giorno d’oggi l’attitudine al discernimento
è diventata particolarmente necessaria. Infatti la vita attuale offre enormi
possibilità di azione e di distrazione e il mondo le presenta come se fossero
tutte valide e buone. Tutti, ma specialmente i giovani, sono esposti a
uno zapping costante. È possibile navigare su due o tre schermi
simultaneamente e interagire nello stesso tempo in diversi scenari virtuali. Senza la sapienza del discernimento
possiamo trasformarci facilmente in burattini alla mercé delle tendenze del
momento.
Questo risulta
particolarmente importante quando compare una novità nella propria vita, e
dunque bisogna discernere se sia il vino nuovo che viene da Dio o una novità
ingannatrice dello spirito del mondo o dello spirito del diavolo. In altre
occasioni succede il contrario, perché le forze del male ci inducono a non
cambiare, a lasciare le cose come stanno, a scegliere l’immobilismo e la
rigidità, e allora impediamo che agisca il soffio dello Spirito.
10.3.2. Il discernimento è necessario non solo in
momenti straordinari, o quando bisogna risolvere problemi gravi, oppure quando
si deve prendere una decisione cruciale. È uno strumento di lotta per seguire
meglio il Signore. Ci serve sempre: per essere capaci di riconoscere i tempi di
Dio e la sua grazia, per non sprecare le ispirazioni del Signore, per non lasciar
cadere il suo invito a crescere.
È vero che il discernimento spirituale non
esclude gli apporti delle sapienze umane, esistenziali, psicologiche,
sociologiche o morali. Però le trascende [=le supera]. E neppure gli bastano le
sagge norme della Chiesa. Ricordiamo
sempre che il discernimento è una grazia. Anche se include la ragione e la
prudenza, le supera, perché si tratta di intravedere il mistero del progetto
unico e irripetibile che Dio ha per ciascuno e che si realizza in mezzo ai più
svariati contesti e limiti. Non è in gioco solo un benessere temporale, né la
soddisfazione di fare qualcosa di utile, e nemmeno il desiderio di avere la
coscienza tranquilla. È in gioco il senso della mia vita davanti al Padre che
mi conosce e mi ama, quello vero, per il quale io possa dare la mia esistenza,
e che nessuno conosce meglio di Lui. Il discernimento, insomma, conduce
alla fonte stessa della vita che non muore, cioè «che conoscano te, l’unico
vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3). Non
richiede capacità speciali né è riservato ai più intelligenti e istruiti, e il
Padre si manifesta con piacere agli umili (cfr Mt 11,25).
Tuttavia potrebbe capitare che nella preghiera
stessa evitiamo di disporci al confronto con la libertà dello Spirito, che
agisce come vuole. Solamente chi è
disposto ad ascoltare ha la libertà di rinunciare al proprio punto di vista
parziale e insufficiente, alle proprie abitudini, ai propri schemi. Così è
realmente disponibile ad accogliere una chiamata che rompe le sue sicurezze ma
che lo porta a una vita migliore, perché non basta che tutto vada bene, che
tutto sia tranquillo.
Tale
atteggiamento di ascolto implica, naturalmente, obbedienza al Vangelo come
ultimo criterio, ma anche al Magistero che lo custodisce, cercando di trovare
nel tesoro della Chiesa ciò che può essere più fecondo per l’oggi della
salvezza.
10.3.3. Una condizione essenziale per il progresso
nel discernimento è educarsi alla pazienza di Dio e ai suoi tempi, che non sono
mai i nostri. [Si fa discernimento] per riconoscere come possiamo compiere
meglio la missione che ci è stata affidata nel Battesimo, e ciò implica essere
disposti a rinunce fino a dare tutto. Se uno assume questa dinamica,
allora non lascia anestetizzare la propria coscienza e si apre generosamente al
discernimento.
Quando
scrutiamo davanti a Dio le strade della vita, non ci sono spazi che restino
esclusi. In tutti gli aspetti dell’esistenza possiamo continuare a crescere e
offrire a Dio qualcosa di più, perfino in quelli nei quali sperimentiamo le
difficoltà più forti. Ma occorre chiedere allo Spirito Santo che ci liberi e
che scacci quella paura che ci porta a vietargli l’ingresso in alcuni aspetti
della nostra vita. Colui che chiede tutto dà anche tutto, e non vuole
entrare in noi per mutilare o indebolire, ma per dare pienezza. Questo ci fa
vedere che il discernimento non è un’autoanalisi presuntuosa, una introspezione
egoista, ma una vera uscita da noi stessi verso il mistero di Dio, che ci aiuta
a vivere la missione alla quale ci ha chiamato per il bene dei fratelli.
11. Desidero che Maria coroni queste riflessioni, perché lei ha vissuto come
nessun altro le Beatitudini di Gesù. Ella è colei che trasaliva di gioia alla
presenza di Dio, colei che conservava tutto nel suo cuore e che si è lasciata
attraversare dalla spada. È la santa tra i santi, la più benedetta, colei che
ci mostra la via della santità e ci accompagna. Lei non accetta che quando
cadiamo rimaniamo a terra e a volte ci porta in braccio senza giudicarci.
Conversare con lei ci consola, ci libera e ci santifica. La Madre non ha
bisogno di tante parole, non le serve che ci sforziamo troppo per spiegarle
quello che ci succede. Basta sussurrare ancora e ancora: «Ave o Maria…».