Catechesi
travagliata
Con mia moglie, ho fatto da catechista alle
mie figlie, e mi pare che abbiamo lavorato bene, ma non mi è mai lontanamente
passato per la mente di esserlo per figlie e figli altrui, perché ricordavo
com'ero stato da ragazzo e non volevo i conseguenti grattacapi. Ricordavo anche
i problemi che aveva avuto mia madre, da catechista, nel clima di
sperimentazione del rinnovamento della catechesi negli anni '70, quando si
cominciò ad abbandonare i metodi autoritari e nozionistici che risalivano ai
primi del Novecento.
Quando cominciai a manifestare le irrequietezze che oggi si sperimentano
nelle ragazze e ragazzi (specialmente in questi ultimi) nella catechesi per la
Cresima, io la Cresima l'avevo già ricevuta all'età delle elementari, pochi
giorni dopo la Prima Comunione. Poi si decise, a ragion veduta credo, di posticipare
il sacramento al tempo delle medie, e allora ci si dovette confrontare con
persone che attraversavano quella età di veloci, improvvisi e poco
prevedibili cambiamenti, di fronte ai quali genitori ed educatori spesso non
sanno che pesci prendere. Ma tanto meno i preti, la cui formazione, anche
nei più giovani, mi pare non di rado insufficiente in questo campo.
Ricordo di aver letto, ai tempi in cui le mie figlie uscivano dall'infanzia, un
manuale per i genitori di una psicologa francese dell'età evolutiva la quale
concludeva che, quando una persona raggiunge i tredici anni circa, i genitori
devono solo sperare di aver lavorato bene negli anni precedenti, perché a quel
punto c'è poco da fare. C'è da esserne scoraggiati, anche se, quando si decide
di generare, non ci si pensa. In effetti, se si riflette sulla propria
esperienza di quell'età ci si può convincere che le cose vanno proprio così,
anche se qualche punto di riferimento parentale rimane sempre, come anche ne
emergono di nuovi, e non sempre positivi (almeno da un punto di vista del
genitore).
Naturalmente si può osservare che andare a catechismo per la Cresima non è
obbligatorio come lo è andare a scuola fino a sedici anni. Di fronte
all'insofferenza di una persona giovane verso questo tipo di formazione
religiosa si può anche decidere di lasciar perdere. Tuttavia non di rado questa
è una scelta che risulta dolorosa per i genitori, che vedono nell'esperienza
religiosa un arricchimento della persona. Sanno poi bene, a volte anche per
esperienza personale, che ciò che in questo campo non si assimila (non solo si
impara) nell'adolescenza difficilmente si recupera più tardi. Infatti per i
più la formazione religiosa acquisita fino all'età delle medie rimane l'unica
della vita e questo per varie ragioni, ed anche per il carattere scadente delle
attività formative che si fanno per le persone adulte, quando si riesce ad
organizzarle, e ciò non sempre avviene.
La ragazza o il ragazzo che va controvoglia al "catechismo" a volte
disturba l'attività, e ne risente tutto
il gruppo. Fa perdere tempo, che è già poco. Si ripropongono, quindi, i
problemi che si generano in una classe scolastica e che lì vengono contenuti
facendo leva sull'autorità riconosciuta all'insegnante dalle norme e sul timore
di sanzioni. Ma al "catechismo" non si dovrebbe creare un ambiente
simile a quello scolastico, perché al centro dell'attività non vi è
l'apprendimento di nozioni o abilità ma la costruzione di una comunità
evangelica, nella quale convivere nello spirito del vangelo, anche con
riferimento alla "missione" di diffonderlo. È ciò che rientra nella
definizione di "agàpe".
In più c'è l'obiettivo di improntare questa agàpe alla sinodalitá che oggi si
vorrebbe caratterizzasse ogni aspetto ecclesiale.
Ma come riuscire dove non arrivano, a volte, neanche i genitori, ai quali la
legge civile riconosce particolari poteri su figlie e figli? Non c'è da
aspettarsi alcuna risoluzione prodigiosa dei problemi, perché questi ultimi
dipendono da come gli esseri umani sono stati "fatti", e sono stati
"fatti" come li si è voluti dall'alto, dal punto di vista della
religione. E non bisogna quindi pensare che l'irrequietezza giovanile, spesso
insensata dal punto di vista delle persone adulte, dipenda da una
"cattiveria" di chi la manifesta.
Inoltre
raramente genitori ed educatori possiedono particolari competenze nel campo
della psicologia evolutiva che consentano loro di distinguere più chiaramente le
origini di certi comportamenti negativi e di cercare di arginarli e addirittura
risolverli nel modo più appropriato scientificamente. Non è mai consigliabile
improvvisarsi psicologi e, quando occorra veramente, è preferibile rivolgersi a
specialisti riconosciuti, ma questo compete ai genitori.
Piuttosto si può tentare di far leva sull'elemento comunitario per cercare di
creare un punto di resistenza collettiva che possa ad un certo punto
influire sulla persona recalcitrante. Questo anche coinvolgendo le persone
adulte che stanno dietro il gruppo di catechesi, vale a dire gli altri
genitori (non solo i genitori della persona in formazione recalcitrante, pena il mostrare la figura del formatore confusa con quella del genitore subendo poi la ribellione - inevitabile e fisiologica - della ragazza o del ragazzo verso l’autorità genitoriale).
Tuttavia
è prevedibile che non sempre i risultati siano positivi. Per varie ragioni la
persona in formazione può non rispondere a questi tentativi, anche perché
nell'adolescenza si è portati ad assumere atteggiamenti di sfida, per vedere
che succede, soprattutto verso l’autorità di chi si sa che cercherà di contenere le proprie reazioni, per affetto o per dovere. A quell’età si inizia a sfidare l’autorità di chi è ben disposto verso di noi. Ciascuna e ciascuno pensi a quand'era giovane e vedrà che cose del
genere anche lei\lui le ha fatte,
Dunque,
a quel punto occorre evitare il peggio, con l'avvertenza che ci sono dei limiti
precisi, derivanti anche dalla legge, ai provvedimenti che possono essere
presi, soprattutto verso ragazze e ragazzi che sono usciti dall'infanzia.
Spesso i genitori, loro stessi esasperati dai lati sgradevoli della loro prole,
invocano severità, durezza. Ma si tratta di richieste che non vanno assecondate
dagli educatori e questo per un complesso di buone ragioni, alcune delle quali
anche di tipo religioso.
Definiamo Grazia l’azione di Dio sulle persone. Chi fa formazione
in ambito di religioso ne è solo strumento, uno tra gli altri, non ne è invece un un dispensatore, che possa anche decidere
chi la merita e chi non, e quindi di negarla agli irrequieti e indisciplinati, e questo a qualsiasi funzione venga chiamato e a qualsiasi grado nell’ordinamento gerarchico. La Grazia straripa per ogni via come un fiume in piena e non è limitata dagli argini istituzionali, dalle metaforiche condutture mediante le quali ordinariamente scorre ma anche la si vorrebbe contenere per darla a chi si ritiene ne sia degna o degno.
L’agàpe evangelica, poi, è danneggiata
dalla sopraffazione, anche realizzata, nelle intenzioni, a fin di bene. Non è questo
l’esempio del Maestro.
Infine la violenza è vietata dalla legge, sia
quella fisica che quella sui beni che appartengono alla persona. Viola valori
costituzionali. Un’intrusione nella sfera personale può ritenersi ammissibile
solo in condizioni di stato di necessità, che è quando si deve agire per prevenire danni gravi alla persona non altrimenti evitabili, e nei limiti dell’indispensabilità
e secondo il criterio di proporzionalità. Non deve ingannare che siano in
questione relazioni tra persone adulte e minorenni, quando queste ultime sono uscite dall’infanzia.
L’unico provvedimento disciplinare, quando non
si riesce a contenere certe condotte, è quello che viene adottato nelle partite
di calcio e in altri giochi di squadra, è l’espulsione dalle attività in corso,
se si constata l’indifferenza ai richiami, ai cartellini gialli. Sarebbe
preferibile, come esercizio dell’agàpe sinodale, che fosse condivisa dal
gruppo, se la maturità di chi ne fa parte lo consente. Ma poi bisognerebbe
avviare una interlocuzione con i genitori per valutare se la persona in
formazione ha sufficienti motivazioni per continuare.
La gran parte delle ragazze e dei ragazzi lascia
la pratica religiosa più o meno all’inizio delle superiori, ma questo non significa
che sia per sempre e, soprattutto, che l’abbandono sia totale. Nella mia
esperienza, tanto più duramente si reagisce tanto più si approfondisce il
distacco. E’ ciò che emerge dai racconti che ho spesso ascoltato sui metodi
educativi che si seguivano nelle scuole delle suore, molto centrati sulla
sottomissione e sull’ubbidienza. Quest’ultima, come scrisse Lorenzo Milani, non
è più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni. Ma non di rado nella
predicazione e nella catechesi è tuttora molto apprezzata. L’idea evangelica è però
che bisogna ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini, e questo, come è
stato osservato, significa imprimere un blando anarchismo alla vita religiosa.
A volte sento fare una colpa ai formatori se
le persone giovani affidate alla loro cura sono turbolente e cercano di
sottrarsi. Da preti e catechisti, in particolare, si pretende che non
annoino. Questo poi porta verso una spettacolarizzazione della formazione e
della pratica che non è utile, perché induce una certa superficialità. Non
penso che si debba lavorare sui copioni, ma sulla qualità delle
relazioni del gruppo in formazione lavorandoci sopra. E’, ad esempio, ciò che
si fa nel metodo scout.
Robert Baden-Powell, il fondatore scoutismo, era un ufficiale britannico, in un’armata in cui formazione e disciplina erano (e sono) molto dure. In patria divenne famoso per come guidò la resistenza durante l’assedio di Mafeking, in Sud Africa, per diversi mesi tra il 1899 e il 1900, da parte dei boeri, coloni di origine olandese che erano insorti contro gli inglesi. Fu un brutale episodio di colonialismo da parte degli inglesi, ma anche gli assedianti non furono da meno. Baden-Powell ebbe l’idea di impiegare bambini e adolescenti molto giovani in vari ruoli molto pericolosi, come portaordini e osservatori, stimolandone l’autonomia in gruppi di coetanei. Ai tempi nostri probabilmente finirebbe sotto processo penale, ma, evidentemente, i genitori, nella cittadina assediata, non ebbero obiezioni. Tornato in patria come un eroe di guerra inventò lo scoutismo che si basa sull’idea di prendere sul serio i più giovani: questo gli diede fama mondiale. Prendere sul serio figlie e figlie usciti dall’infanzia in genere ai genitori dell’Europa occidentale contemporanea non riesce bene. Da qui, poi ragazzi che regrediscono a comportamenti infantili. Lo scoutismo si basa sulla corresponsabilità in un lavoro di squadra. I capi, le persone adulte con il ruolo di educatrici, fanno conto sul capisquadra, scelti tra le persone in formazione, tra persone che gli adulti superficialmente indicano come ragazzine e ragazzini. Si cerca di stimolare l’autonomia individuale, anche in situazioni difficili, proponendo come esempio i trapper nordamericani dell’Ottocento, i cacciatori per ricavare pellicce di animali selvatici, gente che sapeva sopravvivere in ambienti naturali molto ostili. Da qui l’esortazione ad essere scout, cioè esploratori del mondo, coraggiosi ma anche animati da una forte etica (sull’esempio di quella proposta ai militari inglesi all’epoca di Baden-Powell). Ai miei tempi, per conseguire il grado più alto, la qualifica di scelto, bisognava fare un’escursione da soli accampandosi una notte all’aperto. Posso testimoniare per esperienza personale che il metodo funziona, anche se mi rendo conto, con il senno della persona adulta, che si corsero rischi.
La disciplina nelle attività collettive si consegue con la conquista della maturità e questo dipende dallo sviluppo dell’autonomia personale, il che passa inevitabilmente per una fase di conflitto relazionale, a partire da quello con i genitori. Sono cose che, prima che sui libri, si imparano dalla propria vita. E non va così solo nella nostra specie, ma anche nelle altre dei mammiferi, a partire dalle altre dei primati.
A volta i genitori non riescono a convincersi che l’adolescente non sia più una bambina o un bambino e continuano a trattare figlie e figli come se fossero ancora piccoletti, ad esempio costringendoli a seguire la catechesi per la Cresima quando non sono veramente motivati, come si era fatto all’età delle elementari, per la preparazione alla Prima Comunione.
Si è creata, per queste persone che bambine e bambini non sono più ma che vengono trattate ancora come tali, la categoria della ragazzina e del ragazzino. Da scout, all’età delle medie, mi sarei sentito offeso se mi avessero dato del ragazzino.
Affrontai il mio ruolo di caposquadriglia con lo stesso spirito e la stessa disciplina che mi caratterizzò più avanti nella professione,
L’esercizio della catechesi mi pare un’arte,
che si impara praticandola e migliorandosi sulla base dell’esperienza. Le
istruzioni lasciano il tempo che trovano. Bisogna mettere in gioco la propria umanità
e, allora, si scopre quanto è impegnativo il lavoro della formazione dei più giovani
che è tanto più efficace quanto più positive sono le relazioni sociali in un
gruppo, dove si riesce a non rimanere sempre concentrati su sé stessi, ma si
scopre la gioia della vita comunitaria. Il vangelo è gioia comunitaria: lo
scrisse il Papa nella sua prima esortazione apostolica, undici anni fa.
Mario
Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli