INFORMAZIONI UTILI SU QUESTO BLOG

  Questo blog è stato aperto da Mario Ardigò per consentire il dialogo fra gli associati dell'associazione parrocchiale di Azione Cattolica della Parrocchia di San Clemente Papa, a Roma, quartiere Roma - Montesacro - Valli, un gruppo cattolico, e fra essi e altre persone interessate a capire il senso dell'associarsi in Azione Cattolica, palestra di libertà e democrazia nello sforzo di proporre alla società del nostro tempo i principi di fede, secondo lo Statuto approvato nel 1969, sotto la presidenza nazionale di Vittorio Bachelet, e aggiornato nel 2003.

  This blog was opened by Mario Ardigò to allow dialogue between the members of the parish association of Catholic Action of the Parish of San Clemente Papa, in Rome, the Roma - Montesacro - Valli district, a Catholic group, and between them and other interested persons to understand the meaning of joining in Catholic Action, a center of freedom and democracy in the effort to propose the principles of faith to the society of our time, according to the Statute approved in 1969, under the national presidency of Vittorio Bachelet, and updated in 2003.

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L’Azione Cattolica Italiana è un’associazione di laici nella chiesa cattolica che si impegnano liberamente per realizzare, nella comunità cristiana e nella società civile, una specifica esperienza, ecclesiale e laicale, comunitaria e organica, popolare e democratica. (dallo Statuto)

Italian Catholic Action is an association of lay people in the Catholic Church who are freely committed to creating a specific ecclesial and lay, community and organic, popular and democratic experience in the Christian community and in civil society. (from the Statute)

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  Scrivo per dare motivazioni ragionevoli all’impegno sociale. Lo faccio secondo l’ideologia corrente dell’Azione Cattolica, che opera principalmente in quel campo, e secondo la mia ormai lunga esperienza di vita sociale. Quindi nell’ordine di idee di una fede religiosa, dalla quale l’Azione Cattolica trae i suoi più importanti principi sociali, ma senza fare un discorso teologico, non sono un teologo, e nemmeno catechistico, di introduzione a quella fede. Secondo il metodo dell’Azione Cattolica cerco di dare argomenti per una migliore consapevolezza storica e sociale, perché per agire in società occorre conoscerla in maniera affidabile. Penso ai miei interlocutori come a persone che hanno finito le scuole superiori, o hanno raggiunto un livello di cultura corrispondente a quel livello scolastico, e che hanno il tempo e l’esigenza di ragionare su quei temi. Non do per scontato che intendano il senso della terminologia religiosa, per cui ne adotto una neutra, non esplicitamente religiosa, e, se mi capita di usare le parole della religione, ne spiego il senso. Tengo fuori la spiritualità, perché essa richiede relazioni personali molto più forti di quelle che si possono sviluppare sul WEB, cresce nella preghiera e nella liturgia: chi sente il desiderio di esservi introdotto deve raggiungere una comunità di fede. Può essere studiata nelle sue manifestazioni esteriori e sociali, come fanno gli antropologi, ma così si rimane al suo esterno e non la si conosce veramente.

  Cerco di sviluppare un discorso colto, non superficiale, fatto di ragionamenti compiuti e con precisi riferimenti culturali, sui quali chi vuole può discutere. Il mio però non è un discorso scientifico, perché di quei temi non tratto da specialista, come sono i teologi, gli storici, i sociologi, gli antropologi e gli psicologi: non ne conosco abbastanza e, soprattutto, non so tutto quello che è necessario sapere per essere un specialista. Del resto questa è la condizione di ogni specialista riguardo alle altre specializzazioni. Le scienze evolvono anche nelle relazioni tra varie specializzazioni, in un rapporto interdisciplinare, e allora il discorso colto costituisce la base per una comune comprensione. E, comunque, per gli scopi del mio discorso, non occorre una precisione specialistica, ma semmai una certa affidabilità nei riferimento, ad esempio nella ricostruzione sommaria dei fenomeni storici. Per raggiungerla, nelle relazioni intellettuali, ci si aiuta a vicenda, formulando obiezioni e proposte di correzioni: in questo consiste il dialogo intellettuale. Anch’io mi valgo di questo lavoro, ma non appare qui, è fatto nei miei ambienti sociali di riferimento.

  Un cordiale benvenuto a tutti e un vivo ringraziamento a tutti coloro che vorranno interloquire.

  Dall’anno associativo 2020/2021 il gruppo di AC di San Clemente Papa si riunisce abitualmente due martedì e due sabati al mese, alle 17, e anima la Messa domenicale delle 9. Durante la pandemia da Covid 19 ci siamo riuniti in videoconferenza Google Meet. Anche dopo che la situazione sanitaria sarà tornata alla normalità, organizzeremo riunioni dedicate a temi specifici e aperte ai non soci con questa modalità.

 Per partecipare alle riunioni del gruppo on line con Google Meet, inviare, dopo la convocazione della riunione di cui verrà data notizia sul blog, una email a mario.ardigo@acsanclemente.net comunicando come ci si chiama, la email con cui si vuole partecipare, il nome e la città della propria parrocchia e i temi di interesse. Via email vi saranno confermati la data e l’ora della riunione e vi verrà inviato il codice di accesso. Dopo ogni riunione, i dati delle persone non iscritte verranno cancellati e dovranno essere inviati nuovamente per partecipare alla riunione successiva.

 La riunione Meet sarà attivata cinque minuti prima dell’orario fissato per il suo inizio.

Mario Ardigò, dell'associazione di AC S. Clemente Papa - Roma

NOTA IMPORTANTE / IMPORTANT NOTE

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sabato 30 settembre 2017

Il Santuario della Madonna di San Luca, a Bologna

Il Santuario della Madonna di San Luca, a Bologna. Vi si sale per un lungo e ripido porticato, fiancheggiato da 15 cappelle, quanti erano i misteri del Rosario di una volta (ora ne hanno cinque in più). La salita può essere un vero e proprio pellegrinaggio: così mi fu insegnato a praticarla, fin da bambino. Durante la Seconda Guerra Mondiale mia nonna paterna saliva al santuario ogni giorno, per pregare per i figli, per la città e per il mondo intero, per il ritorno della pace. E' posto su una collina vicina alla città, visibile da molto lontano. Durante la guerra e nell'immediato dopoguerra le cappelle del porticato vennero abitate da sfollati, che vivevano in condizioni di estremo disagio, sostenuti dall'ente comunale di assistenza, per il quale mia nonna mi raccontò di aver fatto volontariato.

Fin dal primo momento

Fin dal primo momento

   Fin dal primo momento la missione dell’Azione Cattolica fu l’azione sociale e politica.
 Bisogna situare la nascita dell’organizzazione nell’anno 1906, non prima. Questo perché in precedenza le associazioni del laicato di fede italiano non avevano il legame istituzionale con il Papato e le Diocesi che invece fu istituzionalizzato con gli statuti approvati quell’anno. Dal 1874 il laicato di fede italiano si era riunito  in un coordinamento nazionale denominato Opera dei Congressi. Quest’ultima terminò nel 1904, sciolta d’autorità dal Papa all’epoca regnante, Giuseppe Sarto, in religione Pio 10°. La nuova Azione Cattolica  non ne fu la riforma, ma la sostituzione. Nella soppressione dell’Opera dei Congressi era stato cruciale il tema della democrazia, in particolare quello della costituzione di un vero e proprio partito politico per partecipare a quella italiana. Il Papato fu durissimo su questo argomento, così come in generale lo fu, a quell’epoca, in materia di cultura religiosa. L’azione politica, che si presentava come necessaria anche per sostenere le rivendicazioni in materia del Papa, in fortissima polemica con le istituzioni del Regno d’Italia dopo la soppressione nel 1870 dello Stato pontificio e la conquista militare di Roma, avrebbe dovuto farsi sotto il diretto controllo del Papato e dei vescovi italiani, senza alcuna autonomia dei laici.
  La nuova organizzazione venne strutturata in tre associazioni di settore, con propri dirigenti e autonomia d’azione: L’Unione popolare, l’Unione Economica-sociale, l’Unione nazionale tra gli elettori cattolici. Va evidenziato che nel 1906 ancora vigeva il divieto religioso, per i fedeli cattolici, di partecipare alle elezioni politiche nazionali, introdotto dal 1861 e ribadito nell’enciclica Fermo proposito,  del 1905, con la quale si deliberò la nuova Azione Cattolica.
  Geneticamente, per così dire, l’Azione Cattolica  nasce anche per occuparsi di elezioni politiche. E, innanzi tutto, per sostenervi le ragioni politiche del Papato. La gente radunata nell’Azione Cattolica  era più o meno la stessa di quella che aveva animato l’Opera dei Congressi. Mancarono quelli che subirono la dura repressione, nel corso della persecuzione religiosa del modernismo, un movimento che proponeva la riforma della cultura religiosa. Tra di essi Romolo Murri, tra gli ideatori di un impegno politico di democrazia cristiana (e tra i fondatori della FUCI, la Federazione Universitaria Cattolica Italiana). L’idea di una democrazia cristiana, di una politica ispirata ai valori di fede, a quell’epoca venne considerata come un’eresia modernista. Tuttavia anche nell’Azione Cattolica  fondata nel 1906 si svilupparono processi democratici e, anzi, la Repubblica democratica organizzata alla caduta del regime fascista mussoliniano nel 1946 vide il contributo determinante di cattolici democratici formati in quell’associazione. Quest’evoluzione non fu possibile, però, senza il consenso del Papato: fin dall’inizio si ebbe infatti chiara consapevolezza del collegamento tra politica e valori, e sui valori tra i cattolici regna il Papa, anche se nel tempo anche quella monarchia si è fatta più o meno  costituzionale, partecipata. Questo cambiamento di indirizzo si ebbe solo durante il lungo  regno (1939-1958) del papa Eugenio Pacelli, in religione Pio 12°, e, in particolare tra il 1941 e il 1944, durante la Seconda Guerra Mondiale, che piuttosto rapidamente si era volta al peggio per l’Italia, anche se poi per la nazione si trascinò in un’interminabile agonia, conclusa nella primavera del 1945.
  Il Papato, nel 1906, voleva un laicato di fede sottomesso, ma preparato  e consapevole, che non finisse preda delle emozioni e degli istinti suscitati dagli agitatori sociali, vale a dire i demagoghi (la parola, di origine nel greco antico, significa appunto  agitatori sociali).
  Si legge, su questi temi, in  Gabriele De Rosa, il movimento cattolico in Italia - Dalla restaurazione all’età giolittiana,  Laterza, 1979 [richiede una formazione universitaria; si trova solo in biblioteca]:
 “Dalla lettura degli statuti [della nuova Azione Cattolica], emergeva la volontà della Santa Sede di avere un laicato  disciplinato, sottomesso, diviso in determinate branche di lavoro, senza velleità partitiche di nessun genere. Completamente estranea alla relazione [con vennero accompagnati nel 1906, nel convegno a Firenze in cui vennero deliberati quegli statuti] era ogni idea circa la possibilità di organizzare un vero e proprio partito cattolico. Le organizzazioni cattoliche venivano invitate allo studio e all’approfondimento della «questione sociale» [ quella riguardante la giustizia sociale nel mondo del lavoro, con riflessi nell’organizzazione politica della società] e dei «principi dell’incivilimento cristiano». Le alte direzioni ecclesiastiche avrebbero sorvegliato a che questo studio e questo lavoro di propaganda si compissero nella più completa e scrupolosa ortodossia.
  Ma  a designare meglio la volontà della Santa Sede, oltre agli statuti delle diverse Unioni, sopraggiunse un fatto nuovo, che «gittò l’acqua ghiacciata sul fuoco dei propositi e delle illusioni» [cita un libro di C. Crispolti del 1913] di quanti erano convinti - e fra questi lo stesso Luigi Sturzo [1871-1959, prete e politico - nel 1919 fondò con altri esponenti del cattolicesimo democratico italiano il Partito popolare italiano, il primo ispirato ai valori di fede e della democrazia] - che se non proprio l’autonomia, qualche cosa si sarebbe ottenuto sulla via di una maggiore libertà  per i cattolici nelle attività politiche. Il fatto nuovo era costituito dalla presentazione che il segretario di Stato [uno dei principali uffici della Curia pontificia, l’organizzazione che coadiuva il Papa nella sua missione] faceva per lettera, ai delegati cattolici riuniti a convegno [a Firenze nel1906]  delle «norme fondamentali dell’azione cattolica diocesana» che il papa desiderava  fossero prese a base delle nuove organizzazioni.  Queste norme, in pratica, ponevano tutte le attività dei cattolici in ciascuna diocesi, quindi anche quelle proprie delle singole Unioni,  sotto «l’alta dipendenza del vescovo», allo scopo, come diceva il primo articolo delle «norme», «di promuovere, reggere e coordinare l’azione cattolica locale, in conformità  agli insegnamenti e istruzioni della Santa Sede.
[…]
 Il ricordo dell’ultima  agitata assemblea di Bologna [dell’Opera dei Congressi, nel 1903] da cui era uscita l’affermazione democratica cristiana, faceva paura. Si mirò ad avere più un coro di consensi  a programmi già approvati in alto loco che il dibattito aperto e franco  fra le tendenze, pur nel rispetto  di una comune  volontà di obbedienza. Insomma, incominciò il regime della tutela in luogo del regime della responsabilità”.
 Solo tra il 1941, con la dura lezione della catastrofe della guerra, e il Concilio Vaticano 2° (1962-1965), all’esito del successo della riforma democratica dell’Europa occidentale in cui tanta parte avevano avuto i cattolici democratici,  si affermò l’idea dell’autonomia e responsabilità del laicato di fede nell’ideazione e sviluppo dell’azione sociale e politica: una conquista culturale che va rinnovata di generazione in generazione e che vede nell’Azione cattolica italiana tra i principali protagonisti.
 Nessuna meraviglia, quindi, che in un gruppo parrocchiale di Azione cattolica, e sul blog  che ad esso fa riferimento,  si discuta di politica.

 Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli

venerdì 29 settembre 2017

Parlamento

Parlamento

   Gli storici sicuramente si riferiranno al tempo tra il dicembre 2016 e la primavera del 2018, poco più di un anno, come ad un’epoca molto significativa della storia nazionale, nella quale la storia degli italiani ha preso una delle direzioni possibili e non altre. Non sempre si vivono momenti così. Accadde, ad esempio, tra il 1993 e il 1994, quando in pochi mesi furono organizzati nuovi partiti e nuove coalizioni politiche e si passò da un sistema di governo nazionale centrato sulla Democrazia Cristiana ad uno basato sull’alternanza di coalizione politiche di centro-destra e di centro-sinistra.
 Nel dicembre 2016 i cittadini dovettero decidere se approvare una riforma costituzionale, quindi delle istituzioni supreme, che consentisse al più forte dei partiti sulla piazza, pesato in base a voti ricevuti alle elezioni, di sviluppare la sua politica senza poter essere paralizzato dalle altre formazioni politiche. Per la prima volta da molto tempo, si sviluppò nell’opinione pubblica un vasto dibattito, vagliando gli argomenti a favore e quelli contrari. La proposta fu respinta. Prevalsero quelli che temevano un forte concentrazione di potere in un unico gruppo politico. La proposta era di cambiare l’organizzazione di Parlamento, Governo e Regioni e i loro poteri, ma, una volta attuata la riforma, ne poteva conseguire in tempi brevi il mutamento anche di altre parti della Costituzione, in particolare quelle contenenti principi fondamentali di civiltà. Prevalse, dunque, un atteggiamento prudente.
  Nelle elezioni politiche della prossima primavera si dovrà decidere essenzialmente sul quadro di alleanze internazionali in cui l’Italia deve essere inserita e sul modello di sviluppo economico e sociale da seguire. Il primo tema comprende i rapporti con l’Unione Europea e gli Stati Uniti d’America e la partecipazione, o il livello di partecipazione, nelle situazioni di guerra che si sono sviluppate ai confini orientali e meridionali dell’Europa, con particolare riferimento al nord Africa; il secondo riguarda il tipo di capitalismo da attuare in economia, il livello di intervento del Governo in economia, il sostegno a chi si trova in difficoltà, comprese sanità e pensioni e aiuti ai disoccupati, l’istruzione pubblica, quindi il sistema scolastico a tutti i livelli, e la formazione dei più giovani al lavoro. E il tema degli immigrati di cui tanto si parla,  e si straparla? E’ del tutto marginale rispetto alle altre questioni in ballo. Le soluzioni possibili su quel problema dipenderanno da che risposta si darà agli altri temi. Se si deciderà di allontanarci dall’Unione Europea e di seguire, ad esempio, la politica proposta dal presidente statunitense Donald Trump, chi sta peggio in società sarà abbandonato, immigrati poveri compresi, e, probabilmente, l’Italia si impegnerà in una qualche guerra, ad esempio in Libia, ma anche altrove nel mondo, seguendo la politica attualmente assai bellicosa degli Stati Uniti d’America. I giovani dovranno lottare duramente tra loro per conquistare un qualche lavoretto, che si farà sempre meno stabile e sempre peggio pagato. La vita dei vecchi e dei malati si farà più difficile, a parte una piccola quota di privilegiati che riusciranno ad essere coperti da forme di previdenza migliori, per cui riusciranno ad avere pensioni decenti e un’assistenza sanitaria valida.
  Tutto dipenderà non solo dal tipo di persone che saranno elette nel prossimo Parlamento, ma anche dalle politiche che dalle elezioni usciranno accreditate. Tutti e due questi aspetti devono essere considerati nel fare le proprie scelte alle elezioni. La scelta delle persone è molto importante perché ne risulta condizionata la capacità di sviluppare le politiche proposte. Si possono avere belle idee, ma poi essere incapaci di attuarle, in particolare in Parlamento, dove non si lavora da soli o solo con chi condivide certe opinioni, ma insieme a molti altri, spesso dissenzienti, perché il Parlamento tende a riflettere, rappresentandola, la società nazionale, nelle sue varie componenti.
  La parola “Parlamento” richiama l’idea del parlare. E’ una struttura dello Stato composta da due assemblee, una di circa seicento membri e l’altra di circa la metà. L’idea che ci si vada per parlare non è sbagliata. Parlare  nel senso di  dialogare. Non ha senso parlare da soli, non credete? Alcuni sembra che pensino che lo abbia. Dialogando si esaminano in dettaglio le varie questioni, da più punti di vista quanti sono gli interlocutori, vale a dire che  si discute. Emergono i problemi, si possono riconfigurare gli obiettivi, ciascuno dovrebbe dare il meglio di sé. Non è che ognuno debba proporre la propria opinione  e poi si vada alla conta. Si portano argomenti  e li si valuta. Una proposta ben argomentata non è più una semplice opinione, un punto di vista, uno vale l’altro. Tutto questo parlare, dialogare e  discutere serve a prendere decisioni consapevoli, ben argomentate, che si basino su una visione realistica dei problemi, e innanzi tutto della società, che tengano conto delle obiezioni ben argomentate. In questo lavoro i vari gruppi che si formano in Parlamento, sulla base delle formazioni politiche che la società ha espresso, i partiti innanzi tutto, non si scontrano  sempre, ma il più del tempo si  confrontano. Se uno però va in Parlamento con l’idea di scontrarsi  e basta, parte male, perché decide di non fare gran parte del lavoro che serve. Naturalmente la capacità di dialogo  e quindi di  confronto  non  è innata e non è sviluppata in tutti allo stesso livello. Così è giusto dire che un parlamentare  non si crea il giorno delle elezioni, ma in  una vita intera. Molto dipende dalla sua istruzione e dalle sue esperienze civili. Un incolto difficilmente avrà capacità di dialogo: avrà una visione del mondo e della società in cui vive piuttosto ristretta e si sentirà come affogare quando ne scopre, invece, la vastità e complessità. Uno che nella sua vita nei conflitti è stato portato ad agitarsi invece che a mediare, cercando soluzioni condivise, continuerà a farlo anche in Parlamento e non sarà un buon parlamentare. Nella scelta tra i candidati, nei limiti in cui il sistema elettorale la consente, occorrerà studiare bene le biografie di chi si propone. Che ha fatto nella vita? Che risultati ha ottenuto in società? E’ aperto al dialogo? Ha una sufficiente istruzione? Conosce a sufficienza la situazione sociale del suo tempo? Spesso basta sentir parlare una persona per farsene un’idea affidabile. E’ quello che fanno gli insegnanti quando interrogano  gli allievi. Non è un mistero: ci sono  stati parlamentari  che sembravano avere un’insufficiente dimestichezza con la lingua nazionale. Fare un errore ogni tanto accade anche ai professori universitari. Ma quando accade troppo spesso bisogna insospettirsi.
  Dal mio punto di vista, sarebbe meglio non mandare in Parlamento gente che poi vuole fare il bullo. Propongo questo argomento: più si discute sulle decisioni da prendere, più si esaminano sotto vari aspetti con il contributo di più gente possibile e possibilmente di gente di valore, minore è la probabilità di scelte avventate e poco consapevoli. Si rischia di meno. Poiché in Parlamento ci si va per prendere decisioni  molto importanti, dalle quali dipendono le vite dei cittadini, è meglio eleggere persone istruite e capaci di dialogare e di discutere, con buoni curriculi in questo campo, che abbiano dato buona prova di sé.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli



giovedì 28 settembre 2017

Ora è il momento di darsi da fare

 Ora è il momento di darsi da fare

  In genere si ritiene che nelle elezioni politiche siano decisivi gli ultimi giorni, e addirittura il giorno stesso delle votazioni, ma non è così.
 Sono decisivi i mesi prima del giorno in cui si vota, da quando si sa che ci saranno elezioni anticipate, prima dei cinque anni dalle precedenti, o si sta avvicinando la loro scadenza normale. E’ allora che i partiti che vogliono partecipare programmano, non quello che intendono fare, ma  quello che diranno agli elettori di voler fare, e non è la stessa cosa.
 Come decidono? Annusano l’aria, sentono che si dice in giro. Non dovrebbero innanzi tutto acquisire consapevolezza realistica di ciò che è necessario fare? Dovrebbero. Ma la loro urgenza principale è quella  di  vincere  le elezioni, per potere aver voce che conta in Parlamento e nelle decisioni del Governo. Bisogna presentarsi in modo che la gente voti nel modo che si desidera. E se poi gli eletti non terranno fede alle promesse elettorali? In qualche misura è sempre accaduto. In campagna elettorale ci si sbilancia un po’, come quando al mercato rionale i venditori magnificano la propria merce. Gente seria non eccederà. Ma c’è chi lo farà, soprattutto se gli elettori non sono persone che vanno tanto per il sottile.
  Nelle riunioni riservate che sempre si fanno in campagna elettorale, si cerca di fare dei pronostici sui voti su cui in qualche modo si può contare. Un tempo, ad esempio, un  partito come la Democrazia Cristiana poteva far conto sull’appoggio della maggior parte dei parroci. Il Partito Comunista Italiano riteneva di avere un buon bacino di elettori tra gli iscritti al sindacato CGIL. Il Partito Liberale Italiano aveva molti sostenitori nella buona borghesia, gente ricca e autonoma da certi condizionamenti che derivavano dai problemi della vita che affliggono le famiglie comuni, ma, naturalmente, si trattava di una piccola porzione degli elettori e, infatti, quel partito era uno di quelli minori. Contava alleandosi con partiti più grossi; ad esempio con la Democrazia Cristiana che, fino al 1994, rimase quello più forte, il partito, come si dice, di maggioranza relativa.
 Nel suo momento peggiore, alle elezioni politiche del 1992, la Democrazia Cristiana, fondata nel 1942 da esponenti del cattolicesimo democratico italiano,  arrivò ad avere circa il 29% dei voti per il rinnovo del Parlamento, più o meno come i maggiori partiti di oggi. Questo non fece molta impressione, perché la minaccia del comunismo di tipo sovietico a quell’epoca era cessata. Ma, quando, nel 1983, era arrivata ad avere solo il 32% alle elezioni politiche la gente si era molto preoccupata. Temeva una specie di rivoluzione. La paura era stata ancora più forte quando, in una tornata delle precedenti elezioni nazionali, quelle del 1976, si temette il sorpasso, vale a dire che il Partito Comunista Italiano avesse più voti  della Democrazia. C’era già stato nelle elezioni regionali dell’anno precedente. Ma poi la Democrazia Cristiana quell’anno ebbe il 38% e rimase il partito maggiore. Espresse l’indirizzo di governo e gran parte dello stesso personale di  governo per un tempo molto lungo, ininterrottamente, dal 1945 al 1994, anno in cui, a seguito di un cambio di denominazione  e di una scissione delle correnti di centro-destra, diventò qualcosa di diverso. Furono suoi uomini tutti i Presidenti del Consiglio dei ministri fino al 1994, ad eccezione degli anni in cui lo furono Giovanni Spadolini, repubblicano, tra il 1981 e il 1982, e il socialista Bettino Craxi, dal 1983 al 1987. Solo verso la fine della sua esperienza politica, più o meno in corrispondenza con i due governi Craxi a metà degli anni ’80, la Democrazia Cristiana cercò di darsi una propria ideologia, un proprio programma di riforma sociale, in particolare iniziando a progettare riforme costituzionali in senso maggioritario. In precedenza, fondamentalmente, la sua ideologia era stata liberamente tratta dalla dottrina sociale della Chiesa e, bisogna precisarlo, quest’ultima subì nel tempo degli adattamenti sulla base dell’esperienza politica concreta fatta dai laici cattolici italiani nella Democrazia Cristiana ed anche in altri partiti. Si imparò facendo le cose, governando. Gli anni ’80 furono caratterizzati da un fiorire di tantissime scuole  di politica, in particolare negli ambienti cattolici. Si pensava a progettare una nuova politica. La Democrazia Cristiana si aprì al contributo di esterni, in gran parte provenienti dal mondo dell’associazionismo cattolico, indicendo anche una speciale loro assemblea nel 1981. Ma la cosa non funzionò e sfociò nell'insuccesso elettorale del 1983. Alle successive elezioni, nel 1987, in cui io svolsi le funzioni di presidente di seggio, quel partito ebbe il 34% dei voti. Poi, dal 1989, il mondo di prima cambiò improvvisamente. Nata per sostenere il ritorno alla democrazia nella lotta contro il regime fascista, e poi per continuare a sostenere i processi democratici di fronte alla minaccia del comunismo di ispirazione sovietica, cercando indurre in quello italiano l’assimilazione della democrazia occidentale,  la Democrazia Cristiana, federazione di molte anime  del cattolicesimo politico italiano, perse senso con la fine di quel tipo di comunismo. Nel 1994, a seguito della nuova legge elettorale maggioritaria del 1993, iniziò l’era dell’alternanza tra coalizioni di centro-destra e di centro-sinistra, conclusa nel 2011. La Democrazia Cristiana aveva finito il suo tragitto nella storia nazionale.
  Ho fatto riferimento particolare alla Democrazia Cristiana sia per il suo stretto collegamento con il mondo cattolico italiano, compresa la gerarchia costituita da Papa e vescovi, sia per il fatto che ho su di essa notizie di prima mano attraverso miei parenti e loro amici, sia per evidenziare questo: la Democrazia Cristiana non annusava mai l’aria prima delle elezioni politiche. I suoi programmi elettorali e quelli reali non dipendevano infatti dagli umori della gente in un certo momento, in particolare sotto elezioni. Il patto concluso, tramite Alcide De Gasperi (1881-1954; presidente del Consiglio dei ministri dal 1945 al 1953), con il Papato, verso la fine della Seconda Guerra Mondiale,  prevedeva l’appoggio incondizionato della gerarchia cattolica, e quindi quello di massa dei cattolici italiani, al partito purché mantenesse la sua ispirazione alla dottrina sociale e, attraverso di essa, il suo riferimento agli orientamenti politici del Papato. Questo collegamento con il Papato si indebolì progressivamente dal 1978, durante il regno di san Karol Wojtyla, Giovanni Paolo 2° in religione, non molto interessato agli affari italiani e invece tutto proiettato sullo scenario europeo, per ricongiungere l’Europa orientale a quella occidentale, il suo grandioso progetto politico che, agli inizi del suo pontificato, apparve irrealistico. Ma il collegamento rimase, fino all’ultimo. Quella caratteristica della politica democristiana garantì una straordinaria stabilità nell’indirizzo di governo, nonostante il mutare veloce dei presidenti del Consiglio del ministri. Che io ricordi, non ve ne sono altri esempi nelle storie delle democrazie occidentali contemporanee. Tra il 1945 e il 1994, quasi cinquant’anni, si ebbero in Italia fondamentalmente tre indirizzi politici, tutti originati ed egemonizzati dalla Democrazia Cristiana: centrista (1945-1964), primo centrosinistra (1964-1976) unità nazionale (1976-1979),  secondo centrosinistra (1979-1994). A quei tempi i Papi, attraverso le loro encicliche spiegavano alla gente, sinteticamente, come andava il mondo e davano indicazioni su come procedere e  il partito, con una certa autonomia naturalmente perché fin dall’inizio tenne alla sua laicità, quindi a non sacralizzare  le sue politiche in modo che potessero essere liberamente negoziate  con altri partiti politici, attuava, tenendo conto di ciò che la situazione politica nazionale e internazionale in concreto consentiva.
  Ai tempi nostri è molto diverso. Che cosa è cambiato? Qualcosa è cambiato, certo. L’ideologia che va per la maggiore non è quella del Papato o di altri centri politici nazionali. Si segue ancora, con diverse varianti naturalmente,  quella che fu escogitata e diffusa negli anni ’80 in Occidente, e tra i popoli egemonizzati dagli occidentali o che ne seguivano i costumi, al tempo del presidente statunitense Ronald Reagan e del primo ministro britannico  Margaret Thatcher. Apparve molto potente perché accreditata di aver prodotto la sconfitta del comunismo di scuola sovietica, quello che aveva una specie di papato nell’Unione Sovietica, grande entità politica crollata nel 1991. La realtà, a me che vissi quegli anni consapevolmente, appare un po’ diversa. Il socialismo di tipo sovietico, basato fondamentalmente su sviluppi delle politiche di Lenin e di Stalin, entrò in crisi in tutto il mondo nel corso degli anni ’70, che paradossalmente furono anche quelli della massima egemonia politica, militare e culturale dell’Unione Sovietica. L’ideologia di Reagan e della Thatcher si limitò ad approfittare della situazione ed ebbe la meglio per la storica incapacità dei comunismi di scuola sovietica di riformarsi. E ciò a differenza dei sistemi politici di tipo capitalistico, che avevano subìto profondi processi di riforma a partire dalla grande crisi economica e finanziaria globale del 1929, analoga  a quella prodottasi, sempre a partire dagli Stati Uniti d’America, nel 2008.
  Quell’ideologia di scuola Reagan/Thatcher prevede che i più deboli siano lasciati al loro destino e che i più forti siano lasciati liberi di dominare economicamente la società e di arricchirsi. E’ chiaro che, presentandola per quella che è, non attrarrebbe le masse, nelle quali, è  chiaro, i più forti sono minoranze. Ecco la necessità, sotto elezioni, di annusare l’aria e di confezionare un prodotto  che possa convincere gli elettori a mettere sulla scheda elettorale il segno nel posto giusto, nonostante quell'impostazione di fondo che ne svantaggia la maggior parte. E’ di questi tempi che questo lavoro viene fatto.
  Come ci si riesce? Ci si riesce. Non si riesce forse a convincere la gente a giocare alle macchinette video-poker, scommesse e lotterie, in cui vincono veramente solamente quelli che gestiscono il gioco e pochissimi altri? Si spiega alle persone la cosa, razionalmente, con esposizione delle probabilità infime di vincita, ma la gente tuttavia continua a spendere soldi alle macchinette e negli altri giochi d'azzardo.
  Chi condivide l’ideologia Reagan/Thatcher non ha problemi: non deve fare nulla. Il sistema, senza correttivi,  procederà per inerzia in quella direzione. La spia che rivela la presenza di quell’ideologia al di là delle varie confezioni  elettorali proposte, il suo marcatore, è lo slogan “Meno tasse!”. Si può essere certi che chi lo usa  proseguirà nella linea Reagan/Thatcher.
  Chi invece non la condivide è bene che si dia da fare, ora!, nei confronti dei politici di riferimento. Quale modello di sviluppo propongono? Uno in cui i deboli vengono lasciati a se stessi? E’ un progetto che appare in rotta di collisione con gli insegnamenti della dottrina sociale, che ci invita invece a farci  prossimi  agli altri sul modello del buon samaritano  evangelico. Se ci viene risposto che  i soldi non ci sono, questo non depone favorevolmente per chi lo dice. Come, non ci sono i soldi?! Siamo una delle nazioni più ricche del pianeta. Com’è che bisogna abbandonare la gente, mentre vediamo che c’è chi si arricchisce a dismisura e concentra nelle sue mani gran parte delle ricchezze del mondo, Italia compresa? Ho letto che l’anno scorso otto persone avevano nelle loro mani più o meno una ricchezza pari a quella  posseduta da oltre tre miliardi della gente più povera. Qualche anno prima andava meglio, erano in qualche decina i più ricchi del pianeta. La situazione sta evolvendo rapidamente verso un arricchimento stratosferico di sempre meno persone. L’ideologia  Reagan/Thatcher, secondo la quale favorire l’arricchimento dei più ricchi avrebbe poi finito per far ricchi tutti, non ha mantenuto le promesse. Come poteva accadere diversamente? Mi sembra un po’ come quando Pinocchio, nella bella favola di Collodi, semina gli zecchini d’oro credendo al Gatto e alla Volpe che gli dicono che da essi nasceranno piante di zecchini d’oro, con tantissime monete in più. Poi gli zecchini seminati spariscono. Come sono spariti i risparmi di vite intere di tanti poveretti che hanno creduto a certe promesse di facile arricchimento fatte nelle loro banche di fiducia. Babbeo Pinocchio, ci vuole suggerire Collodi. Babbei anche noi? Ma lo stato non dovrebbe proteggerci? Certo, dovrebbe. I più deboli, in particolare, lo vorrebbero.  Ma meno tasse significa  inevitabilmente anche  meno stato, perché è con le tasse che viene finanziata l’organizzazione dello stato e se le risorse diminuiscono occorre diminuire in maniera corrispondente anche lo stato.  
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli



mercoledì 27 settembre 2017

L'origine dei mali sociali di oggi: l'ideologia "meno tasse, meno regole, meno stato, meno sindacati, lasciar fare all’economia"

L'origine dei mali sociali di oggi: l'ideologia "meno tasse, meno regole, meno stato, meno sindacati, lasciar fare all'economia"

  L’anno prossimo voteranno ragazzi nati nel 2000. Sono una generazione altamente scolarizzata, ma non avranno ancora avuto il tempo di approfondire all’università. Dovrebbero però ricordare un po’ meglio la storia dell’ultimo secolo, che rientra nel programma dell’ultimo anno delle superiori. Ma non sempre gli insegnanti arrivano a spiegare gli ultimi cinquant’anni. Le origini dei mali sociali di oggi si situano in quel periodo e più precisamente a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80 del secolo scorso. I diciottenni che voteranno l’anno prossimo si troveranno a decidere su come fronteggiare problemi sorti vent’anni prima che nascessero. Di certe cose non hanno esperienza diretta. Chi ha vissuto consapevolmente quel periodo cruciale ha oggi dai sessant’anni in su. Ma non di rado di certi eventi ha perso memoria affidabile. Si ritrova quindi nelle condizioni dei più giovani. Chi fa proposte politiche dovrebbe assumersi anche l’onere di spiegare le cause storiche dei problemi sociali. Ma che accade se lui stesso non ne ha memoria o non ne ha memoria affidabile? E’ stato osservato che nel Parlamento eletto nel 2013 c’è la percentuale di laureati più bassa di sempre. Anche alcuni ministri non lo sono. Si tratta anche, in genere, di persone che non hanno una lunga esperienza parlamentare: infatti alle elezioni del 2013 si produsse un forte rinnovamento della classe politica. Se uno sfrutta le possibilità di imparare che ci sono in Parlamento, può diventare un politico consapevole anche senza aver fatto l’università. Ma le cronache ci rimandano spesso di parlamentari che non sembrano molto impegnati nell’approfondimento e che non sono nemmeno molto assidui nella vita di Camera dei deputati e Senato.
  Anche la crisi di una certo modo di essere religiosi risale agli anni ’70: prova del collegamento tra religione e società. Del resto per quasi trent’anni, a partire dal 1978 regnò in religione uno dei Papi più politici  di sempre, san Karol Wojtyla. Egli promosse e fiancheggiò la rivoluzione polacca degli anni ’80, fornendo, con l’enciclica Laborem exercens - Mediante il lavoro,  del 1981, il manifesto politico della principale forza di opposizione di massa di  allora, il sindacato-partito Solidarnosc - Solidarietà.  Il suo principale esponente, Lech Walesa, divenne il primo presidente della Polonia democratica non socialista. In quest’azione politica, centrata essenzialmente sull’obiettivo di ricongiungere l’Europa orientale, compresa la sua Polonia, finita nel dominio dell’Unione Sovietica comunista, a quella Occidentale, finita nel blocco egemonizzato dagli Stati Uniti d’America, con economia capitalista e regimi politici liberal-democratici, trovò degli alleati nell’amministrazione federale statunitense diretta dal presidente repubblicano Ronald Reagan, in carica dal 1981 al 1989. Ed è appunto alla politica economica di quell’amministrazione che devono farsi risalire gran parte dei mali sociali di oggi.
  Negli corso degli anni ’70 andò in crisi il modello di sviluppo creato dopo la Seconda Guerra Mondiale (1939-1945).  Esso aveva consentito in Italia una grande espansione dell’economia basata essenzialmente su due fatto: il basso costo del lavoro e delle fonti di energia, in particolare dei petrolio e dei suoi derivati. Il nostro petrolio veniva a quell’epoca dal Vicino Oriente, dai paesi arabi. Come forma di lotta nel quadro dei conflitti arabo-israeliani gli stati arabi decisero di alzare molto il prezzo del petrolio. Negli stessi anni in Italia aumentò il costo del lavoro a seguito del risultato di lotte sindacali e di modifiche legislative che riguardavano le condizioni del lavoro. Fenomeni analoghi riguardarono un po’ tutti gli altri stati dell’Europa Occidentale e anche gli Stati Uniti d’America. La soluzione proposta da Ronald Reagan, seguito dagli altri governi occidentali fu: meno tasse, meno regole, meno stato, meno sindacati, lasciar fare all’economia. Si pensava che l’economia, lasciata a sé stessa, potesse trovare spontaneamente un equilibrio, aumentando la ricchezza nazionale mentre ognuno faceva solo il proprio interesse. Era la ricetta del liberismo economico contro la quale aveva mosso le sue critiche il pensiero socialista, osservando che nella realtà un’economica senza altre regole che quelle delle leggi della domanda e dell’offerta portava al prevalere dei più forti attori economici e, in particolare, all’impoverimento degli strati più deboli della società. Lasciata a sé stessa, con molte meno regole, l’economia si distaccò dal mondo della produzione di beni reali e si fece sempre più dominata da processi finanziari, iniziò a commerciare crediti  e scommesse sull’andamento futuro dei mercati dei crediti. La gente di indebitò molto, ad esempio per comprare casa, e i crediti a cui quei suoi debiti corrispondevano furono messi sul mercato. Il mercato diventò abbastanza simile ad una sala scommesse (già si diceva  “giocare in borsa”).  La ricetta di Reagan e dei suoi consiglieri economici sembrava funzionare. Tutti sembravano arricchirsi  giocando  alla finanza, molto meno con il lavoro. E infatti furono gli anni in cui il lavoro fu svalutato  e si fece precario. Ebbe regole che gli imposero di essere più flessibile, come si diceva. Bisognava essere disposti a lasciarlo senza tanti problemi. Di fatto non solo fu pagato di meno, ma anche ce ne fu di meno, perché chi investiva nella produzione industriale, preferiva trasferiva gli stabilimenti dove il lavoro costava meno. Poté farlo ormai su scala mondiale dopo il crollo dei regimi comunisti di osservanza sovietica e la profonda trasformazione del regime comunista della Cina continentale, che si aprì al modo di produzione capitalista, iniziando a produrre beni di uso comune per tutto il resto del mondo.
 Tutto questo nuovo modello di sviluppo esplose nel 2008 a partire dagli Stati Uniti d’America. Venne alla luce la sua vera realtà: un’economia lasciata a sé stessa aveva prodotto ingiustizia sociale  e sofferenza, e sofferenza anche nelle nazioni più ricche del mondo. La ricchezza si era concentrata in poche mani e quella che sembrava diffusa si era rivelata una  bolla, un sogno irreale, che, esplodendo come sempre accade alle bolle, aveva gettato nella povertà la gente comune.
  Anche in Italia si era seguita l’ideologia reaganiana. Ma non ce se ne è mai veramente distaccati. Mancano risorse di pensiero, innanzi tutto. Ecco allora che lo slogan  meno tasse  suona ancora oggi da destra e da sinistra. Meno tasse  significa anche  meno stato, e  meno stato  significa meno regole, perché le regole le fa lo stato. In un’economia con meno regole che spazio può avere il sindacato? Ecco che, dunque, meno regole  significa anche meno sindacato. I lavoratori vanno ciascun  per proprio conto sul mercato, dove i più grossi mangiano i più piccoli. Uniti erano anche loro un boccone troppo grosso, ma da soli…
 Per inciso: l’enciclica Laborem exercens - Mediante il lavoro  spiega molto chiaramente il valore religioso del lavoro e l’importanza del sindacato nella vita sociale. E’ un testo non semplice. Richiede un po’ d’impegno. Potete leggerla su
http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/encyclicals/documents/hf_jp-ii_enc_14091981_laborem-exercens.html

 Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli

martedì 26 settembre 2017

Gli esami non finiscono mai

Gli esami non finiscono mai

Dal Web: una scena della commedia Gli esami non finiscono mai, di Eduardo De Filippo


  “Gli esami non finiscono mai”  è un commedia del grande drammaturgo e attore napoletano Eduardo De Filippo (1900-1984). Il senso dell’opera è che nella vita ci sono sempre nuove prove e che nessun traguardo può considerarsi acquisito stabilmente. De Filippo, nella commedia, si mostrò piuttosto pessimista sul senso complessivo dell’esistenza umana in società. Il protagonista rimane in genere deluso nei rapporti con gli altri. Appare come un uomo solo davanti a tutti loro, sballottato dalla loro malizia. Alla fine non trova altro rimedio che quello di chiudersi in se stesso, fingendosi muto e quindi riducendo al minimo le relazioni. Ma questo non migliora la situazione: muore e finisce veramente in mani altrui. Il suo funerale diventa una specie di pagliacciata, contrastando le sue ultime volontà.
 L’arte è finzione ma finisce per parlarci di come vanno veramente le cose.
 La società ci occorre, ma in genere ci delude. Bisogna sempre metterci le mani per correggere qualcosa. Per farlo occorre interagire con gli altri. Se  non lo si fa, cercando di isolarsi, si finisce in mani altrui, travolti.
 Da qualche anno in religione siamo esortati a occuparci di più e meglio della società in cui viviamo. Ciò riguarda in particolare i laici, quelli che non hanno ricevuto il sacramento dell’Ordine sacro, non sono diaconi, preti o vescovi, e non appartengono a qualche Ordine religioso, non sono frati e suore, monaci o monache.  Non si tratta solo di una facoltà, di un’attività che si può fare ma anche non fare, bensì propriamente di un  dovere  religioso. Ne ha trattato infatti una legge della nostra Chiesa molto importante, una costituzione, approvata nel corso del Concilio Vaticano 2° (1962-1965), la Costituzione dogmatica Lumen Gentium - Luce per le genti:

31. […] Il carattere secolare è proprio e peculiare dei laici. Infatti, i membri dell'ordine sacro, sebbene talora possano essere impegnati nelle cose del secolo, anche esercitando una professione secolare, tuttavia per la loro speciale vocazione sono destinati principalmente e propriamente al sacro ministero, mentre i religiosi col loro stato testimoniano in modo splendido ed esimio che il mondo non può essere trasfigurato e offerto a Dio senza lo spirito delle beatitudini. Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Vivono nel secolo, cioè implicati in tutti i diversi doveri e lavori del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta. Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall'interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo esercitando il proprio ufficio sotto la guida dello spirito evangelico, e in questo modo a manifestare Cristo agli altri principalmente con la testimonianza della loro stessa vita e col fulgore della loro fede, della loro speranza e carità. A loro quindi particolarmente spetta di illuminare e ordinare tutte le cose temporali, alle quali sono strettamente legati, in modo che siano fatte e crescano costantemente secondo il Cristo e siano di lode al Creatore e Redentore.

  Nel linguaggio della teologia, secolo  è la società che si muove ed opera al di fuori degli spazi liturgici. Le  cose temporali sono quelle che si modificano nel  tempo, come appunto accade nelle relazioni sociali. In quest’ottica la Chiesa è una società basata su ciò che è eterno e non cambia. Deriva da principi che si possono solo interpretare e attuare: il magistero religioso la dirige, in quanto unico interprete legittimo e unico vero maestro, per essere costituito tale dal  nostro primo Maestro. Naturalmente dal punto di vista sociologico si può osservare che la Chiesa, storicamente, appare come una società tra le tante e che anch’essa è molto cambiata nei secoli, e da ultimo molto più rapidamente. I  tempi  hanno influito anche su di essa che ne ha respirato lo spirito e assimilato le culture. E, infine, le idee che ha manifestato non sono derivate unicamente dal magistero, che in genere si è limitato a mediare tra cultura religiosa e laica.
  Ma insomma, il senso di quell’insegnamento è che gli esami della società vanno affrontati coraggiosamente e, soprattutto, preparandosi bene e lavorando insieme. A  questo lavoro in società fu dedicata un altro documento molto importante dei quel Concilio, la Costituzione pastorale Gaudium et spes - La gioia e la speranza,  che si apre con questo grandioso programma:

1. Intima unione della Chiesa con l'intera famiglia umana.
Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore.
La loro comunità, infatti, è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti.
Perciò la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia.
2. A chi si rivolge il Concilio.
Per questo il Concilio Vaticano II, avendo penetrato più a fondo il mistero della Chiesa, non esita ora a rivolgere la sua parola non più ai soli figli della Chiesa e a tutti coloro che invocano il nome di Cristo, ma a tutti gli uomini. A tutti vuol esporre come esso intende la presenza e l'azione della Chiesa nel mondo contemporaneo. Il mondo che esso ha presente è perciò quello degli uomini, ossia l'intera famiglia umana nel contesto di tutte quelle realtà entro le quali essa vive; il mondo che è teatro della storia del genere umano, e reca i segni degli sforzi dell'uomo, delle sue sconfitte e delle sue vittorie; il mondo che i cristiani credono creato e conservato in esistenza dall'amore del Creatore: esso è caduto, certo, sotto la schiavitù del peccato, ma il Cristo, con la croce e la risurrezione ha spezzato il potere del Maligno e l'ha liberato e destinato, secondo il proposito divino, a trasformarsi e a giungere al suo compimento.
3. A servizio dell'uomo.
Ai nostri giorni l'umanità, presa d'ammirazione per le proprie scoperte e la propria potenza, agita però spesso ansiose questioni sull'attuale evoluzione del mondo, sul posto e sul compito dell'uomo nell'universo, sul senso dei propri sforzi individuali e collettivi, e infine sul destino ultimo delle cose e degli uomini. Per questo il Concilio, testimoniando e proponendo la fede di tutto intero il popolo di Dio riunito dal Cristo, non potrebbe dare una dimostrazione più eloquente di solidarietà, di rispetto e d'amore verso l'intera famiglia umana, dentro la quale è inserito, che instaurando con questa un dialogo sui vari problemi sopra accennati, arrecando la luce che viene dal Vangelo, e mettendo a disposizione degli uomini le energie di salvezza che la Chiesa, sotto la guida dello Spirito Santo, riceve dal suo Fondatore. Si tratta di salvare l'uomo, si tratta di edificare l'umana società.
È l'uomo dunque, l'uomo considerato nella sua unità e nella sua totalità, corpo e anima, l'uomo cuore e coscienza, pensiero e volontà, che sarà il cardine di tutta la nostra esposizione.
Pertanto il santo Concilio, proclamando la grandezza somma della vocazione dell'uomo e la presenza in lui di un germe divino, offre all'umanità la cooperazione sincera della Chiesa, al fine d'instaurare quella fraternità universale che corrisponda a tale vocazione.
Nessuna ambizione terrena spinge la Chiesa; essa mira a questo solo: continuare, sotto la guida dello Spirito consolatore, l'opera stessa di Cristo, il quale è venuto nel mondo a rendere testimonianza alla verità, a salvare e non a condannare, a servire e non ad essere servito.

  Le elezioni politiche sono parte di quegli esami che, in società, non finiscono mai. Alcuni, ora, potrebbero ritrarsi dicendomi che loro  non fanno politica. E, come la mettiamo, allora con il dovere religioso di edificare l’umana società  in  modo da instaurare una fraternità universale  secondo la luce evangelica?
  Ad elezioni molto importanti, che si svolsero nel 1948, nelle quali si decise lo schieramento internazionale dell’Italia, se con gli Occidentali egemonizzati dagli Stati Uniti d’America o in posizione neutrale tra di essi e le nazioni egemonizzate dall’Unione Sovietica, e quindi la politica economica degli anni a venire, lo scrittore Giovanni Guareschi (1908-1968) creò lo slogan  "Nel segreto dell'urna Dio ti vede, Stalin no".  Iosif Vissarionovič Stalin (1879-1953) fu il Segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica dal 1924 alla morte. All’epoca quel partito esercitava una potente egemonia culturale su tutti gli altri partiti comunisti del mondo. Stalin, che aveva ordinato sanguinose repressioni politiche, vere e proprie stragi,  negli anni Venti e Trenta, e che aveva governato da despota assoluto anche successivamente continuando l’azione repressiva del dissenso, aveva acquisito un enorme popolarità durante la Seconda Guerra mondiale, riuscendo a organizzare una efficace resistenza popolare, attenuando la repressione,  e poi un micidiale contrattacco contro gli invasori nazi-fascisti, i nazisti tedeschi  e i fascismi europei loro alleati.  Guareschi, il creatore delle figure di Don Camillo  e di Peppone in una lunga serie di divertenti racconti a sfondo politico-religioso, voleva richiamare gli elettori ai loro doveri religiosi nell’organizzare la società civile. I comunisti sovietici si erano manifestati fortemente ostili alle religioni e alle Chiese, arrivando a promuovere l’ateismo al modo di una religione. Si voleva che avvenisse anche in Italia? Bisogna però ricordare che all’epoca del regime fascista, il quale nel 1948 era caduto solo da tre anni dopo avere ammaestrato gli italiani per più di un ventennio, politica e religione dovevano essere nettamente separate: questo era appunto il senso degli accordi conclusi nel 1929 tra il Regno d’Italia  e il Papato, a sanatoria della frattura apertasi con la conquista di Roma nel 1870, i Patti Lateranensi, e, in particolare di quella loro parte che si chiama  Concordato, totalmente revisionato nel 1984. In quest’ottica,  in religione non si doveva fare politica. Quelli che, ancora oggi, lo proclamano, forse non si avvedono di stare seguendo l’insegnamento fascista. Guareschi, il quale di suo non era certamente un innovatore religioso e che infatti si mostrò piuttosto ostile verso le idee diffuse nel Concilio Vaticano 2°, in un certo senso anticipò le idee dei saggi del Concilio, ma lo fece nella linea della precedente dottrina sociale, che richiedeva soprattutto ai laici un forte impegno per la riforma sociale, anche se inizialmente  non propriamente quello politico. La svolta verso un impegno anche politico ispirato dalla fede si ebbe nel magistero nel 1931, con l’enciclica sociale Quadragesimo Anno - Il Quarantennale (in occasione dei quarant’anni dalla prima enciclica sociale, la  Rerum Novarum - Le Novità  del 1891). In quell’occasione i laici italiani furono spinti espressamente alla collaborazione con le nuove istituzioni sociali corporative del regime fascista. Ma quel documento, integrato da una serie di successive pronunce del Papa costituite dai radiomessaggi natalizi diffusi tra il 1941 e il 1944, costituì la base per un rinnovato impegno politico dei laici di fede sia durante il regime fascista, che nella guerra di Resistenza contro di esso e poi nella progettazione e attuazione del nuovo regime democratico. In quell’enciclica viene esposto per la prima volta dal magistero il principio di sussidiarietà,  sul quale è stata fondata l’Unione Europea.
 Dio ci vede, nella cabina elettorale. Che significa? Significa che la fede religiosa non può essere tenuta fuori dalle scelte elettorali, in particolare da quelle più importanti, da quegli esami  dai quali dipende moltissimo, più di quanto accada in genere. E’ appunto il caso delle elezioni politiche che si terranno nella prossima primavera. Ci sono ancora sei mesi, prima che si voti. Perché parlarne adesso? Perché questa volta prepararsi sarà molto più impegnativo. Non si tratta di decidere immigrati sì - immigrati no, ma del modello di sviluppo della società.
 In una trasmissione radiofonica della sera che qualche volta ascolto tornando a casa, per tenermi sveglio mentre guido, perché è piena di gente che urla e straparla, un ascoltatore è stato preso in giro duramente da uno dei conduttori quando ha accennato al modello di sviluppo. Ma si tratta proprio di questo. Certo, non a tutti in società  piace che se ne parli. C’è chi nelle crisi sociali ci guadagna. E’ paradossale, ma è così. L’economia va male, ma non per tutti. C’è chi ha aumentato i propri profitti e vorrebbe continuare così. Anche nelle prossime elezioni, come in quelle del 1948, sono in ballo le alleanze internazionali e la politica economica, cose dalle quali dipende la vita di tutti.
  Dunque, le prossime elezioni sono uno  di quegli esami  che non finiscono mai. Come vogliamo arrivarci? Come quegli studenti che si preparano solo la notte prima  e che poi il giorno dell’esame non sanno che pesci prendere? Molti elettori, ci raccontano gli esperti di indagini demoscopiche  i quali cercano di prevedere l’esito del voto, decidono appunto così. Il tempo meteorologico influisce: magari uno il giorno prima aveva deciso di votare in un certo modo, poi la mattina delle elezioni piove  e cambia opinione.
Mario Ardigò - Azione Cattolica in San Clemente papa - Roma, Monte Sacro, Valli


  

lunedì 25 settembre 2017

Sovranità

Sovranità

  Molti politici chiedono agli elettori il consenso ad una politica che recuperi al popolo italiano la  sovranità. Di che si tratta? E quand’è che la sovranità ci è stata tolta?
 La nostra Costituzione si apre proclamando che la sovranità appartiene al popolo (art.1, comma 2°). Sovranità è l’esercizio di un potere che non ha limiti, sovrano appunto. Era quello degli antichi sovrani assoluti. Però, nella medesima proposizione di quell’articolo in cui si attribuisce al popolo la sovranità, c’è scritto che essa si esercita   nelle forme e nei limiti della Costituzione. Dunque, anche  quello del popolo non è un  potere senza limiti. Questo perché, come è scritto nell’art.1, comma 1°, della Costituzione, l’Italia è una repubblica democratica. La democrazia è appunto un sistema politico di limiti ad ogni potere, pubblico e privato: limiti basati su valori. Ad esempio quello della persona umana e quello del lavoro. Il potere degli antichi sovrani assoluti era invece, almeno sulla carta, secondo le leggi che essi stessi o i loro predecessori avevano dato ai popoli caduti in loro dominio, senza alcun limite che non fosse  quello della volontà dello stesso sovrano, il quale poteva decidere di disfare ciò che aveva fatto: in questo senso era assoluto, non condizionato da null'altro. Quei sovrani avevano potere di vita e di morte e su ogni proprietà dei loro sudditi. Dal Duecento, in Europa, anche il potere di quei sovrani iniziò progressivamente ad avere dei limiti, fondamentalmente verso i pari della dinastia sovrana, verso la classe dei nobili legati a quest’ultima da legami feudali, tra dinastie, per i quali alle dinastie inferiori veniva riconosciuto un potere politico autonomo su certi territori purché riconoscessero la supremazia di quelle superiori, facessero formale atto di sottomissione. Sviluppandosi processi democratici, dalla fine del Settecento, finirono per averne di molto più intensi, fino alla situazione di oggi, in cui le dinastie sovrane europee che rimangono si dice che regnino ma non governino, esercitando, oltre che funzioni di rappresentanza nelle pubbliche cerimonie, un ministero più che altro morale. In Europa c’è ancora un solo monarca  veramente  assoluto ed  è il Papa, sia come capo religioso che come sovrano del suo piccolo dominio di quartiere a Roma, sul colle Vaticano. Lo è di fatto  e di diritto. Riporto di seguito la “costituzione”, denominata legge fondamentale, della Città del Vaticano, che comincia quando si entra  in piazza San Pietro o si attraversa uno dei varchi nei muraglioni vaticani presidiati dalla Guardia Svizzera, il piccolo esercito del Pontefici, erede di una tradizione storica di bellicosi mercenari.  E’ entrata in vigore nel 2001, sostituendo quella del 1929. Noterete che è piuttosto breve e che è priva di dichiarazioni relative a valori o a diritti dei governati. Del resto la Città del Vaticano, che secondo il Trattato del 1929 con il Regno  d’Italia non potrebbe neppure essere definita stato  (non è mai nominata come tale in quell'atto), è un’entità politica molto particolare, costituita solo per garantire indipendenza e libertà al Papa, per l’esercizio del suo alto ministero religioso. Il suo popolo  è fatto di dipendenti dell’organizzazione della Curia, il complesso degli uffici che aiuta il Papa nelle sue funzioni, e da alcuni dei  lavoratori dei servizi ausiliari. Potrebbe, oggi, il Papa, se si arrabbiasse veramente,  far tagliare la testa a eretici e sovversivi politici, come i suoi predecessori fecero? Il codice penale che si applica nella Città del Vaticano è quello vigente nel Regno d’Italia nel 1929, con le modifiche introdotte nel 1969 e  2013: per queste ultime, non si dovrebbe più rischiare la pena di morte. Ma con i sovrani assoluti nulla è mai detto in modo definitivo. E’ così anche con i popoli insofferenti dei limiti democratici e dei valori a cui fanno riferimento.
 Il fatto che ogni più alto potere abbia dei limiti è assolutamente normale in democrazia. Ed è normale anche se si voglia costruire una ordinamento internazionale su basi democratiche. Ad esempio costituendo un’entità politica sovranazionale come l’Unione Europea. L’Italia vi partecipa, ma non la domina. Anche gli organi supremi dell’Unione hanno dei limiti, verso gli stati e verso ogni altra aggregazione sociale minore, così come verso le singole persone, secondo il principio fondamentale della  sussidiarietà. Infatti l’Unione Europea ha una Costituzione piena di limiti democratici e di valori, che è composta del Trattato di Lisbona, concluso nel 2007 ed entrato in vigore il 1 dicembre 2009, e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, entrata in vigore insieme al Trattato. L’Unione Europea è un lavoro collettivo: è ovvio che anche gli stati debbano avere dei limiti. Ma, partecipando all’Unione, la loro azione politica è di molto potenziata e inoltre la collettività sovranazionale li protegge, perché ci si aiuta nelle difficoltà. Riprenderci la sovranità  significherebbe in definitiva uscire dall’Unione, perché non si può parteciparvi,  quindi esserne parte, senza accettare dei limiti. Usciti, si sarebbe poi soli di fronte al grande mondo, una virgoletta in un piccolo mare interno, quale appare l’Italia sul mappamondo. Significherebbe essere più deboli, in  un mondo in cui i più forti sono tentati di mangiarsi i più deboli.
 In Costituzione si menziona la  sovranità, perché quando fu scritta, e forse anche ora, non c’era altra parola che rendesse l’idea di un sistema politico fatto in modo che nessuno potesse far schiavo il popolo. Di fatto, finora, nessuno c’è riuscito nell'Italia democratica. I limiti democratici hanno resistito. Questo perché il popolo, tutta la gente che ha diritto di partecipare  alla nostra democrazia, ha detto la sua, quando poteva farlo. Ha fatto la sua parte. Ma è impegno che va rinnovato ad ogni scadenza importante.
  L’idea di sovranità  dovrebbe essere accompagnata dall’idea di  responsabilità. Un sovrano assoluto non accetterebbe di  rendere conto di ciò che decide, di essere quindi  responsabile. Anche il popolo dovrebbe essere così? Non in democrazia. In questo regime politico si chiede una certa coerenza misurata sui valori. Democrazia e virtù sono strettamente legate: non è possibile una democrazia non virtuosa, e senza propositi e condotte virtuose le democrazie decadono. E questo è vero specialmente nei tempi difficili, quando si è tentati di mollare e farsi lecito tutto quello che ci si era vietato: quello che gli economisti chiamano  azzardo morale.
 Una delle questioni più importanti in ballo nelle elezioni politiche che si terranno nella prossima primavera, e per le quali occorre prepararsi, è appunto, nientedimeno, se continuare ad essere una democrazia, con tutti i valori che essa comporta, in primo  luogo quelli della persona e del lavoro. Ci sono di quelli che sono insofferenti dei limiti democratici. Questa insofferenza è manifestata in primo luogo dai principali attori dell’economia capitalista. Ritengono che i poteri pubblici non dovrebbero occuparsi tanto di economia, la quale dovrebbe essere lasciata alle dinamiche di  mercato, quelle della domanda e dell’offerta. Il loro compito, in materia economica,  dovrebbe essere essenzialmente quello di garantire la sicurezza delle proprietà, dei flussi finanziari e dei commerci, nel quadro di accordi internazionali e secondo i principi da essi stabiliti a livello mondiale.
  Oggi lo stato italiano è il maggiore datore di lavoro: i dipendenti pubblici sono oltre tre milioni, dei quali circa la metà sono statali. I più numerosi sono gli insegnanti, i militari e le forze di polizia.  Il loro lavoro è in genere più sicuro di quello dei dipendenti privati, in cui si sono progressivamente allargate le aree di precariato ed è diventato più facile licenziare. Il settore pubblico dovrebbe avvicinarsi al privato o dovrebbe essere l’inverso? Tutto dipende da che impostazione si dà alla politica economica. I licenziamenti più facili e le retribuzioni in calo, secondo le leggi di mercato, incidono sui valori fondamentali della persona e del lavoro. Sono fondamentali non solo per le vite della gente, ma anche per la stessa democrazia. La nostra infatti vuole essere fondata sul lavoro. E’ scritto nell’art.1 della Costituzione, nella parte dedicata ai Principi fondamentali. Però rispettare le persone e il loro lavoro costa, in termini propriamente economici. E’ per questo che nei decenni passati certe lavorazioni industriali sono state trasferite, delocalizzate si  dice, in nazioni dove i lavoratori costavano meno. Rispettare, nelle imprese industriali e commerciali, il  valore della persona e del lavoro è un limite, un limite al profitto, a ciò che rimane dedotti i costi di produzione e le tasse. E’ un limite che è previsto in un altro articolo della costituzione, l’art.41. Lo si vorrebbe ritoccare.
 Chi propone di recuperare  sovranità si mostra insofferente di certi limiti, che, dice, ci costano troppo. Bisognerebbe  non accontentarsi di parole d’ordine:   riprendersi la sovranità. Bisognerebbe approfondire di  quali limiti ci si vorrebbe liberare, perché non accada poi, gira gira, di finire vittime di questa nuova libertà da certi limiti. In un’economia lasciata a sé stessa, alle sue dinamiche, i più forti si mangiano i più deboli. Siamo poi proprio sicuri di riuscire ad essere sempre, per tutta la nostra vita, anche da anziani ad esempio, dalla parte dei primi?
Mario Ardigò – Azione Cattolica in San Clemente papa – Roma, Monte Sacro, Valli

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Legge fondamentale
dello Stato della Città del Vaticano
26 novembre 2000
Acta Apostolicae Sedis, Supplemento, 01.02.2001

nota: la nuova Legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano del 26 novembre 2000, in sostituzione della precedente - la prima - emanata il 7 giugno 1929 dal Papa Pio XI di v.m., è entrata in vigore il 22 febbraio 2001, Festa della Cattedra di San Pietro
 Il Sommo Pontefice, preso atto della necessità di dare forma sistematica ed organica ai mutamenti introdotti in fasi successive nell'ordinamento giuridico dello Stato della Città del Vaticano, allo scopo,pertanto, di renderlo sempre meglio rispondente alle finalità istituzionali dello stesso, che esiste a conveniente garanzia della libertà della Sede Apostolica e come mezzo per assicurare l’indipendenza reale e visibile del Romano Pontefice nell’esercizio della Sua missione nel mondo, di Suo Motu Proprio e certa scienza, con la pienezza della Sua sovrana autorità, ha promulgato la seguente Legge:
Art. 1
1. Il Sommo Pontefice, Sovrano dello Stato della Città del Vaticano, ha la pienezza dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario.
2. Durante il periodo di Sede vacante, gli stessi poteri appartengono al Collegio dei Cardinali, il quale tuttavia potrà emanare disposizioni legislative solo in caso di urgenza e con efficacia limitata alla durata della vacanza, salvo che esse siano confermate dal Sommo Pontefice successivamente eletto a norma della legge canonica.
Art. 2
La rappresentanza dello Stato nei rapporti con gli Stati esteri e con gli altri soggetti di diritto internazionale, per le relazioni diplomatiche e per la conclusione dei trattati, è riservata al Sommo Pontefice, che la esercita per mezzo della Segreteria di Stato.
Art. 3
1. Il potere legislativo, salvi i casi che il Sommo Pontefice intenda riservare a Se stesso o ad altre istanze, è esercitato da una Commissione composta da un Cardinale Presidente e da altri Cardinali, tutti nominati dal Sommo Pontefice per un quinquennio.
2. In caso di assenza o di impedimento del Presidente, la Commissione è presieduta dal primo dei Cardinali Membri.
3. Le adunanze della Commissione sono convocate e presiedute dal Presidente e vi partecipano, con voto consultivo, il Segretario Generale ed il Vice Segretario Generale.
Art. 4
1. La Commissione esercita il suo potere entro i limiti della Legge sulle fonti del diritto, secondo le disposizioni di seguito indicate ed il proprio Regolamento.
2. Per l’elaborazione dei progetti di legge, la Commissione si avvale della collaborazione dei Consiglieri dello Stato, di altri esperti nonché degli Organismi della Santa Sede e dello Stato che possano esserne interessati.
3. I progetti di legge sono previamente sottoposti, per il tramite della Segreteria di Stato, alla considerazione del Sommo Pontefice.
Art. 5
1. Il potere esecutivo è esercitato dal Presidente della Commissione, in conformità con la presente Legge e con le altre disposizioni normative vigenti.
2. Nell’esercizio di tale potere il Presidente è coadiuvato dal Segretario Generale e dal Vice Segretario Generale.
3. Le questioni di maggiore importanza sono sottoposte dal Presidente all'esame della Commissione.
Art. 6
Nelle materie di maggiore importanza si procede di concerto con la Segreteria di Stato.
Art. 7
1. Il Presidente della Commissione può emanare Ordinanze, in attuazione di norme legislative e regolamentari.
2. In casi di urgente necessità, egli può emanare disposizioni aventi forza di legge, le quali tuttavia perdono efficacia se non sono confermate dalla Commissione entro novanta giorni.
3.  Il potere di emanare Regolamenti generali resta riservato alla Commissione.
Art. 8
1. Fermo restando quanto disposto agli artt. 1 e 2, il Presidente della Commissione rappresenta lo Stato.
2. Egli può delegare la rappresentanza legale al Segretario Generale per l’ordinaria attività amministrativa.
Art. 9
1. Il Segretario Generale coadiuva nelle sue funzioni il Presidente della Commissione.
Secondo le modalità indicate nelle Leggi e sotto le direttive del Presidente della
Commissione, egli:
a) sovraintende all’applicazione delle Leggi e delle altre disposizioni normative ed
all'attuazione delle decisioni e delle direttive del Presidente della Commissione;
b) sovraintende all’attività amministrativa del Governatorato e coordina le funzioni delle
varie Direzioni.
2. In caso di assenza o impedimento sostituisce il Presidente della Commissione,
eccetto per quanto disposto all'art. 7, n. 2.
Art. 10
1. Il Vice Segretario Generale, d’intesa con il Segretario Generale, sovraintende
all’attività di preparazione e redazione degli atti e della corrispondenza e svolge le altre funzioni a lui attribuite.
2. Egli sostituisce il Segretario Generale in caso di sua assenza o impedimento.
Art. 11
1. Per la predisposizione e l’esame dei bilanci e per altri affari di ordine generale
riguardanti il personale e l’attività dello Stato, il Presidente della Commissione è assistitodal Consiglio dei Direttori, da lui periodicamente convocato e da lui presieduto.
2. Ad esso prendono parte anche il Segretario Generale ed il Vice Segretario Generale.
Art. 12
I bilanci preventivo e consuntivo dello Stato, dopo l’approvazione da parte della
Commissione, sono sottoposti al Sommo Pontefice per il tramite della Segreteria di Stato.
Art. 13
1. Il Consigliere Generale ed i Consiglieri dello Stato, nominati dal Sommo Pontefice per un quinquennio, prestano la loro assistenza nell’elaborazione delle Leggi e in altre materie di particolare importanza.
2. I Consiglieri possono essere consultati sia singolarmente che collegialmente.
3. Il Consigliere Generale presiede le riunioni dei Consiglieri; esercita altresì funzioni di coordinamento e di rappresentanza dello Stato, secondo le indicazioni del Presidente della Commissione.
Art. 14
Il Presidente della Commissione, oltre ad avvalersi del Corpo di Vigilanza, ai fini della sicurezza e della polizia può richiedere l’assistenza della Guardia Svizzera Pontificia.
Art. 15
1. Il potere giudiziario è esercitato, a nome del Sommo Pontefice, dagli organi costituiti secondo l’ordinamento giudiziario dello Stato.
2. La competenza dei singoli organi è regolata dalla legge.
3. Gli atti giurisdizionali debbono essere compiuti entro il territorio dello Stato.
Art. 16
In qualunque causa civile o penale ed in qualsiasi stadio della medesima, il Sommo Pontefice può deferirne l’istruttoria e la decisione ad una particolare istanza, anche con facoltà di pronunciare secondo equità e con esclusione di qualsiasi ulteriore gravame.
Art. 17
1. Fatto salvo quanto disposto nell’articolo seguente, chiunque ritenga leso un proprio diritto o interesse legittimo da un atto amministrativo può proporre ricorso gerarchico ovvero adire l’autorità giudiziaria competente.
2. Il ricorso gerarchico preclude, nella stessa materia, l’azione giudiziaria, tranne che il Sommo Pontefice non l’autorizzi nel singolo caso.
Art. 18
1. Le controversie relative al rapporto di lavoro tra i dipendenti dello Stato e
l’Amministrazione sono di competenza dell’Ufficio del Lavoro della Sede Apostolica, a norma del proprio Statuto.
2. I ricorsi avverso i provvedimenti disciplinari disposti nei confronti dei dipendenti dello Stato possono essere proposti dinanzi alla Corte di Appello, secondo le norme proprie.
Art. 19
La facoltà di concedere amnistie, indulti, condoni e grazie è riservata al Sommo
Pontefice.
Art. 20
1. La bandiera dello Stato della Città del Vaticano è costituita da due campi divisi
verticalmente, uno giallo aderente all’asta e l’altro bianco, e porta in quest'ultimo la tiara con le chiavi, il tutto secondo il modello, che forma l’allegato A della presente Legge.
2. Lo stemma è costituito dalla tiara con le chiavi, secondo il modello che forma
l’allegato B della presente Legge.
3. Il sigillo dello Stato porta nel centro la tiara con le chiavi ed intorno le parole "Stato della Città del Vaticano", secondo il modello che forma l’allegato C della presente Legge.
La presente Legge fondamentale sostituisce integralmente la Legge fondamentale della Città del Vaticano, 7 giugno 1929, n. I. Parimenti sono abrogate tutte le norme vigenti nello Stato in contrasto con la presente Legge.
Essa entrerà in vigore il 22 febbraio 2001, Festa della Cattedra di San Pietro Apostolo.
Comandiamo che l’originale della presente Legge, munito del sigillo dello Stato, sia depositato nell’Archivio delle Leggi dello Stato della Città del Vaticano, e che il testo corrispondente sia pubblicato nel Supplemento degli Acta Apostolicae Sedis mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare.
Data dal Nostro Palazzo Apostolico Vaticano il ventisei novembre duemila, Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo, Re dell’Universo, anno XXIII del Nostro Pontificato.
IOANNES PAULUS II, PP (Papa Giovanni Paolo 2°)