Noi e la globalizzazione
Nella prolusione al Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana del 23-26 gennaio 2012, il cardinal Angelo Bagnasco ha trattato di crisi e globalizzazione nei seguenti termini:
4. Quanto alla crisi economica che da almeno quattro anni sta scuotendo il mondo, ora sappiamo di essere entrati in una fase inedita della vicenda umana. L’idea stessa di progresso, in voga dal XVIII secolo, sta subendo un duro contraccolpo, e la stessa categoria di “crisi” suona inadeguata e inefficace, cessando praticamente di significare quello che le si vorrebbe affidare. Di crisi economiche infatti ce ne sono state tante fino ad oggi; la novità è che quanto accade in economia e nella finanza non si può spiegare se non lo si collega ad altri fenomeni contestuali come la mondializzazione dei processi, le migrazioni, le mutazioni demografiche nei Paesi ricchi, l’offuscamento delle identità nazionali, il nomadismo affettivo e sessuale. La globalizzazione ha cessato ben presto di porsi come un orizzonte in sé significante, allorché l’“altro” è sostituito da funzioni e reti. Il capitalismo sfrenato sembra ormai dare il meglio di sé non nel risolvere i problemi, ma nel crearli, dissolvendo il proprio storico legame con il lavoro, il lavoro stabile, e preferendo ad esso il lavoro-campeggio (cfr Bauman): si va dove momentaneamente l’industria sta meglio come se l’“altro” non esistesse. E per “l’altro” è in primo luogo da intendersi proprio il lavoratore. La “fluidità” di valori, relazioni e riferimenti, non impedisce affatto – semmai favorisce – il formarsi di coaguli sovrannazionali talmente potenti e senza scrupoli, tali da rendere la politica sempre più debole e sottomessa. Mentre invece dovrebbe essere decisiva, se la speculazione non avesse deciso di tagliarla fuori e renderla irrilevante, e quasi inutile. Ed è quel che sembra accadere sotto gli occhi attoniti della gente. Quando il criterio è il guadagno più alto e facile possibile e nel tempo più breve possibile, allora il profitto non è più giusto, ma diventa scopo a se stesso giocando sulla vita degli uomini e dei popoli. Al di là di ogni ventata antipolitica, va detto che la politica è assolutamente necessaria, e deve mettersi in grado di regolare la finanza perché sia a servizio del bene generale e non della speculazione. Non è possibile vivere fluttuando ogni giorno nella stretta di mani invisibili e ferree, voluttuose di spadroneggiare sul mondo. Sembra, invece, che i grandi della terra non riescano ad imbrigliare il fenomeno speculativo; che giochino continuamente di rimessa, sperando ogni volta di scamparla alla meno peggio, ma è un’illusione: prima o poi arriva il proprio turno, e ci si trova in ginocchio come davanti ad un moderno moloch di non decifrabile direzione. Il dubbio è che si voglia proprio dimostrare ormai l’incompetenza dell’autorità politica rispetto ai processi economici, come se una tecnocrazia transnazionale anonima dovesse prevalere sulle forme della democrazia fino a qui conosciuta, e dove la sovranità dei cittadini è ormai usurpata dall’imperiosità del mercato. «Senza un pensiero morale – scrive Benedetto XVI – che superi l’impostazione delle etiche secolari, come quelle neo-utilitaristiche e neo-contrattualistiche, che si fondano su un sostanziale scetticismo e su una visione prevalentemente immanentista della storia, diviene arduo per l’uomo di oggi accedere alla conoscenza del vero bene umano» (Discorso per il 50° della Mater et Magistra, 16 maggio 2011). Desidereremmo chiedere alla classe intellettuale del nostro Paese di voler accettare un libero confronto su simili istanze. Che si riconsiderassero parole antiche, ma sempre attuali e urgenti: esse fanno parte dell’uomo stesso e del suo destino, come vita e famiglia, lavoro e partecipazione, libertà e relazione, politica e rappresentanza.
Al centro del ragionamento, che potrebbe costituire il presupposto di pronunce del magistero ad integrazione ed aggiornamento della dottrina sociale, c’è il concetto di “globalizzazione”, i cui effetti vengono considerati complessivamente come negativi, ed, anzi, come particolarmente negativi, in quanto integrerebbero una crisi che costituisce una “fase inedita della vicenda umana”.
Che cosa intendiamo con “globalizzazione”? In merito dobbiamo riportarci ai ragionamenti che su di essa hanno sviluppato gli economisti e i sociologi. Si tratta di una nuova organizzazione delle relazioni internazionali tra i popoli, non più solo tra gli stati, che, da ultimo e in maniera imponente, si è sviluppata dopo il crollo dell’impero sovietico, agli inizi degli anni ’90, ed a seguito di riforme economiche attuate nella Cina continentale e del diffuso progresso tecnologico raggiunto nella stessa Cina continentale e in altre regioni un tempo poco sviluppate, come l’India, l’Indocina e l’America meridionale. In sostanza, a livello mondiale, si è affermata l’organizzazione della produzione e dei mercati finanziari di tipo capitalistico e regioni un tempo politicamente inaffidabili per quel tipo di organizzazione dell’economia lo sono diventate. Questo ha comportato che produzioni un tempo stanziate in Occidente sono state spostate in regioni al di fuori dell’Occidente, con un peggioramento della bilancia dei pagamenti degli stati Occidentali e un marcato sviluppo delle economie di regioni un tempo sottosviluppate. Il nuovo modello economico ha comportato anche più intense relazioni culturali tra i popoli, soprattutto per le opportunità offerte dai sistemi telematici e, in particolare, da internet, con conseguenze rilevanti per gli assetti sociali. Da un lato si è prodotta una redistribuzione di risorse a favore di economie emergenti ed a scapito di quelle Occidentali, dall’altro modelli culturali occidentali si vanno diffondendo al di fuori dell’Occidente. Quello che a noi, in Italia, appare un fattore di crisi, nella Cina continentale assume l’aspetto di un fattore di sviluppo. L’integrazione tra le economie dell’Occidente e quelle delle regioni emergenti è divenuta talmente intensa che non è pensabile che decisioni politiche dirette a ripristinare la situazione precedente abbiano successo. Gran parte degli oggetti di comune uso in Occidente, dalle bambole ai computer, sono prodotti fuori dell’Occidente. Quella stessa intensa integrazione ha stemperato, finora, le tensioni politiche tra Occidente e Oriente, in particolare quelle tra gli stati aderenti alla NATO e la Russia e quelle tra gli Stati Uniti d’America e Giappone con la Cina continentale.
La globalizzazione, come processo economico e sociale, è governato da occulti poteri sovranazionali, come sembra ritenere il card.Bagnasco? In realtà il controllo politico delle relazioni e degli scambi c’è ancora e non potrebbe essere altrimenti, perché la sicurezza richiesta dagli imprenditori per spostare capitali finanziari in certe regioni non può che essere assicurata per via politica. L’organizzazione dei mercati e degli scambi deve essere garantita dai poteri politici delle regioni implicate, sia con disposizioni interne sia con accordi internazionali o nel quadro di istituzioni internazionali. Ma sono garantiti ampi spazi di libertà nel campo dell’organizzazione d’impresa e degli scambi, perché sono quelli che garantiscono i vantaggi di un sistema “globalizzato”, ad esempio che materiale elettronico prodotto in Cina con costi ridotti sia venduto in Italia a basso prezzo.
E’ chiaro che, spostandosi certe produzioni in regioni fuori dell’Occidente, i lavoratori delle regioni Occidentali ne vengono a subire un pregiudizio, in termini di perdita di posti di lavoro, mentre come consumatori ne lucrano vantaggi.
Il punto di vista del cardinal Bagnasco mi pare orientato dall’esigenza di difendere l’economia italiana dalle conseguenze negative della globalizzazione e può essere accolto in questi limiti, quindi da un italiano o comunque da un Occidentale. Sarebbe difficile farlo accettare dalla gente di quelle regioni che dalla globalizzazione hanno ottenuto il vantaggio di una crescita economica molto veloce, con incremento rapido dei redditi individuali.
Di seguito, in merito al tema della globalizzazione, trascrivo un estratto di su un intervento tenuto anni fa da mons. Giuseppe Lorizio ad un incontro del MEIC-Movimento Ecclesiale di impegno culturale nel 2003, dal titolo Alle radici della libertà, la tradizione cristiana nel villaggio globale.
Mario Ardigò – AC San Clemente Papa –Roma, Montesacro, Valli
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Giuseppe Lorizio
Alle radici della libertà
la tradizione cristiana nel “villaggio globale”
Traccia di relazione e schede per il lavoro dei gruppi per la settimana teologica MEIC - Assisi 23 agosto 2003 (testo provvisorio)
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1.Nulla di nuovo sotto il sole
“Ciò che è stato sarà e ciò che si è fatto si rifarà, non c’è niente di nuovo sotto il sole. C’è forse qualcosa di cui si possa dire: questa è una novità? Proprio questa è già stata nei secoli che ci hanno preceduto” (Qo 1,9-10)
La sapienza biblica invita alla cautela nel tentativo di decifrare, di leggere e interpretare i fenomeni umani. C’è una lunga storia della globalizzazione, che senza voler scomodare Alessandro Magno o l’indomani dell’anno mille, con minore approssimazione anche gli storici dell’economia fanno risalire al XVI secolo rievocando i grandi navigatori e i commerci marittimi dell’età elisabettiana [cf M. Colasanto alla settimana sociale dei cattolici piacentini]. A partire da allora si sarebbe sviluppata in Europa una forma economica tale da espandersi ed incidere sul resto del pianeta (man mano che esso veniva conosciuto). Una storia relativamente breve della globalizzazione, disegnata in un rapporto della World Bank, ne identifica tre ondate principali: 1870-1914: calo dei prezzi del trasporto marittimo dalla vela alla forza a vapore e sviluppo della rete ferroviaria, nonché emigrazione su vasta scala verso l’America e l’Australia; 1945-1980: caduta dei nazionalismi, riduzione delle barriere doganali, sviluppo tecnico; 1980 ... alcuni paesi in via di sviluppo che fanno irruzione nel mercato globale, mentre altri vengono emarginati, flussi migratori, utilizzo dell’e-commerce ecc. [cf E. Burman, 65].
Il legame genetico e strutturale globalizzazione-modernità può anche essere colto all’interno della tesi secondo cui la modernità sarebbe di per se stesa globalizzante [cf A. Giddens (1994), 70; E. Burman, 73] a partire da tre fonti di dinamismo che lo spirito dei tempi moderni ha generato e continua a generare: 1)la separazione del tempo dallo spazio; 2)sviluppo di meccanismi di disaggregazione [=disembedding, che potremmo tradurre di nuova diaspora= le relazioni sociali portate al di fuori del contesto locale e riarticolate intorno a tratti tempo-spazio indistinti e indefiniti]; 3)appropriazione riflessiva della conoscenza. Il complesso di eusti fattori (e lo si può cogliere in particolare a partire dal terzo) ha come esito quello di far “scivolare via la vita sociale dai punti fissi della tradizione” [A. Giddens (1994), 59], per cui l’esistenza risulterebbe configurata come quella di chi si trova “a bordo di uno sfrecciante autotreno piuttosto che di una comoda automobile ben guidata”.
Sempre al’interno di questo complesso, intricato e intrigante rapporto, non possiamo non segnalare il nesso globalizzazione-ideologia, ovvero il tema della valenza ideologica (e quindi propria della modernità compiuta) dell’attuale processo che si designa col nome di globalizzazione. Per qualcuno tale connotazione ideologica costituirebbe la più forte ed evidente smentita della tesi relativa alla fine delle ideologie prodotte dal pensiero moderno, costituendosi ed interpretandosi come la “ nuova” ideologia della postmodernità. A nostro parere la valenza ideologica del processo, che a sua volta finisce col produrre ideologie di segno opposto, sta nel fatto che la forma mentis che la globalizzazione veicola è quella della vecchia e mai tramontata ideologia dell’individualismo liberal-capitalistico, diffondendola o tentando di diffonderla in maniera pervasiva sull’intero pianeta.
A questa componente ideologica alcuni annetto ed attribuiscono il carattere illusorio dell’idea globalizzante: “la globalizzazione è maya, il termine usato dalla filosofia indiana classica per indicare l’illusione. Essa crea un mondo di convinzioni artificiose, entro le quali le persone abitano beatamente” [Conciliuim,16]. E’ insomma il verificarsi della profezia (questa volta pronunziata agli albori del XIX secolo) di Jean Paul, che descrive un’epoca futura nella quale le diverse forme del sapere congiureranno insieme per “spacciare il velo di Iside” con la figura della dea, scatenando l’avvento di un’era di “Titani, insolente e nefanda, dominata solo dal commercio e dalla furberia e nel cui tribunale dello spirito impera il diritto del più forte”. Né sembra sufficiente invocare a fronte di questo insorgere la necessità di “continuare a scavare e lavorare in silenzio, con la lampada sulla fronte, nel buio del proprio ripiano e nel pozzo della propria miniera, senza preoccuparsi delle acque che rumoreggiano all’intorno” [epilogo di H. Sedlmayr, 335-336], quasi che le sorti dell’umanità fossero nelle mani degli individui e non anche dei gruppi e delle comunità; ma su questo aspetto ci soffermeremo più avanti.
Abbiamo a questo punto tutti gli elementi per descrivere, senza alcuna pretesa definitoria, la globalizzazione secondo i suoi elementi costitutivi e strutturali: si tratta 1)di un processo di espansione-estensione 2)verso il mondo intero 3)dell’economia capitalistica 4)attraverso le potenzialità di nuove forme comunicative (es. rete informatica). Tale descrizione ci sembra molto condivisa e trova una sua espressione sintetica nella definizione che Emanuele Severino ha adottato della globalizzazione: “estensione all’intero pianeta dell’economia capitalistica nel suo strutturarsi secondo le potenzialità della rete telematico-informatica”. Se una prima considerazione (si riserviamo di svilupparne nel seguito anche altre) possiamo svolgere in margine alle riflessioni del filosofo italiano, centrata sulla dialettica mezzo (strumento)-fine, è che la rete informatico-telematica in rapporto al processo globalizzante non è né un mezzo né un fine, piuttosto ci sembra di dover attribuire ai nuovi media e conseguentemente alla rete-ragnatela la conotazione di “luogo” nel senso francesce di milieu, capace di produrre nuovi paradigmi culturali e sociali, se non addirittura (almeno questa sarebbe la pretesa di alcuni) antropologici.
2.La globalizzazione non è un destino: Dio gioca col Leviatano
“Puoi tu pescare il Leviatan? Giocare con lui come con un passero? Ecco la tua speranza è fallita, al solo vederlo stramazzi” (Gb 40,25-41,1)
La metafora del Leviatano, accanto a quella del Golem, è stata recentemente ripresa per esprimere il villaggio globale, soprattutto in riferimento alla rete ed in particolare ad Internet. La tradizione ebraica commenta il testo biblico insegnando che YHWH vive la sua vita in quattro momenti, equamente distribuiti: per un quarto del tempo siede sul trono della giustizia, per un quarto del tempo su quello della misericordia, per un altro quarto procura il cibo ai viventi, destinando l’ultimo quarto a giocare con Leviatan [b’Avodah Zarah, 3b]. Secondo altre letture il corpo del Leviatan, insieme a quello di Behemoth, verrà dato in pasto ai giusti alla fine dei tempi [Wajjiqra Rabbah, XIII, 3].
Il senso di impotenza che pervade il soggetto nei confronti di un processo tanto potente ed aggressivo come la globalizzazione, sottintende la tesi relativa all’ineluttabilità del processo stesso, al suo trasformarsi in “destino”. L’episcopato italiano ha voluto esprimere questa esigenza con la formula “orientare il cambiamento”, ritenendo appunto che sia i singoli soggetti, sia i gruppi come le comunità, ed in particolare la Chiesa, non possano né debbano restare passivi osservatori e fruitori di quanto accade nel mondo, la rassegnazione sarebbe in tal caso tutt’altro che cristiana. La sfida alla libertà responsabile che la globalizzazione produce ci sembra molto più attenere alla nostra percezione dei fenomeni che non alla realtà stessa. Il determinismo che ne deriva è più un’interpretazione di ciò che accade, che ci viene anche furbescamente somministrata, perché il mondo faccia il suo corso e realizzi il suo destino al di là e al di sopra delle volontà dei suoi abitanti, riservando a minoranze sempre più esigue il ruolo decisionale sulle grandi scelte dell’umanità e al tempo stesso segnando ancora varchi e disuguaglianze sempre più invalicabili (si pensi al digital divide e alle sue conseguenze sociali).
Tra coloro che avvertono in maniera drammatica e al tempo stesso cogente l’ineluttabilità della globalizzazione, né può essere altrimenti visto il carattere neoparmenideo del suo filosofare, vi è il giù citato Severino, che legge ed interpreta la tematica nella chiave del destino dell’Occidente e quindi del suo tramonto. Nel suo lucido argomentare il filosofo ritiene che ormai lo strumento (la rete telematico-informatica, ma il discorso riguarda la tecnica in generale) dell’espansione dell’economia capitalistica stia assumendo il ruolo di fine, e proprio in tale processo verrà a determinarsi la fine della cultura occidentale e quindi del Cristianesimo che con essa si identifica, ciò perché verrebbe meno il fondamento stesso gnoseologico e diremmo ontologico dell’Occidente=Cristianesimo, ossia la “persuasione che l’uomo possa scorgere la verità assoluta, definitiva, innegabile (pur rimandendogli preclusa la totalità della verità)” [Micromega, 111]. L’inevitabile tramonto della tradizione occidentale sarebbe dunque determinato dall’espandersi di Techne e dall’assurgere di essa a soggetto o motore della storia: “Nel rovesciamento di mezzi e fini le radici religiose e filosofiche che accomunano le democrazie occidentali e l’Islam sono dunque destinate a diventare mezzi di cui la tecnica si serve per la realizzazione del proprio scopo essenziale: l’incremento infinito della capacità di realizzare scopi” [ib., 109].
Il paradigma deterministico della globalizzazione-destino si rinviene anche nelle analisi storico-filosofiche della situazione tendenti ad esprime il nostro rapporto con la modernità in termini di “prigionia”. in questa prospettiva “la globalizzazione come prodotto della modernità sembra esigere dal soggetto moderno un autotrascendimento di cui questo si rivela incapace. La soggettività moderna è riottosa ad assumere quella responsabilità verso gli atri -lontani spazialmente e temporalmente- sui quali ricadono le conseguenze del nostro agire, del nostro stile di vita. L’inettitudine all’accettazione della responsabilità verso chi dipende da noi si radica nella mancanza del senso del limite, nella difficoltà a pensare una condizione in cui il benessere si declini con la riduzione dei consumi e delle possibilità”[così D. D’Andrea in Filosofia della globalizzazione, 33]. A questa inettitudine provocata sui soggetti, andrebbe ad assommarsi quella prodotta sulla politica, con la conseguente messa in crisi della sovranità, che vivrebbe un periodo di vera e propria “obsolescenza”.
Ulteriori considerazioni si possono, anzi riterrei che si debbano, svolgere innanzi tutto intorno all’ineluttabilità dei percorsi storici, che eventualmente si scontra con la concezione cristiana della storia, nella quale non vi è assolutamente nulla di necessario, neppure la volontà di Dio e il suo piano salvifico, in quanto l’uomo può sempre rifiutarsi di accoglierlo e rendere addirittura definitivo tale rifiuto. L’inferno come “reale possibilità” di destino ultiom dell’uomo sta lì a lanciare un perenne appello alla nostra libertà responsabile, forse anche per questo sia nella teologia come nella predicazione se ne parla poco, laddove un’apocatastasi assoluta (specificamente: dottrina di Origene, condannata nel 543, che afferma la redenzione di tutti i peccatori,anche di quelli passati attraverso il fuoco infernale -concepito come non eterno; genericamente: ristabilimento dell’ordine voluto da Dio, alla fine dei tempi) starebbe a negare il dramma della libertà dell’uomo nel rapporto col suo Creatore e Signore. Una filosofia della storia che appella al carattere di destino del succedersi delle epoche intermi deterministici, ripropone di fatto la concezione pagana della vita e dell’esistenza, cui si oppone la teologia cristiana della storia, con in particolare la sua insistenza sulla tematica della Provvidenza. E se di destino si può in certo senso parlare, allora in tale orizzonte teologico vale l’inclusione boeziana del fato (o della ruota della fortuna) nel quadro dell’azione provvidenziale di Dio [cf De consolatione philosophie, II] e quindi in una prospettiva agapica, diremmo di “metafisica della carità”, dove il nesso verità-libertà risulta imprescindibile. “Chi lega tutte le cose nell’ordine, signoreggiando la terra, il mare e il cielo, è l’Amore. E se questi allentasse le redini, tutto ciò che ora si ama reciprocamente, immediatamente cadrebbe interra aspra, e tenderebbe a mandare in rovina ogni movimento del mondo, tutte le cose che ora lo guidano con mutua fiducia e armoniche convivenze. Questi unisce anche i popoli in un sacro legame. O felice genere umano, se l’Amore che regge il cielo, reggesse anche i vostri animi!” [ib.,II, 8 (=Boezio,53)].
Come ogni realtà storica, frutto di una natura umana ferita e compromessa dal peccato, e ancor più in quanto imposta a soggetti incapaci di autotrascendimento, la globalizzazione richiede di essere redenta, come recentemente ha avuto modo di richiamare il teologo gesuita latinoamericano Jon Sobrino [cf Concilium,135-147], e tuttavia non credo che siamo chiamati ad identificare una classe sociale o un gruppo umano o una comunità particolare da proporre come soggetto di tale redenzione, visto che questo titolo spetta solo al Signore Gesù, il quale tuttavia redime il mondo non senza la nostra cooperazione. La grazia, come la verità cristianamente intesa, è un continuo appello alla libertà, perché vi si conformi, come la perdizione così la redenzione non sono un destino, a maggior ragione non ci sembra possa esserlo la globalizzazione in atto. La fede, insegna la tradizione cristiana (penso in particolare al sermone di Tommaso sul simbolo) produce nell’uom il germe della vita eterna, fa sì che il credente sia in una situazione storica e nello stesso tempo metastorica, partecipi quindi, sia pure in speculum et aenigmate della vita e della libertà di Dio; e ci piace pensare che anche a lui sia concesso, con le dovute cautele, di giocare col Leviatano, in modo d anon lasciarsi irretire dall’impotenza e dalla paura, con la capacità di demitizzare quello che Hobbes chiamava il dio mortale, subordinato comunque al Dio eterno della tradizione ebraico-cristiana.
In aiuto a questa teologia della storia e della grazia, nel particolare momento storico che stiamo vivendo, vengono alcune precise indicazioni filosofiche e socioculturale, spesso innestate sull’etica responsabilità, ma che comunque contribuiscono a falsificare l’idea della globalizzazione come destino. La globalizzazione non è un destino è il bel titolo di due studiosi dell’Università Cattolica di Milano sull’argomento. All’interno dei mutamenti strutturali in atto, gli autori cercano di individuarne le forme della ricomposizione dello spazion morale in relazione al villaggio globale e alle sue sfide. Ribaltando il pregiudizio determinista, essi sostengono che “lungi dal costituire un ostacolo all’azione morale, tale contesto, permeato da incertezza e ambivalenza, rappresenta -la patria naturale del sé morale e il terreno più fertile per lo sviluppo di attitudini morali-” [Giaccardi-Magatti, 153]. Il primo di questi ambiti sarebbe nella rinnovata attitudine del soggetto denucleato a prendere le distanze da se stesso, facendosi oggetto di riflessività. La seconda forma in cui lo spazio morale dovrebbe ricomporsi è quella del riconoscimento, con il relativo riferimento all’alterità. Al di là delle strategie di negazione dell’identità altrui e di neutralizzazione delle sue dimensioni, il riconoscere non va visto soltanto nella direzione identità-alterità, come qualcosa che si chiede ad altre appartenenze, bensì come qualcosa che si accorda loro: “Tale gesto [di accoglienza accordante], prima ancora che alle specifiche identità, va rivolto all’alterità come tale: non è possibile riconoscere alcuna identità, se prima non si riconosce che fuori di noi (come in parte anche dentro di noi) sta qualcosa che non sarà mai completamente intellegibile, prima ancora che condivisibile”[ib.,155]. non è difficile leggere in queste indicazioni l’eco delle filosofie di Emmanuel Levinas e Paul Ricoeur, quest’ultimo chiamato a sostegno per la scesa in campo del senso del termine responsabilità: si tratta di due indicazioni fondamentali: “contare su” ed “essere in grado di dar conto di “. La responsabilità le accoglie rispondendo alla domanda “dove sei?” con un “Eccomi!”, che dice il “mantenersi” [ib.156 + P. Ricouer (1993) 259].
La globalizzazione, insegna Zygmunt Bauman, impone di pensare diversamente, un altrimenti ancora più radicale di quello levinasiano, il nesso etica-ontologia, vanificando ogni dialettica contrappositiva fra i termini in questione: “Nel nostro mondo d’interdipendenza unversale, il reame delle cause e deglieffetti dell’azione umana e lo scopo dell’umanità si sovrappongono. Virtualmente, nessuna azione, per quanto confinata localmente e ristretta, può essere certa di non avere conseguenze sul resto dell’umanità, né ogni segmento dell’umanità può limitarsi a se stesso e dipendere totalmente e solo dall’azione dei suoi membri” [Parabole mediatiche, 25]. Il processo che lo studioso disegna, fondandosi sul fatto che l’attuale sistema informatico non ci consente di dichiararsi ignoranti rispetto a quanto accade nel resto del pianeta, tende ad attivare il percorso che da spettatori potrà farci diventare attori, rompendo decisamente con ogni rassegnazione passiva e ogni determinismo socio-culturale. Un appello alla libertà e al suo esercizio, che trova anche nel premio nobel Amartya Sen un forte richiamo, fondato sulla convinzione che il rapporto agente-paziente oggi risulta decisamente più complesso ed articolato di quanto non fosse in passato, sicché i due termini lungi dall’essere decisamente caratterizzati si implicano reciprocamente, in qanto non esistono puri agenti e puri pazienti nella rete telematico-informatica che ci avvolge [A. Sen, Globalizzazione e libertà + D. Pizzuti in Rdt].
Nel tentativo di delineare i compiti che ci attendono nell’epoca della globalizzazione, ci sembra particolarmente suggestivo e pregnante il ricorso all’icona biblica di Davide e Golia, proposta dal card. Martini in un forum del progetto culturale e ripresa in un recente libro sul nostro argomento [P. Gheddo - R. Beretta, Davide e Golia. I cattolici e la sfida della globalizzazione]. Dal testo biblico di 1 Sam, 17, tre elementi mi sembrano significativi a nostro riguardo: il primo elemento è il panico che la presenza del gigante incute nelle file dell’esercito d’Israele; il secondo elemento -che sta particolarmente a cuore al Martini- è nel gesto di Davide di spogliarsi della pesante armatura di Saul, che non gli consente la libertà di movimento nell’affrontare il suo compito; infine l’altro gesto di Davide, che sceglie accuratamente le pietre con cui caricare la propria fionda e uccidere Golia. La sproporzione delle forze in campo è immane: al piccolo gregge dei cristiani è richiesto a)di non soccombere e di non lasciarsi prendere dal panico, b)di non lasciarsi irretire da armamentari tecnologici sproporzionati e ingombranti, c)e infine di operare un accurato discernimento, onde potersi muovere con spirito profetico nel villaggio globale. L’etica non può essere lasciata da sola, essa va accompagnata e fondata dall’adesione di fede al Dio Unitrino e poggiata sull’evento fondatore della Pasqua del Signore Gesù.
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