Un mondo sta finendo
Nella foto: i partecipanti alla
firma del Trattato del 1951 di Parigi che istituì la prima delle Comunità Europee, la Comunità
Europea del Carbone e dell’Acciaio, tra Belgio, Germania, Francia, Italia,
Lussemburgo e Olanda. Nella foto, da sinistra: Paul Van Zeeland, ministro degli
esteri belga, Joseph Bech, ministro degli esteri del Lussemburgo, Joseph
Meurice, ministro del Commercio estero del Belgio, Carlo Sforza, ministro degli
esteri italiano, Robert Shuman, ministro degli esteri francese, Konrad
Adenauer, capo del governo e ministro degli esteri tedesco, Dirk Stikker,
ministro degli esteri olandese, Johannes van de Brink, ministro degli affari
economici olandese. L’iniziativa del trattato fu del francese Robert Shuman,
per mettere fine alle situazioni di potenziale conflitto tra Francia e Germania.
L’azione della Germania, che nella firma del trattato fu rappresentata al più
alto livello, fu determinante. Ma senza la partecipazione dell’Italia il
trattato sarebbe rimasto, in definitiva, un accordo franco-tedesco limitato,
non l’abbozzo di un’Europa unita a livello continentale. L’Unione Europea si
dissolverà quando uno di questi stati fondatori, Francia, Germania e Italia, la
lascerà.
[Dal Manifesto di
Ventotene, scritto nel 1941 da
Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni]
Un'Europa libera e unita è premessa necessaria
del potenziamento della civiltà moderna, di cui l'era totalitaria rappresenta un
arresto. La fine di questa era sarà riprendere immediatamente in pieno
il processo storico contro la disuguaglianza ed i privilegi sociali. Tutte
le vecchie istituzioni conservatrici che ne impedivano l'attuazione, saranno
crollanti o crollate, e questa loro crisi dovrà essere sfruttata con coraggio e
decisione. La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre
esigenze, dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l'emancipazione
delle classi lavoratrici e la creazione per esse di condizioni più umane di
vita.
La bussola di orientamento per i
provvedimenti da prendere in tale direzione, non può essere però il principio
puramente dottrinario secondo il quale la proprietà privata dei mezzi materiali
di produzione deve essere in linea di principio abolita, e tollerata solo in
linea provvisoria, quando non se ne possa proprio fare a meno. La
statizzazione generale dell'economia è stata la prima forma utopistica in cui
le classi operaie si sono rappresentate la loro liberazione del giogo
capitalista, ma, una volta realizzata a pieno, non porta allo scopo sognato,
bensì alla costituzione di un regime in cui tutta la popolazione è asservita
alla ristretta classe dei burocrati gestori dell'economia, come è avvenuto in
Russia.
Il principio veramente
fondamentale del socialismo, e di cui quello della collettivizzazione
generale non è stato che una affrettata ed erronea deduzione, è quello
secondo il quale le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma - come
avviene per forze naturali - essere da loro sottomesse, guidate, controllate
nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne siano vittime. Le
gigantesche forze di progresso, che scaturiscono dall'interesse individuale,
non vanno spente nella morta gora della pratica "routinière"
[=secondo un programma sempre uguale] per trovarsi poi di fronte all'insolubile
problema di resuscitare lo spirito d'iniziativa con le differenziazioni dei
salari, e con gli altri provvedimenti del genere dello stachanovismo
dell'U.R.S.S. [Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, il regime
politico che aveva sostituito quello imperiale zarista nel dominio della Russia
e delle popolazioni asiatiche conquistate dai russi in epoca zarista, durato
dal 1917 al 1991], col solo risultato di uno sgobbamento più diligente. Quelle
forze vanno invece esaltate ed estese offrendo loro una maggiore possibilità di
sviluppo ed impiego, e contemporaneamente vanno perfezionati e consolidati gli
argini che le convogliano verso gli obiettivi di maggiore utilità per tutta la
collettività.
La proprietà privata deve
essere abolita, limitata, corretta, estesa, caso per caso, non dogmaticamente
in linea di principio.
Questa direttiva si inserisce
naturalmente nel processo di formazione di una vita economica europea
liberata dagli incubi del militarismo e del burocraticismo nazionali. In essa
possono trovare la loro liberazione tanto i lavoratori dei paesi capitalistici
oppressi dal dominio dei ceti padronali, quanto i lavoratori dei paesi
comunisti oppressi dalla tirannide burocratica. La soluzione razionale
deve prendere il posto di quella irrazionale anche nella coscienza dei
lavoratori. Volendo indicare in modo più particolareggiato il contenuto di
questa direttiva, ed avvertendo che la convenienza e le modalità di ogni punto
programmatico dovranno essere sempre giudicate in rapporto al presupposto
oramai indispensabile dell'unità europea, mettiamo in rilievo i seguenti punti:
a. non si possono più lasciare ai privati
le imprese che, svolgendo un'attività necessariamente monopolistica, sono in
condizioni di sfruttare la massa dei consumatori (ad
esempio le industrie elettriche); le imprese che si vogliono mantenere
in vita per ragioni di interesse collettivo, ma che per reggersi hanno bisogno
di dazi protettivi, sussidi, ordinazioni di favore, ecc. (l'esempio più
notevole di questo tipo di industrie sono in Italia ora le industrie
siderurgiche); e le imprese che per la grandezza dei capitali investiti e
il numero degli operai occupati, o per l'importanza del settore che dominano,
possono ricattare gli organi dello stato imponendo la politica per loro più vantaggiosa(es.
industrie minerarie, grandi istituti bancari, industrie degli armamenti). E'
questo il campo in cui si dovrà procedere senz'altro a nazionalizzazioni
su scala vastissima, senza alcun riguardo per i diritti acquisiti;
b. le
caratteristiche che hanno avuto in passato il diritto di proprietà e il diritto
di successione hanno permesso di accumulare nelle mani di pochi
privilegiati ricchezze che converrà distribuire, durante una crisi
rivoluzionaria in senso egualitario, per eliminare i ceti parassitari e per
dare ai lavoratori gl'istrumenti di produzione di cui abbisognano, onde
migliorare le condizioni economiche e far loro raggiungere una maggiore
indipendenza di vita. Pensiamo cioè ad una riforma agraria che,
passando la terra a chi coltiva, aumenti enormemente il numero dei proprietari,
e ad una riforma industriale che estenda la proprietà dei lavoratori,
nei settori non statizzati, con le gestioni cooperative, l'azionariato
operaio, ecc.;
c. i giovani vanno assistiti con le
provvidenze necessarie per ridurre al minimo le distanze fra le posizioni di
partenza nella lotta per la vita. In particolare la scuola
pubblica dovrà dare la possibilità effettiva di perseguire gli studi fino ai
gradi superiori ai più idonei, invece che ai più ricchi; e dovrà
preparare, in ogni branca di studi per l'avviamento ai diversi mestieri e alla
diverse attività liberali e scientifiche, un numero di individui corrispondente
alla domanda del mercato, in modo che le rimunerazioni medie risultino poi
pressappoco eguali, per tutte le categorie professionali, qualunque
possano essere le divergenze tra le rimunerazioni nell'interno di ciascuna
categoria, a seconda delle diverse capacità individuali;
d. la potenzialità quasi senza limiti
della produzione in massa dei generi di prima necessità con la tecnica moderna,
permette ormai di assicurare a tutti, con un costo sociale relativamente
piccolo, il vitto, l'alloggio e il vestiario col minimo di conforto necessario
per conservare la dignità umana. La solidarietà sociale verso coloro che
riescono soccombenti nella lotta economica dovrà perciò manifestarsi non con le
forme caritative, sempre avvilenti, e produttrici degli stessi mali alle cui
conseguenze cercano di riparare, ma con una serie di provvidenze che
garantiscano incondizionatamente a tutti, possano o non possano lavorare, un
tenore di vita decente, senza ridurre lo stimolo al lavoro e al risparmio. Così
nessuno sarà più costretto dalla miseria ad accettare contratti di lavoro
iugulatori;
e. la liberazione delle classi lavoratrici
può aver luogo solo realizzando le condizioni accennate nei punti precedenti:
non lasciandole ricadere nella politica economica dei sindacati monopolistici,
che trasportano semplicemente nel campo operaio i metodi sopraffattori
caratteristici specialmente del grande capitale. I
lavoratori debbono tornare a essere liberi di scegliere i fiduciari per
trattare collettivamente le condizioni a cui intendono prestare la loro opera,
e lo stato dovrà dare i mezzi giuridici per garantire l'osservanza dei patti
conclusivi; ma tutte le tendenze monopolistiche potranno essere efficacemente
combattute, una volta che saranno realizzate quelle trasformazioni sociali.
Questi
sono i cambiamenti necessari per creare, intorno al nuovo ordine, un
larghissimo strato di cittadini interessati al suo mantenimento e per dare alla
vita politica una consolidata impronta di libertà, impregnata di un forte senso
di solidarietà sociale. Su queste basi le libertà politiche
potranno veramente avere un contenuto concreto e non solo formale per tutti, in
quanto la massa dei cittadini avrà una indipendenza ed una conoscenza
sufficiente per esercitare un efficace e continuo controllo sulla classe
governante.
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Mie considerazioni
Quando si ragiona di
politica, bisognerebbe tenere sempre tra le mani l’ultimo volume del corso di
storia delle scuole superiori. Quello è un libro da cui non separarsi per tutta
la vita. E se, per qualche motivo, non lo si ha più in casa, bisogna
ricomprarlo. I libri sono tra le cose più a buon mercato nella nostra civiltà.
Ma ce ne sono molti di inutili, semplice solletico per la mente. Non è così per
quelli di storia delle scuole. Senza quel libro di storia di cui ho detto, da
dove partire? Si fanno solo delle chiacchiere, riprendendo quelle ascoltate in
televisione o, peggio, quelle che si fanno sulle reti sociali sul WEB.
Quando sono nato,
erano passati solo dodici anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale
(1939-1945) e nove anni dall’istituzione della Repubblica italiana
democratica. Si viveva in un’epoca di forte sviluppo economico, nonostante che le ferite tremende della
guerra fossero ancora aperte nella società e nei luoghi dove la gente viveva.
L’economia nazionale era influenzata favorevolmente dalla cooperazione
internazionale e dalle condizioni di
mercato dell’epoca, con basso costo del lavoro e dell’energia. Negli anni
successivi un certo benessere si diffuse anche nelle masse popolari, generando
varie rivendicazioni sociali. Questo ciclo economico ebbe fine all’inizio degli
anni ’70. Seguirono circa dieci anni di ciclo depressivo, poi circa altri dieci
anni di ripresa economica, poi iniziò l’era dell’economia mondiale che stiamo
ancora vivendo, basata sulla globalizzazione dei mercati con vantaggi e
svantaggi per la gente e, infine, una lunga depressione economica in Europa,
arrivata nel 2008 dagli Stati Uniti d’America e ancora non superata.
Dunque, dicevo, sono
nato a dodici anni dalla fine della guerra mondiale.
Se oggi andiamo
indietro di dodici anni che troviamo? Più o meno l’Europa di adesso. Un
continente sicuro e pacificato. Ma
sarebbe così anche andando più indietro
nel tempo. Fino agli anni ’80 troveremmo un’Europa divisa in due da regimi
politico-economici molto diversi: quelli capitalistici nella parte occidentale,
quelli comunisti in quella orientale. Il confine, che Winston Churchill definì “Cortina di ferro” per la sua
impenetrabilità, correva lungo le due parti della Germania in cui quello stato
era stato diviso politicamente dopo la caduta del regime nazista, lungo il confine tra
l’Austria, l’Ungheria, e la Cecoslovacchia e quello tra l’Italia e Austria, da una parte, e la Jugoslavia dall'altra, uno stato che
oggi non c’è più, ma che all’epoca federava Slovenia, Croazia, Bosnia
Erzegovina, Serbia e Montenegro, e infine lungo il confine tra
l’Italia e l’Albania e quello tra quest'ultima, la Bulgaria, da una parte, e la Grecia dall'altra. Ma l’Europa occidentale, e l'Italia in particolare, non era molto diversa da ora.
Nel 2012 i saggi del
Premio Nobel attribuirono quello per la pace all’Unione Europea. Infatti è
proprio questo più eclatante effetto del processi di cooperazione e
integrazione europea: un lunghissimo periodo di pace, quale le generazioni
europee precedenti non avevano mai vissuto.
Quando ero bambino, facevo le elementari, mia nonna Rosa, nata all'inizio del Novecento, mi raccontava
che nella sua vita c’era stata una guerra più o meno ogni dieci anni, perché a
quelle mondiali bisognava aggiungere quelle coloniali. E si stupiva che non ne fosse
ancora iniziata una: si era all’inizio degli anni Sessanta. Anche il mio
maestro delle elementari la pensava nello stesso modo. Per lui ci sarebbero
state a breve altre guerre e noi, ci diceva, dovevamo prepararci, perché
sicuramente saremmo stati chiamati a combatterne una, non appena avessimo
raggiunto la maggiore età, che all’epoca era a ventuno anni. Ma quelle guerre
non vennero da noi. Negli anni ’90 scoppiarono in Jugoslavia, nel processo di
dissoluzione di quello stato, e anche l’Italia vi partecipò, ma solo con
l’aviazione militare e nel quadro di un’azione della NATO. Fu un conflitto
limitato, interno alla stessa Jugoslavia. Oggi la Slovenia e la Croazia, che combatterono quelle guerre, sono
parte dell’Unione Europea, e Bosnia-Erzegovina e Serbia sono in procinto di
diventarlo.
A che cosa è stato
dovuto quel lungo periodo di pace?
Dopo la fine della
Seconda Guerra Mondiale il mondo si polarizzò intorno alle due maggiori potenze
vincitrici, i maggiori tra gli Alleati che avevano combattuto i fascismi europei, tra i quali quello italiano, precursore e modello di tutti i fascismi europei: Stati Uniti d’America, una potenza
americana, e Unione Sovietica, una
potenza euroasiatica; la prima ad economia capitalista avanzata, la seconda ad economia comunista. Entrambe volevano esportare il loro modello politico ed economico in tutto il mondo. Oguna riteneva l'altra un pericolo mortale ed entrambe, in funzione essenzialmente difensiva come dichiaravano i loro capi, si dotarono di armi nucleari sempre più
potenti e sofisticate. Se usate, esse avrebbero portato alla distruzione del mondo
intero, compresi gli stati che le avevano lanciate. Per farsi un’idea della
situazione dell’epoca si può vedere il film Il
dottor Stranamore, ovvero come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la
bomba, del regista Stanley Kubrik, realizzato nel 1964, (in commercio su
DVD ad €7,43) e il romanzo di Nevil Shute, L’ultima
spiaggia, del 1957 (disponibile in e-book ad €3,99). Un conflitto globale, mondiale, con il coinvolgimento di quelle due super-potenze divenne impossibile. In questo una grande anima come Giorgio La Pira vide la
manifestazione di un disegno provvidenziale. In realtà conflitti locali, più
limitati, continuarono ad essere combattuti, anche tra le grandi potenze, come
nella guerra in Corea (1950-1953) e nella lunghissima guerra in Indocina
(Vietnam, Laos, Cambogia), dal 1955 al 1975. Ma non in Europa, in particolare
lungo la frontiera tra Germania e Francia, al centro dell’Europa, che divideva
i sistemi politici dai quali erano originate le due Guerre mondiali del
Novecento. Perché? E’ stato merito del processo di integrazione e cooperazione
europea che ha progressivamente eliminato le ragioni di conflitto e avvicinato
i popoli europei, fino a rendere inutili i posti di frontiera tra nazioni che
si erano lungamente e strenuamente combattute. Un processo che non ha riguardato con la stessa intensità ed efficacia le nazioni integrate nell’analogo organismo di cooperazione europea promosso
nell’area dominata dai sovietici, il COMECON,
con la conseguenza che gli stati che hanno aderito all’Unione Europea dopo
essere stata inclusi dal 1945 nell’area di influenza sovietica appaiono molto
meno integrati tra loro di quanto appaiono le nazioni dell’Europa occidentale.
In particolare fra di essi è ancora molto forte il nazionalismo che il processo
di integrazione europeo ha fortemente contrastato.
Il processo di
pacificazione tra i popoli europei attuato progressivamente nel quadro di
politiche internazionali europeiste ha comportato incisive riforme sociali, nel
senso di quelle auspicate dagli autori del Manifesto
di Ventotene, in particolare nel settore dell’economia, del lavoro e della sicurezza sociale. Esse erano nel
programma politico dei partiti socialisti europei, fin dall’Ottocento. La
Chiesa cattolica inizialmente lo contrastò: del resto la prima enciclica sociale, intitolata Le
novità, diffusa nel 1891 dal papa Gioacchino Pecci, regnante in religione
come Leone 13°, era diretta in primo luogo contro il socialismo. Poi, seguendo
in questo, in particolare, le impostazioni dei partiti popolari democratici europei del Secondo dopoguerra, ne ha
recepito diversi elementi, tanto che ho letto che al nuovo presidente
statunitense il Papa attuale appare sospetto di socialismo. Ma la giustizia sociale, in
particolare una ragionevole distribuzione delle ricchezze che consenta alle
masse di liberarsi dalla povertà e di condividere il benessere reso possibile
dai moderni mezzi di produzione, quindi ciò che si intende con l’espressione
sicurezza sociale, che significa
anche assistenza nella malattia e negli altri rovesci della vita (come i
disastri naturali), sostegno nella vecchiaia, e protezione del lavoro dagli arbitri di chi controlla i processi produttivi, trova giustificazione in sé
stessa e non dipende da questa o quella
ideologia. Anche ai nostri tempi, nei quali quasi nessuno osa più definirsi socialista, in particolare in Italia per
il discredito che è legato a questa denominazione per le ultime vicende
storiche del partito che da noi al socialismo si richiamava espressamente e per le conseguenze disumane
del sistema socialista sovietico, l’idea di giustizia sociale può continuare ad avere corso,
in particolare seguendo ideali umanitari che anche in religione possono trovare
fondamento. Piuttosto è l’idea di lotta
di classe, quindi di conflitti sociali violenti, che appare meno attuale,
perché viviamo in società democratiche in cui, almeno in teoria, le masse hanno
gli strumenti per far valere certe pretese con metodi nonviolenti. E questo anche se il conflitto è latente in
ogni società umana: in democrazia esso può tuttavia essere gestito pacificamente. Da ciò consegue, però, che la crisi dei processi democratici mette le società a rischio di una ripresa di lotte sociali violente.
Una delle prime
riforme italiane del Secondo dopoguerra fu quella agraria, che comportò
espropriazione dei latifondi improduttivi e la distribuzione delle terre ai
lavoratori. Si arrivò alla nazionalizzazione della produzione di energia
elettrica, secondo gli auspici degli autori del Manifesto e fu stabilito che a) la proprietà privata dovesse essere
regolata in modo da assicurarne la funzione
sociale e di renderla accessibile a tutti (art. 42 della Costituzione) e che b) l’impresa privata non potesse
svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla
sicurezza, alla libertà, alla dignità umana (art. 41 della Costituzione). Il
sistema di previdenza sociale per la vecchiaia, l’invalidità e la malattia fu
esteso a tutte le categorie di lavoratori, anche autonomi e, con la riforma
sanitaria del 1978, la maggior parte delle cure divenne accessibile a tutti
gratuitamente o a costi molto contenuti. Per il lavoratori dipendenti si
stabilirono minimi salariali e disposizioni che li tutelassero da licenziamenti
arbitrari, prevedendo una valida tutela giudiziaria dei diritti del lavoro. Fu
garantita l’istruzione pubblica, fino ai livelli più elevati, per larghe fasce
della popolazione. Riforme analoghe furono attuate anche negli altri stati
europei interessati dal processo di unificazione sfociato nell’Unione Europea. In
sostanza, le riforme disegnate dagli autori del Manifesto di Ventotene vennero attuate e questo fu un fattore
importante di pacificazione delle società europee che si stavano integrando economicamente
e politicamente. Tutti i diritti scaturiti da quelle riforme vengono ancora
oggi considerati scontati e irrinunciabili dalla maggior parte della gente, e
invece non lo sono nella maggior parte del mondo. In origine chi ne proponeva l’istituzione
veniva considerato un socialista rivoluzionario. E penso che vi sia ancora chi,
leggendo oggi il brano del Manifesto di
Ventotene che ho sopra trascritto,
si scandalizzerà, leggendo di socialismo.
Il Manifesto è un documento molto citato ma poco letto e
conosciuto in dettaglio. E in esso il socialismo c’è.
Il mondo della pace
sociale e internazionale europea sta improvvisamente e rapidamente finendo.
Questa è la novità dei nostri tempi. Si stanno nuovamente creando le condizioni
per guerre mondiali ed europee. Ad un bambino delle elementari di oggi non sarei
in grado di garantire che non dovrà combattere una qualche guerra. E anche la
società italiana si è fatta instabile, man mano che le conquiste sociali dei
passati decenni vengono messe in discussione. In una nazione ancora tra le più
ricche del mondo, sembra che non ce ne sia più per tutti. E’ stato osservato
che sono molto aumentate le diseguaglianze sociali, in modo corrispondente e
progressivo al decadere dei meccanismi di perequazione economica tra le classi e di protezione di quelle più deboli.
L’area del benessere si va restringendo, il lavoro si va facendo insicuro, la
protezione per la vecchiaia non è più certa per coloro che oggi sono giovani e per tutti i servizi sociali, in particolare per la sanità, le risorse
diminuiscono. Le condizioni di lavoro si vanno avvicinando a quelle dei
lavoratori asiatici che finora hanno prodotto le merci di uso comune che in
Europa acquistiamo a bassissimo prezzo. Nonostante che il costo del lavoro in
Italia sia tra i più bassi in Europa, non vi è una ripresa dell’occupazione,
anche per il diffondersi sempre più di processi produttivi automatizzati. Ma il
fattore che sta determinando il cambiamento è il mutamento radicale di
impostazione politica negli Stati Uniti d’America, la potenza di riferimento
per le nazioni europee, finora fortemente integrata economicamente e politicamente con l’Europa. Negli anni
passati gli statunitensi hanno assecondato il processo di unificazione europea,
prima in chiave antisovietica e successivamente come fattore di stabilizzazione
europea per gestire la dissoluzione del
sistema politico dominato dai sovietici. La riunificazione delle due Germanie,
l’assorbimento nell’Unione Europea dei paesi baltici e di quelli ex comunisti
fino alla Polonia e alla Romania sono stati gestiti in ambito europeo. Dalla crisi Ucraina in avanti, quindi dal 2014,
la politica statunitense è cambiata, e ancor più sta cambiando in questi
giorni. Le due super-potenze che avevano determinato l’ordine politico europeo
dal 1945 non sembrano più interessate ad un’Europa unificata e manovrano per
indebolirla. Stati Uniti d’America e Russia in Europa sono in rotta di
collisione, in particolare sulle questioni delle minoranze russe nelle nazioni
baltiche, su quelle dell’Ucraina e su quella del rafforzamento della forza NATO
in Polonia. La crisi Ucraina ha dimostrato che guerre internazionali possono ancora essere combattute in Europa, senza scatenare un conflitto autodistruttivo, quindi senza necessariamente impiegare le armi nucleari.
In Europa i politici
populisti addebitano al processo di integrazione europea mali che derivano
invece dalla degenerazione dei sistemi capitalistici. Questo indebolisce ulteriormente la base politica del processo di unificazione europea. Le masse sono spinte a
sostenere politiche protezionistiche che sono suicide per nazioni di un
continente come quello europeo che ha prosperato solo nelle fasi di
integrazione economica. E a ripudiare la moneta unica, l’Euro, con il rischio
di ricadere nella situazione, ormai sperimentata solo da chi ha sessanta e più,
in cui i risparmi delle famiglie, così come i salari dei lavoratori, venivano rapidamente
erosi da tassi di inflazione altissimi, prodotti da spregiudicate politiche
monetarie dei governi nazionali.
Un quadro di crisi globale che, per
la prima volta, viene realisticamente e sinteticamente esposto in un documento
di un Papa: nell’enciclica Laudato si’.
Le soluzioni proposte sono abbastanza simili a quelle pensate da Spinelli,
Rossi e Colorni, quindi da socialisti critici, consapevoli sia dei mali dei
sistemi capitalistici che di quelli dei sistemi totalitari basati sul comunismo
di impronta sovietica. Ma certamente in
quel documento, destinato ad un pubblico globale, l’Europa non c’è. Del resto è
scritto da un americano. Occorre quindi, nel processo di formazione all’azione
sociale dei laici di fede italiani, integrarlo, in particolare vincendo i
sospetti di laicismo che negli ultimi anni hanno guastato il confronto tra il
mondo della nostra fede e quello delle politiche europeiste.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma,
Monte Sacro, Valli