Ripartire da un
passato immaginario? Contro le retropie
Il termine retropia significa idealizzare un passato immaginario
per costruirvi sopra un futuro alternativo. Ciclicamente l’operazione viene
allestita, nella società civile come in religione. Accade nei sogni di
purificazione mediante ritorno ad origini di cui si sa poco, come quelle delle nostre collettività di fede. Quando il passato immaginario si
situa più vicino nel tempo, la tendenza è puramente e semplicemente
reazionaria, anche se non se ne ha chiara consapevolezza per l’aura di novità
che circonda quel passato strumentalizzato. Ma come può essere nuovo
un passato? Il passato è, appunto, passato, trascorso: se ne può solo avere
un ricordo affidabile o non. Questo però
accade nell’ambiente degli storici: nelle culture umane è molto diverso e il
ricordo del passato viene liberamente reinterpretato a seconda delle esigenze
del presente. E’ il lavoro che nel romanzo di George Orwell, 1984, viene svolto da un’apposita
organizzazione burocratica, il Ministero
della Verità, secondo le disposizioni di un capo politico detto Grande Fratello. In quella narrazione,
nessuno è più in grado di ricordare bene il passato, che viene costantemente
reinventato per farlo corrispondere alla situazione dell’oggi e, soprattutto,
per dare ragione di ciò che si programma per il futuro. E’ un argomento che di
solito non viene trattato nella formazione religiosa di base, ma quel modo di
fare è stato proprio anche della Chiesa cattolica fino a…vorrei poter fissare
una data del passato in cui ci si è fermati, ma, francamente, non ci riesco.
Sarebbe anche questa, da parte mia, una retropia.
In religione, dunque, si combatte ancora la battaglia fra retropie.
Nessuno si fa avanti proponendo cose nuove come nuove, ma sempre richiedendo
correzioni del presente sulla base di un certo passato. Infatti negli ambienti
religiosi la tradizione, dunque gli usi
e concezioni del passato, fonda e accredita l’autorità. Quanto più indietro nel
tempo si situano, tanto più li si ritiene affidabili, per quella infallibilità nel credere che si spera sia virtù soprannaturale del popolo
di fede. In realtà il presente, come in 1984, controlla il passato,
vale a dire il suo ricordo, e la memoria di quanto è costato in termini di
sofferenza ottenere storicamente una certa uniformità nelle concezioni non è
posta particolarmente in rilievo, diviene affare da specialisti che possono
reggerne la visione chiara, facendosene una ragione.
Un’operazione retropica è stata attuata in occasione della
beatificazione e poi della canonizzazione di san Karol Wojtyla, che ha regnato
dal 1978 al 2005 come papa Giovanni Paolo 2°. Occorrerà ancora molto tempo per
interpretare in modo veramente e completamente affidabile la sua storia, il passato che egli animò da
protagonista. A quel lungo regno corrispose anche un’era della nostra
parrocchia, in linea con gli orientamenti complessivamente reazionari e retropici di quel pontificato. Anch’essa, come quella del Wojtyla, che si prolungò dopo la sua
morte e fino al 2013, l’anno dell’elezione di papa Francesco, sopravvisse per un po' in un diverso clima storico e terminò solo nel
2015, due anni dopo l’inizio del nuovo pontificato di papa Francesco, con l’arrivo non solo di un nuovo parroco, ma
di una nuova squadra di preti, con la missione di realizzare da noi la Chiesa in uscita che corrisponde agli orientamenti,
effettivamente nuovi, del Papa regnante, ma prima di questo, di aprire la
parrocchia al quartiere accogliendone le diversità culturali. Occorreva sanare
una frattura tra la gente del quartiere e la sua parrocchia, manifestatasi
platealmente con la drastica riduzione dei bambini che venivano portati in
parrocchia per ricevervi la prima formazione religiosa. Si era preso a migrare
nelle parrocchie vicine. Quale la causa? Da quello che ho potuto constatare,
era stata l’ideologia di comunità difensiva e autoritaria che dal 1983 si era
tentato di attuare in parrocchia, partendo dalla realtà sociale vivacissima che
l’aveva caratterizzata nel corso degli anni Settanta e che si pensava troppo
disordinata. Si pensava che, a fronte di un
assedio alla fede da parte del mondo intorno, per la diffusione di
mentalità e costumi non religiosi, la via giusta fosse quella di compattare il resto
fedele in comunità chiuse, ad
ammissione riservata dopo scrutinio,
affidate sostanzialmente a maschi dominanti, sul modello di ciò che si
immaginava fosse accaduto nei primi tempi delle nostre collettività di fede e
del modello tribale degli antichi israeliti. Le altre esperienze, come la
nostra Azione Cattolica, mi parvero tollerate solo come ambienti ad
esaurimento, destinati ai più anziani. Ai più giovani venne proposta una sola
via, come sbocco della prima formazione religiosa, quella dell’ingresso nelle
neo-comunità, prendere o lasciare, aut-aut, o
quella o uscire. E molti uscirono,
molti giovani, anche, ad esempio, i compagni di catechismo delle mie figlie. Si
cercò di riempire i vuoti di quelli che uscivano con immigrazioni da altre
parti della città, con spirito di club:
“la parrocchia è di chi ci vuol stare”,
si diceva. I ministeri laicali, a cominciare da quello catechistico, vennero
progressivamente affidati a persone in linea con la nuova cultura che si voleva
far prevalere, ritenendola indispensabile per resistere al mondo cattivo intorno, lasciato in definitiva alla
sua perdizione e inevitabile rovina. Coloro che riuscivano a resistere dentro immaginavano di essere una sorta
di stirpe eletta e che gli altri, vedendoli da fuori, avrebbero desiderato imitarli, come si legge sarebbe avvenuto per le nostre prime comunità di fede.
In realtà accadde proprio il contrario: osservai una crescente ostilità del
quartiere verso gli ambienti parrocchiali, segnalata ciclicamente da gesti
evidenti di insofferenza. Il nuovo corso non attirava. Chi lo animava vi vide la conferma della cattiveria del mondo intorno e una ragione di più per sigillare le neo-comunità.
Io e mia moglie ci siamo formati fin da giovani in ambienti parrocchiali
molto diversi, abbiamo avuto qualcosa che alle nostre figlie è stato a lungo negato e
che infine hanno potuto sperimentare solo con la nuova organizzazione della parrocchia,
attuata dal 2015. Non si sono allontanate, ma ad un certo punto si sono disamorate.
Hanno resistito, probabilmente anche sul nostro esempio, in un’Azione Cattolica certamente non favorita da quel vecchio
corso, ma anche avendo maturato la consapevolezza
di ciò che in quello che avevano vissuto in parrocchia non andava, non funzionava, faceva soffrire, disamorava, a prescindere dalla buone intenzioni individuali di chi lo dirigeva. Perché, è chiaro, come quasi
sempre in religione, si è sbagliato, ma in perfetta buona fede. E’ questa la
ragione della beatificazione e della canonizzazione anche di persone di fede
discutibili sotto molti profili, in particolare per la loro azione politica, ma
anche per certe durezze in campo religioso. Ma, chiediamoci: quanta gente di
fede si è persa nel nostro quartiere nell’era monopolizzata dall’ideologia delle comunità-fortezza e proprio a causa di questa impostazione?
Il nuovo corso iniziato con papa Francesco è improntato a principi radicalmente
diversi, direi proprio opposti, quanto all’atteggiamento da tenere verso ciò
che circonda le nostre comunità di fede. L’errore sarebbe, però, procedere come
nell’era passata, ritenendo obsolete le concezioni e le vite di coloro che si
sono arroccati nelle comunità chiuse e cercando di cambiare d’autorità menti e
costumi. Errore perché, insieme ad aspetti sicuramente negativi, quell’esperienza
ne ha avuti anche di positivi, come sempre accade nelle cose umane. La via
giusta è dunque l’Et-Et, E-E, ammettere il pluralismo e convivervi. Questo
non può accadere, però, semplicemente affiancando i diversi tipi di comunità, vivendo
la parrocchia con spirito condominiale senza mai volersi conoscere un po’
meglio per collaborare fraternamente. Perché, così facendo, viene meno la
ragion d’essere della parrocchia e dello stesso ministero sacerdotale in essa,
inteso a guidare verso l’unità misericordiosa dei diversi, nello spirito del
Maestro e impersonandone la figura e gli insegnamenti. A quel punto
basterebbero un amministratore e un regolamento condominiali. Ciascuno poi
farebbe per sé, contribuendo nella misura stabilita. Gente che va, gente che
viene: complessivamente gente, non un popolo. Come in piscina o in palestra, ci sarebbe il giorno per gli uni e
quello per gli altri. Una coabitazione ordinata, certo, ma è questo lo spirito
di Chiesa? Per quanti notevoli passi avanti si siano fatti dal 2015, si è ancora più o
meno al livello delle comunità semplicemente affiancate, e comunque non è poco rispetto al punto di partenza. Come ho scritto, questo genera scintille nelle
occasioni liturgiche in cui le diverse esperienze comunitarie solo affiancate in una sorta di armistizio devono per forza coesistere collaborando, come nelle Veglie per le solennità maggiori, il
Natale e la Pasqua, in particolare di quest’ultima che l’ideologia religiosa a
lungo prevalente aveva riempito di riti particolari, prolungandola molto e
rendendola sostanzialmente inaccessibile a molti. Si avvicina il Natale e,
ancor prima, l’Avvento. Non dovrebbe sentirsi più forte lo spirito dell’agàpe, dell’unione misericordiosa, riflettendo
su concezioni fondamentali della nostra fede? Non è così che vanno le cose in
religione. E’ il momento, invece, dei litigi e,
in particolare, delle contrapposte visioni retropiche: "Come si stava meglio all'epoca di ...", "Che belle veglie si facevano!", "Che belle statuine venivano esposte!".
I passati alternativi vengono proposti per prevalere nel presente. Le
esigenze del presente non possono però essere soddisfatte da quei passati
immaginati come migliori. I tempi sono diversi e di quei passati bisognerebbe
anche considerare francamente e realisticamente ciò che non è andato bene. I tempi liturgici forti, come quelli di Avvento e di Natale, non
dovrebbero essere riservati a chi è dentro,
ma presi come occasione per l’azione missionaria verso chi ancora è fuori o è mezzo fuori e mezzo dentro,
ancora non bene integrato, non ancora veramente parte attiva. Si dovrebbe poterli
esprimere, spiegandone il senso religioso, in una lingua che tutti siano in grado di intendere, nello spirito
della Chiesa in uscita proposto nell’esortazione
apostolica La gioia del Vangelo - Evangelii Gaudium, del 2013, considerata il manifesto del nuovo pontificato.
24. [ […]La comunità evangelizzatrice si mette
mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze,
si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana,
toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo. Gli evangelizzatori hanno
così “odore di pecore” e queste ascoltano la loro voce. Quindi, la comunità
evangelizzatrice si dispone ad “accompagnare”. Accompagna l’umanità in tutti i
suoi processi, per quanto duri e prolungati possano essere. Conosce le lunghe
attese e la sopportazione apostolica. L’evangelizzazione usa molta pazienza, ed
evita di non tenere conto dei limiti. Fedele al dono del Signore, sa anche
“fruttificare”. La comunità evangelizzatrice è sempre attenta ai frutti, perché
il Signore la vuole feconda. Si prende cura del grano e non perde la pace a
causa della zizzania. Il seminatore, quando vede spuntare la zizzania in mezzo
al grano, non ha reazioni lamentose né allarmiste. Trova il modo per far sì che
la Parola si incarni in una situazione concreta e dia frutti di vita nuova,
benché apparentemente siano imperfetti o incompiuti. Il discepolo sa offrire la
vita intera e giocarla fino al martirio come testimonianza di Gesù Cristo, però
il suo sogno non è riempirsi di nemici, ma piuttosto che la Parola venga accolta
e manifesti la sua potenza liberatrice e rinnovatrice. Infine, la comunità
evangelizzatrice gioiosa sa sempre “festeggiare”. Celebra e festeggia ogni
piccola vittoria, ogni passo avanti nell’evangelizzazione. L’evangelizzazione
gioiosa si fa bellezza nella Liturgia in mezzo all’esigenza quotidiana di far
progredire il bene. La Chiesa evangelizza e si evangelizza con la bellezza
della Liturgia, la quale è anche celebrazione dell’attività evangelizzatrice e
fonte di un rinnovato impulso a donarsi.
[…]
116. […]Quando una comunità
accoglie l’annuncio della salvezza, lo Spirito Santo ne feconda la cultura con
la forza trasformante del Vangelo. In modo che, come possiamo vedere nella
storia della Chiesa, il cristianesimo non dispone di un unico modello
culturale, bensì, «restando pienamente se stesso, nella totale fedeltà
all’annuncio evangelico e alla tradizione ecclesiale, esso porterà anche il
volto delle tante culture e dei tanti popoli in cui è accolto e radicato».Nei
diversi popoli che sperimentano il dono di Dio secondo la propria cultura, la
Chiesa esprime la sua autentica cattolicità e mostra «la bellezza di questo
volto pluriforme». Nelle espressioni cristiane di un popolo evangelizzato,
lo Spirito Santo abbellisce la Chiesa, mostrandole nuovi aspetti della
Rivelazione e regalandole un nuovo volto. Nell’inculturazione, la Chiesa
«introduce i popoli con le loro culture nella sua stessa comunità», perché «i
valori e le forme positivi» che ogni cultura propone «arricchiscono la maniera
in cui il Vangelo è annunciato, compreso e vissuto». In tal modo «la
Chiesa, assumendo i valori delle differenti culture, diventa “sponsa ornata monilibus suis”, “la
sposa che si adorna con i suoi gioielli”
(Is 61,10)».
117. Se ben intesa, la diversità culturale non minaccia l’unità
della Chiesa. È lo Spirito Santo, inviato dal Padre e dal Figlio, che trasforma
i nostri cuori e ci rende capaci di entrare nella comunione perfetta della
Santissima Trinità, dove ogni cosa trova la sua unità. Egli costruisce la
comunione e l’armonia del Popolo di Dio. Lo stesso Spirito Santo è l’armonia,
così come è il vincolo d’amore tra il Padre e il Figlio. Egli è Colui che
suscita una molteplice e varia ricchezza di doni e al tempo stesso costruisce
un’unità che non è mai uniformità ma multiforme armonia che attrae. L’evangelizzazione
riconosce gioiosamente queste molteplici ricchezze che lo Spirito genera nella
Chiesa. Non farebbe giustizia alla logica dell’incarnazione pensare ad un
cristianesimo monoculturale e monocorde. Sebbene sia vero che alcune culture
sono state strettamente legate alla predicazione del Vangelo e allo sviluppo di
un pensiero cristiano, il messaggio rivelato non si identifica con nessuna di
esse e possiede un contenuto transculturale. Perciò, nell’evangelizzazione di
nuove culture o di culture che non hanno accolto la predicazione cristiana, non
è indispensabile imporre una determinata forma culturale, per quanto bella e
antica, insieme con la proposta evangelica. Il messaggio che annunciamo
presenta sempre un qualche rivestimento culturale, però a volte nella Chiesa
cadiamo nella vanitosa sacralizzazione della propria cultura, e con ciò
possiamo mostrare più fanatismo che autentico fervore evangelizzatore.
Contro
la tentazione delle visioni retropiche che ostacolano quel lavoro missionario,
lasciamoci guidare da san Karol Wojtyla nel lavoro di purificazione della memoria:
[dalla
Bolla Il mistero dell’Incarnazione - Incarnationis mysterium, di indizione del Grande
Giubileo dell’Anno 2000, diffusa dal papa Giovanni Paolo 2° il 29-11-1998 (ne
ricorre il ventennale!)]
Innanzitutto
il segno della purificazione
della memoria: esso chiede a tutti un atto di coraggio e di umiltà nel
riconoscere le mancanze compiute da quanti hanno portato e portano il nome di
cristiani. L'Anno Santo è per sua natura un momento di chiamata alla
conversione. E' questa la prima parola della predicazione di Gesù, che
significativamente si coniuga con la disponibilità a credere: « Convertitevi e
credete al Vangelo » (Mc 1,
15). L'imperativo che Cristo pone è conseguenza della presa di coscienza del
fatto che « il tempo è compiuto » (Mc1,
15). Il compiersi del tempo di Dio si traduce in appello alla conversione.
Questa, peraltro, è in primo luogo frutto della grazia. E' lo Spirito che spinge ognuno a « rientrare in se stesso » e a
percepire il bisogno di ritornare alla casa del Padre (cfr Lc 15, 17-20). L'esame di
coscienza, quindi, è uno dei momenti più qualificanti dell'esistenza personale.
Con esso, infatti, ogni uomo è posto dinanzi alla verità della propria vita.
Egli scopre, così, la distanza che separa le sue azioni dall'ideale che si è
prefisso.
La storia della Chiesa è una storia di santità. Il Nuovo Testamento
afferma con forza questa caratteristica dei battezzati: essi sono « santi » nella
misura in cui, separati dal mondo in quanto soggetto al Maligno, si consacrano
a rendere il culto all'unico e vero Dio. Di fatto, questa santità si manifesta
nelle vicende di tanti Santi e Beati, riconosciuti dalla Chiesa, come anche in
quelle di un'immensa moltitudine di uomini e donne sconosciuti il cui numero è
impossibile calcolare (cfr Ap 7,
9). La loro vita attesta la verità del Vangelo e offre al mondo il segno
visibile della possibilità della perfezione. E' doveroso riconoscere, tuttavia, che la storia registra anche non
poche vicende che costituiscono una contro-testimonianza nei confronti del
cristianesimo. Per quel legame che, nel Corpo mistico, ci unisce gli uni agli
altri, tutti noi, pur non avendone responsabilità personale e senza sostituirci
al giudizio di Dio che solo conosce i cuori, portiamo il peso degli errori e
delle colpe di chi ci ha preceduto. Ma
anche noi, figli della Chiesa, abbiamo peccato e alla Sposa di Cristo è stato
impedito di risplendere in tutta la bellezza del suo volto. Il nostro peccato
ha ostacolato l'azione dello Spirito nel cuore di tante persone. La nostra poca
fede ha fatto cadere nell'indifferenza e allontanato molti da un autentico
incontro con Cristo.
[…]
Nessuno in questo anno giubilare voglia
escludersi dall'abbraccio del Padre. Nessuno si comporti come il fratello
maggiore della parabola evangelica che si rifiuta di entrare in casa per fare
festa (cfr Lc 15, 25-30).
La gioia del perdono sia più forte e più grande di ogni risentimento.
Non turbiamo le prossime feste con le nostre reciproche e astiose
rivendicazioni retropiche! Abbandoniamo lo spirito di condominio e di club!
Cerchiamo di profittare dei tempi forti per avvicinarci alla conquista culturale
dell’agàpe anche nella vita parrocchiale!
Mario Ardigò - Azione Cattolica
in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli