Il latinorum e il sacro
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Il personaggio di Albus Silente, nella saga di Harry Potter. Ad alcuni la liturgia piacerebbe così, con il latinorum degli incantesimi di quel romanzo. |
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La maschera bolognese del Dottor Balanzone, che rappresenta il dotto universitario che sa di latino. Questa è l'immagine del sapiente che ancora molti hanno. |
Molti incolti sono affascinati dalle
liturgie e dai canti in latino. Sembrano essere più sacri. Che relazione c’è tra
il latino e il sacro?
Nella nostra fede è sacro ciò che è legato al
divino. Ogni vita umana lo è. Ogni cultura umana, ogni lingua, può quindi esprimere il sacro. Ma esso può
essere inteso anche nel senso più antico, come ciò che racchiude il divino e che
quindi è vietato, e nascosto, ai più. In questa accezione è
legato al mistero, è per natura misterioso, in quanto nascosto, e accessibile solo ad una classe
di iniziati, che detengono sacre formule per avvicinarlo e svelarlo.
Il latino. Oggi è una lingua misteriosa, in quanto ignota ai più e
accessibile solo ad iniziati. E’ legata storicamente alla liturgia e alla
teologia. A lungo, più o meno fino al Concilio Vaticano 2° (1962-1965), tra i
cattolici ha nascosto ai più i nostri
testi sacri, rendendoli misteriosi e
dunque, sacri, nel senso più
antico. Li ha imprigionati nel sacro. E’ una lunga e brutta storia.
Il Maestro intendeva il latino? Non lo
sappiamo. Nei testi sacri scaturiti dall’esperienza religiosa delle nostre
prime comunità vengono riferite sue frasi in aramaico, che era la lingua comune
tra la gente che incontrava. Nell’antica Palestina gli occupanti romani parlavano anche il greco. I più antichi testimoni del testo, i primi documenti
che contengono gli insegnamenti del Maestro e degli Apostoli, ci sono pervenuti
in greco. La stessa nostra parola italiana “vangelo” deriva dal greco euanghèlion, formato da èu-, che significa bene, e da anghèllo, che significa “annuncio”, quindi quella parola significa “buona notizia”, che si traduce in latino “evangèlium”,
in italiano “vangelo”, in inglese “gospel” [da
good, “buono”, e spell, nell’inglese antico “storia]. Evangèlium, vangelo, gospel sono
traduzioni: una vale l’altra. Leggo in
Josef Scharbert, La Bibbia - Storia, autori, messaggio, EDB, 1972 [non più in commercio, ma reperibile
nelle biblioteche religiose]:
[pag.194]
Il nuovo Testamento ha come lingua
originale il solo greco. Vi sono alcuni dubbi, da questo punto di vista, al
massimo per il Vangelo di Matteo poiché vi sono dei “testimoni” molto antichi
di una tradizione secondo la quale questo vangelo fu scritto in “dialetto ebraico” cioè probabilmente nell’idioma
aramaico parlato in Palestina all’epoca di Gesù. D’altra parte il libro è
scritto in un greco così raffinato che ben difficilmente può essere una
traduzione. I tentativi intrapresi da alcuni studiosi, per dimostrare un testo
base ebraico o aramaico anche per altri libri neotestamentari, sono andati
falliti.
La prima grande teologia della nostra fede fu
scritta e parlata in greco, la lingua corrente nella parte orientale dell’impero
romano, quella che ruotava intorno a
Bisanzio-Costantinopoli e alla parte
dell’impero sviluppatasi in ambiente ellenistico. Tutti i concili ecumenici del
primo millennio della nostra era furono convocati e presieduti, direttamente o
mediante loro incaricati, dagli imperatori romani
che governavano da Bisanzio-Costantinopoli: in essi si discuteva in greco. Da
ciò deriva che i dogmi fondamentali della nostra fede risentono della cultura
greca del tempo in cui furono enunciati, e furono enunciati in greco.
Una curiosità: viene considerato il testo patristico
più antico una lettera del nostro san Clemente papa alla comunità di Corinto,
risalente ad un’epoca tra il 96 e il 98
della nostra era. E’ scritto in greco.
Il latino si affermò come lingua
ecclesiastica nella parte dell’occidentale dell’Impero romano e fu usata nell’assimilazione
culturale e religiosa dei popoli che da Oriente la invasero, conquistandola
politicamente: un processo che si sviluppò nella seconda parte del primo
millennio della nostra era. A quell’epoca il latino non aveva però ancora il
carattere di lingua sacra, in ogni
senso. Era la lingua in cui si
esprimevano i dotti occidentali. Non veniva usata in quanto misteriosa, ma in quanto estremamente chiara e precisa.
Lo era divenuta in particolare nella pratica del diritto, quindi della
giurisprudenza, progressivamente intrecciatasi fittamente con la teologia della
nostra fede. Questa caratteristica, di lingua delle scienze, divenne eclatante
nello sviluppo, a partire dal Secondo millennio, delle grandi università
europee. In queste ultime aveva un ruolo molto importante, centrale, la
teologia. A quell’epoca il teologo veniva considerato come uno scienziato. Da
quell’epoca in poi il latino divenne la lingua delle scienze, di tutte le
scienze, in particolare di quella giuridica, e lo rimase fino all’inizio dell’Ottocento.
Ad esempio, nel Seicento, Galileo Galileo scrisse in latino una sua opera
fondamentale di astronomia, il Sidereus
Nuncius, che si può tradurre un po’ liberamente con La gazzetta del Cielo, riportando le sue osservazioni astronomiche.
Nella biografia del grande fisico Enrico Fermi (1901-1954), si narra che qui a Roma, da
ragazzo, comprò su una bancarella il trattato di matematica in latino Elementorum
Physicae Mathematicae (Sugli elementi
di fisica matematica) del gesuita Andrea Caraffa [1789-1845] che iniziò ad
appassionarlo a quella materia.
Per circa ottocento anni il latino fu quindi, in Europa, la lingua
universale delle scienze, della teologia come delle altre scienze, perché
appunto conosciuta da tutti i dotti, e anche dai regnanti, che vi venivano
acculturati in particolare leggendo le opere di Cesare, in quanto chiara, precisa, e con una
tradizione linguistica che, formatasi ormai solo all’interno delle scienze, si
era fatta ancor più chiara e precisa. Infatti, già all’inizio del Primo
millennio della nostra era, il latino
non era più inteso dalla maggior parte del popolo, proprio come oggi. La situazione è ben
rappresentata dall’opera del grande Dante Alighieri (1265-1321). Egli scrisse
la sua opera più nota, la Comedia (che noi conosciamo come Divina
Commedia), nella lingua del popolo della sua epoca, l’italiano antico, la
lingua volgare, dal latino vulgus che si traduce con “popolo”, quindi lingua volgare significa lingua del popolo. Egli infatti con
quel testo voleva rivolgersi al popolo, a tutto il popolo, in particolare per
la molta critica politica che in esso era contenuta. L’opera non doveva solo
essere intesa dai dotti. Per spiegare però perché avesse deciso di scrivere nella lingua del popolo e quale delle lingue all’epoca parlate in Italia avesse
scelto per farlo, Dante scrisse un trattato di linguistica in latino, in
quanto rivolto ai dotti, il De vulgari eloquentia, che si può tradurre
liberamente con Parlare la lingua del popolo. A quel tempo il latino non
era ancora la prigione dei testi sacri e della teologia. Infatti nella Divina Commedia Dante fa molta
teologia e lo fa scrivendo in uno degli italiani diffusi alla sua epoca.
Il problema tra latino, testi sacri e religione si sviluppò
progressivamente nell’Europa occidentale nella prima metà del Secondo millennio
della nostra era. In quest’area il papato romano si diede struttura giuridica
di impero religioso volendo emanciparsi dai monarchi civili dei quali, da un
punto di vista politico, era stato vassallo nell’ordine feudale dell’Alto
medioevo originato dalla fusione dei regni germanici con l’ordinamento romano
caduto nel loro dominio. Questo sviluppo comprese anche la pretesa di monopolio
della verità teologica. A quell’epoca la teologia dogmatica, quella che
si occupa delle verità imposte d’autorità, parlava latino in Europa occidentale
e aveva come basi le versioni latine dei testi sacri, al modo in cui parlavano
latino i giuristi dell’epoca e avevano come base la lingua latina del Corpus
Iuris Civilis, la grande raccolta di norme e trattati giuridici fatta
compilare nel Sesto secolo dell’era antica in massima parte in latino, ma anche in greco nella parte che
riportava la normativa più recente, dall’imperatore bizantino Giustiniano I. La
verità che veniva diffusa dal papato romano era espressa in latino. La giurisprudenza ecclesiastica occidentale in
merito alle eresie, alle dottrine e prassi ritenute devianti ed erronee
condannate dall’autorità religiosa, parlava e scriveva in latino. Quando nel Cinquecento, dopo lo
sviluppo dell’industria della stampa a caratteri mobili e la riforma luterana
con i suoi epigoni, cominciarono a diffondersi versioni dei testi sacri nelle
varie lingue nazionali europee, per rendere comprensibili quei documenti a
tutto il popolo e non solo ai dotti che conoscevano il latino, il papato romano,
temendo deviazioni ideologiche incontrollabili, le vietò, impegnando nella
repressione tutta la violenza del sistema di polizia ideologica che va sotto il
nome di Inquisizione, coevo all’evoluzione imperiale dell’organizzazione
ecclesiastica romana. Tradurre i testi sacri nelle lingue del popolo venne considerato
sostanzialmente un delitto di lesa maestà religiosa per sospetto di eresia. Da questo momento i testi sacri, nella nostra
confessione, vennero nascosti nel latino, divenendo misteriosi per i più. In
particolare il popolo, a parte le élite colte, non fu più messo in grado
di capire il senso delle letture bibliche e delle liturgie della messa. I più
si limitavano quindi a biascicare formule delle quali non intendevano più il
senso e che acquistarono quindi apparenza magica. La fede fu imprigionata nel sacro
e il latino fu la materia del quale le mura di quella prigione erano costruite.
Chi abbia voglia e tempo di conoscere meglio questa brutta storia può farlo
leggendo di Gigliola Fragnito, Proibito
capire - La Chiesa e il volgare nella prima età moderna, Il Mulino, 2005.
Nell’introduzione del libro viene citata
una lirica del poeta romano Giuseppe Gioacchino Belli:
Dicheno lòro c’a pparlà de fede
Sce s’arimette sempre de cusscenza
Cqui nun z’ha da capì mma ss’ha da crede.
Traduzione mia:
Dicono che a parlare di fede
ci si rimette sempre l’anima
qui non bisogna capire, ma credere.
Il divieto ecclesiastico venne ampliamente violato, in genere con
rischi molto gravi all'inizio ma progressivamente sempre meno, a seconda della maggiore o minore influenza del potere
politico del papato romano sui regimi civili locali. Dal Settecento e progressivamente le sanzioni divennero in
genere solo canoniche, con l’eclisse dell’egemonia politica del papato romano.
In sostanza, per la maggior parte del popolo, voler approfondire i testi sacri
significava commettere peccato. Lo si poteva fare solo da dotti, da conoscitori
del latino, in epoche in cui la grande maggioranza della popolazione era
analfabeta.
La nostra Chiesa uscì veramente da questa situazione con il Concilio
Vaticano 2° (1962-1965), che promosse l’istruzione biblica del popolo e
consentì le liturgie nelle lingue nazionali, parlate dal popolo, quindi nelle
lingue volgari, nel senso di parlate dal popolo. Da circa un secolo,
però, la repressione contro i testi sacri in lingua italiana si era molto
attenuata, essendo divenuto comunque impossibile frenarne la diffusione. In
Italia, l’istruzione pubblica li aveva resi effettivamente accessibili ad un
pubblico molto più vasto, ma mancava ancora un lavoro di sistematica spiegazione, che
continuava a riguardare solo i più colti.
Nella prassi ecclesiastica attuale, benché il latino ecclesiastico sia
ancora la lingua ufficiale dei documenti normativi del papato romano, non
viene in genere più utilizzato nei sinodi e nelle procedure burocratiche,
preferendosi altre lingue veicolo colte, in particolare l’inglese, il francese o
il tedesco. L’italiano mi risulta abbastanza usato, al posto del latino
ecclesiastico, come lingua comune quotidiana negli incontri internazionali tra
alti prelati, perché la formazione di questi ultimi comprende soggiorni più o
meno lunghi a Roma e quindi la nostra lingua è loro familiare, la parlicchiano
un po’ tutti.
Fatto sta che, però, per molta gente il latino della liturgia conservò
il suo carattere sacro-magico. Quando si iniziò a celebrare messa in
italiano, il 7 marzo 1965, nella parrocchia romana di Ognissanti, in una liturgia presieduta dal papa Montini, a molti, specialmente agli incolti, sembrò
che questo svelamento del sacro la rendesse meno efficace. “Tutto qui?”,
sembrava che ci si dicesse. Intorno al latino liturgico si era molto sognato,
da parte di chi non lo capiva. Lo si ascoltava con lo stesso stato d’animo
incantato con cui oggi vediamo i film della serie di Harry Potter, nei quali,
non caso, alcune formule di incantesimo sono pronunciate in un latinorum.
Ad esempio il potente Incanto Patronus, per evocare un difensore magico, formula "Expecto Patronus!", o il Protego
Horribilis, contro le Maledizioni senza perdono. Paolo Giuntella
ricordava che le signore del quartiere romano Mazzini uscivano scandalizzate dalle prime messe celebrate in italiano perché pensavano che alcune letture evangeliche
potessero sobillare le loro colf, con tutto quel gran parlare di giustizia. E,
insomma, pian piano, ci si cominciò a rendere conto, fra la gente, che in
definitiva i testi sacri erano stati molto più innocui, in particolare politicamente, quando i più non ne capivano il
senso, esattamente come aveva ritenuto Lutero secoli prima. L’imprigionamento
di quei testi nel latino
ecclesiastico aveva contribuito a renderli inoffensivi, ma anche inutili per
una vita di fede. Con la riforma liturgica attuata con molta decisione dal papa
Montini, le celebrazioni divennero molto di più di una scenografia suggestiva,
divennero catechesi, anzi, la principale forma di catechesi, in particolare le
messe domenicali. Venne stimolata la partecipazione attiva dei fedeli, anche con canto corale. Un’istruzione
del 1967 sulla musica sacra stabilì, in particolare, che i cori costituiti non dovessero mai sostituire, ma solo
integrare, il canto corale dell’assemblea. E partecipazione fu. Il latino però rimase la
bandiera dei reazionari anticonciliari, che sono numerosi ancora oggi, sebbene
complessivamente in minoranza. La partecipazione attiva del popolo non è infatti
gradita a tutti. Molti altri credono ancora alla potenza magica del latino e non pochi amano le sfarzose liturgie che,
anche se i più non ne hanno consapevolezza, derivano dall’antico cerimoniale
imperiale bizantino, la scuola universale di magnificenza per le culture
europee. Il tutto oggi si mischia alla
profonda, viscerale, avversione politica
e religiosa per il papa Francesco, che con molta più decisione dei suoi
predecessori, ha deciso di spogliare la sua autorità dei fasti imperiali.
Prosegue in questo l’opera di liberazione della nostra fede da un contesto
politico che non le appartiene nell’essenziale, ma solo come vetusto portato storico. E allora ecco, da parte dei reazionari, la ciclica pretesa di fascinare di nuovo l’assemblea con gli incanti del latino nel canto gregoriano. E l’evidente fastidio verso chi ricorda gli
insegnamenti e gli auspici del Concilio Vaticano 2°. E, infine, la tremenda accusa, rovesciata disinvoltamente addosso a chi manifesta di voler andare verso il popolo, di volere più bene al
popolo che all’Eterno. In sostanza l’antica incolpazione di eresia, ma
questa volta non portata dai dotti, ma prevalentemente dagli incolti, da chi
pretende di imporre il latino al popolo senza più nemmeno conoscerlo. Chissà se
questo si può considerare come un peccato? Certo, fa tanto male a chi ne è
vittima. Allora, come penitenza, suggerirei di prescrivere agli entusiasti del
latino liturgico di leggere integralmente in latino il De Vulgari Eloquentia
dell’Alighieri e di replicare per
iscritto, in latino, al poeta, per spiegare perché a loro parere convenga ancora oggi far cantare al
popolo nella messa canti in latino che nessuno capisce più.
E’ dai tempi dell’università che mi trovo
impegnato a replicare alle assurdità degli entusiasti del latino liturgico, e dico
e scrivo sempre le stesse cose, vale a
dire che la gente deve capire e partecipare nelle cose della fede e che per
capire e partecipare l’italiano va meglio del latino, che quasi nessuno, anche
tra gli stessi preti, comprende più. E che quello del coro è un servizio liturgico, per suscitare il canto nell'assemblea dei fedeli, non una forma di esibizione spettacolare. Ma mi pare di dover ogni volta
ricominciare da capo, come se si trattasse di svuotare il mare con una
scodella. A volte, allora, mi verrebbe da dire “Basta! Andate a quel paese voi e il
vostro latino!”, e finirla una
buona volta così, ma non è per questo che sono stato
faticosamente formato in religione: anche nelle cose della cultura bisogna
esercitare la misericordia, perché, poi, la gente a cui si parla non è sempre la
stessa e certe cose purtroppo le ha
respirate nell’aria e le ritiene come verità senza propria colpa, in questa
bella e sempre tremenda Italia.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San
Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli