Riforma sinodale – da dove cominciare
Il documento finale dell’ultimo Sinodo dei vescovi
sulla sinodalità ecclesiale ha l’aspetto di una omelia. Non sembra che parli un
teologo, ma un predicatore. La differenza è che il secondo non ammette
obiezioni. E’ quanto di meno sinodale possa esserci.
A me
piace ascoltare le omelie, altrimenti non sarei una persona religiosa. Il
predicatore rende viva la Scrittura e così orienta nella fede, nel solco di una
tradizione.
Ma quando mi propongono un progetto organizzativo
sulla sinodalità ecclesiale in forma di omelia capisco che non mi vogliono di mezzo: hanno
deciso già tutto e, nel caso di specie, hanno deciso che tutto rimanga com’è,
ma che io lo accetti con lo stesso spirito con il quale nelle liturgie pronuncio
l’amen. Le cose come vanno adesso sono che decide solo una ristretta
cerchia di gerarchi ecclesiastici. Ma è proprio quello che si vorrebbe cambiare
parlando di sinodalità ecclesiale. Il problema è che passare dall’ecclesiale,
vale a dire la vita di fede, all’ecclesiastico, vale a dire l’apparato,
è arduo, perché l’ecclesiastico intercetta molti progetti di vita personale di
chi in quel campo ha impegnato tutto se stesso, e dell’apparato vive.
Non sono né voglio essere un teologo, ma
delle organizzazioni ho qualche esperienza, e ne ho anche di gente che di esse
e in esse vive.
Progettandone la riforma, bisognerebbe
accordarsi innanzi tutto sul risultato che si vuole ottenere, e che in certe
condizioni storiche e sociali è concretamente possibile senza sfasciare tutto, e
poi, una volta deciso quello, passare il lavoro a teologhe e teologi perché lo esprimano
secondo l’arte loro, facendo tornare i conti.
In realtà, concretamente accade sempre così: la teologia viene sempre dopo.
Lasciandola un po’ da parte nella prima fase
si priva tutto di molti elementi angoscianti, nel tremendo passato delle nostre
Chiese origine di atrocità incredibili. Perché si era tentati di passare subito
a vie di fatto e, poi, nello spirito dei tempi, lo si faceva. Ai tempi nostri
qualcosa è effettivamente cambiato e ciò è dovuto all’affermarsi di valori
democratici, almeno in Occidente, che non consistono tanto nel prendere
decisioni a maggioranza (che comunque è più razionale del prenderle a minoranza), ma nell’accordarsi di non
far fuori i dissenzienti.
La riforma di un corpo sociale di istituzioni
ecclesiastiche implica tener conto di miti radicati nella gente, e qui non è
solo la teologia, specializzata nella
materia, che serve, ma molto di più antropologia e psicologia sociale. E’
consigliabile procedere gradualmente, specialmente se ci si propone una riforma
sinodale, che significa lavorare dal basso, costruendoci sopra.
La nostra
gerarchia ecclesiastica è disposta a inscenare una fase liturgica di consultazione
dal basso, ma senza proporsi di tener veramente conto di ciò che viene
di lì. Altrimenti si continuerebbe a lavorare in quell’ambito.
Che cosa si è imparato dal basso nelle
due sessioni dell’ultimo Sinodo dei vescovi? Non è veramente emerso.
In ciò
che, in qualche modo, è stato sintetizzato della liturgia di consultazione popolare, nella primavera del 2022, mi pare che ogni titolato a interloquire abbia visto quello
che voleva vederci.
Non so nemmeno che cosa sia stato inviato in Diocesi
degli incontri che abbiamo tenuto a quell’epoca in parrocchia e non so che cosa
di quello abbia influito sulle paginette
che dalla Diocesi sono state inviate per via gerarchica, verso il cosiddetto alto.
I termini basso e alto richiamano l’idea di un organismo unico
composto appunto da un basso e da
un alto, con qualcosa che viene trasferito
dall’uno all’altro. Ma non si è trattato di questo. Si tratta di due parti distinte
e poco comunicanti in quella direzione, ma in fondo anche in quell’altra, dall’alto
verso il basso: il basso ha la
funzione di comparsa in eventi liturgici, l’alto pensa di poter decidere
ciò che in basso si farà, ma a
torto, o almeno solo sulla carta.
Il problema è che chi sta in basso, accetta di fare da comparsa in qualche liturgia
di massa, come tipicamente sono quelle del cosiddetto Giubileo che è andato
in scenda dalla Vigilia di Natale, ma poi decide autonomamente che fare, sulla
base di ciò che gli viene detto dall’alto, certo, ma anche in base ad
altro. E’ questa autonomia che bisognerebbe sinodalizzare, raccordando tutte le
parti, in modo che, alla fine, non si ragioni più in termine di basso o alto, ma di compiti che in vari ruoli
e posizioni si accetta di svolgere nell’interesse comune. Dall’alto si pensa invece alla sinodalità come a una
liturgia più emotivamente coinvolgente, in modo che in basso ci si convinca finalmente a fare ciò che in alto
si vuole. E così, poi, però, tutto
rimarrebbe com’è: in alto si fa
finta che in basso si ubbidisca,
e in basso si fa mostra di
obbedire ma poi non lo si fa veramente in tutto.
L’apparato ecclesiastico delle nostra Chiese
è una struttura complessa, con molte istituzioni in relazioni tra loro. Si è
ancora in molti: perché stupirsi della cosa o scandalizzarsene? La questione è
se c’è una buona organizzazione o non, vale a dire se gli scopi che ci si
prefigge sono raggiunti senza sprecare risorse. Da quello che sento e leggo, non
si è soddisfatti di come vanno le cose.
Un modo di riformare è quello che si è
seguito recentemente con l’organizzazione della Diocesi di Roma, dall’alto.
In una cerchia ristretta si è deciso, si è scritto e si è ordinato di fare.
Questo non è un modo sinodale di procedere. Sono state mosse diverse critiche a
quello che si è scritto, dal punto di vista tecnico, come si suol dire. Non
mi sono dedicato a esaminare tutto dettagliatamente. Posso dire, ad esempio,
che il nuovo Statuto dei Consigli
pastorali parrocchiali, che è un punto importante della riforma anche se
non investe le strutture centrali, mi pare un po’ pasticciato dal punto di vista
giuridico. Ciò che è pasticciato diventa inattuabile in concreto. Di fatto, ad
esempio, nella nostra parrocchia non mi pare che si sia proceduto secondo le
nuove regole, anche se, dopo diverse esortazioni dal centro, si è ripreso a
celebrare il nostro Consiglio pastorale.
Quando si tocca una organizzazione complessa come quella di una Chiesa locale che comprende una grande città, occorre innanzi tutto tener presente che si lavora su un organismo sociale in funzione, che non può essere bloccato. Bisogna continuare ad assicurare le risorse e il personale perché l’apparato continui ad svolgere i servizi essenziali: amministrazione degli immobili, liturgie e sacramenti. Bisogna far tesoro del personale che a questi servizi si è totalmente dedicato, perché senza quella gente tutto, appunto, si blocca. La gente che frequenta le chiese è poco abituata a collaborare, ci viene più che altro da comparsa e spettatrice, nel ruolo in cui del resto è sempre stata lasciata emarginata, e, se dà la disponibilità per altro, la dà con certi limiti, perché ha altre cose importanti da fare, lavoro e famiglia. Ci si deve dividere tra le varie occupazioni, il tempo disponibile è quello che è e da anziani si ha più tempo ma mancano le forze: gli anziani malati e i figli piccoli finiscono per sfiancare le persone adulte nelle età di mezzo che se ne occupano; poi quelle vanno in chiesa e si sentono rimproverare di non spendersi abbastanza per le cose di religione.
Detto questo, è chiaro che, se si vuole
partire con una reale sinodalità,
lo si deve fare partendo da ambiti limitati, da gruppi selezionati, per vedere
come va e che cosa è possibile, in concreto, fare, insomma per fare tirocinio
della cosa.
Quando si organizza, ci si accorge presto che
tra il dire e il fare…
Nella sinodalità occorre lasciare spazio alla
creatività della gente, ma in modo che
non si guasti tutto, che tutto non finisce nel caos che da ragazzo ho sperimentato
in certe assemblee scolastiche che si facevano al liceo. Per questo è bene cominciare in ambiti circoscritti, nei quali ci si possa più facilmente correggere in base all’esperienza.
Ma senza
però che la sinodalità sia una specie di teatro liturgico, senza lasciare
traccia finito lo spettacolo. E’ emozionante stare due ore al cinema a guardare
un bel film. Ma quando si esce dalla sala c’è la vita reale. E’ un po’ quello
che accade quando, muniti di crocefisso ritirato in piazza Pia, ci si incammina
per la corsia cintata verso piazza San Pietro e poi nel tragitto attraverso la
cosiddetta Porta Santa, e ritorno. Una cosa veramente poco sinodale, in cui,
appunto, ci si muove come comparse, in modo che, dalle riprese televisive, si
veda che c’era molta gente. Comunque anche alle comparse, nel girare un film, batte il cuore; provano emozioni. Ma le provano da comparse. È questa la missione? Organizzare eventi religiosi spettacolari.
Certo, sono d’accordo che piuttosto che pasticciare
e creare il caos è meglio fermarsi. Ma stando fermi la Chiesa svanisce, come è
già accaduto in Francia e altrove. Poi, alla fine, rimarrà solo l’apparato, e,
poi, lentamente si estinguerà anche quello, quando finiranno le risorse
materiali. E allora si visiteranno le grandi e costose basiliche cristiane con lo stesso spirito con cui ci si aggira in certi templi lasciati dagli antichi Greci da noi e non riciclati dai cristiani.
La via consigliabile è quella di agire con il
metodo del restauratore di dipinti antichi, molto lentamente, con molta
precisione, curando i particolari e cercando di mantenere l’armonia del
complesso, ma anche l’impostazione originaria, cercando di individuare e rimuovere
le aggiunte posticce che stonano.
In una parrocchia si potrebbe iniziare con il far
partire gruppi sinodali composti di persone con certe caratteristiche di
affinità, per età, istruzione ed altri elementi, in modo da iniziare a fare
tirocinio del raggiungere sinodalmente un certo obiettivo. L’esperienza è molto
importante in queste cose, come nel lavoro artigianale, e la politica, il governo
delle società, da quelle più piccole a quelle più grandi, è sempre un lavoro
artigianale, in cui, è questo è molto
importante capire, si lavora in grande sempre sulla base dell’esperienza fatta
in piccolo.
Mario
Ardigò – Azione Cattolica in San
Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli